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sentenza 29 dicembre 1989, n. 586 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 3 gennaio 1990, n. 1);Pres. Saja, Est. Greco; Decio c. Soc. Aeroporti di Roma (Avv. Prosperetti); interv. Pres. cons.ministri (Avv. dello Stato D'Amico). Ord. Pret. Roma 1° giugno 1989 (G.U., 1 a s.s., n. 35 del1989)Source: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1990), pp. 361/362-365/366Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23184491 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
al giudice penale. Deve dirsi, anzi, che probabilmente, proprio al fine di evitarne la prescrizione, si è andata consolidando la
tesi della «destituzione», come effetto penale della condanna, o
addirittura come «pena accessoria».
Ma, una volta che, con la presente sentenza, viene riconosciuta
la natura di sanzione disciplinare, cosi come emergente, del resto, ex art. 142 legge notarile, e restituita alla competenza del giudice
disciplinare per la necessità di procedere alle valutazioni discre
zionali del caso, attesa la dichiarata illegittimità di una applica zione de iure, la gravità delle conseguenze della riportata inter
pretazione si rende evidente.
Poiché, infatti, la Corte di cassazione esclude che la pregiudi zialità del processo penale rispetto a quello disciplinare — art.
28 vecchio codice, ora 653 c.p.p. — (e quindi la necessità di so
spensione di quest'ultimo) svolga alcuna influenza sul decorso della
prescrizione, la sanzione disciplinare della destituzione resterebbe
virtualmente inapplicabile nell'ordinamento notarile.
È appena il caso di rilevare, infatti, che, se già era arduo rite
nere possibile una sentenza penale definitiva entro il termine di
anni quattro, appare addiritura assurdo pensare che, entro lo stesso
termine, possano altresì svolgersi tre ulteriori gradi del procedi mento disciplinare.
Orbene, una siffatta situazione determinerebbe manifestamen
te un irrazionale trattamento di privilegio a favore dei notai che
commettono le infrazioni più gravi, e tali da dar luogo altresì
a processo penale. Accadrebbe, infatti, che, quando il fatto non
costituisca illecito penale, è possibile che le sanzioni disciplinari
(destituzione compresa) vengano inflitte entro il breve termine di
prescrizione previsto dalla legge, mentre quando il fatto è molto
più grave, al punto da meritare anche un processo ed eventual
mente una pena, resterebbe virtualmente escluso che una qualsia si sanzione disciplinare possa essere inflitta perché risulterebbe
impossibile l'osservanza di quel termine.
Deve essere ben chiaro, perciò, che in questo caso non si tratta
soltanto di una semplice situazione di fatto, ma di una situazione
tale che derivando dall'attuale pronunzia, comporta in realtà una
vanificazione definitiva della situazione giuridica concernente l'at
tività disciplinare nei confronti dei notai colpevoli delle violazioni
più gravi. La manifesta incompatibilità di tale situazione nei confronti
dell'art. 3 Cost, va, quindi, eliminata, applicando l'art. 27 1. 11
marzo 1953 n. 87.
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 139, n. 2, 1. 16 febbraio 1913 n. 89 (ordi namento del notariato e degli archivi notarili) nella parte in cui
prevede che il giudice penale inabiliti de iure, anziché sulla base
di valutazioni discrezionali, il notaio che sia stato condannato,
per alcuno dei reati indicati nell'art. 5, n. 3, della legge stessa, con sentenza non ancora passata in cosa giudicata; dichiara l'ille
gittimità costituzionale dell'art. 142, ultimo comma, della legge notarile predetta, nella parte in cui prevede che «è destituito di
diritto» il notaio che ha riportato condanna per uno dei reati
indicati nell'art. 5, n. 3, della legge stessa, anziché riservare ogni
provvedimento al procedimento disciplinare camerale del tribu
nale civile, come per le altre cause enunciate nello stesso art. 142; dichiara l'illegittimità costituzionale dei primi tre commi dell'art.
158 della legge notarile predetta; dichiara, ex art. 27 1. 11 marzo
1953 n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 146 della stessa
legge nella parte in cui non prevede che l'azione disciplinare ri
manga sospesa fino al passaggio in giudicato della sentenza quando
per il fatto illecito sia promosso processo penale.
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 29 dicembre 1989, n. 586
{Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 3 gennaio 1990, n. 1); Pres.
Saja, Est. Greco; Decio c. Soc. Aeroporti di Roma (Avv. Pro
speretti); interv. Pres. cons, ministri (Avv. dello Stato D'Ami
co). Ord. Pret. Roma 1° giugno 1989 (G.U., la s.s., n. 35
del 1989).
Lavoro (rapporto) — Sanzioni disciplinari conservative — Impu
gnazione in sede giurisdizionale — Termine di decadenza —
Il Foro Italiano — 1990.
Omessa previsione — Questione infondata di costituzionalità
(Cost., art. 3, 41; 1. 20 maggio 1970 n. 300, norme sulla tutela
della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e
dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul colloca
mento, art. 7).
È infondata, in riferimento agli art. 3 e 41 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 71. 20 maggio 1970 n. 300, nella parte in cui non prevede alcun termine d'impugnazione in sede giurisdizionale delle sanzioni disciplinari conservative. (1)
Fatto. — 1. - Nel corso promosso da Decio Paolo, contro la
s.p.a. Aeroporti di Roma, sua datrice di lavoro, per ottenere l'an
nullamento della sanzione disciplinare (della sospensione per die
ci giorni dal servizio e dalla retribuzione) da quest'ultima inflitta
gli, l'adito Pretore di Roma, rilevando che l'atto introduttivo del
giudizio era stato notificato alla convenuta oltre due anni dopo la data del contestato provvedimento, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell'art. 7 1. 20 maggio 1970 n. 300, nel
la parte in cui non prevede alcun termine di decadenza per l'im
pugnazione in sede giurisdizionale delle sanzioni disciplinari. Ad avviso del giudice a quo tale carenza di previsione viola,
in primo luogo, l'art. 3 Cost., perché assoggetta a diverso tratta
mento il caso concernente siffatte sanzioni, impugnabili nel ter
mine quinquennale di prescrizione (essendo applicabile quello di
venti giorni, stabilito dalla stessa norma censurata, alla sola espe ribilità di azioni stragiudiziali), e quello del licenziamento, per
(1) L'ordinanza di rimessione Pret. Roma 1° giugno 1989 (G.U., 1"
s.s., 30 agosto 1989, n. 35) è inedita a quanto consta. Sui licenziamenti disciplinari e, segnatamente, sulla questione di legitti
mità costituzionale dell'art. 7 1. 300/70, vedi riferimenti di dottrina e
giurisprudenza in M. De Luca, Licenziamenti disciplinari nelle ((piccole imprese»: la Corte costituzionale estende la garanzia del contraddittorio, ma restano alcuni problemi (nota a Corte cost. 25 luglio 1989, n. 427), in Foro it., 1989, I, 2685). Adde, F. Greco, L'intervento della Corte
costituzionale in materia di lavoro, relazione al VI convegno nazionale del coordinamento giuridico della Federmeccanica (Firenze, 13-14 ottobre
1989), specie pag. 40 ss. del dattiloscritto; Scognamiglio, nota a Corte cost. 427/89, cit., in Mass. giur. lav., 1989, 319; Corte cost., ord. 30 novembre 1989, n. 517 (G.U., 1* s.s., n. 49 del 1989), che ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di costituzionalità dichiarata fondata con la sentenza n. 427/89, cit.
La sentenza in epigrafe muove dalla consolidata giurisprudenza di le
gittimità, che esclude l'applicabilità del termine (di venti giorni dall'«ap plicazione» della sanzione disciplinare), stabilito per promuovere la pro cedura arbitrale prevista contestualmente (art. 7, 6° comma, 1. 300/70), alla impugnazione in sede giurisdizionale delle sanzioni «conservative»
(al licenziamento — anche disciplinare — si applica, invece, il termine fissato dall'art. 6 1. 604/66): vedi Cass. 6622/87, Foro it., Rep. 1987, voce Lavoro (rapporto), n. 1113; 38/82, id., Rep. 1982, voce cit., n.
866; 1717/78, id., 1978, I, 2811, per la parte che qui non interessa, e, per esteso, in Giust. civ., 1978, I, 1474).
Nella giurisprudenza di merito, in senso conforme vedi Pret. Milano 20 giugno 1987, 3 ottobre 1986, Foro it., Rep. 1987, voce cit., nn. 1114, 1115; Pret. Milano 23 luglio 1985, id., Rep. 1985, voce cit., n. 1022.
Contra, Trib. Monza 14 febbraio 1979, id., Rep. 1980, voce cit., n. 699; Pret. Milano 23 settembre 1975, id., Rep. 1976, voce cit., n. 496.
La ratio decidendi della pronuncia di rigetto, in riferimento al princi pio costituzionale di uguaglianza, riposa essenzialmente sul rilievo — sot teso anche ai «precedenti» della Corte costituzionale in materia (sent, n. 427/89, cit.; n. 204/82, id., 1982, I, 2981, con osservazioni di Silve
stri) — che «il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo è cosa assolutamente diversa dalle sanzioni disciplinari (conservative) sia
per la ragione che lo determina sia per gli effetti che si producono» (sul punto vedi l'interpretazione — per cosi dire «autentica» — dell'estensore della sent. n. 427/89 e di quella in epigrafe, di Greco, op. loc. cit.).
Tuttavia la Corte costituzionale sottolinea i «temperamenti» che l'o messa previsione di un termine, per impugnare in sede giurisdizionale le sanzioni disciplinari conservative, trova, fra l'altro, nel venir meno
dell'interesse a farne valere la nullità una volta che — con il decorso del biennio dalla loro «applicazione» — ne sia cessata Inefficacia» (art. 7, ultimo comma, 1. 300/70: v. Cass. n. 38/82, 1717/78, cit.).
Per quanto riguarda il parametro dell'art. 41 Cost., la sentenza in ras
segna — oltre ad evidenziare i «limiti» al potere organizzatorio del datore
di lavoro, «derivanti dalla finalità di attuazione di una razionale organiz zazione del lavoro e dalla tutela della libertà e dignità del lavoratore» — sottolinea che il paventato pregiudizio a quel potere, «per lo stato di incertezza sulla sorte della sanzione», può essere evitato dallo stesso
datore, promuovendo «con immediatezza» azione di accertamento della
legittimità della sanzione stessa.
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PARTE PRIMA
la cui impugnabilità è previsto il termine di decadenza di sessanta
giorni, anche in ipotesi di lamentata nullità. Ne risulta, poi, vul
nerato anche l'art. 41 Cost, perché la libera esplicazione del pote
re imprenditoriale resta limitata dalla precarietà degli assetti di
sciplinari in pendenza del suddetto termine prescrizionale, senza
poter trovare adeguato rimedio in contingenti valutazioni di av
venuta acquiescenza o di violazione di norme di correttezza e di
buona fede, permanendo l'interesse del lavoratore ad ottenere la
declaratoria giurisdizionale dell'illegittimità delle sanzioni per do
po la scadenza del biennio di cui all'ultimo comma della norma
censurata.
Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo ne ha
affermato la sussistenza osservando che un'eventuale declaratoria
di illegittimità di detta norma, nei termini auspicati, priverebbe di fondamento la domanda proposta dal lavoratore nel caso di
specie. (Omissis) Diritto. — 1. - Il Pretore di Roma dubita della legittimità co
stituzionale dell'art. 7 1. 20 maggio 1970 n. 300, nella parte in
cui non prevede alcun termine di decadenza per l'impugnazione, in sede giurisdizionale, delle sanzioni disciplinari.
A suo parere risulterebbero violati:
a) l'art. 3 Cost., per l'irrazionale disparità di trattamento del
caso relativo a siffatta impugnazione rispetto a quello concernen
te l'impugnazione del licenziamento, soggetta al termine di deca
denza di sessanta giorni;
b) l'art. 41 Cost., per il pregiudizio che lo stato di incertezza
sulla sorte delle sanzioni irrogate (durante il decorso dell'ordina
rio termine di prescrizione quinquennale) determina al libero eser
cizio del potere organizzativo dell'imprenditore. 2. - La questione non è fondata.
Si osserva, in via generale, che il potere disciplinare è estrinse
cazione del potere organizzatorio e direttivo che spetta al datore
di lavoro. Ed è diretto a reprimere, con apposite sanzioni, ogni infrazione alle regole predisposte in materia di organizzazione del
lavoro nell'ambito aziendale per l'esatta esecuzione della presta zione. Può affermarsi che le sezioni disciplinari rappresentano un mezzo di reazione ad eventuali mancanze del lavoratore, spe cie comportamentali (obbligo di diligenza e di fedeltà - art. 2104
e 2105 c.c.) che ricadono sull'organizzazione aziendale.
L'esercizio di detto potere non è discrezionale ma è soggetto
a regolamentazione, la quale trova fondamento nella rilevanza
giuridica dell'interesse comune e dell'imprenditore e del lavorato
re. Essa è apprestata anzitutto dal codice civile che, tranne che
per alcuni rapporti (per es. quello nautico), contiene, però, una
sola norma: l'art. 2106, che richiama gli art. 2104 e 2105 c.c.
e rinvia alle norme corporative; ora ai contratti collettivi o
aziendali.
Una più puntuale disciplina è stata dettata dall'art. 7 1. n. 300
del 1970 il quale prevede condizioni e limiti all'esercizio del pote re disciplinare, in senso sostanziale e procedurale. La norma fi
nalizza anche questo potere del datore di lavoro ad una razionale
organizzazione del lavoro ed alla concreta tutela della libertà e
dignità del lavoratore.
La limitazione del potere dell'imprenditore deriva dal possibile controllo sulle modalità di esercizio e sul contenuto specifico.
La norma individua i comportamenti qualificabili come man
canze disciplinari ed indica le sanzioni applicabili e cioè il rim
provero orale, l'ammonimento, la multa, la sospensione dal ser
vizio e dalla retribuzione. Si controverte se tra essi sia o meno
compreso il licenziamento. Inoltre, è specificato il procedimento
per l'erogazione delle sanzioni.
2.1. - Per quanto riguarda il licenziamento, i contratti collettivi
o aziendali possono annoverarlo tra le sanzioni, mentre si è for
mato un indirizzo giurisprudenziale secondo cui alcuni licenzia
menti sono ontologicamente disciplinari.
Questa corte (sent. n. 204 del 1982, Foro it., 1982, I, 2981), ha ritenuto che alcuni licenziamenti possono essere qualificati di
sciplinari secondo legge, contratti collettivi e regolamenti azien
dali e che, comunque, la qualificazione come disciplinari spetta al giudice di merito (sent. n. 427 del 1989, id., 1989, I, 2685).
2.2. - A tutte le suddette sanzioni disciplinari si applicano le
garanzie procedimentali di cui al 2° e 3° comma dell'art. 7 cita
to, cioè la contestazione e l'audizione del lavoratore. Inoltre, il
4° comma dello stesso articolo dispone che il lavoratore, al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare, salve analoghe pro cedure fissate dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando
la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, nei venti giorni successivi
Il Foro Italiano — 1990.
alla comminazione della sanzione stessa può promuovere, anche
a mezzo dell'associazione sindacale cui è iscritto o conferisca man
dato, la costituzione, tramite l'ufficio provinciale del lavoro e
della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed ar
bitrato composto di tre membri e cioè da un rappresentante per ciascuna delle parti e da un terzo, nominato da queste o, in caso
di disaccordo, del direttore dell'ufficio del lavoro.
Il datore di lavoro può autonomamente adire il giudice e sot
trarsi alla procedura arbitrale, ma, in ogni caso, l'azione deve
essere promossa entro dieci giorni dall'invito, rivoltogli dall'uffi
cio suddetto, alla nomina del proprio rappresentante in seno al
collegio arbitrale poiché, in difetto, la sanzione non ha effetto.
Durante il giudizio la sanzione disciplinare resta sospesa. Anche il lavoratore può instaurare il giudizio dinanzi al giudice
ordinario in ogni caso e direttamente, anche nell'ipotesi in cui
il contratto collettivo in via facoltativa o obbligatoria preveda determinate procedure arbitrali e conciliative.
La disposizione in esame non prevede alcun termine per la pro
posizione dell'azione giudiziaria. È rimasta isolata la pronuncia
giudiziale secondo cui anche per essa vale il termine di venti gior ni previsto per il ricorso alla procedura arbitrale.
Per il licenziamento, invece, l'art. 6 1. 15 luglio 1966 n. 604
fissa, a pena di decadenza, il termine di sessanta giorni per l'im
pugnazione davanti al giudice. 3. - È oggetto della questione in esame la disparità di tratta
mento (violazione dell'art. 3 Cost.) che, ad avviso del giudice
rimettente, si verificherebbe sul punto tra sanzioni disciplinare e licenziamento.
Non si ritiene che essa sussista.
Già, in via generale, l'indirizzo giurisprudenziale formatosi in
sede di legittimità ha ritenuto la non omogeneità delle due situa
zioni per presupposti, effetti, estensione e varietà delle rispettive
implicazioni. Infatti, il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo
è cosa assolutamente diversa dalle sanzioni disciplinari sia per la ragione che li determina sia per gli effetti che si producono. La causa ed il motivo sono eventi di assoluta gravità ed intensità.
Fanno venir meno del tutto la fiducia del datore di lavoro nel
lavoratore o, quanto meno, creano una situazione di incompati bilità tale che lo svolgimento del rapporto non può più proseguire.
La sanzione disciplinare (di tipo conservativo) non è un evento
che incide in modo traumatico sul rapporto di lavoro che bene
può continuare.
La distinzione è netta proprio sul piano degli effetti. La san
zione disciplinare consente la prosecuzione del rapporto; il licen
ziamento ne produce l'interruzione: ad esso consegue l'espulsione del lavoratore dall'azienda.
La diversità sul piano contenutistico ed effettuale sussiste an
che per il licenziamento intimato per motivi disciplinari. Al licenziamento qualificato disciplinare secondo legge, con
tratti collettivi e regolamenti aziendali si sono estese le garanzie
procedimentali previste dalla norma in esame (art. 7, 1°, 2° e
3° comma - sent. n. 204 del 1982), secondo l'indirizzo giuris
prudenziale, anche di legittimità, esse si applicano anche ai licen
ziamenti ontologicamente disciplinari. Di recente, l'estensione (limitata al 2° e 3° comma) è avvenuta
anche per i licenziamenti disciplinari intimati presso le piccole aziende (sent. n. 427 del 1989).
Ma in tal modo non si è inteso affatto assimilare in toto i
licenziamenti alle sanzioni disciplinari. La distinzione rimane sul
piano dei contenuti e degli effetti. Proprio questa differenza ren
de razionale il differente trattamento e, quindi, la disposizione censurata.
Dalla forza estintiva del rapporto di lavoro e dall'effetto espul sivo del licenziamento nasce il problema della sollecita soluzione
della ricostituibilità del rapporto e dell'eventuale cessazione di ef
ficacia del provvedimento. Consegue, cioè, l'interesse del lavora
tore ad una sollecita declaratoria da parte del giudice, dell'even
tuale illegittimità, nullità, inefficacia o annullamento del licenzia
mento e, a seconda dei casi, ad un'immediata reintegrazione nel
posto di lavoro o quanto meno ad un congruo risarcimento dei
danni. È, quindi, indispensabile il sollecito ricorso al giudice, entro
un breve termine di decadenza, per eliminare la situazione pre
giudizievole e, anche nell'interesse del datore di lavoro, lo stato
di incertezza.
3.1. - Per le sanzioni disciplinari, che in sostanza sono accadi
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
menti di scarsa rilevanza e che consentono la prosecuzione del
rapporto di lavoro, giustamente il legislatore ha privilegiato il
ricorso alla procedura arbitrale.
Egli, nella sua discrezionalità, ha ritenuto che il caso discipli nare possa essere risolto meglio e speditamente con il ricorso alla detta procedura.
La prosecuzione del rapporto consente anche l'eventualità che, durante l'ulteriore corso di questo, il datore di lavoro rimuova
per intero il torto fatto al lavoratore, non tenga, cioè, più conto
della sospensione o dell'ammonimento e rimborsi la retribuzione trattenuta o la multa inflitta.
3.2. - Si osserva anche che la non previsione del termine per la proposizione dell'azione giudiziaria trova nella stessa norma
dei temperamenti. E cioè anzitutto il datore di lavoro è libero
di adire il giudice appena il lavoratore contesta la legittimità della
sanzione, anche se può essere raro il caso in cui egli adisca, diret tamente ed indipendentemente dalla contestazione, il giudice per fare dichiarare la legittimità della sanzione inflitta.
Egli, comunque, per evitare l'inefficacia della sanzione, deve
proporre l'azione giudiziaria nei dieci giorni dalla ricezione del
l'invito da parte dell'ufficio del lavoro a nominare il suo rappre sentante in seno al collegio arbitrale adito dal lavoratore.
Per fare accertare la legittimità della sanzione inflittagli, il la
voratore o può richiedere la costituzione del collegio arbitrale en
tro venti giorni dall'applicazione della sanzione o adire il giudice. In quest'ultimo caso l'azione può essre promossa immediatamen
te o nei due anni per evitare gli effetti pregiudizievoli della recidi
va oppure, infine, fino al compimento della prescrizione ordina
ria, assumendo ovviamente il rischio dell'eventuale recidiva.
Quindi, quest'ultima ipotesi (fino al compimento della prescri zione ordinaria) è una soltanto di quelle che possono verificarsi.
Per quanto riguarda la violazione dell'art. 41 Cost., prospetta ta nel rilievo del pregiudizio arrecato al potere organizzatorio del
l'imprenditore, per lo stato di incertezza sulla sorte della sanzio
ne, si osserva che a parte i rilevati limiti all'esercizio di detto
potere, derivanti dalla finalità di attuazione di una razionale or
ganizzazione del lavoro e dalla tutela della libertà e dignità del
lavoratore, detto pregiudizio non deriva dalla legge, ma piuttosto dallo stesso comportamento del datore di lavoro. Egli, infatti, secondo la previsione legislativa, ha i mezzi per evitarlo, sempre che in effetti sussista, promuovendo l'azione al giudice con im
mediatezza per fare accertare la legittimità della sanzione inflitta
al lavoratore, come già è detto innanzi.
Pertanto, la questione va dichiarata non fondata.
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara non fondata
la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7 1. 20 maggio 1970 n. 300 (norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavora
tori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di
lavoro e norme sul collocamento), in riferimento agli art. 3 e
41 Cost., sollevata dal Pretore di Roma con l'ordinanza in epigrafe.
I
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 23 dicembre 1989, n. 573
(Gazzetta ufficiale, V serie speciale, 3 gennaio 1990, n. 1); Pres.
Saja, Est. Caianiello; Vecchi c. Chiarini; interv. Pres. cons,
ministri. Ord. App. Milano 3 febbraio 1989 (G.U., la s.s., n.
18 del 1989).
Matrimonio — Separazione di coniugi — Sentenza — Appello — Speciale rito camerale — Lesione del diritto di difesa —
Questione infondata di costituzionalità (Cost., art. 24; 1. 1°
dicembre 1970 n. 898, disciplina dei casi di scioglimento del
matrimonio, art. 4; 1. 6 marzo 1987 n. 74, nuove norme sulla
disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, art. 8, 23).
È infondata, in riferimento all'art. 24 Cost., la questione di legit timità costituzionale dell'art. 4, 12° comma, l. 1° dicembre 1970
n. 898 (cosi come modificato dall'art. 8 l. 6 marzo 1987 n.
74), secondo cui l'appello avverso la sentenza che pronuncia la separazione (e lo scioglimento del matrimonio) è deciso in
camera di consiglio, in quanto: a) / termini per appellare sono
Il Foro Italiano — 1990.
i termini propri delle impugnazioni delle sentenze; b) il termine
previsto dall'art. 325 c.p.c. (e dall'art. 327 c.p.c.) — ove si
ritenga che la forma dell'atto d'appello sia il ricorso e non
la citazione — deve essere osservato per il solo deposito del
ricorso e non anche per la notifica del ricorso e del pedissequo decreto presidenziale di fissazione dell'udienza, notificazione che
dovrà però essere effettuata entro il termine indicato dal giudi ce all'atto della stesura del decreto. (1)
II
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 14 dicembre 1989, n. 543
(Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 20 dicembre 1989, n. 51); Pres. Saja, Est. Caia niello; Pirhofer c. Janser; interv. Pres.
cons, ministri. Ord. App. Trento 15 novembre 1988 (G.U., la
s.s., n. 15 del 1989).
Matrimonio — Separazione di coniugi — Sentenza — Appello — Speciale rito camerale — Lesione del diritto di difesa —
Sentenza interpretativa di rigetto — Questione infondata di co
stituzionalità (Cost., art. 3, 24; 1. 1° dicembre 1970 n. 898, art. 4; 1. 6 marzo 1987 n. 74, art. 8, 23).
È infondata, in riferimento agli art. 3, 24 e 101 Cost., la questio ne di legittimità costituzionale dell'art. 4, 12° comma, 1.1°
dicembre 1970 n. 898 (cosi come modificato dall'art. 8 l. 6
marzo 1987 n. 74) e dell'art. 23 l. 6 marzo 1987 n. 74, secondo
cui l'appello avverso le sentenze che pronunciano la separazio ne (e lo scioglimento del matrimonio), le quali siano state pub blicate dopo l'entrata in vigore della I. 74/87, è deciso in came
ra di consiglio, in quanto: a) il legislatore è libero di disciplina re il processo secondo forme diverse da quelle del rito ordinario,
purché sia assicurato il rispetto del principio del contradditto
rio; b) i termini per appellare sono i termini propri delle impu
gnazioni delle sentenze; c) anche nel rito camerale in appello è possibile acquisire ogni specie dì prova precostituita e proce dere alla formazione di qualsiasi prova costituenda, purché il
relativo modo di assunzione — comunque non formale nonché
atipico — risulti compatibile con la natura camerale del proce dimento e non violi il principio generale dell'idoneità degli atti
processuali al raggiungimento del loro scopo; d) l'assistenza deI difensore è consentita; e) il rito camerale non esclude l'ap
plicabilità di quelle norme che disciplinano l'appello nel rito
ordinario, come ad esempio quelle sull'appello incidentale e sulla
specificità dei motivi di appello, perché esse non sono incom
patibili con il rito camerale né incidono sulla celerità del giudi zio; f) l'esigenza dì rendere più celere il grado d'appello con
un'istruttoria semplificata giustifica pienamente la deroga al re
gime della pubblicità delle udienze. (2)
(1-2) Con le due decisioni in rassegna la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi — in assenza di orientamenti giurisprudenziali del giudice ordinario consolidati, in assenza, cioè, di «diritto vivente» — sulla infelice disposizione secondo cui in materia di «separazione per sonale dei coniugi» e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio «l'appello è deciso in camera di consiglio» (cosi il testo del l'art. 4, 12° comma, 1. 898/70 alla stregua della novellazione operata dall'art. 8 1. 74/87).
Disposizione infelice — si è detto — giacché all'esigenza di accelerazio ne e di semplificazione del grado d'appello si sarebbe potuto rispondere tramite il richiamo alle forme dell'appello nel rito speciale del lavoro
(art. 434 ss. c.p.c., alla cui stregua la trattazione e la decisione del giudi zio d'appello ha carattere collegiale, e l'impugnazione — ove non sia necessario procedere ad attività istruttoria — può agevolmente essere de cisa nel corso della stessa prima udienza, senza che possa neanche sorgere il timore di sacrificare il diritto di difesa delle parti ad esigenze di celerità e/o di semplificazione), anziché tramite il richiamo a quel procedimento camerale ex art. 737 ss. c.p.c. che — probabilmente pensato con esclusi vo riferimento a materie non contenziose non relative a diritti o status — ha da sempre posto complessissimi problemi di adattamento e di inte
grazione ogni qual volta il legislatore o la giurisprudenza hanno tentato di utilizzarlo per la risoluzione di controversie relative a diritti soggettivi o status (v., per tutti, al riguardo, le sintesi contenute nelle relazioni svol te da E. Fazzalari, V. Denti, E. Grasso, L. Lanfranchi, al XVII con
vegno nazionale dell'Associazione fra gli studiosi del processo civile tenu tosi a Palermo il 6-7 ottobre 1989 sul tema 1 procedimenti in camera di consiglio e la tutela dei diritti, cui adde M. Pagano, Contributo allo studio dei procedimenti in camera di consiglio, in corso di stampa su Dir. e
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