sezione II civile; sentenza 19 luglio 1988, n. 4695; Pres. Carotenuto, Est. Sammartino, P.M.Romagnoli (concl. conf.); Soc. Lepa (Avv. Di Majo, Picozza, Petrocchi) c. Soc. immob. Capital(Avv. Irti, Castallini). Cassa App. Firenze 4 luglio 1986Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1988), pp. 2863/2864-2867/2868Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23181475 .
Accessed: 25/06/2014 08:06
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 91.229.229.210 on Wed, 25 Jun 2014 08:06:15 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
2863 PARTE PRIMA 2864
come ha rilevato anche la Corte costituzionale — al rischio d'im
presa, comporta che debba essere l'imprenditore a valutare se
l'attività della sua azienda presenti rischi extra-lavorativi di fron
te al cui prevedibile verificarsi insorga il suo obbligo di prevenzione.
Obbligo che, proprio alla stregua dei dati di esperienza (che includono anche parametri di frequenza statistica generale, per
tipo di attività, o particolare, con riferimento alla singola unità
produttiva) avrà un contenuto non teorizzabile a priori, ma ben
individuabile nella realtà alla stregua delle tecniche di sicurezza
comunemente adottate.
Trattasi di una obbligazione ex lege accessoria e collaterale ri
spetto a quelle principali proprie del rapporto di lavoro, come
tale involgente la diligenza nell'adempimento ex art. 1176 c.c.; eventualmente correlata alla natura dell'attività esercitata, e co
munque improntata nella sua esecuzione a quei criteri di compor tamento delle parti di ogni rapporto obbligatorio costituiti, ex
art. 1175 e 1375 c.c, dalla correttezza e buona fede, ormai am
piamente valorizzati dalla giurisprudenza. 15. - Con specifico riferimento all'attività bancaria, il contenu
to degli obblighi a tutela dell'integrità fisica dei dipendenti va
individuato nella predisposizione di misure di sicurezza idonee
a salvaguardare dette persone da possibili danni.
Che, del resto, rischi e mezzi di tutela del genere ben siano
presenti nel settore bancario è dimostrato dall'attenzione già da
tempo in proposito dedicata dai contratti collettivi di categoria, i quali generalmente rimettono ai contratti integrativi aziendali
la tutela delle condizioni igienico-sanitarie dell'ambiente di lavo
ro e le garanzie volte alla sicurezza del lavoro (contratto colletti
vo nazionale di lavoro per il personale impiegatizio delle casse
di risparmio 22 luglio 1976, parte III, art. 130; 6 maggio 1980,
cap. XIV, art. 129, 130; 9 marzo 1983, cap. XIV, art. 141; con
tratto collettivo per il personale direttivo delle aziende di credito
27 luglio 1977, cap. XVIII, art. 76; 7 luglio 1983, cap. XVII, art. 76; contratto collettivo per il personale impiegatizio delle stesse, 23 luglio 1976, cap. XVIII, art. 131, cap. XX, art. 135; 18 aprile
1980, cap. XVII, art. 134, cap. XX, art. 139). E che le garanzie di sicurezza attengano all'ipotesi che forma
oggetto della presente controversia, oltreché già emergere chiara
mente dalla loro distinzione rispetto alla tutela igienico-sanitaria,
inequivocabilmente risulta dalla «raccomandazione» annessa a det
ta clausola, secondo cui «con riferimento alle vive istanze mani
festate in argomento dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori, l'Assicredito raccomanda di voler sovvenire i lavoratori dipen denti — che vi si trovino maggiormente esposti in ragione delle
mansioni esplicate — dalle conseguenze di eventuali attività cri
minose svolte da terzi nei confronti dell'azienda datrice di lavoro».
E analoga raccomandazione si legge in calce all'art. 144 (di tenore analogo ai già citati) del contratto collettivo 30 aprile 1987
(per quadri, impiegati, ecc.), in cui si aggiunge, rispetto alla pre cedente raccomandazione, la indicazione di quella assicurativa qua le forma di sovvenzione.
Ancora, in forza del contratto collettivo per il personale delle
casse rurali e artigiane 29 settembre 1983, cap. XI (sicurezza nel
lavoro), art. 48 (misure di sicurezza), le parti si impegnano a coor
dinare, occorrendo a livello nazionale, condizioni e programmi di sicurezza del lavoro; e, in caso di risoluzione del rapporto per morte od invalidità perdurante del dipendente derivante da azio
ne delittuosa a danno dell'azienda o per ragioni di lavoro, l'a
zienda medesima nella scelta per assunzione darà la preferenza ad un familiare convivente ed a carico del dipendente assunto; e il contratto collettivo per il personale direttivo delle medesime
casse rurali 21 luglio 1987, all'art. 68 reca analoga disposizione, mentre l'art. 69 prescrive l'obbligo di assicurare il personale di
rettivo anche dai rischi di rapina. Tali previsioni dei contratti collettivi del settore creditizio (qui
utilizzati unicamente come elemento extratestuale di interpreta zione nella norma di legge) consentono di far ritenere ormai ac
quisito anche nel convincimento delle parti sindacali la sussistenza
di quel rilevante rischio per i dipendenti da azioni criminose di
terzi, che giustifica la proposta interpretazione estensiva dell'art.
2087. 16. - Onde può e deve ritenersi che il datore di lavoro, il quale
in una siffatta situazione di rischio prevedibile e accettabile alla
stregua dei comuni criteri di diligenza, o addirittura disciplinata in sede collettiva nazionale o aziendale, non abbia predisposto,
o, ancor peggio, pur avendoli predisposti non abbia — come nel
la specie — mantenuto in efficienza gli adeguati mezzi di tutela,
Il Foro Italiano — 1988.
debba rispondere ex art. 2087 c.c. dell'evento lesivo nei confronti
del dipendente.
Invero, il dovere di sicurezza non si esaurisce nella predisposi zione delle misure di protezione, ma include altresì quello di man
tenerle in stato di funzionamento e di efficienza: basti ricordare
la giurisprudenza, soprattutto penale, di questa corte, secondo
cui il conferimento a terzi dell'incarico di controllare e revisiona
re gli impianti non vale ad esonerare l'imprenditore dal dovere
di vigilare sulla funzionalità degli stessi (Cass. 16 dicembre 1975,
Ascoli, id., Rep. 1977, voce Infortuni sul lavoro, n. 143). È pe raltro a carico del dipendente l'onere di dimostrare, oltreché il
danno subito, la sua relazione causale con il rischio ambientale
specifico e la sussistenza di questo rischio (come probabilità e
non come mera possibilità), mentre grava sul datore di lavoro
l'onere di provare di aver predisposto adeguate misure di tutela
cui esso datore di lavoro è tenuto in conseguenza del concreto
insorgere e sussistere di quel rischio, e di aver esercitato diligente
sorveglianza per mantenerle in efficienza (cfr. Cass. 7224/83, cit.). In conclusione, va accolto il primo motivo del ricorso principa
le, e conseguentemente va dichiarato assorbito il secondo e vanno
rigettati il terzo motivo del ricorso principale e il ricorso inciden
tale, con cassazione della impugnata sentenza in relazione al mo
tivo accolto e rinvio della causa ad altro giudice.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 19 luglio
1988, n. 4695; Pres. Carotenuto, Est. Sammartino, P.M. Ro
magnoli (conci, conf.); Soc. Lepa (Avv. Di Majo, Picozza,
Petrocchi) c. Soc. immob. Capital (Avv. Irti, Castallini). Cassa A pp. Firenze 4 luglio 1986.
Arbitrato e compromesso — Arbitrato rituale — Lodo — Man
cata deliberazione in conferenza personale — Nullità — Estre
mi — Fattispecie (Cod. proc. civ., art. 821, 823).
È nullo, perché non deliberato dagli arbitri in conferenza perso nale, il lodo, completo di tutti gli elementi indicati nell'art.
823 c.p.c., il cui dispositivo contenga modifiche, rispetto al te
sto originario discusso collegialmente ed approvato a maggio ranza, apportate da due componenti del collegio arbitrale a
seguito di intese telefoniche con il terzo. (1)
(1) Cass. 11 febbraio 1988, n. 1465, Foro it., 1988, I, 1546, con osser vazioni e richiami di C.M. Barone, ignorata dalla pronuncia in rassegna, ha ritenuto, fra l'altro, che «l'attestazione che il lodo sottoscritto dalla
maggioranza degli arbitri (non cioè da tutti) 'è stato deliberato in confe renza personale di tutti' è, ai sensi dell'art. 823, 3° comma, requisito di validità solo del lodo completo, quello cioè redatto per iscritto e conte nente tutti i requisiti di cui all'art. 823, 2° comma, non anche del disposi tivo eventualmente pronunciato anticipatamente, come si desume dall'art. 821, per il quale si richiede solo che sia 'sottoscritto dalla maggioranza degli arbitri', nella presunzione di legge che, ove tale indicazione esista
(ove cioè si dia atto che taluno degli arbitri non ha voluto o potuto sotto
scriverlo), il dispositivo deve necessariamente intendersi come deliberato in conferenza personale di tutti gli arbitri».
La riportata sentenza — cui sembra essere sfuggito il rapporto, pun tualmente colto dalla menzionata Cass. n. 1465 del 1988, fra il dispositi vo, considerato dall'art. 821 c.p.c., e il lodo, completo di tutti gli elementi indicati nel successivo art. 823 — si è, verosimilmente, basata sul testo
originario di quest'ultima norma, senza soffermarsi sulle significative mo difiche nella stessa introdotte dall'art. 2 1. 9 febbraio 1983 n. 28, molto
probabilmente applicabile in toto al procedimento arbitrale inter partes. La stessa sentenza ha, comunque, ribadito la essenzialità, ai fini della formazione del lodo, della conferenza personale degli arbitri, impegnan dosi in una esplicazione delle caratteristiche dell'adempimento de quo di
gran lunga più analitica di tutte quelle finora fornite dalla Cassazione nelle varie occasioni, ricordate nelle citate osservazioni alla sent. n. 1465 del 1988, in cui è venuta in discussione la portata del 1° comma dell'art. 823 c.p.c.
Ciò posto, è il caso di sottolineare l'enunciazione, formulata in moti vazione dalla corte, secondo cui «la questione se la non rispondenza a verità della dichiarazione (che il lodo è stato «deliberato in conferenza
This content downloaded from 91.229.229.210 on Wed, 25 Jun 2014 08:06:15 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
2865 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 2866
Svolgimento del processo. — 1. - La società immobiliare Siglio — poi trasformatasi in s.p.a. immobiliare Capital terme - e la
s.r.l. Lepa, rispettivamente committente e appaltatrice della co
struzione di un complesso edilizio in Montecatini Terme, chiesero
al collegio arbitrale, nominato in base a clausola compromissoria della convenzione con cui il 1° ottobre 1982 avevano transatto
la lite insorta tra loro per divergenze nell'esecuzione del contratto
e avevano rinegoziato l'appalto, la prima, di dichiarare la risolu
zione del contratto medesimo, in forza di clausola risolutiva espres
sa, per inadempimento della seconda, e, questa, di dichiarare la
risoluzione dell'intera convenzione per colpa della prima; ciascu
na, inoltre, chiese la condanna dell'altra al risarcimento dei danni.
2. - Il collegio arbitrale, con lodo sottoscritto il 26 novembre,
depositato il 7 dicembre e reso esecutivo dal Pretore di Pistoia
con decreto del 30 dicembre 1983: a) rigettò la domanda di riso
luzione dell'intera convenzione; b) dichiarò risolto il contratto
di appalto per colpa della Lepa e condannò questa al risarcimen
to dei danni, contestualmente liquidati, in favore dell'immobiliare.
3. - Il lodo fu impugnato per nullità dalla Lepa avanti alla
Corte d'appello di Firenze che rigettò l'impugnazione, cosi argo mentando in ordine ai motivi dedotti: a) il dispositivo era stato
deliberato il 18 novembre 1983 dai tre arbitri, uno dei quali ave
va espresso il suo dissenso e aveva dichiarato di non voler sotto
scrivere il lodo; della stesura era stato incaricato il presidente; il 19 novembre l'arbitro dissenziente aveva, con telegramma, ri
chiamato l'attenzione degli altri due su «errori di calcolo», an
nunciando la sua venuta a Pistoia, luogo delle riunioni, per il
giorno 24», ma, «impossibilitato per malattia» a recarvisi, aveva
avuto colloqui telefonici con gli altri due ed era stato «informato
delle variazioni apportate al dispositivo» in adesione alla sua se
personale di tutti «gli arbitri» e che «gli altri non hanno voluto o potuto sottoscriverlo») debba farsi valere con autonoma azione (querela) di fal
so, anziché con l'impugnazione di nullità ex art. 829, n. 5, c.p.c., non ha fondamento (non solo perché agli arbitri sottoscrittori non può rico noscersi veste di pubblici ufficiali autorizzati dalla legge ad attribuire a
quella dichiarazione pubblica fede — art. 2699 c.c. e 357 c.p.; relazione al re sul codice penale: n. 143 — ma anche e soprattutto) perché l'art.
823, 3° comma, c.p.c., nel rendere equipollente al requisito della sotto scrizione di tutti gli arbitri la sottoscrizione della maggioranza di essi
«purché» preceduta da quella dichiarazione, e nel far conseguentemente derivare dalla mancanza di questa la nullità del lodo, ha indubbiamente inteso dire che la nullità sussiste anche quando la dichiarazione non sia
veritiera, recependola, attraverso il rinvio dall'art. 829, n. 5, all'art. 823, 2° comma, n. 6, e 3° comma, come motivo da farsi valere direttamente e immediatamente con l'apposita impugnazione».
La corte si è uniformata, in parte qua, all'opinione di V. Andrioli
(Commento al codice di procedura civile, Jovene, Napoli, 1964, IV, 876-878), seguita da Vecchione, L'arbitrato nel sistema del processo civi
le, Giuffrè, Milano, 1971, 582, e contraddetta da Schizzerotto, L'arbi trato rituale nella giurisprudenza, Cedam, Padova, 1969, 231 (che si basa sull'art. 357 c.p. il quale «considera pubblico ufficiale, sia pure agli effet ti della legge penale, ogni persona che esercita volontariamente e tempo raneamente la funzione giudiziaria e sull'art. 476 c.p. che contempla la falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici», preci sando che «l'efficacia probante degli atti posti in essere dagli arbitri va ristretta nei limiti dell'art. 2700 c.c. L'atto, cioè, fa prova fino a querela di falso della provenienza di esso dagli arbitri e delle dichiarazioni delle
parti e degli altri fatti che i medesimi arbitri attestino essere avvenuti in loro presenza o da loro compiuti»). La giurisprudenza, però, ove si
eccettui, sia pure nei limiti della fattispecie, App. Palermo 29 aprile 1955, Foro it., 1956, I, 801 (secondo cui non è necessaria la querela di falso contro l'attestazione, inserita nel lodo, che questo è stato deliberato in
conferenza personale di tutti gli arbitri, quando la veridicità dell'attesta zione è smentita dagli atti) ha manifestato una diversa tendenza. Cass. 8 ottobre 1954, n. 3430, id., Rep. 1954, voce Arbitrato, n. 101, ha ritenu
to, infatti, che la verità dell'affermazione del lodo, secondo la quale sa
rebbero state sentite le parti, non può essere contestata se non con la
querela di falso; App. Genova 27 agosto 1948, id.. Rep. 1949, voce Arbi
tramelo, n. 94, ha affermato che, stante la natura di atto pubblico del
lodo reso esecutivo, le sue affermazioni in ordine agli atti compiuti dagli arbitri fanno piena fede e non possono essere impugnate se non con la
querela di falso; Cass. 9 agosto 1948, n. 1447, id., Rep. 1948, voce cit., n. 48 (annotata favorevolmente da Elia, in Giur. Cass. civ., 1948, III,
266), ha ribadito che i verbali dei collegi arbitrali, in cui si attesta il
procedimento seguito per la deliberazione e la sottoscrizione della senten
za, fanno fede fino a querela di falso; analogamente, Cass. 3 agosto 1943, n. 2027, id., 1944-46, I, 350, con nota di richiami, ha riconosciuto, uniformandosi a precedenti enunciazioni nella stessa (nota) ricordate, che le attestazioni degli arbitri relative alla formazione del lodo fanno piena
prova fino a querela di falso. [C.M. Barone]
Il Foro Italiano — 1988.
gnalazione; b) non sussisteva la denunciata nullità del lodo per mancanza del requisito della deliberazione in conferenza persona le di tutti gli arbitri, perché, dopo la delibera del 18 novembre, al dispositivo era stata apportata, «con consenso di tutti», una
semplice rettifica, a seguito di «scambio di notizie in merito tra
i componenti del collegio», rettifica consistente «nell'eliminazio
ne dell'addebito di lire 20.000.000 alla soc. Lepa relative a parte non seguita di tavernette e vani tecnici e nella rettifica in diminu
zione di piccola entità in alcune altre somme, costituenti il risar
cimento del danno posto a carico della stessa società»; c) non
poteva imputarsi al collegio arbitrale alcuna inosservanza delle
regole di diritto né in ordine all'interpretazione della convenzione
del 1° ottobre 1982 (da essi rettamente intesa come contenente
due autonomi contratti, l'uno di transazione dei precedenti rap
porti di appalto e l'altro di costituzione di un nuovo rapporto di appalto per il proseguimento delle opere iniziate in esecuzione
del primo, al quale soltanto era riferibile la clausola risolutiva
espressa contenuta in tale convenzione) né in ordine alla liquida zione dei danni a carico della Lepa, fatta non equitativamente ma in base a criteri, sia pure presuntivi, aderenti alle risultanze
documentali.
4. - La società Lepa ricorre per i seguenti motivi:
I. Violazione dell'art. 829 in relazione all'art. 823/3 c.p.c.: il
lodo non poteva ritenersi «deliberato in conferenza personale di
tutti gli arbitri»: a) perché la modificazione al primo testo, ap
portata su segnalazione telegrafica dell'arbitro dissenziente, non
era consistita in una «rettifica» della decisione, «dovuta a mere
inesattezze o ad un errore di calcolo, ma nel fatto che gli arbitri
non avevano tenuto conto di ragioni di credito vantate dalla soc.
Lepa e risultanti dalla documentazione»; b) e perché, oltre a quelle
segnalate dall'arbitro dissenziente, il testo depositato recava, ri
spetto a quello discusso fra tutti i tre il 18 novembre, altre e
più gravi modifiche, non deliberate in conferenza personale, de
nunciate nell'atto di impugnazione del lodo arbitrale e sulle quali la corte d'appello nulla disse in sentenza.
II. Violazione dell'art. 829/2 c.p.c. in relazione agli art. 1362
ss., 1965 e 1976 c.c.: la corte avrebbe dovuto rilevare l'illogicità della motivazione e l'erroneità di applicazione delle norme di er
meneutica contrattuale in cui gli arbitri erano incorsi nell'inten
dere il contenuto della convenzione, nel separare del tutto la
transazione del nuovo contratto di appalto e nel limitare a questo soltanto l'applicabilità della clausola risolutiva espressa.
III. Violazione dell'art. 829/2 c.p.c. in relazione agli art. 1223, 1226 e 2697 c.c.: il collegio arbitrale aveva liquidato quei danni
equitativamente, nonostante la società immobiliare non ne aves
se, com'era suo onere, provato «l'esistenza e la consistenza».
5. - La società immobiliare ha depositato controricorso.
Motivi della decisione. — Il primo motivo è fondato e, datane
la pregiudizialità, gli altri restano assorbiti.
A norma dell'art. 823, 2° comma, n. 6, e 3° comma, c.p.c. il lodo deve contenere, a pena di nullità, la sottoscrizione di tutti
gli arbitri ovvero la sottoscrizione della maggioranza di essi pur ché preceduta dalla (duplice) dichiarazione che «esso è stato deli
berato in conferenza personale di tutti» (e che «gli altri non hanno voluto o non hanno potuto sottoscriverlo»).
Nella specie il lodo, nel testo depositato in pretura e reso ese
cutivo dal pretore, recava tale (duplice) dichiarazione prima della
sottoscrizione di due degli arbitri componenti il collegio, ma è
ovvio che la conformità esteriore di esso al dettato della legge era inidonea a rendere inammissibile l'impugnazione di nullità
se non questa, come la ricorrente ha dedotto, si sosteneva che
quella dichiarazione non corrispondeva a verità in quanto il lodo
sarebbe stato, in parte, deliberato in conferenza personale non
di tutti e tre gli arbitri ma di due soltanto di essi.
Giova precisare subito che la questione se la non rispondenza a verità di tale dichiarazione debba farsi valere con autonoma
azione (querela) di falso, anziché con l'impugnazione di nullità
ex art. 829, n. 5, non ha fondamento (non solo perché agli arbitri
sottoscrittori non può riconoscersi veste di pubblici ufficiali auto
rizzati dalla legge ad attribuire a quella dichiarazione pubblica fede — art. 2699 c.c. e 357 c.p.; relazione al re sul codice penale, n. 143 — ma anche e soprattutto) perché l'art. 823/3, nel rendere
equipollente al requisito della sottoscrizione di tutti gli arbitri la
sottoscrizione della maggioranza di essi «purché» preceduta da
quella dichiarazione, e nel far conseguentemente derivare dalla
mancanza di questa la nullità del lodo, ha indubbiamente inteso
dire che la nullità sussiste anche quando la dichiarazione non sia
This content downloaded from 91.229.229.210 on Wed, 25 Jun 2014 08:06:15 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
2867 PARTE PRIMA 2868
veritiera, recependola, attraverso il rinvio dall'art. 829, n. 5, al
l'art. 823, 2° comma, n. 6, e 3° comma, come motivo da farsi
valere direttamente e immediatamente con l'apposita imputazione. Ciò si evince dal raffronto tra il n. 6 del 2° comma e il 3°
comma. Mentre la sottoscrizione di tutti gli arbitri non deve esse
re preceduta dalla dichiarazione che il lodo è stato deliberato in
conferenza personale di tutti perché essa fa presumere (il ricono
scimento di tutti loro per quanto concerne) la regolarità delle ope razioni arbitrali precedenti alla redazione per iscritto del lodo da
depositare, compresa la deliberazione, che deve avvenire in con
ferenza personale, la sottoscrizione della sola maggioranza, che
di per sé potrebbe far presumere il contrario, abbisogna della
dichiarazione aggiuntiva per essere equiparata alla prima. E pro
prio per tale equiparazione il lodo sottoscritto da tutti e il lodo
sottoscritto dalla maggioranza soggiacciono entrambi all'impu
gnazione di nullità per difetto della conferenza personale di tutti.
Ritenere il contrario significherebbe lasciare senza razionale giu stificazione l'obbligo, nel secondo caso, della dichiarazione ag
giuntiva dell'avvenuta deliberazione in conferenza personale di
tutti, poiché ad equiparare formalmente le due specie sarebbe ba
stato (come accade per la sentenza dei giudici ordinari, ex art.
132/3 c.p.c., che validamente viene sottoscritta dal solo presiden te, se l'estensore ne è impedito, «purché» prima della sottoscri
zione sia menzionato l'impedimento) far precedere alla
sottoscrizione della maggioranza la sola dichiarazione che gli altri
non hanno voluto o potuto sottoscrivere.
Non è logico, in altri termini, che la legge si preoccupi della
conferenza generale solo nel secondo e non anche nel primo caso.
L'esigere, invece, nel secondo anche la dichiarazione dell'avvenu
ta conferenza generale significa necessariamente che questa è ri
chiesta in ogni caso (opinione corroborata dall'esegesi del 1°
comma: «Il lodo è, deliberato . . . dagli arbitri» — quindi da tutti
gli arbitri — «riuniti in conferenza personale» . . .) e perciò che — ripetesi —
l'esplicita menzione della conferenza nel caso della
sottoscrizione della maggioranza sostituisce l'implicazione che ne
fa la sottoscrizione di tutti.
Accertata l'ammissibilità dell'impugnazione, va affermata, con
trariamente a quanto sostenuto dalla controricorrente, l'esistenza
in capo alla Lepa di un preciso interesse ad impugnare. L'obie
zione per cui, nel testo finale, la modifica apportata rispetto al
testo originale sarebbe avvenuta in conformità della segnalazione dell'arbitro dissenziente, non coglie nel segno, essendo ovvio che
l'interesse da considerare è quello della parte rimasta soccomben
te, in esito al giudizio finale, rispetto alle domande proposte nel
giudizio medesimo (e che non poteva certo dirsi soddisfatto stan
te il loro totale rigetto). L'esistenza dell'interesse non può essere
negata neanche sotto il profilo che, caducato il dispositivo corret
to, rivivrebbe il dispositivo deliberato collegialmente, poiché non
di solo dispositivo è a parlarsi bensì' di lodo formalmente comple tato con tutti gli altri requisiti di cui all'art. 823, tra cui la moti
vazione, e sotto tale profilo il primo dispositivo, mai peraltro
depositato è, come lodo, inesistente.
L'esame, poi, della fondatezza dell'impugnazione nel merito
va condotto in base alle circostanze di fatto considerate dalla cor
te fiorentina al punto 3.«) e che sono pacifiche tra le parti. Data la sequenza stabilita dall'art. 823 (deliberazione del lodo
in conferenza personale di tutti gli arbitri - redazione del lodo
per iscritto - sottoscrizione del lodo) è evidente che se la delibera
zione si svolge in più riprese, vuoi perché vengono separatamente decise questioni preliminari e di merito, vuoi perché le questioni di merito vengono esaminate e decise partitamente (e in proposi to, avendo le parti, con la clausola compromissoria, stabilito che
gli arbitri dovevano «seguire la procedura prevista dal codice di
procedura civile», non si pone il problema — scaturente dalla
collocazione dell'art. 816, che conferisce alle parti la facoltà di
imporre agli arbitri le norme da osservare nel procedimento, sot to il capo III, «Del procedimento», mentre la deliberazione del
lodo è contemplata nel successivo capo IV, «Della sentenza» —
se le parti avrebbero potuto imporre agli arbitri particolari regole da osservare in tale fase di deliberazione, dal che consegue che nella specie, a parte il rispetto delle disposizioni normative impo ste a pena di nullità, essi erano perfettamente liberi di comportar si del modo ritenuto più opportuno), vuoi, infine, perché rispetto ad un primo dispositivo già eventualmente deliberato, a maggio ranza o all'unanimità, si pone l'esigenza di una modifica, da chiun
que proposta, l'obbligo della conferenza personale di tutti è
essenziale sia osservato ad ogni ripresa, e perciò anche in quella finale che precede immediatamente la sottoscrizione del lodo che
Il Foro Italiano — 1988.
ci si accinge a depositare. Il lodo deve essere frutto della confe
renza personale di tutti, anche se poi sarà approvato a maggio
ranza, nella sua totalità.
A questo punto occorre effettuare il controllo dell'osservanza
nella specie del disposto di cui all'art. 823, 1° comma, n. 6, e
2° comma.
Alla deliberazione in conferenza personale generale del primo
dispositivo, approvato a maggioranza, segui la redazione dell'ori
ginale, poi depositato, in cui la parte dispositiva era sostanzial
mente diversa da quello in ciò che toccava le componenti e l'entità
delle contrapposte partite di debito/credito delle due società.
Ora questa modifica avrebbe dovuto anch'essa essere delibera
ta in conferenza personale generale, cioè, propriamente, in una
nuova adunanza avente le stesse caratteristiche della prima, in
cui tutti e tre gli arbitri erano, nel medesimo luogo, presenti l'u
no di fronte all'altro ed avevano prima discusso e poi deliberato
(votato su) ogni questione. In proposito il dettato dell'art. 823/1 (analogamente, peraltro,
a quanto prescritto dall'art. 276 c.p.c. per i giudici ordinari) non
desta alcun dubbio nell'esigere, come essenziale alla deliberazio
ne, che questa sia effettuata «dagli arbitri» (cioè da tutti gli arbi
tri): a) «riuniti»: cioè presenti l'uno all'altro nello stesso luogo, in modo che l'identità fisica di ciascuno sia percepibile dagli altri;
b) «in conferenza»: cioè mediante colloquio, attraverso cui è resa
possibile la discussione; c) «personale»: nel duplice significato e
di un diretto impegno di ciascuno, senza intermediari (che invece
sono ammessi tra le parti e gli arbitri, siano o no veri e propri
procuratori legali) e — soprattutto, a rinforzo del requisito sub
a) — di una loro compresenza fisica che — attualmente e salve
future acquisizioni tecnologiche di mezzi equivalenti — non è rag
giungibile in altro modo.
La comunicazione telefonica tra gli arbitri non risponde a tutti
i connotati elencati, e quindi non soddisfa il dettato della legge,
perché, anche se rende possibile la conferenza di tutti, ne impedi sce la riunione personale nello stesso luogo.
Non è invocabile, secondo quanto sostenuto dalla controricor
rente, l'art. 156/3 c.p.c. — a norma del quale se l'atto ha rag
giunto lo scopo a cui è destinato, la nullità non può mai essere
pronunciata — in relazione alla circostanza per cui la modifica
al testo originale sarebbe stata apportata su segnalazione dell'ar
bitro dissenziente.
Non è, evidentemente, l'informativa reciproca effettivamente
raggiunta sull'oggetto, semplice o molteplice della controversia, e neanche la discussione effettivamente svoltasi su tale oggetto, lo scopo a cui il lodo è destinato, bensì la decisione di una con
troversia, cioè la deliberazione (votazione) su tutte le questioni che occorre affrontare per definire la lite, della quale deliberazio
ne quell'informativa e quella discussione sono soltanto atti pre
paratori il cui governo da parte degli arbitri non trova limiti
inderogabili nella legge. È pertanto al momento della deliberazio
ne che, a pena di nullità, deve concretarsi la conferenza personale di tutti gli arbitri.
Per quanto infine concerne il contenuto della modifica appor tata al primo testo non può condividersi, al fine di escludere le
nullità, nè l'opinione espressa dalla corte fiorentina, che lo fece consistere in una «semplice rettifica» — punto 3 .b) — né la tesi della controricorrente, che parla di «correzione di errori di calco
lo», con evidente riferimento concettuale ad uno dei casi di cor
rezione previsti (accanto alle omissioni o errori materiali) dall'art. 287 c.p.c. a cui l'art. 826 rinvia per la correzione della sentenza arbitrale.
In proposito non è necessario risolvere la questione se tali erro
ri, contenuti in un primo dispositivo ritualmente deliberato, pos sano essere corretti, nell'intervallo fra la deliberazione e la
redazione per iscritto del lodo, dall'estensore al di fuori della con ferenza personale con tutti gli altri arbitri, bastando rilevare che nella specie si era ben lungi da una rettifica/correzione di errori di calcolo, anche nel senso inteso dall'art. 287, cioè di errori nelle
operazioni aritmetiche effettuate su enti dati per ottenere l'ente finale richiesto — errori correggibili effettuando sui medesimi dati le medesime operazioni nel modo ortodosso — poiché gli erro ri/omissioni riguardavano gli stessi dati-base e quindi erano da
correggersi solo attraverso un nuovo accertamento ed una nuova
valutazione, cioè un nuovo «giudizio», che soltanto i medesimi arbitri (tutti) potevano esprimere, riuniti in una nuova conferen za personale.
L'impugnata sentenza deve pertanto essere cassata, con rinvio ad altro giudice, per i provvedimenti previsti dall'art. 830 c.p.c.
This content downloaded from 91.229.229.210 on Wed, 25 Jun 2014 08:06:15 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions