sezione I civile; sentenza 8 febbraio 1989, n. 795; Pres. Scanzano, Est. Caturani, P.M.Donnarumma (concl. conf.); Soc. Patrasso (Avv. Guzzi) c. Fall. soc. Patrasso (Avv. Giordano).Conferma App. Roma 1° luglio 1985Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1989), pp. 3453/3454-3459/3460Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23184316 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
ne generica argomenti di prova sulla responsabilità dell'opponente. È sintomatico in tal senso che l'art. 23, 4° comma, consente
espressamente, in deroga all'art. 82, 2° comma, c.p.c., che l'op
ponente (cosi come l'autorità che ha emesso l'ordinanza) stia, senza autorizzazione del pretore, in giudizio personalmente, rico
noscendo in tal modo che l'attività processuale dal medesimo espli cabile non richiede una particolare competenza giuridica: il che
spiega anche (unitamente, cioè, al rilievo che la pubblica ammini
strazione assume nel giudizio la veste di attore e può non costi
tuirvisi) l'illimitato potere istruttorio conferito al pretore dal 4°
comma dell'art. 23.
Occorre solo aggiungere, per la considerazione che la maggior
parte delle attuali infrazioni amministrative costituivano in origi
ne illeciti penali definibili con il procedimento monitorio, che la
Corte costituzionale anteriormente alla 1. n. 689 del 1981 aveva
già dichiarato (sent. n. 19/73, id., 1973, I, 1353) l'illegittimità costituzionale dell'art. 509, 2° e 3° comma, c.p.c. nella parte in cui prevedeva che alla mancata indicazione dei motivi conse
guiva l'inammissibilità dell'opposizione al decreto penale di con
danna, osservando che la «normativa sull'opposizione è distinta
e diversa dalla normativa sull'impugnazione mediante appello»,
giacché «mentre per quest'ultimo i motivi proposti delimitano l'am
bito della decisione, non è altrettanto per l'impugnativa di decre
to penale, la quale, con l'apertura del contraddittorio, consente,
nel pieno esercizio dei diritti di difesa, una cognizione ex novo
del fatto-reato . . .».
E a proposito della prevista indicazione dei motivi di opposi
zione la Corte costituzionale nella stessa sentenza aveva afferma
to che tale indicazione non è superflua «perché, anche nell'inte
resse dello stesso opponente, tende a conferire, ad ogni futuro
ed eventuale effetto valutativo di comportamento, veste di atten
dibilità all'atto con cui si richiede il passaggio dalla fase senza
contraddittorio a quella in contraddittorio.
Ciò senza che, come parimenti ritenuto in giurisprudenza, sia
necessario puntualizzare gli elementi dell'opposizione . . ., anche
considerato che lo stesso interessato ha facoltà di opporsi perso
nalmente senza l'assistenza di legale. Di superfluità può parlarsi soltanto nel significato di una non
incidenza in qualsiasi direzione, positiva o negativa, dei motivi
indicati sugli sviluppi successivi della procedura di opposizione.
La quale procedura sostanzialmente si risolve in una richiesta,
anche non formale, di dibattimento». (Omissis)
III
Motivi della decisione. — È assolutamente incontroverso tra
le parti, che l'opponente ha parcheggiato la propria vettura in
corrispodenza del segnale di divieto di sosta in Varedo, via Um
berto Maddalena, divieto disposto con l'ordinanza n. 138 emessa
dal sindaco in data 4 febbraio 1981.
È altresì pacifico in causa — posto che il prefetto non ha in
alcun modo contestato le affermazioni contenute al punto 1 della
narrativa dell'atto di opposizione — che la predetta via Umberto
Maddalena è strada in proprietà privata. Tale circostanza è stata
inoltre dimostrata dall'opponente, il quale ha esibito in giudizio
un atto notarile (n. 2945-3705 in data 13 agosto 1928 del notaio
Antonio Colleoni di Desio) dal quale si evince che l'area su cui
era stato ordinato il divieto di sosta appartiene a privati.
Ciò premesso in ordine ai fatti oggetto della presente contro
versia, va poi rilevato che appare fondata, e merita, pertanto,
d'essere condivisa la deduzione dell'opponente circa l'illegittimità
del provvedimento sindacale n. 138 del 4 febbraio 1981, con il
quale è stato disposto il divieto di sosta nell'area in questione.
L'art. 3 d.p.r. n. 393 del 1959 (c.d. codice della strada) preve
de infatti al 3° comma, lett. c, che l'ente proprietario della strada
può con ordinanza vietare o limitare la sosta, ovvero limitare
il parcheggio dei veicoli e degli animali su ciascuna strada o trat
to di essa. L'art. 4 dispone poi che il comune adotta con ordi
nanza i provvedimenti di cui all'art. 3, 1°, 2° e 3° comma, e
che per i tratti di strade non comunali attraversanti i centri abita
ti, i provvedimenti indicati nel 3° comma del precedente articolo
sono di competenza dell'ente proprietario della strada.
Considerato, pertanto, che la proprietà della strada in capo
alla pubblica amministrazione costituisce presupposto necessario
perché essa possa legittimamente esercitare la potestà autoritativa
di vietare il parcheggio, è evidente che nel caso di specie il sinda
II Foro Italiano — 1989.
co del comune di Varedo ha emanato l'ordinanza n. 138 del 1981
in assoluto difetto di potere. In applicazione dei principi generali di cui all'art. 5 1. n. 2248
del 1865, ali. E, tale provvedimento amministrativo va disappli cato in quanto emesso in carenza di potere, e deve quindi essere
considerato tamquam non esset.
Dalle considerazioni che precedono discende l'illegittimità del
provvedimento impugnato — perchè emerso da autorità ammini
strativa assolutamente incompetente — con il conseguente acco
glimento dell'opposizione. Devono pertanto essere annullate le
ordinanze-ingiunzioni nn. 33193, 33195, 33198, emesse in data
29 maggio 1987 dal prefetto di Milano.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 8 febbraio
1989, n. 795; Pres. Scanzano, Est. Caturani, P.M. Donna
rumma (conci, conf.); Soc. Patrasso (Avv. Guzzi) c. Fall. soc.
Patrasso (Avv. Giordano). Conferma App. Roma 1° luglio
1985.
Fallimento — Giudizio di opposizione — Stato di insolvenza —
Riferibilità al gruppo di imprese — Esclusione (R.d. 16 marzo
1942 n. 267, disciplina del fallimento, art. 1, 5).
Fallimento — Giudizio di opposizione — Stato di insolvenza —
Nozione (R.d. 16 marzo 1942 n. 267, art. 5).
Fallimento — Giudizio di opposizione — Stato di insolvenza —
«Pactum de non petendo» — Rilevanza (R.d. 16 marzo 1942
n. 267, art. 5).
Ai fini della dichiarazione di fallimento di un'impresa inserita
in un gruppo di società, l'accertamento dello stato di insolven
za va condotto con esclusivo riferimento alla situazione econo
mica della singola società. (1) Lo stato di insolvenza di un 'impresa commerciale consiste in uno
stato di impotenza economica che si realizza quando l'impren
ditore non è più in grado di adempiere, con mezzi normali,
alle proprie obbligazioni, rimanendo del tutto indifferente sia
l'eventuale eccedenza dell'attivo sul passivo, sia la ragione del
dissesto. (2)
(1) La vicenda giudiziaria oggetto della decisione, si inserisce nel con
testo delle «disavventure» dei fratelli Caltagirone, assurti, recentemente,
di nuovo, agli onori della cronaca giornalistica (si veda il richiamo in
prima pagina su La Repubblica del 24 ottobre 1989), in seguito ad altra
pronuncia con la quale la Suprema corte, ribaltando i giudizi delle corti
di merito, ha annullato la sentenza di fallimento a carico degli imprendi tori romani.
Nella prima parte della motivazione, la corte ha ribadito il proprio convincimento secondo il quale, la valutazione dei presupposti per la di
chiarazione di fallimento e, segnatamente, l'insolvenza, vanno accertati
in capo alla singola impresa pur quando, la stessa, faccia parte di un
«gruppo di società». Per i precedenti si rinvia a Cass. 21 gennaio 1988, n. 423, Foro it., 1988, I, 1569, con nota di richiami, cui adde, Cass.
2 febbraio 1988, n. 957, ibid., 1898; 17 giugno 1988, n. 4142, id., Rep.
1988, voce Lavoro (rapporto), n. 1845; Trib. Napoli 14 febbraio 1987,
ibid., voce Liquidazione coatta amministrativa, n. 76. In dottrina, Di
Sabato, Ricostituzione e unificazione del gruppo nell'amministrazione
straordinaria delle grandi imprese in crisi, in Dir. fallim., 1988, I, 343;
Calgano, Il fallimento delle società (aspetti sostanziali) in Trattato dir.
comm. e dir. pubbl. econ., Padova, 1988, 101, e, con particolare riguar
do al tema del gruppo di società e rapporto di lavoro, cfr. Cass. 3 no
vembre 1989, n. 4579, in questo fascicolo, I, 3420, con nota di richiami
di G. Amoroso.
Per vero, la motivazione si occupa anche del tema afferente la rilevan
za processuale, rispetto al giudizio di opposizione al fallimento, delle vi
cende relative all'insolvenza del gruppo, oggetto di altro accertamento
giudiziale, con una soluzione (di indifferenza) che pare contrastare con
il precedente, certo non remoto, costituito da Cass. 2 luglio 1988, n.
4408, Foro it., Rep. 1988, voce Amministrazione controllata, n. 23, con
nota di Stanghellini, Il fallimento all'interno dei gruppi di società: pro
poste per un coordinamento delle procedure, in Giur. comm., 1989, II,
546; con tale decisione, la corte ha riconosciuto la rilevanza giuridica,
sul piano processuale, dell'interdipendenza economica fra le società del
medesimo gruppo, nel contesto del giudizio di opposizione a sentenza
di fallimento.
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3455 PARTE PRIMA 3456
Il pactum de non petendo, intervenuto fra il debitore e tutti i
creditori, in quanto diretto a spostare ne! tempo la scadenza
delle obbligazioni, è rilevante nella prospettiva dell'esclusione
dello stato di insolvenza. (3)
Svolgimento del processo. — Con sentenza del 21 ottobre 1980
il Tribunale di Roma dichiarava d'ufficio il fallimento della s.r.l. Patrasso.
Con citazione del 14 novembre 1980, la s.r.l. Patrasso propo neva opposizione alla sentenza assumendo la mancanza dello sta
(2) La massima riproduce un orientamento ormai costante della Supre ma corte (da ultimo sent. 17 marzo 1989, n. 1321, Foro it., 1989, I, 1452, con nota di richiami; fra le sentenze di merito, si segnala App. Roma 1° luglio 1985, id., 1986, I, 778, ora confermata).
(3) L'altra parte della pronuncia si riferisce, invece, ad un tema non sufficientemente esplorato, nonostante che l'argomento trattato — l'effi cacia del pactum de non petendo — sia tutt'altro che insignificante, spe cie se rapportato alla diffusione, nella pratica, della figura del concorda to stragiudiziale.
La corte di legittimità non si discosta dal precedente costituito da Cass. 16 marzo 1979, n. 1562, Foro it., 1980, I, 408, affermando che il pactum de non petendo incidendo, direttamente, sull'esigibilità dei crediti e sulla loro scadenza, esclude, seppure temporaneamente, la sussistenza dello stato di decozione. Il patto viene, cosi, in rilievo per effetto di una valutazione strettamente civilistica dell'istituto; la corte d'appello (cit. e alla cui nota redazionale si rinvia), invece, aveva negato valore al patto, sulla base di argomenti affatto diversi, privilegiando la tutela dell'interesse pubblico sotteso alle procedure concorsuali; pur non avendolo affermato espressa mente, la sentenza impugnata conteneva un giudizio di sfavore verso l'i
stituto, ritenuto contrario ai principi informatori della legge fallimentare
(quindi contrassegnato da una venatura di illiceità). Tale tesi è stata già criticata dalla dottrina (Menghi, Il concordato stragiudiziale: variazioni minime ad una voce per una grande fuga sul tema, in Giur. comm., 1981, II, 306), sul presupposto dell'assenza, nel nostro ordinamento, di
impedimenti alla regolazione stragiudiziale dell'insolvenza. Gli interessi collettivi sottesi allo svolgimento delle procedure concor
suali e l'officiosità del procedimento costituiscono, infatti, elementi ben diversi dagli interessi pubblici che, invece, dovrebbero giustificare il divie to per i privati di risolvere convenzionalmente le pendenze debitorie di un imprenditore (sul tema dell'individuazione degli interessi tutelati dalle
procedure concorsuali, di recente, Bonsignori, Il fallimento in Trattato dir. comm. e dir. pubbl. econ., cit., 1986, 117). D'altra parte, il ricono scimento dell'efficacia del concordato stragiudiziale non porta, automati
camente, all'erosione applicativa del concordato preventivo, laddove si osservi che l'imprenditore che privilegia il concordato stragiudiziale si espone al grave rischio della mancata adesione anche di un solo creditore. Su
questo specifico punto, la pronuncia in rassegna non si è espressa, ma da un passo della motivazione pare di comprendere che l'adesione di tutti i creditori costituisca una condizione necessaria per eliminare lo stato di
decozione, conformemente a Cass. 1562/79, cit. La sentenza in rassegna, cosi come quella impugnata, più volte fa men
zione del pactum de non petendo per affrontare l'argomento relativo al l'accertamento dello stato di insolvenza. Si delinea, allora, la necessità di ricordare come il patto in questione, sebbene stipulato nella forma c.d. in perpetuum (Ruscello, Pactum de non petendo, in Riv. dir. civ., 1976, II, 198), mantenga la propria autonomia rispetto alla remissione del debito condizionata, nel senso che il primo rappresenta la convenzio ne con cui il debitore ottiene dal creditore che questi non pretenda l'a
dempimento (sulla falsariga dell'eccezione pretoria exceptio pacti conven ti utilizzata per paralizzare l'azione), mentre la seconda è l'atto con il
quale il creditore rinuncia al proprio credito, procurando, cosi, l'estinzio ne dell'obbligazione. Il concordato stragiudiziale (sul quale, da ultimo, Frascaroli-Santi, Il concordato stragiudiziale, voce del Digesto comm., Torino, 1988, III, 283; Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 1986, 77), può reggersi, per vero, tanto su un fascio di remissioni parziali (per la parte non coperta dalla percentuale offerta in pagamento) condi
zionate, quanto sull'altra categoria di convenzioni, con l'avvertenza che anche il pactum de non petendo dovrà contenere una condizione, posto che, altrimenti, l'eccezione potrebbe essere fatta valere anche dopo la dichiarazione di fallimento.
Infine, va rilevato che, nella decisione, si è negata ammissibilità alla
prova testimoniale sull'esistenza del patto, sulla scorta del divieto di cui all'art. 2723 c.c., in base ad un giudizio di non verosimiglianza del fatto che accordi di tale importanza fossero stati redatti solo verbalmente; non essendo noto il contenuto delle prove dedotte, non è possibile valutare l'esattezza del decisum, ma va, comunque, ricordato che ciascun patto assume una propria autonomia, in guisa che, una volta dimostrato con
prove scritte che i creditori di maggiori importi avevano dato l'assenso al concordato stragiudiziale, le prove orali, relative a posizioni debitorie «non qualificate», avrebbero potuto trovare ingresso nel giudizio.
Il Foro Italiano — 1989.
di insolvenza e che, comunque, l'accertamento dell'insolvenza
avrebbe dovuto essere compiuto con riferimento non alla singola
società, ma all'intero gruppo di cui questa faceva parte, che tra
la stessa società e l'Iccri, suo maggior creditore, era intervenuto
un pactum de non petendo, che aveva eliminato lo stato di insol
venza, che l'illegittimità riscontrata era addebitabile alla inadem
pienza del comune di Roma, il quale, rifiutando il pagamento di oltre 29 miliardi di lire alla s.r.l. Siena, non aveva consentito
a quest'ultima di pagare il debito verso la s.r.l. Patrasso.
Il tribunale, con sentenza del 1° aprile 1982, rigettava l'opposi zione ed analoga pronunzia veniva emessa dalla Corte d'appello di Roma adita dalla parte soccombente.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre la s.r.l. Patrasso in
base a quattro motivi; resiste con controricorso il fallimento della
Patrasso s.r.l. che ha anche presentato memoria.
Motivi della decisione. — 1. - Nell'ordine logico è pregiudiziale l'esame del quarto motivo col quale la ricorrente si duole che
la corte d'appello, incorrendo anche in difetto di motivazione, abbia negato la sospensione del giudizio, ai sensi dell'art. 295
c.p.c., nonostante la pendenza di altro processo avente ad ogget to l'esistenza, validità ed efficacia del pactum de non petendo dedotto dalla società a sostegno della sua opposizione alla sen
tenza dichiarativa di fallimento, attesa la pregiudizialità logico
giuridica di tale accertamento nel presente giudizio. La censura non è fondata. La corte d'appello ha rettamente
negato la sospensione necessaria del processo ai sensi dell'art.
295 c.p.c., escludendo che sussistesse nella specie alcun rapporto di pregiudizialità tra la causa vertente tra Iccri - fallimento di
Camillo Caltagirone ed altri e quella tra le parti del presente giu
dizio, sul rilievo che tali cause non vertono tra le stesse parti sicché la sentenza resa nel primo giudizio, che avrebbe per ogget to l'incidenza del pactum de non petendo su quel fallimento, non
potrebbe in nessun caso fare stato in questo giudizio, per i princi
pi che attengono all'efficacia soggettiva della cosa giudicata (art. 2909 c.c.).
3. - Iniziando l'indagine (che riflette la ritenuta insolvenza del
la società) dal secondo motivo di ricorso, con esso la ricorrente
si duole della violazione e falsa applicazione dei principi in mate
ria di «gruppi» di società nonché dell'art. 12 preleggi, assumendo
che erroneamente la corte d'appello ha negato la rilevanza giuri dica del gruppo in tema di accertamento dell'insolvenza di una
società ad esso partecipante e non ha applicato analogicamente la disciplina della 1. 3 aprile 1979 n. 95 (c.d. legge Prodi), conte
nente provvedimenti urgenti per l'amministrazione straordinaria
delle grandi imprese in crisi, ma sotto entrambi i profili le propo ste censure non colgono nel segno.
La figura del «gruppo» di società ricorre allorché il concetto
economico di impresa (collettiva) si esaurisce, dal punto di vista
giuridico, nella costituzione di una singola società per azioni, ma
di fronte ad un'impresa soltanto economicamente unitaria, si as
siste ad una molteplicità di società le cui azioni appartengono direttamente alle medesime persone. Il fenomeno che ricorre più
frequentemente è quello del «gruppo» di società il quale agisce sotto il controllo di una società madre o società capo-gruppo.
Ciascuna delle società che fanno parte del gruppo esplica una
parte dell'attività economica complessiva ovvero agisce in un de
terminato ambito territoriale, con questa caratteristica che le azioni
di ognuna delle società sono in possesso nella totalità, o nella
maggioranza, di una distinta società (la società madre o capo
gruppo) detta anche holding. Essa esercita sempre poteri direttivi sul gruppo e può a seconda
dei casi, a sua volta, partecipare o meno al processo produttivo. I riferimenti normativi al «gruppo» di società sono contenuti
nell'art. 2359 c.c. in tema di società controllate e società collegate
(i cui rapporti sono stati poi specificamente regolati dalla 1. 7
giugno 1974 n. 216, la quale ha dato una più completa definizio
ne del controllo e del collegamento) nonché nel d.l. 3 gennaio 1979 n. 26 convertito in 1. 3 aprile 1979 n. 95.concernente prov vedimenti urgenti per l'amministrazione straordinaria delle gran di imprese in crisi, la cui disciplina — anche se tende a consegui re un risultato che di per sé non è incompatibile con la distinta
soggettività delle società raggruppate, attraverso il coinvolgimen to nella medesima procedura concorsuale delle altre società del
gruppo di cui fa parte quella ammessa all'amministrazione straor
dinaria — è comunque ispirata ad esigenze di carattere ecceziona le tendenti ad assicurare, in considerazione dello stato di crisi
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
in cui versano determinate imprese, il proseguimento delle attivi
tà produttive sostenute anche dai finanziamenti pubblici ed il man
tenimento dei livelli occupazionali. Dalla corrispondente disciplina non è quindi possibile ricavare
alcun principio (art. 12 preleggi) che autorizzi una diversa confi
gurazione del gruppo di società nel sistema vigente al di là delle
ipotesi eccezionali nelle quali la figura è specificamente prevista della legge a ben determinati effetti giuridici.
Altrettanto va detto per quanto riguarda la disciplina risultante
dal d.l. 24 maggio 1986 n. 218 che ha emanato le norme per la proroga del termine massimo di continuazione dell'esercizio
di impresa e per la gestione unitaria di gruppo delle grandi im
prese in crisi sottoposte ad amministrazione straordinaria.
Il testo normativo, dopo aver previsto che le varie società co
stituenti il gruppo sono considerate un solo soggetto, cosi dispo ne: «Il risultato della gestione viene impugnato al momento della
chiusura della procedura alle singole imprese e proporzionalmen te alle singole masse passive secondo il rapporto esistente alla
data di apertura della procedura». Come si è osservato in dottri
na, trattasi di una disciplina a carattere eccezionale, determinata
da un intreccio inestricabile di rapporti di incerta riferibilità sog
gettiva tra le varie imprese del gruppo, onde la ragione che ha
indotto il liquidatore a derogare al principio, che è rimasto tutta
via fermo al di fuori della peculiare ipotesi considerata, dall'ordi
naria distinzione soggettiva delle società costituenti il gruppo. D'altra parte, la giurisprudenza di questa corte, con un indiriz
zo costante che ha avuto inizio con la remota pronuncia n. 45
del 1957 (Foro it., 1957, I, 228), ha sempre affermato la distinta
soggettività giuridica delle società aventi ciascuna un proprio pa
trimonio, propri organi anche rappresentativi, propri diritti ed
obblighi, onde si è concluso che giuridicamente sono tante le im
prese quante le società partecipanti al gruppo. Il principio è stato ribadito in tema di rapporti di lavoro (sent.
3945/86, id., Rep. 1986, voce Società, n. 314; 1567/83, id., Rep.
1983, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 151; 7005/82,
id., Rep. 1982, voce Lavoro (rapporto), n. 2068; 6560/82, ibid.,
n. 1617; 650/81, id., Rep. 1981, voce cit., n. 1871) nonché a
proposito della responsabilità dell'unico azionista per le obbliga zioni sociali ex art. 2362 c.c. (sent. n. 2879/85, id., Rep. 1985,
voce Società, nn. 515, 516). La difesa della ricorrente non contesta né disconosce il princi
pio della distinta personalità giuridica delle società raggruppate, ma afferma che non potevano ignorarsi ai fini dell'accertamento
dello stato d'insolvenza della società ricorrente le innegabili con
nessioni economiche con le altre società del gruppo Caltagirone, non potendosi prescindere «da una valutazione globale della vi
cenda per i suoi riflessi sulla situazione economica anche del sin
golo soggetto giuridico». La tesi non può essere seguita dal collegio, in quanto essa ac
coglie una nozione di soggettività giuridica a senso unico che non
trova alcun addentellato nel sistema normativo.
Se si accetta il principio della distinta soggettività delle società
partecipanti al «gruppo», ne discende che l'accertamento dell'in
solvenza, quale presupposto della dichiarazione di fallimento va
compiuto nei confronti della singola società che si assume versare
in una situazione di illiquidità, dovendosi ammettere, per la sua
distinta personalità giuridica, che la figura dell'imprenditore, ai
sensi dell'art. 2082 c.c., è ad essa riferibile e non già al gruppo
di cui fa parte. La tesi criticata non può accogliersi perché urta altresì' con la
finalità stessa della costituzione del «gruppo» di società.
Com'è noto, essa tende a sottrarre il capitale investito in cia
scun ramo di attività che fa capo ad una società del gruppo ai
rischi relativi a ciascun altro ramo che si ricollega ad altra società
dello stesso gruppo. Le diverse società, essendo fra loro giuridi
camente distinte, in coerenza con quella finalità, rispondono solo
dei debiti assunti da ciascuna di esse; ne consegue che l'insolven
za che interessa una delle società sarà del tutto indifferente dal
punto di vista giuridico (proprio perché incide sul patrimonio di
un distinto soggetto) per il patrimonio delle altre società del
gruppo. Deve quindi affermarsi il principio secondo cui, ai fini della
dichiarazione di fallimento di una società inserita in un «gruppo
di società, l'accertamento dello stato di insolvenza non può esse
re esteso alle altre società del gruppo di cui fa parte, ma va com
piuto con esclusivo riferimento alla situazione economica di detta
società, la cui distinta soggettività giuridica le fa acquisire la ve
li, Foro Italiano — 1989 — Parte 1-61.
ste di imprenditore ex art. 2082 c.c. che, ove versi nello stato
di insolvenza, deve essere dichiarato fallito.
4. - Col terzo motivo la ricorrente sostiene che errroneamente
la corte d'appello, ai fini dell'assoggettamento dell'impresa alla
procedura concorsuale, non ha riconosciuto rilevanza al pactum de non petendo intervenuto con tutti i creditori il quale è idoneo
ad evitare la dichiarazione di fallimento.
La prova orale richiesta sul punto doveva quindi ritenersi am
missibile; né erano applicabili i limiti di ammissibilità della prova per testi previsti dagli art. 2721 e 2723 c.c.
Le censure non sono fondate. È esatto, in linea di principio,
quel che osserva la difesa della ricorrente, che cioè è ammissibile
un accordo stragiudiziale tra il debitore ed i creditori diretto ad
evitare la dichiarazione di fallimento (cfr. la sentenza n. 1562/79,
id., 1980, I, 408); ed è quindi erronea la motivazione con cui
la corte d'appello ha escluso l'amissibilità del pactum de non pe tendo intervenuto con tutti i creditori, integrante una moratoria
dei pagamenti, al fine di pervenire ad una definizione stragiudi ziale delle pendenze debitorie.
La corte del merito, nel negare il suddetto principio, non ha
tenuto presente che il pactum de non petendo intervenuto con
i creditori sposta nel tempo la stessa scadenza delle obbligazioni, onde in sua presenza non può non escludersi lo stato di insolven
za del debitore con riferimento alla scadenza originariamente pre vista dagli obblighi assunti.
La critica della ricorrente non esplica, tuttavia, in questa sede
alcun effetto decisivo, posto che la corte d'appello con autonoma
motivazione ha poi rettamente negato rilevanza ed ammissibilità
alla prova per testi che la società ricorrente aveva formulato per dimostrare l'avvenuta stipulazione del patto.
Al riguardo, anche se non può condividersi la tesi dell'impu
gnata sentenza che ha applicato il limite di ammissibilità della
prova testimoniale di cui all'art. 2721 c.c., quando il valore del
contratto eccede le lire cinquemila, essendo attribuito al giudice,
nel giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimen
to, un ampio potere di indagine diretto all'accertamento anche
d'ufficio dei presupposti per la dichiarazione di fallimento (cfr.
per il principio generale, la sent. n. 1820/80, id., Rep. 1980, voce
Fallimento, n. 188), il quale mal si concilia con la limitazione
probatoria accennata, la motivazione con cui la corte d'appello
ha ritenuto inammissibile la prova si sottrae in concreto alle pro
poste censure per quanto riflette la dedotta violazione dell'art.
2723 c.c. (che riguarda la limitazione della prova testimoniale per i fatti posteriori alla formazione del documento).
In proposito la corte d'appello ha difatti osservato giustamente
che la prova per testi del pactum de non petendo doveva ritenersi
inammissibile in quanto non solo non erano stati indicati i credi
tori che avrebbero aderito al patto nonché le circostanze di tem
po e di luogo in cui l'accordo sarebbe stato concluso, né,
soprattutto, il termine di durata, ma non era altresì verosimile
che impegni di cosi vasta portata potessero essere stati assunti
solo verbalmente da banche e imprenditori dopo la stipulazione
dei mutui ipotecari.
Questa motivazione, neppure specificamente censurata dalla ri
corrente, è idonea a sorreggere il decisum, onde anche questo motivo di ricorso non merita accoglimento.
5. - Passando all'esame del primo motivo, con esso si assume
che la corte d'appello, incorrendo anche in difetto di motivazio
ne, ha confuso lo stato di insolvenza, presupposto necessario per
la dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 5 1. fall., con una
momentanea difficoltà economica che riguardava direttamente Elitre
società del gruppo e il socio dominante ed amministratore di fat
to della società ricorrente, la quale non versava in una cronica
incapacità di adempiere le proprie obbligazioni.
La censura è priva di fondamento. La corte d'appello, con mo
tivazione immune da vizi logici e giuridici, ha accertato lo stato
di illiquidità e quindi l'insolvenza della società ricorrente in base
ad una valutazione complessiva dei fatti ritenuti rilevanti al fine
del decidere (assoluta mancanza di liquidità che non consentiva
alla medesima di far fronte ai propri impegni in seguito alla ge
nerale chiusura creditizia operata da tutte le banche).
Al riguardo la corte ha correttamente applicato il principio se
condo cui lo stato di insovenza di un'impresa commerciale al fine
della dichiarazione di fallimento consiste in una situazione di im
potenza economica che si realizza quando l'imprenditore non
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3459 PARTE PRIMA 3460
è più in grado di adempiere regolarmente e con mezzi normali
le proprie obbligazioni, essendo venute meno le condizioni di li
quidità e di credito necessarie alla relativa attività commerciale,
rimanendo irrilevante che l'attivo sia superiore al passivo (sent.
1980/85, id., Rep. 1985, voce cit., n. 176; 2055/83, id., Rep. 1983, voce cit., n. 136; 3095/81, id., Rep. 1981, voce cit., n.
182; 1067/80, ibid., n. 138; 3198/79, id., Rep. 1979, voce cit., n. 119).
Le doglianze mosse in questa sede alla sentenza impugnata non
sono idonee a scalfire la congruità e correttezza della motivazio
ne adottata dalla corte d'appello. Anzitutto è da escludere che le ragioni che hanno determinato
il dissesto (nella specie, secondo la tesi della ricorrente, la contin
gente situazione economica di altre società del gruppo), possano essere rilevanti neanche sotto questo profilo al fine di disconosce
re i presupposti della dichiarazione di fallimento. Dalla disciplina risultante dagli art. 6, 7 e 8 1. fall, risulta, infatti, che, una volta
accertato lo stato d'insolvenza dell'imprenditore, il tribunale è
obbligato a dichiararne il fallimento, qualunque sia la ragione che in concreto l'abbia determinata non sussistendo al riguardo valutazioni di opportunità che la legge non prevede (sent. n.
1980/85 cit.). Inoltre, non ha pregio l'assunto secondo cui la corte d'appello
avrebbe omesso di motivare nel punto decisivo che per le società
aventi ad oggetto attività edilizia — come appunto la ricorrente — il ciclo produttivo che consente il pagamento dei creditori si
realizza normalmente con la vendita degli immobili sociali, i qua li erano tutti nel patrimonio della società al momento della sua
dichiarazione di fallimento, onde prima di tale vendita poteva ritenersi fisiologica una sua illiquidità.
In contrario si osserva che, come risulta dalla motivazione del
l'impugnata sentenza, il programma costruttivo è stato interrotto
e non si è potuto concretamente realizzare non in seguito alla
dichiarazione di fallimento, ma per uno stato di impotenza eco
nomica della società che si era manifestato già prima con la gene ralizzata chiusura creditizia.
Né può replicarsi con fondamento che l'insufficienza dell'in
solvenza sarebbe attestata dal non avere alcun creditore presenta to istanza di fallimento, trattandosi di circostanza che — come
giustamente osservato dalla corte d'appello — deve ritenersi del
tutto irrilevante in base alla disciplina dell'art. 6 1. fall, che legit tima la procedura di ufficio della dichiarazione di fallimento da
parte del tribunale, a seguito della legale conoscenza della situa
zione di dissesto, indipendentemente dall'iniziativa di parte. 6. - In definitiva, sottraendosi la sentenza impugnata alle pro
poste censure, il ricorso deve essere respinto.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 3 feb
braio 1989, n. 671; Pres. Brancaccio, Est. Sammartino, P.M.
Sgroi V. (conci, conf.); Morseletto (Avv. Petrini, Leevore) c. Grassi (Avv. Mozzi, Caracuzzi). Cassa App. Venezia 30
luglio 1983.
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 3 feb
braio 1989, n. 670; Pres. Brancaccio, Est. Sammartino, P.M.
Sgroi V. (conci, conf.); Lamprecht (Aw. Pacifici) c. Pichler
(Aw. Marucchi). Cassa App. Trento 30 giugno 1983.
Intervento in causa e litisconsorzio — Servitù — Passaggio coat
tivo — Integrazione del contraddittorio — Necessità — Fatti
specie (Cod. proc. civ., art. 102; cod. civ., art. 1051).
Nel caso in cui tra il fondo intercluso e la via pubblica si frap
pongano in consecuzione tra loro una pluralità di fondi, la do
manda diretta alla costituzione di una servitù di passaggio che
implichi l'attraversamento di quei fondi deve essere proposta nei confronti di tutti i loro proprietari in qualità di litisconsorti
Il Foro Italiano — 1989.
necessari, tenuto conto che la sentenza emessa nei confronti di alcuni soltanto di essi non produrrebbe l'effetto che l'attore
si ripromette, rimanendo altresì insuscettibile di esecuzione. (1)
(1) I. - Le sentenze delle sezioni unite di Cassazione (della sent. 670/89
riproduciamo il Processo, ma non i Motivi identici a quelli della sent.
671/89), decidendo sul problena della necessità di integrazione del con
traddittorio nei confronti di tutti i proprietari dei fondi su cui debba
svolgersi il tracciato di una servitù coattiva di passaggio ex art. 1051 c.c., sembrano comporre un contrasto più dottrinario che giurisprudenziale. Come rilevano anche le sezioni unite in motivazione, la giurisprudenza della corte ha ripetutamente negato il ricorrere di un'ipotesi di litiscon
sorzio necessario tra tutti i proprietari dei fondi interposti tra quello in
tercluso e la via pubblica nel giudizio per la costituzione della servitù
di passaggio coattivo (v., oltre alle numerose pronunce citate in motiva
zione: Cass. 24 ottobre 1985, n. 5222, Foro it., Rep. 1985 voce Servitù, n. 8; 9 giugno 1983, n. 3958, id., Rep. 1983, voce cit., n. 14; 21 luglio 1980, n. 4778, id., Rep. 1980 voce Intervento in causa, n. 33), mentre
le uniche pronunce che sembrano discostarsi da tale uniforme orienta
mento giurisprudenziale sono Cass. 5 aprile 1984, n. 2205, id., Rep. 1984, voce Servitù, n. 25 (citata anche dalle sezioni unite); 14 luglio 1980, n.
4515, id., Rep. 1980, voce cit., nn. 25, 26 (non richiamata invece dalle
sezioni unite). Nel panorama giurisprudenziale esistente, la decisione del
le sezioni unite di ravvisare nella fattispecie in esame un caso di litiscon
sorzio necessario, costituisce un indubbio cambiamento di indirizzo che
trae probabilmente spunto dal vivace dibattito che la dottrina ha svilup
pato sul punto. Alcuni autori hanno infatti sostenuto che il caso di specie costituirebbe
una tipica ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale cosicché la costi
tuzione del passaggio coattivo potrebbe realizzarsi soltanto attraverso la
chiamata in causa ex art. 102, 2° comma, c.p.c. di tutti i proprietari dei terreni che si susseguono tra il fondo intercluso e la via pubblica
(v. Messineo, Le servitù, Milano, 1949, 215; Branca, Servitù, in Com
mentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, sub art. 1051, 186; Fa
vara, in Riv. giur. edilizia, 1965, I, 1391; Schermi, in Giur. agr. it.,
1957, 500). In particolare si è rilevato che «la servitù (di passaggio coattivo) viene
imposta dalla legge in quanto si concreti nel mettere in comunicazione diretta il terreno intercluso con la via: posto ciò, come si potrebbe ordi
nare la costituzione del passaggio su un terreno che da solo non basta
a soddisfare quei bisogni del fondo dominante in nome dei quali si ricor
re alla norma in esame (art. 1051 c.c.)?» (cfr. Branca, op. cit., 188). Tuttavia, alla luce della giurisprudenza, anche in dottrina sembra pre
valere l'opinione che non è inutiliter data la sentenza pronunciata nei
confronti di alcuni soltanto dei proprietari soggetti all'attraversamento
coattivo, potendo il proprietario del fondo dominante provvedere separa tamente in via giudiziale o convenzionale nei confronti dei proprietari
pretermessi (cosi: Tamburrino, Le servitù, in Giur. sist. civ. comm. fon
data da W. Bigia vi, Torino, 1977, 581; Alvino, Determinazione deI pas saggio coattivo nell'ipotesi di più fondi intercludenti dal confine del fon do intercluso alla via pubblica, in Giust. civ., 1973, I, 659; B. Biondi, Le servitù, in Trattato diretto da Cicu-Messineo, Milano, 1967, XII, 863
ss.). Si è precisato anche che, pur se «la servitù non raggiunge lo scopo
pratico che si proponeva il richiedente, cioè l'uscita sulla pubblica via
(. . .) ciò non porta ad escludere la servitù sul fondo giacché lo scopo pratico si raggiunge per mezzo di separati giudizi verso i proprietari degli altri fondi. Né si obietti il principio dell'indivisibilità giacché nel caso
presente abbiamo non un'unica servitù ma una pluralità di servitù con nesse in quanto tendenti al medesimo scopo» (cfr. Biondi, op. cit., 867). Nel timore che eventuali successivi giudizi per costituire il passaggio su tutti i fondi intermedi tra il terreno intercluso e la via pubblica possano concludersi con giudicati confliggenti, taluno ha ritenuto in questo caso necessario l'intervento iussu iudicis dei proprietari pretermessi ai sensi dell'art. 107 c.p.c. (v. Albano, Della proprietà, in Commentario Utet, Torino, 1958, III, tomo II, 415, n. 38).
II. - Avvertita l'esigenza di premettere alla decisione del caso di specie alcune considerazioni generali sul problema della natura giuridica del litis consorzio necessario, le sezioni unite della Cassazione risolvono il proble ma della determinazione dei casi in cui ricorre il litisconsorzio necessario ricorrendo al concetto-chiave di utilità della sentenza, di cui offrono una definizione che sembra essere stata mutuata quasi letteralmente dalle pa gine di un recente studio sul litisconsorzio ove significativamente si legge che l'utilità della sentenza sarebbe costituita «dall'idoneità» della pro nuncia stessa «a fornire all'attore quello che egli avrebbe diritto a conse
guire alla stregua delle disposizioni sostanziali» (G. Costantino, Contri buto allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979, 468).
Le sezioni unite sembrano tuttavia aver frainteso il pensiero dell'autore cui pare si siano rifatte allorché, dopo aver definito l'utilità della senten za come misura della capacità che essa può avere «a produrre l'effetto che l'attore si è ripromesso col domandarla», escludono a priori che pos sa avere una qualche utilità la sentenza emessa a contraddittorio non
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