sezione I civile; sentenza 24 giugno 1989, n. 3099; Pres. Sensale, Est. Senofonte, P. M. Amirante(concl. diff.); Proc. gen. App. Roma c. Battaglia (Avv. Allocca, Silenzi), Bernabeo. ConfermaApp. Roma 23 novembre 1987Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1989), pp. 2137/2138-2141/2142Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23184083 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
tale obiezione appare ugualmente superabile, ricollegandoci ancora una volta a quanto già detto in precedenza. Si è infatti chiarito che il conferi mento alle regioni, ad opera del governo, dei poteri necessari per la diret ta stipulazione di accordi nelle materie di loro competenza, non potrebbe che configurarsi come una variante del procedimento di conclusione del
l'accordo in forma semplificata, ovvero, con maggior esattezza, come una delle possibili forme di gestione di tale procedimento da parte del
governo stesso. Se questo è vero, ne consegue allora che anche in relazio ne ad una prassi di tal genere dovrebbe valere, in linea di principio, quanto è pacificamente sostenuto, sia pure in base a giustificazioni di varia spe cie, con generale riferimento alla prassi governativa degli accordi in for
ma semplificata; e cioè, che detti accordi possano essere legittimamente
conclusi, anche a prescindere dall'intervento del capo dello Stato, purché al di fuori dei casi previsti dall'art. 80 Cost. (56).
Le suddette considerazioni, se per un verso contribuiscono ad eliminare
un ulteriore impedimento in ordine alia compatibilità della fattispecie in
esame con i principi in tema di stipulazione dei trattati, ci inducono tutta
via a concentrare l'attenzione sul secondo dei profili indicati, relativo
alla conciliabilità di quest'ultima con i principi che, più in generale, pre siedono all'esercizio di competenze di rango costituzionale.
A tal proposito è necessario avvertire sin d'ora che la risposta da darsi
non appare altrettanto positiva e che, anzi, vista in quest'ottica, l'ipotesi della diretta conclusione di accordi internazionali da parte delle regioni sembra incontrare ostacoli difficilmente sormontabili, perlomeno nei li
miti della vigente Costituzione formale.
Anche a voler ricondurre tale ipotesi nel quadro di un più ampio pro cedimento di stipulazione dell'accordo in forma semplificata a direzione
governativa, ci pare che un elemento in particolare sia decisivo in tal
senso. Non può infatti trascurarsi che detto procedimento si fonderebbe
sul presupposto di una delega, rilasciata dal governo alle regioni, in ordi
ne alla fase di negoziazione e di conclusione di singoli accordi nelle mate
rie di loro competenza; di una delega, cioè, che, sia pure nei limiti in
cui la si è ricostruita, avrebbe ad oggetto l'esercizio di competenze che
il nostro sistema costituzionale affida, in linea di principio, agli òrgani centrali dello Stato.
In base a quanto si è appena detto possono allora agevolmente com
prendersi le ragioni che inducono a dubitare della costituzionalità del pro cedimento cui ci si riferisce. È evidente infatti che il nocciolo della questione, da un punto di vista rigorosamente formale, consiste nel chiedersi se il
governo possa legittimamente disporre del suo potere di concludere ac
cordi in forma semplificata nei termini appena indicati, delegando cioè
ad organi regionali la negoziazione e la stipulazione di singoli accordi
relativi a materie di competenza delle regioni stesse.
Tale possibilità risulta invero difficilmente accettabile, anche a prescin dere dal diverso fondamento giuridico che si ritenga attribuibile alla pras si degli accordi in forma semplificata, sia cioè che si ritenga che l'esecutivo
sia titolare di una competenza propria (57) in tal senso, sia che si affermi
invece — conformemente a quanto nuovamente ipotizzato da autorevole
ché, Caruso, Competenza a stipulare, cit., 180 ss. Ugualmente discussa
è la questione, se l'intervento del capo dello Stato sia costituito della
volontà dello Stato stesso (cosi ad es. Perassi, Cassese, Caruso, op. loc. cit.), ovvero ne rappresenti semplice manifestazione nei confronti
degli altri Stati (Franchini, op. cit., 28 ed autori ivi richiamati, nota 5).
(56) È questa infatti l'opinione assolutamente prevalente (contra, il so
lo Giannini, Il controllo parlamentare della politica estera e dei trattati
in Rass. dir. pubbl., 1950, 100 ss.) sull'argomento in esame, riconducibile
a tre gruppi di differenti giustificazioni. Da una parte si sostiene che
il potere del governo in materia tragga legittimazione dalla prassi costitu zionale (cosi, esplicitamente, Caruso, op. loc. cit.), ricondotta a sua vol
ta, ora allo schema di una consuetudine costituzionale, «integrativa»
(Monaco, La ratifica, cit., 660 ss., che estende però l'operatività di tale
consuetudine anche ai casi di cui all'art. 80) o «facoltizzante (Marchisio, Sulla competenza del governo a stipulare accordi in forma semplificata, in Riv. dir. internaz., 1976, 533 ss.), ora al diverso concetto di convenzio
ne costituzionale (Franchini, op. cit., 36 ss.). D'altra parte, il fenomeno
in esame è ricondotto invece ad una delega di poteri rilasciata tacitamente
da parte del capo dello Stato al governo (Udina, Gli accordi internazio
nali in forma semplificata, in Riv. dir. internaz., 1961, 211), ovvero ai
singoli ministri all'atto della loro nomina (Giuliano, op. ult. cit., 17). Più corretta, perlomeno in relazione al carattere rigido della nostra Costi
tuzione (seppur non scevra da seri dubbi interpretativi, su cui v. ancora
Giuliano, cit., 16), ci appare l'opinione secondo cui la competenza del
governo a concludere accordi in forma semplificata deriverebbe dalla Co
stituzione stessa, prevedendo quest'ultima la necessità della ratifica solo
per i casi previsti dall'art. 80 (Cassese, Commento, cit., 226 ss., spec.
230, nonché, in adesione, Conforti, in Dir. internaz., cit. 71). Si richia
ma ad un criterio di parallelismo tra competenze «interne» ed «esterne»
dei singoli ministri, B. Allara, Gli accordi in forma semplificata nella
Costituzione italiana, in Dir. internaz., 1971, 100 ss.
(57) Ci si riferisce agli autori citati alla nota precedente, secondo i quali il potere del governo deriverebbe direttamente dalla Costituzione, ovvero
da una prassi di rango costituzionale variamente configurata.
Il Foro Italiano — 1989.
dottrina — che tale competenza sia il frutto di una delega da parte del
capo dello Stato (58). Nel primo caso ci pare che il dubbio sulla legittimità costituzionale
della fattispecie in esame sia chiaramente giustificato dal contrasto di que st'ultima con il principio della non delegabilità di competenze costituzio nali da parte degli organi che ne siano titolari. Principio, nel cui ambito di applicazione sembra appunto rientrare tale fattispecie, in assenza di
qualsiasi, espressa previsione costituzionale in senso contrario (59). Anche a partire dall'opposta e discutibile premessa della delegabilità
della competenza a negoziare e a concludere accordi internazionali —
premessa che sarebbe alla base della competenza a stipulare accordi in forma semplificata da parte dell'esecutivo — ci sembra però che la con clusione non possa essere diversa. Ad ostacolare la legittimità della diret ta negoziazione e conclusione di accordi da parte delle regioni si porrebbe infatti il medesimo presupposto appena indicato; ciò in quanto l'esecuti vo o i singoli ministri non potrebbero ulteriormente delegare l'esercizio di competenze di cui essi stessi non dovrebbero considerarsi titolari.
Pasquale de Sena
(58) Cosi', in particolare Giuliano, op. cit., alla nota 56, il quale mette inoltre finemente in evidenza come tale delega (in mancanza di un espres so divieto costituzionale) trovi ulteriore giustificazione nel fatto che il
capo dello Stato, riunciando alla ratifica dei trattati al di fuori dei casi di cui all'art. 80, rinuncia in realtà all'esercizio di una competenza che
comunque si tradurrebbe in atti che non sono «intrinsecamente suoi pro pri», ma «sostanzialmente di governo». Tale autore si richiama inoltre
all'analoga tesi sostenuta da Donati (/ trattati internazionali nel diritto
costituzionale, Torino, 1906, 260) sotto l'imperio di un regime costituzio nale «flessibile», quale quello dello statuto albertino.
(59) Ci sembra infatti che in un regime costituzionale rigido, come quello vigente, debba, a maggior ragione, valere quanto è sostenuto con genera le riferimento all'uso della delega, in deroga a competenze normativa mente fissate: e cioè, appunto, l'esigenza di una previsione normativa che lo consenta espressamente, non risultando sufficiente invece la mera assenza di un esplicito divieto (su questo punto, v. ancora Miele, Delega, cit.). Il principio della non delegabilità delle competenze di rango costitu zionale è del resto alla base della pacifica inammissibilità della c.d. «sup plenza parziale» dei poteri del presidente della repubblica su cui, per tutti, G.U. Rescigno, in Commentario della Costituzione, cit., 113, sub art. 87 (al quale si rinvia anche per ulteriori indicazioni bibliografiche).
CORTE DI CASSAZIONE; CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 24 giugno
1989, n. 3099; Pres. Sensale, Est. Senofonte, P. M. Amiran
te (conci, diff.); Proc. gen. App. Roma c. Battaglia (Aw. Al
locca, Silenzi), Bernabeo. Conferma App. Roma 23 novembre
1987.
Matrimonio — Matrimonio concordatario — Nullità — Sentenza
ecclesiastica — Delibazione — Procedimento — Rito camerale — Applicabilità — Condizioni — Fattispecie (L. 25 marzo 1985
n. 121, ratifica ed esecuzione dell'accordo, con protocollo ad
dizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984 che apporta mo
dificazioni al concordato lateranense dell'11 febbraio 1929 tra
la Repubblica italiana e la Santa Sede: accordo, art. 8). Matrimonio — Matrimonio concordatario — Nullità per esclu
sione di uno dei «bona matrimonii» — Sentenza ecclesiastica — Delibazione — Convivenza coniugale successiva alla cele
brazione — Contrasto con l'ordine pubblico italiano — Insus
sistenza.
Il procedimento di delibazione di sentenza ecclesiastica dichiarati
va della nullità di matrimonio concordatario, instaurato (dopo
l'entrata in vigore delle modifiche al concordato con la Santa
Sede di cui all'accordo di Roma del 18 febbraio 1984, ratifica
to, unitamente al protocollo addizionale, con la l. 25 marzo
1985 n. 121), con ricorso sottoscritto del procuratore di una
parte, dopo aver ottenuto la informale adesione preventiva del
l'altra, è soggetto al rito camerale. (1)
(1) La prima sezione ha esteso alla fattispecie (caratterizzata da infor
male accordo preventivo delle parti sulla richiesta di delibazione di sen
tenza ecclesiastica dichiarativa di nullità di matrimonio concordatario, ritualmente formulata da una soltanto di esse), i principi enunciati da
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2139 PARTE PRIMA 2140
La sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di matrimonio
concordatario per esclusione unilaterale di uno dei bona matri
monii, manifestata all'altro coniuge, non contrasta con l'ordi
ne pubblico italiano, perché emessa nonostante la convivenza
coniugale successiva alla celebrazione, e può essere, quindi, de
libata in Italia. (2)
Svolgimento del processo. — Giuseppe Battaglia e Maria Bar
nabeo, con un primo ricorso, congiunto, sottoscritto personal
mente, hanno chiesto alla Corte d'appello di Roma di dichiarare
efficace in Italia, con rito camerale, la sentenza del Tribunale
ecclesiastico della regione Lazio (datata 20 gennaio 1986 e con
fermata dalla Sacra Romana Rota in data 2 dicembre 1986), con
la quale è stato dichiarato nullo il matrimonio concordatario da
essi contratto in Roma il 25 aprile 1982. Con successivo ricorso,
sottoscritto da procuratore, il Battaglia ha reiterato la domanda.
Altro ricorso è stato proposto allo stesso fine da preteso procura tore della Bernabeo, la cui procura, peraltro, non risulta dagli atti.
La corte territoriale, con la sentenza del 23 novembre 1987,
ora impugnata, ha accolto la domanda.
Avverso questa sentenza il procuratore generale presso il giudi ce a quo ha proposto ricorso per cassazione affidato a due moti
vi, con i quali, rispettivamente, deduce: 1) nullità del procedimento di delibazione, per essere stato applicato il rito camerale, in luo
go di quello contenzioso, prescritto — secondo il ricorrente dal
l'art. 8, n. 2, dell'accordo tra l'Italia e la Santa Sede firmato
a Roma il 18 febbraio 1984 (in vigore dal 3 giugno 1985) e dal l'art. 4/b del relativo protocollo addizionale, che richiama, tra
l'altro, l'art. 796 c.p.c. il cui 1° comma dispone che la domanda
di delibazione deve essere proposta con citazione, seguita, ovvia
mente, dal rito ordinario; 2) violazione dell'art. 797, n. 7, c.p.c. e dell'art. 123, 2° comma, c.c., per essere stata la sentenza eccle
siastica delibata, ancorché contraria all'ordine pubblico italiano, in quanto emessa tra coniugi convissuti dopo la celebrazione del
matrimonio. Il Battaglia resiste con controricorso, la Bernabeo
non si è costituita.
Motivi della decisione. — Il primo motivo non è fondato.
La questione con questo mezzo riproposta dal p.m. ricorrente
è stata recentemente decisa dalle sezioni unite di questa corte con
le sentenze n. 1212 e 2164 del 1988 (Foro it., Rep. 1988, voce
Matrimonio, nn. 116, 113), le quali hanno statuito che, nel caso
di rituale accordo delle parti su\\'exequatur, si applica il rito ca
merale (già previsto dall'art. 17 della legge matrimoniale 847/29
e dall'abrogato, in parte qua, art. 34 del concordato lateranense), non profilandosi in siffatta evenienza, alcun conflitto di interessi
in grado di attivare il rito contenzioso.
E quanto al richiamo dell'art. 796 c.p.c. da parte dell'art. 4/b
del protocollo addizionale, le sezioni unite hanno precisato che
Cass. 1° marzo 1988, n. 2164 e 5 febbraio 1988, n. 1212, Foro it., Rep. 1988, voce Matrimonio, nn. 113 - 115, 116, 117, a proposito dell'applica bilità del rito camerale (sulle cui caratteristiche, da ultimo, Fazzalari, Procedimento camerale e tutela dei diritti, in Riv. dir. proc., 1988, I, 909 ss.; adde, con specifico riferimento alla questione della necessità del
patrocinio professionale nelle procedure in camera di consiglio, Laudisa, voce àe\\'Enciclopedia giuridica Treccani, 1988, V, 3) al procedimento di delibazione, instaurato, nel vigore della 1. n 121 del 1985, mediante ricorso di entrambi i coniugi. «L'accordo delle parti su\\'exequatur» —
ha rilevato la sentenza in rassegna — «può risultare, se non formalizzato in un ricorso congiunto, anche da ricorsi unificati, ovvero dall'adesione
certa, preventiva (come nella specie) o successiva, di una parte al ricorso
presentato dall'altra, non potendosi dubitare che anche in questi casi (ul teriori) si sia formato sulla domanda di delibazione l'accordo che rende
praticabile il rito camerale». E il rilievo, come avvertito, del resto, nella
parte motiva della riportata pronuncia, contraddice quelle precisazioni delle richiamate sentenze 1212 e 2164 del 1988 per le quali, nella vigenza della ripetuta 1. n. 121 del 1985, deve negarsi «ogni influenza alla circo stanza che uno dei coniugi, in sede di convocazione personale abbia af fermato di aderire alla richiesta di esecutività, atteso che tale enunciazione,
pure se in ipotesi munita dei connotati della domanda giudiziale, non
potrebbe comunque costituire valido atto d'impulso processuale, per la rilevata inammissibilità della forma del ricorso e del rito camerale quan do non vi sia una concorde istanza di entrambi i coniugi».
(2) Cass. 20 luglio 1988, n. 4700, della quale la sentenza ha recepito in parte qua le enunciazioni, è riportata in Foro it., 1989, I, 427, con nota di E. Quadri, Impressioni sulla nuova giurisprudenza delle sezioni unite in tema di convivenza coniugale e delibazione delle sentenze eccle siastiche di nullità matrimoniale.
Il Foro Italiano — 1989.
tale richiamo, inscindibile da quello — contestuale — al successi
vo art. 797, non osta all'adozione del rito camerale, dovendosi
intendere «finalizzato all'esigenza di adattamento dell'intera pro
cedura del codice di rito, in tema di dichiarazione d'efficacia del
la sentenza straniera, alla direttiva di «specificità» dell'ordinamento
canonico, per quanto attiene alì'exequatur della sentenza eccle
siastica» (conf. Cass. 140/88, ibid., n. 118). Può aggiungersi, per completezza, che il riferimento all'art. 796
cit. si inserisce, sotto altro aspetto, coerentemente nel quadro delle
modificazioni apportate dall'accordo del 1984 al concordato late
ranense, raccordandosi al (e ulteriormente esplicitando il) princi
pio dell'impulso di parte, nuovo nella materia, ma codificato dalla
norma interna e ad essa attinto dalle parti contraenti, prescinden do dalla forma della domanda. Relativamente alla quale le sezio
ni unite si sono date, peraltro, carico di specificare che, comunque,
la parte «in tanto può stare in giudizio davanti ad un giudice
collegiale in quanto sia assistita da procuratore legalmente eser
cente ex art. 82, 3° comma, c.p.c.»: vuol dire che, ferma restan
do la forma della citazione nel caso di accordo mancato, o non
debitamente manifestato, sulla delibazione, ove esso intervenga e si renda, quindi, praticabile il rito camerale, il ricorso introdut
tivo deve essere sottoscritto dal difensore.
Le ragioni sistematiche di questa proposizione non sono state
esplicitate, ma esse sono facilmente individuabili.
A prescindere, infatti, dalla questione di principio (sulla quale la dottrina è divisa e sulla quale questa corte si è di recente pro
nunciata, in senso negativo, con la sentenza n. 5814 del 1987,
id., Rep. 1987, voce Agricoltura, n.lll) relativa alla necessità
del patrocinio legale nel procedimento camerale tipico, disciplina to dagli art. 737 ss. c.p.c. e modellato su fattispecie di giurisdi zione volontaria, non identificabili con le vere e proprie
controversie, non pare dubbio che, laddove nel suo stampo siano
calate (per proliferanti opzioni legislative, stimolate da apprezza bili esigenze di speditezza, ultimamente tradotte nel testo novella
to dell'art. 710 c.p.c., ad opera della 1. n. 331 del 19 luglio 1988) situazioni sostanziali soggettivate in diritti o status, l'archetipo debba arricchirsi delle forme necessarie per adeguare la camera
lizzazione della procedura (in materie estranee al suo terreno di
elezione) all'oggetto del giudizio e renderla, quindi, con esso com
patibile attraverso l'apporto di un coerente tasso di giurisdiziona lizzazione del modello originario.
Per questo, non si ritiene di poter condividere la citata senten
za 5814/87 nella parte in cui, muovendo dalla (discutibile) pre messa che l'onere del patrocinio non si configuri, in via di massima, nel procedimento camerale, propone di applicare la stessa regola nei casi di «giudizi» (in senso tecnico) cameralizzati e di prende
re, quindi, acriticamente atto della scelta del legislatore senza con
testarla interpretativamente con le addizioni reclamate dal
particolare oggetto, tra le quali rientrano, sicuramente e indero
gabilmente, quelle relative al modo di stare in giudizio, con la
conseguenza che l'atto introduttivo deve essere necessariamente
sottoscritto dal difensore (art. 82 e 125 c.p.c.). Alla stregua di questi principi, deve ritenersi, nel caso di spe
cie, regolarmente sottoscritto solo il secondo ricorso presentato dal Battaglia, recando il primo le sottoscrizioni personali delle
parti e dovendosi, perciò, considerare insanabilmente nullo o ine
sistente (Cass. 3939/77, id., Rep. 1977, voce Procedimento civile, n. 94; 2137/74, id., Rep. 1974, voce cit., n. 147), al pari di quello sottoscritto per la Barnabeo dal difensore privo di procura (Cass.
2986/79, id., Rep. 1979, voce cit., n. 122; 1978/77, id., Rep.
1977, voce cit., n. 5; 334/73, id., 1973, I, 1823, e altre). Occorre quindi, chiedersi, e rimane da accertare, se il procedi
mento di delibazione sia stato ritualmente introdotto dal residuo
ricorso del (solo) Battaglia (sottoscritto dal procuratore). La risposta deve essere positiva, poiché, astraendo dal rigori
smo esibito da talune enunciazioni generalizzanti contenute nelle
citate sentenze delle sezioni unite occasionate, peraltro, dall'ano
malia di un procedimento inspiegabilmente attivato d'ufficio), l'ac
cordo delle parti sull'exequatur può risultare, se non formalizzato
in un ricorso congiunto, anche da ricorsi unificati ovvero dall'a
desione certa, preventiva (come nella specie) o successiva, di una
parte al ricorso presentato dall'altra, non potendosi dubitare che
anche in questi casi (ulteriori) si sia formato sulla domanda di
delibazione l'accordo che rende praticabile il rito camerale.
Il primo motivo deve essere, pertanto, rigettato. Infondato è anche il secondo motivo. L'indirizzo segnato dalla
sentenza 5354/87 (id., 1988, I, 474) della prima sezione, di cui
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
il mezzo si nutre, è stato, infatti, motivatamente disatteso dalla
successiva sentenza 4700/88 (id., 1989,1, 1427) delle sezioni unite
di questa corte, secondo la quale «la convivenza tra i coniugi, intervenuta successivamente alla celebrazione del matrimonio, è
ostativa all'impugnazione del matrimonio civile, ai sensi dell'art.
123, 2° comma, c.c., seppure si pone come una norma imperati va interna, non costituisce espressione di principi o di regole fon
damentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato
delineano l'istituto del matrimonio», poiché né la prima né le
seconde forniscono indicazioni univoche sulla iscrivibilità tra sif fatti principi o regole di un'asserita prevalenza del matrimonio — rapporto sul matrimonio — atto, si da rendere irrilevante an
che nelle relazioni interordinamentali l'insolidità di quest'ultimo. Di conseguenza, la sentenza ecclesiastica che (come nel caso
di specie) abbia dichiarato la nullità del matrimonio religioso per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, non rimasta
nella sfera psichica del suo autore, ma manifestata all'altro co
niuge, non può dirsi contraria, malgrado l'intervenuta conviven
za fra gli stessi, all'ordine pubblico italiano e può essere, quindi, dichiarata esecutiva nella repubblica italiana.
Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; ordinanza 21 giugno
1989, n. 398; Pres. e rei. Buccarelli, P.M. Martinelli (conci,
diff.); Pirrò (Aw. A. Neri, Franchi) c. Soc. Generale Super mercati (Aw. G. Pezzano, Cella).
Lavoro (collocamento e mobilità della mano d'opera) — Assun
zioni obbligatorie — Invalidi civili affetti da minorazioni di
natura psichica — Esclusione — Questione non manifestata
mente infondata di costituzionalità (Cost., art. 1, 3, 4, 35, 38;
1. 2 aprile 1968 n. 482, disciplina generale delle assunzioni ob
bligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le aziende pri
vate, art. 5).
Non è manifestamente infondata, in riferimento agli art. 1, 3,
4, 35 e 38 Cost., la questione di legittimità costituzionale del
l'art. 5 l. 2 aprile 1968 n. 482, nella parte in cui esclude, dal
l'ambito di applicazione delle assunzioni obbligatorie, gli invalidi
civili affetti da minorazione di natura psichica, a seguito della
sentenza della Corte costituzionale (n. 1088/88), che prospetta una propria pronuncia di accoglimento ove dovesse essere nuo
vamente investita di detta questione. (1)
Fatto. — Con ricorso al Pretore (del lavoro) di Milano, in data
29 ottobre 1985, Pirrò Vittorio, invalido civile (affetto da oligo
frenia) avviato obbligatoriamente al lavoro (ex 1. 482/68) presso
(1) L'ordinanza consituisce sviluppo coerente della sentenza n. 1088/88
della Corte costituzionale (Foro it., 1989, I, 980, con nota di richiami
ed osservazioni di M. De Luca). La questione di legittimità costituzionale (dell'art. 5 1. 482/68), pro
spettata dall'ordinanza, non poteva, infatti, non essere sollevata una vol
ta che la stessa Corte costituzionale (nella sentenza testé citata) ne aveva
anticipato l'accoglimento, ove fosse stata nuovamente proposta, pur di
chiarandone — «allo stato» — la «non fondatezza».
Tale «monito ultimativo» della corte — permanendo l'inerzia del legis latore — rendeva, infatti, la questione «manifestamente fondata».
Scontata risulta, quindi, la pronuncia di accoglimento della corte, ove
l'inerzia del legislatore dovesse proseguire ulterioremente.
Il meccanismo del «monito ultimativo» — che arricchisce la gamma
tipologica di pronunce della corte (sul punto, vedi riferimenti nella nota
di richiami a Corte cost. 1088/88, cit.) — risulta, quindi, particolarmente efficace per accelerare la «conformazione» dell'ordinamento alla Costi
tuzione. Resta da domandarsi, tuttavia, se la presumibile pronuncia (interpreta
tiva di accoglimento) della corte possa, nel caso che ci occupa, costituire
valida alternativa rispetto alla «articolata» disciplina legislativa, che la
stessa corte ha, ripetutamente quanto vanamente, auspicato (sulla rifor
ma del collocamento obbligatorio, risultano attualmente presentati al se
nato i seguenti disegni di legge: n. 293 d'iniziativa dei senatori Saporito ed altri; n. 347 d'iniziativa dei senatori Antoniazzi ed altri; n. 864 d'ini
ziativa dei senatori Mannino ed altri; n. 1251 d'iniziativa del senatore
Pollice).
Il Foro Italiano — 1989.
la soc. Generale Supermercati s.p.a., ma da questa rifiutato, chie
deva, convenendo in giudizio la società anzidetta, che venisse co
stituito il rapporto di lavoro ex art. 2932 c.c. e che venisse
comunque accertato l'obbligo della società medesima all'assun
zione; con condanna (in ogni caso) di questa al risarcimento dei
danni subiti.
Nel costituito contraddittorio, l'adito pretore rigettava la do
manda — per avere ritenuto illegittimo l'avviamento — per la
riscontrata illegittimità dello «scorrimento» in base al quale l'av
viamento era stato in concreto disposto. La sentenza, pronunciata in data 22-24 gennaio 1986, appellata
dal lavoratore, veniva poi confermata (ma con diversa motivazio
ne) dal Tribunale di Milano che, nel ricostituito contraddittorio,
rigettava la domanda con decisione 9 maggio - 10 ottobre 1987.
Osservava in motivazione il tribunale che la domanda non po
teva trovare accoglimento non tanto per i motivi enunciati dal
primo giudice (in tema di illegittimità dell'atto di avviamento per
illegittimità dello «scorrimento» dei soggetti appartenenti ad una
categoria rispetto a quelli appartenenti a categoria diversa) quan to (in via pregiudiziale ed assorbente) per la non applicabilità
dei benefici del collocamento obbligatorio — nel caso concreto — in cui era risultato, dagli accertamenti tecnici espletati, che
il lavoratore invalido era portatore di una minorazione di natura
psichica. E ciò in linea con i principi di diritto enunciati in mate
ria della Corte costituzionale e dalla giurisprudenza di questa stessa
corte, secondo i quali gli «invalidi» affetti da infermità «psichi
ca» erano esclusi dalla tutela apprestata dalla legge (482/68) a
favore soltanto degli invalidi affetti da minorazione «fisica».
Contro tale decisione propone ricorso per cassazione Pirro Vit
torio e deduce un unico complesso motivo di annullamento, va
riamente articolato. Resiste con controricorso la soc. Generale
Supermercati, regolarmente costituita.
Diritto. — Con l'unico motivo del ricorso, denunziata viola
zione dell'art. 5 1. 482/68 e proponendo, in subordine (in caso
di adesione al giudizio conclusivo del tribunale), questione di le
gittimità costituzionale di tale norma per violazione del precetto
di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., si duole il ricorrente della
sentenza impugnata per avere il tribunale ritenuto di escludere
nell'ambito della tutela apprestata dalla legge sulle assunzioni ob
bligatorie gli invalidi affetti di minorazione «psichica», rigettan
do cosi ingiustamente la domanda presentata dal lavoratore
«protetto» avviato, ma ingiustificatamente non assunto dall'azienda
presso la quale lo stesso era stato assegnato.
Dopo avere posto in rilievo l'impossibilità, su di un piano rigo
rosamente scientifico, di una netta distinzione tra invalidi «fisici»
ed invalidi «psichici» (in quanto la minorazione psichica deriva,
pur sempre nella generalità dei casi, da una infermità di natura
essenzialmente «fisica») deduce in particolare il ricorrente che la
legge sulle assunzioni obbligatorie, se correttamente interpretata
(nella sua complessiva portata sistematica ed alla luce della sua
ratio), estende indiscutibilmente l'ambito di applicazione dei «be
nefici» da essa previsti anche agli invalidi affetti da minorazione
psichica. Diversamente opinando (secondo il censurabile giudizio al ri
guardo proposto dal tribunale) la legge, cosi erroneamente inter
pretata, violerebbe il precetto costituzionale di eguaglianza posto
dalla Costituzione nei riguardi indistintamente di tutti i cittadini,
perché si avrebbe di conseguenza una ingiustificata disparità di
trattamento nei riguardi di una stessa categoria di «invalidi» (ci
vili) i quali, se affetti da una minorazione «psichica», sarebbero
ingiustificatamente esclusi dai benefici del collocamento «obbli
gatorio». Non senza considerare, aggiunge il ricorrente, che il vigente
«sistema» del collocamento obbligatorio (integrato dalle leggi spe
ciali che disciplinano l'avviamento di alcune particolari categorie
di «invalidi») prevede l'avviamento di soggetti «invalidi» appar tenenti a categorie diverse (invalidi civili, di guerra, del lavoro,
ecc.) anche se affetti da minorazione di natura «psichica». Di
guisa che, nell'ambito di tale «sistema», si avrebbe una ingiustifi
cata disparità di trattamento anche tra «invalidi» affetti da una
identica malattia (psichica), ma appartenenti a categorie diverse.
La questione (rilevante nel presente giudizio) non è manifesta
mente infondata.
È noto il (costante e consolidato) orientamento giurispruden
ziale di questa corte in materia (cfr. Cass. 21 febbraio 1986, Foro
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