sezione I civile; sentenza 5 agosto 1987, n. 6718; Pres. Vela, Est. Carbone, P.M. Lo Cascio (concl.conf.); Caldesi e altri (Avv. Lazzarini, Pintucci) c. Soc. Fadit (Avv. E. Ferrari). Conferma App.Torino 25 febbraio 1984Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1988), pp. 3029/3030-3033/3034Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23181502 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
a queste nuove esigenze della prassi commerciale, si pone il problema del superamento dei limiti alla circolanza del diritto in parola posti da norme di diritto positivo o ricavati dalla dottrina. Negli Stati Uniti, sia l'U.C.C. sia l'U.C.P. limitano la circolazione delle lettere di credito, sta bilendo che solo il beneficiario originario, se il credito non è trasferibile
(U.C.C. 5-116(1)) o il secondo beneficiario, se il credito è trasferibile
(U.C.P. art. 54), è legittimato a presentare i documenti che servono ad ottenere il pagamento. Ma le parti si adoperano per aggirare questi osta coli: in un caso hanno inserito nel testo della garanzia la clausola che tutte le cambiali che accompagnano le standbys dovevano essere girate con la clausola: «Drawn under Southern National Bank Letter of Credit n. 009 dated 8/29/72 for the account of Forrent M. Morris and I. Sel lers». Con questo accorgimento il credito, diventato notation credit, può essere pagato al cessionario, che ne fa richiesta (UCC §5-108 (2) (a)) (59).
Nel diritto italiano, considerando che molte volte la possibilità di far circolare il diritto di escutere la garanzia, facilita il raggiungimento degli obiettivi che lo stesso ordinante si propone (come nel caso di emissione di commercial papers), si potrebbe almeno dar ingresso all'idea che il trasferimento del diritto sia legittimo quando l'ordinante stesso l'abbia
autorizzato (60). Alfredo Calderale
(59) Princle /Iss. Mortgage Corp v. Southern National Bank, 571 F 2d 871 (5th cir. 1978).
(60) In senso contrario, Portale, Nuovi sviluppi, cit., 196 che motiva la sua posizione sottolineando la diversità di funzioni tra credito docu
mentario, dalla cui disciplina la regola suggerita nel testo è tratta, e Ga
rantieveltrag.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 5 agosto
1987, n. 6718; Pres. Vela, Est. Carbone, P.M. Lo Cascio
(conci, conf.); Caldesi e altri (Avv. Lazzarini, Pintucci) c.
Soc. Fadit (Avv. E. Ferrari). Conferma App. Torino 25 feb braio 1984.
Società — Trasformazione — Stima del patrimonio sociale da
parte dell'esperto — Oggetto e finalità (Cod. civ., art. 2343,
2498). Società — Trasformazione — Stima del patrimonio sociale da
parte dell'esperto — Obbligo degli amministratori di controllo
(Cod. civ., art. 2343, 2498). Società — Trasformazione — Revisione della stima da parte de
gli amministratori — Assunzione da parte dei soci dell'obbligo di effettuare ulteriori versamenti in denaro — Effetti (Cod. civ., art. 2343 , 2356, 2498).
Nel caso di trasformazione di una società di persone in società
avente personalità giuridica, la stima del patrimonio sociale re
datta da un esperto nominato dal presidente del tribunale con
cerne la determinazione del netto patrimoniale da considerare
come capitale della nuova società; essa deve, pertanto, include
re e valutare sia le poste attive che quelle passive, detraendo
le seconde dall'ammontare delle prime, affinché il patrimonio sociale presente nel momento iniziale della vita della nuova so
cietà, inteso come plusvalenza attiva, non sia inferiore di oltre
un quinto alla cifra indicata come capitale sociale «no
minale». (1)
(1) Non constano precedenti del Supremo collegio sull'argomento, se
si eccettua una lontana sentenza (Cass. 8 maggio 1954, n. 1467, Foro
it., Rep. 1954, voce Società, n. 194, e per esteso in Dir. fallirti., 1954,
II, 355), ove, peraltro, ci si limitava ad indicare nei terzi i principali sog
getti interessati alla (e tutelati dalla) stima prescritta dall'art. 2498 c.c.
La pronuncia in epigrafe, oltre a ribadire il rilievo e la funzione prevalen temente «esterni» della procedura in questione, ne precisa ulteriormente
alcuni passaggi confermando convincimenti già espressi sia in dottrina
che nella giurisprudenza di merito. Che la valutazione del perito debba
avere ad oggetto l'intero patrimonio aziendale e si renda sempre necessa
ria, indipendentemente dalla conformazione qualitativa dello stesso, è stato
infatti, anche di recente, ribadito da G. Tantini, Trasformazione e fusio ne delle società, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia diretto da F. Galgano, Padova, 1985, Vili, 251 ss., cui
si rinvia per ulteriori riferimenti bibliografici sul punto. In giurisprudenza hanno espresso analogo convincimento Trib. Roma
27 gennaio 1984, Foro it., Rep. 1985, voce cit., n. 721, e, per esteso,
Il Foro Italiano — 1988.
Nel caso di trasformazione di una società di persone in società
avente personalità giuridica, costituisce specifico obbligo degli amministratori e dei sindaci di effettuare un controllo delle va
lutazioni contenute nella stima del patrimonio sociale e, se sus
sistono dubbi o perplessità, di procedere alla revisione della
stessa e di adottare le conseguenti misure per far si che al capi tale sia dato il valore effettivo. (2)
Qualora, a seguito della revisione delta stima del patrimonio so
ciale da parte degli amministratori, i soci, anziché ridurre il
capitale della società trasformata, deliberino di integrare la dif
ferenza con ulteriori versamenti in denaro, il relativo obbligo
permane in capo a ciascuno di essi anche in caso di successiva
cessione a terzi delle proprie azioni. (3)
in Società, 1985, 296; Trib. Arezzo 30 giugno 1981, Foro it., Rep. 1983, voce cit., n. 502, e, per esteso, in Giur. comm., 1983, II, 808; App. Ancona 5 luglio 1979, Foro it., Rep. 1980, voce cit., n. 359, e, per esteso, in Giur. comm., 1980, II, 220.
(2) Nessun precedente in termini. Il principio affermato dalla corte co
stituisce, pertanto, la prima consapevole adesione della giurisprudenza alla tesi — sostenuta in dottrina da Ferri, Le società, in Trattato fonda
to da F. Vassalli, 3a ed., Torino, 1987, X, 953, nota 1; Di Sabato, Manuale delle società, 2a ed., Torino, 1987, 604 ss.; Simonetto, Trasfor mazione e fusione delle società, in Commentario Scialoja e Branca,
Bologna-Roma, 1965, 154 — secondo la quale il richiamo all'art. 2343
c.c. contenuto nell'art. 2498, 2° comma, c.c. importerebbe l'applicazio ne, quanto meno in via analogica, dell'intero procedimento ivi descritto, e dunque anche dell'obbligo di controllo (e di eventuale revisione) della
stima posto a carico di amministratori e sindaci. Secondo una diversa
interpretazione della disciplina sopra richiamata, invece, la traformazione della società non comporta quei mutamenti sostanziali del patrimonio comune che avvengono a seguito del conferimento di beni in natura —
allorquando «la revisione da parte degli amministratori costituisce una
garanzia per i vecchi soci» — sicché l'applicazione al caso di specie della
disciplina recata dall'art. 2343, 3° e 4° comma, c.c., oltre ad essere diffi
cilmente realizzabile, risulterebbe in definitiva priva di senso. Di questo avviso Tantini, op. cit., 258, nota 130; Ferrara jr., Gli imprenditori e le società, 6a ed., Milano, 1980, 633, nota 9.
(3) Non constano precedenti in termini. Nella specie, i ricorrenti soste
nevano la propria estraneità all'obbligo di versare l'ulteriore conferimen
to in denaro dal momento che essi avevano ceduto a terzi le proprie azioni.
Il collegio non ha ritenuto convincente l'argomento ed ha cosi motivato
il proprio dissenso: posto che la scelta tra le diverse opzioni contemplate dall'ultimo comma dell'art. 2343 c.c. costituisce oggetto di un diritto po testativo spettante — nell'ipotesi di conferimenti in natura — soltanto
al socio conferente; del pari — in caso di trasformazione della società — analogo diritto «non può non appartenere in esclusiva ai soci che deli
berarono tale trasformazione e che dunque accettarono di sopportarne
l'onere, invece di recedere dalla società. Coloro che di quest'ultima di
vengono soci in epoca successiva non possono essere coinvolti in un'ope razione cui non parteciparono».
* * *
La sentenza che si riporta è senz'altro da condividere e da apprezzare
per quanto attiene agli enunciati di carattere teorico e sistematico in essa
contenuti; lo è assai meno, invece, in relazione ali 'iter argomentativo se
guito per giungere alla soluzione del caso sottoposto al suo giudizio. Sot
to il primo profilo, vai la pena di sottolineare la riaffermata funzione
di garanzia dei creditori (e dei terzi in generale) che la corte ha ricono
sciuto alla procedura scandita dall'art. 2343 c.c. sia in sede di costituzio
ne o di aumento del capitale tramite l'apporto di beni in natura che
nell'ipotesi di trasformazione della società. In entrambi i casi, infatti, l'ordinamento richiede la presenza di un netto patrimoniale — rettamente
inteso dalla corte come plusvalenza attiva — «non inferiore di oltre un
quinto alla cifra indicata come capitale sociale «nominale». In questa
prospettiva, il controllo e l'eventuale rettifica della valutazione peritale ad opera degli organi sociali si pone come strumento indispensabile non
solo per rimediare ad eventuali errori dell'esperto, ma anche per coinvol
gere amministratori e sindaci nella procedura, imponendo loro di stabilire
quanta parte del valore di stima del patrimonio sociale possa essere impu tata a capitale senza inganno per i terzi. Di fronte a tali considerazioni
sembra perdere consistenza anche il rilievo per il quale, in caso di trasfor
mazione, gli amministratori opererebbero quasi una «revisione di se stes
si» — secondo un'espressione usata da Tantini, op. loc. cit. — mentre,
nell'ipotesi di conferimenti in natura, il loro intervento si giustificherebbe con l'intento di garantire gli altri soci. Se, infatti, l'interesse che s'intende
tutelare imponendo la verifica della stima da parte degli amministratori
è quello dei creditori alla formazione di un capitale sociale «integro», non sembrano sussistere ragioni per distinguere la fattispecie descritta dal
l'art. 2343 c.c. da quella dell'art. 2498 c.c.
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3031 PARTE PRIMA 3032
Svolgimento del processo. — La s.a.s. Fadit di Caldesi & C.
volendo trasformarsi in società per azioni, provvide a far redige
re, in data 26 maggio 1975, una stima giurata del proprio patri monio sociale e sulla base di tale stima con successiva delibera
del 27 giugno 1975 deliberò la sua trasformazione in Fadit s.p.a. In sede di controllo, a seguito delle perplessità sorte sull'effet
tiva consistenza patrimoniale rispetto al capitale stabilito in lire
420.000.000, fu redatta a richiesta del consiglio di amministrazio
ne altra stima e, convocati gli azionisti all'assemblea del 30 di
cembre 1975, fu deliberato all'unanimità un ulteriore versamento
proporzionale alle azioni possedute «vincolato alle sorti del capi tale e utilizzabile solo ed esclusivamente per futuri aumenti o rein
tegrazioni dello stesso».
L'importo sarebbe stato determinato «a fronte degli eventuali
debiti per fondo imposte e tasse e interessi per rateazioni e con
tributi arretrati non ancora conosciuti» e successivamente deter
minati in lire 124.946.333. I soci sottoscrissero in proprio il verbale assembleare, ma non
tutti gli azionisti provvidero ad effettuare il versamento e la so
cietà Fadit s.p.a. con atto di citazione del 19 marzo 1980 conven
ne in giudizio dinanzi al Tribunale di Torino Ludovico Caldesi,
Carlo Caldesi, Mara Caldesi, Leopoldo Boggio e la società in
liquidazione Finanziaria ligure-piemontese chiedendone la condanna
al pagamento delle somme dovute con interessi e i maggiori dan
ni da svalutazione.
Con sentenza del 3 maggio 1982 l'adito tribunale accolse la
domanda della Fadit s.p.a. nei confronti di tutti i soci, ma non
definì' il giudizio in relazione alla domanda riconvenzionale pro
posta da Boggio Leopoldo, che formulò riserva di appello contro
la decisione non definitiva.
Proposero invece gravame i tre Caldesi e la Finanziaria ligure
piemontese, chiedendo la riforma della sentenza di primo grado
perché avevano ceduto le rispettive azioni prima dell'inizio della
Venendo al secondo ordine di osservazioni — quelle, per intenderci, relative alla soluzione del caso di specie — non si può fare a meno di
rilevare, per contro, la scarsa pertinenza del ragionamento analogico se
guito dalla corte con il problema che la stessa era chiamata a risolvere.
La quaestio iuris consisteva — giova ricordarlo — nell'accertare se il
socio che abbia aderito alla delibera di trasformazione della società e,
successivamente, a quella di integrazione del capitale sociale (resasi neces
saria a seguito della revisione della stima peritale da parte degli ammini
stratori) mediante apporti in denaro, possa sottrarsi all'obbligo del relativo
versamento invocando l'intervenuta cessione a terzi della propria parteci
pazione azionaria. La tesi della natura personale di tale obbligazione so
stenuta dalla Cassazione si fonda, invece, sul parallelo che essa pone tra
il diritto (potestativo) del socio che conferisce beni in natura a scegliere tra le diverse opzioni prospettate dall'art. 2343, ultimo comma, c.c., da una parte; e quello, sostanzialmente analogo, del socio che abbia aderito
alla trasformazione della società allorché il patrimonio netto di questa risulti inferiore di oltre un quinto al capitale nominale fissato in base
alla stima del perito, dall'altra. Il che, se anche può condividersi, non
sembra però avere alcuna connessione logica con la conclusione cui il
collegio giunge subito dopo, affermando che l'onere finanziario derivante
dalla deliberazione in oggetto non può essere addossato a quanti siano divenuti soci successivamente e non abbiano partecipato all'operazione di trasformazione. Sembra, infatti, evidente che una cosa è il potere di
scegliere tra recesso, riduzione del capitale o integrazione dei conferimen ti — scelta che spetta indiscutibilmente ed esclusivamente al socio che
sia tale al momento della relativa deliberazione —; altra, e ben diversa
cosa è l'obbligo di integrare il conferimento una volta che si sia esercitata in tal senso l'opzione prevista dall'art. 2343, ultimo comma, c.c. Obbligo
che, ad avviso di chi scrive, è certamente suscettibile di essere trasferito
insieme alle azioni del socio-debitore, a meno di non voler sostenere che il divieto di alienazione dei titoli imposto dall'art. 2343, 3° comma, c.c.
permane fino a quando il conferente non abbia effettivamente provvedu to all'integrazione in denaro, il che pare francamente eccessivo. Assai
più ragionevole sarebbe stato, invece, assoggettare l'ipotesi di specie alla
disciplina prevista dall'art. 2356 c.c. in caso di trasferimento di azioni non interamente liberate. Se tutto ciò persuade, e se è vero che alla luce del precetto da ultimo richiamato il cedente è obbligato in solido con
l'acquirente per l'ammontare dei versamenti ancora dovuti, non doveva allora sfuggire all'attenzione del massimo organo giudicante il capoverso della stessa norma, ai sensi del quale «il pagamento non può essere ad
essi (n.d.r.: a coloro che hanno trasferito azioni non liberate) domandato
se non nel caso in cui la richiesta al possessore dell'azione sia rimasta
infruttuosa». [G. Olivieri]
Il Foro Italiano — 1988.
causa e perché, comunque, la società non aveva fornito la prova dell'evento (aumento o reintegrazione del capitale sociale) cui il
versamento era stato condizionato. A sua volta l'appellata Fadit
chiese che la decorrenza degli interessi legali fosse anticipata dal
la domanda all'atto di messa in mora. Intervenne inoltre Leopol do Boggio.
Con sentenza del 25 febbraio 1984 la Corte d'appello di Torino
ha dichiarato inammissibile l'intervento di Boggio ed ha respinto sia l'appello proposto dagli azionisti, sia la richiesta della società
di anticipazione degli interessi.
Essa ha cosi espresso il proprio convincimento: a) a seguito del controllo effettuato sulla relazione di stima del patrimonio sociale della società trasformanda risulta che il valore effettivo
dei beni e dei crediti conferiti era inferiore di oltre un quinto a quello indicato, ponendo cosi gli azionisti di fronte alla scelta
tra ridurre il capitale sociale o versare in danaro la differenza;
ti) quest'ultima soluzione fu adottata all'unanimità e il verbale
con cui si deliberò di garantire la «integrità del patrimonio di
trasformazione» fu sottoscritto dai soci conferenti che assunsero
un'obbligazione personale, non trasferibile con le azioni; c) l'uti
lizzo del previsto versamento era condizionato a «future» delibe
re di aumento o di reintegrazione del capitale sociale per cui il
pagamento delle somme dovute costituiva logicamente e giuridi camente un prius delle successive delibere di aumento o reinte
grazione. Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione i soc
combenti deducendo due motivi di ricorso. Resiste la società con
controricorso.
Motivi della decisione. — Con una complessa censura articola
ta su due motivi che è opportuno esaminare congiuntamente, Carlo
Caldesi, Lodovico Caldesi, Mara Caldesi Lesna e la Finanziaria
ligure-piemontese deducono con il primo omessa motivazione su
un punto decisivo della controversia per palese travisamento di
fatti e violazione e falsa applicazione delle norme sull'interpreta
zione, sulla trasformazione, sulla stima dei conferimenti e, con
il secondo, violazione delle norme di legge sulle assemblee delle
società per azioni.
Secondo i ricorrenti la ricostruzione del fatto effettuata dal giu dice del merito sarebbe travisata in quanto il versamento di lire
124.966.333 sarebbe stato richiesto agli azionisti non al fine di
reintegrare il patrimonio sociale e pareggiare il valore dichiarato
di lire 420.000, evitando, in tal modo la riduzione del capitale
nominale, ma solo per recuperare l'importo di imposte e con tri
buti relativi agli esercizi precedenti alla trasformazione.
La corte torinese avrebbe omesso di motivare su di un punto decisivo della controversia e cioè sulla qualificazione del negozio di cui al verbale del 30 dicembre 1975, in base al quale l'obbligo dell'ulteriore conferimento in danaro riguarderebbe soltanto i so
ci in quanto tali e non le singole persone che hanno sottoscritto
il verbale con esclusione, pertanto, degli attuali ricorrenti, non
più soci prima dell'inizio del processo. Comunque, anche a rite
nere che l'obbligo gravasse sugli attuali ricorrenti, l'obbligo stes
so è inefficace perché subordinato alla condizione non avverata
di futuri aumenti o reintegrazioni del capitale sociale.
L'assunto non ha pregio e pertanto va disatteso. Infatti con
grua, nonché, immune da errori di diritto e da vizi logici e giuri
dici, è la motivazione adottata dal giudice del merito per respingere la tesi degli attuali ricorrenti, secondo cui essi avevano sottoscrit
to il verbale assembleare nella qualità di soci cosi che, venuta
meno con la vendita delle azioni tale qualità, ai soci subentranti, attuali azionisti, deve far carico il richiesto versamento e non già a loro, ex soci conferenti. Occorre al riguardo considerare che
nel caso di trasformazione di una società di persone in società
aventi personalità giuridica, costituisce specifico obbligo degli am
ministratori e dei sindaci, ai sensi del 3° comma dell'art. 2343
c.c. richiamato dall'art. 2498, 2° comma, di effettuare un con
trollo delle valutazioni contenute nella stima del patrimonio so
ciale e se sussistono dubbi o perplessità di procedere alla revisione
della stessa, e di adottare le conseguenti misure, per far si che
al capitale sia dato il valore effettivo. Il che è puntualmente avve
nuto nel caso di specie tanto che alla delibera di trasformazione
del 27 giugno 1975 è poi succeduta quella del 30 dicembre 1975, nella quale i soci conferenti, messi di fronte alla necessità di ri
durre il capitale sociale, annullando le azioni che conseguente mente risultassero scoperte, deliberarono di non procedere alla
riduzione, e nella facoltà loro concessa di recedere dalla società
o di versare la differenza tra patrimonio e capitale sociale con
iju in uui ia iivi
[G. Olivieri]
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
versamento unicamente in danaro, optarono per la seconda solu
zione. Ma questa opzione, proprio perché è collegata al diritto
potestativo concesso dall'ultimo comma dell'art. 2343 c.c. soltan
to al socio conferente, nell'ipotesi di conferimento di beni in na
tura, non può non appartenere in esclusiva, nell'ipotesi di
trasformazione di società, ai soci che deliberarono tale trasfor mazione e che dunque accettarono di sopportarne l'onere, invece di recedere dalla società. Coloro che di quest'ultima divengono soci in epoca successiva non possono essere coinvolti in un'ope razione cui non parteciparono. Del resto, sia la prima stima che l'eventuale revisione hanno comunque ad oggetto l'intero patri monio sociale, cioè non solo i beni in natura ed eventualmente i crediti, ma anche gli oneri e i debiti della società trasformata. La stima, infatti, non può che concernere la determinazione del
netto patrimoniale da considerare come capitale della nuova so
cietà e, come patrimonio netto, non può che includere e valutare sia le poste attive che quelle passive detraendo le seconde dal
l'ammontare delle prime. Errano quindi i ricorrenti quando vor
rebbero distinguere tra beni conferiti ed oneri della società
trasformanda, includendo solo i primi nel patrimonio sociale. In
fatti il capitale sociale della società trasformata è data dai confe
rimenti dei soci presenti nel patrimonio netto della società
trasformanda, quale risulta dalla valutazione — non compiuta nel contratto sociale ex art. 2295, n. 6 — bensì effettuata secon
do la stima dell'esperto nominato dal presidente del tribunale, affinché il patrimonio sociale presente nel momento iniziale della
vita della nuova società, inteso come plusvalenza attiva (differen za tra attività e passività), non sia inferiore di oltre un quinto alla cifra indicata come capitale sociale «nominale».
In quest'ottica si pone anche un lontano precedente (Cass. 8
maggio 1954, n. 1467, Foro it., Rep. 1954, voce Società, n. 194), secondo cui la stima del patrimonio sociale in caso di trasforma
zione, avendo lo scopo di assicurare la garanzia patrimoniale del
la società trasformata di fronte ai terzi non deve superare, come
invece potrebbe in caso di super valutazione, il valore effettivo
dei beni stessi.
Parimenti infondato è anche il secondo motivo, avendo la cor
te torinese correttamente spiegato perché il predetto obbligo as
sunto dai soci di reintegrare il patrimonio sociale non era affatto
condizionato ad un successivo evento che la società Fadit avrebbe
dovuto porre in essere. Nel riportare gli estremi della delibera
il giudice del merito ha infatti rilevato che i prescritti versamenti,
proporzionali alle azioni possedute deliberati nell'assemblea del
30 dicembre 1975 ed utilizzabili solo per futuri aumenti o reinte
grazioni del capitale, rappresentavano logicamente un prius ri
spetto alle future successive delibere di reintegra e non certo un
posterius, come erroneamente sostenevano gli attuali ricorrenti, senza alcun fondamento.
Il ricorso va pertanto respinto.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 5 giugno
1987, n. 4940; Pres. Chiavelli, Est. Farinaro, P.M. Marti
nelli (conci, diff.); De Matteis (Avv. Ventura, Cazzani) c.
Soc. Sip (Avv. Marazza). Cassa Trib. Sanremo 20 luglio 1986.
Lavoro (rapporto) — Riposo domenicale — Obbligo di reperibi
lità previsto dalla contrattazione collettiva — Nullità (Cost., art. 36; cod. civ., art. 1418, 2109; 1. 22 febbraio 1934 n. 370,
riposo domenicale e settimanale, art. 1, 5).
È nulla la clausola di contratto collettivo che, fuori dalle eccezio
ni previste dagli art. 1 e 5 l. n. 370 del 1934, preveda l'obbligo di reperibilità, ancorché remunerato, nella giornata dome
nicale. (1)
(1) Non si rinvengono precedenti in termini. In tema di obbligo di reperibilità, cfr., da ultimo, Cass. 17 febbraio
1987, n. 1720, Orient, gìur. lav., 1987, 133; 18 febbraio 1986, nn. 976, 975 e 974, Foro it., Rep. 1986, voce Lavoro (rapporto), nn. 1646, 1645, 1644; 29 giugno 1985, n. 3921, id., Rep. 1985, voce cit., n. 837.
In dottrina, v. G. Galli, Obbligo di reperibilità nella giornata domeni cale e diritto irrinunciabile del lavoratore al riposo settimanale, in Riv.
Il Foro Italiano — 1988.
Motivi della decisione. — Con l'unico motivo del ricorso, si
denuncia violazione dell'art. 36, 3° comma, Cost, e dell'art. 1 1. 22 febbraio 1934 n. 370 e si deduce che il tribunale avrebbe,
dopo di aver esaminato tutti gli altri aspetti della controversia
ingiustificatamente, omesso di valutare il motivo di appello rela
tivo alla violazione, da parte della soc. Sip, della regola del ripo so settimanale, violazione che proprio sulla base delle questioni risolte in ordine principalmente alla obbligatorietà dei turni di «re
giur. lav., 1987, II, 394; L. Zoppoli, Sull'indennità di reperibilità per i dipendenti dell'Enel, in Riv. it. dir. lav., 1983, II, 375.
Circa il lavoro domenicale e la sua remunerazione, cfr. Corte cost. 22 gennaio 1987, n. 16, Foro it., 1987, I, 666, con nota di richiami.
Cfr., inoltre, Cass. 5 marzo 1987, n. 2348, id., Mass., 384; 21 agosto 1986, nn. 5118 e 5117, id., Rep. 1986, voce cit., nn. 1134, 1135; da ulti mo Cass. 26 gennaio 1988, n. 543 e n. 649, 23 gennaio 1988, n. 543, id., Mass., 91, 103.
Sulla necessaria coincidenza del riposo settimanale con la domenica, cfr., in dottrina, oltre ai riferimenti nella nota in Foro it., cit., P. Icm
no, Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, Milano, 1984, I, 182; contra, R. De Luca Tamajo, Il tempo nel rapporto di lavoro, in Giornale dir. lav., 1986, 449.
* * *
Diritto al riposo settimanale e obbligo di reperibilità.
1. - Il principio enunciato dalla Cassazione sconvolge non poco l'equi librio degli assetti contrattuali relativi all'istituto della «reperibilità», pre sente soprattutto nei contratti collettivi delle aziende erogatrici di servizi (1). Esso induce poi a riconsiderare la disciplina del riposo settimanale, rara mente coordinato con la «reperibilità» dalle regolamentazioni collettive (2).
Il ragionamento della Suprema corte è di una linearità esemplare. Pre mette innanzitutto che aspetti essenziali del rapporto di lavoro (meglio: oggetto della prestazione di lavoro) sono la disponibilità funzionale e con tinua dell'impegno del prestatore di lavoro all'altrui impresa. Da ciò fa derivare come corollario la possibilità del richiamo in servizio del lavora tore subordinato durante le pause (pur se obbligatorie e predeterminate), quando ne ricorra la necessità per esigenze indilazionabili dell'organizza zione aziendale, salvo in ogni caso il diritto al compenso per la prestazio ne eccezionale e il diritto al recupero del riposo. Obbligo «generico» di
disponibilità e diritto al riposo sono per la Cassazione conciliabili finché tale disponibilità non si concreta nella «reperibilità», che vincola il lavo ratore a «rendersi reperibile», fuori dell'orario di lavoro, in vista di una
prestazione eventuale, fornendo al datore di lavoro le notizie utili a rin tracciarlo in qualunque momento. Infatti, se la reperibilità è intesa come
obbligo di attesa dell'eventuale chiamata in servizio, ulteriore e distinto
rispetto agli obblighi del contratto di lavoro, si traduce nella limitazione del diritto del singolo all'effettivo riposo settimanale (garantito dalle nor me costituzionali e legislative: art. 36, 3° comma, Cost.; 1. n. 370 del 22 febbraio del 1934; art. 2109 c.c.), in quanto non accompagnata da un recupero sostitutivo (che la Cassazione, senza spiegare perché, ritiene difficilmente ipotizzabile). In altri temini per la Suprema corte già la re
sponsabilità, in quanto impone limitazioni alla libertà personale e produ ce un logorio psicologico, configura la «messa a disposizione» del datore
di lavoro delle energie lavorative. Il lavoratore viene in sostanza privato della possibilità di godere pienamente del suo diritto irrinunciabile al ri
poso settimanale, diritto necessario non solo per ricostituire le energie biopsichiche, ma funzionale a consentire la partecipazione serena alle co muni forme di vita familiare e sociale.
In conclusione la Suprema corte ritiene che la clausola contrattuale — «monetizzando» la prestazione della reperibilità — «monetizza» pure la rinuncia del lavoratore all'effettivo riposo settimanale e si pone in con flitto con il principio costituzionale del diritto del lavoratore a tale ripo so, da fruirsi di regola in coincidenza con la domenica, per ventiquattro ore consecutive, salvo le eccezioni stabilite dalla 1. 370 del 1934.
(1) V. l'art. 31 del ccnl del 18 gennaio 1985 per i telefonici; l'art. 4 del ccnl Enel del 22 aprile 1986; l'art. 17 del ccnl acquedotti e gas (azien de municipalizzate del 6 dicembre 1982; l'art. 18 d.p.r. 20 maggio 1987 n. 270 che ha recepito la disciplina dell'accordo sindacale, per il triennio
1985-1987, relativa al comparto del personale dipendente dal servizio sa nitario nazionale. V. però anche l'art. 24 del ccnl del 19 maggio 1984
per gli addetti all'industria petrolifera. Sulle differenti modalità di disci
plina dell'istituto da parte dei contratti collettivi, v. L. Zoppoli, Sull'in dennità di reperibilità per i dipendenti dell'Enel, in Riv. it. dir. lav., 1983, II, 375 ss., spec. 378 (nota 8).
(2) V. però l'accordo sindacale per il comparto della sanità dove si
prevede espressamente un riposo compensativo per la sola «pronta dispo nibilità» richiesta in un giorno festivo (art. 18, 5° comma, d.p.r. 270/87).
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