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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sezione II civile; sentenza 21 marzo 1989, n....

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sezione II civile; sentenza 21 marzo 1989, n. 1402; Pres. Montanari Visco, Est. Triola, P.M. Simeone (concl. parz. diff.); Failla (Avv. G. e L. Maniscalco Basile, Vittorelli) c. Failla (Avv. Bruno). Cassa App. Palermo 24 ottobre 1984 Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE (1989), pp. 1809/1810-1813/1814 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23184031 . Accessed: 25/06/2014 00:45 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.2.32.152 on Wed, 25 Jun 2014 00:45:40 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sezione II civile; sentenza 21 marzo 1989, n. 1402; Pres. Montanari Visco, Est. Triola, P.M. Simeone (concl. parz. diff.); Failla

sezione II civile; sentenza 21 marzo 1989, n. 1402; Pres. Montanari Visco, Est. Triola, P.M.Simeone (concl. parz. diff.); Failla (Avv. G. e L. Maniscalco Basile, Vittorelli) c. Failla (Avv.Bruno). Cassa App. Palermo 24 ottobre 1984Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1989), pp. 1809/1810-1813/1814Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23184031 .

Accessed: 25/06/2014 00:45

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

sulla legge in generale, la legge finanziaria, al pari di tutte le

altre, si presume conosciuta e diviene obbligatoria per tutti, de

corso il periodo di vacatio legis, che, nella specie, fu molto limi

tato in quanto detta legge entrò in vigore il giorno successivo

a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale (art. 23). Da ciò deriva che il tribunale, dopo aver ritenuto che il con

tratto di appalto dissimulava un contratto di lavoro, ha esatta

mente stabilito che questo era nullo a norma del combinato

disposto degli art. 1343 e 1418 c.c.

Appunto per la natura imperativa della norma contenente il

divieto rivolto non solo all'amministrazione pubblica, ma anche

a tutti i cittadini, non può condividersi la diversa tesi prospettata dai ricorrenti secondo la quale il contratto sarebbe valido e avrebbe

potuto essere ritenuto nullo soltanto se escluso in frode alla leg

ge, se cioè fosse stato l'effetto di un accordo tra la centrale muni

cipalizzata del latte ed i ricorrenti, i quali, consapevoli di non

poter concludere un valido contratto di lavoro, avrebbero adotta

to la forma dell'appalto al fine di eludere il divieto di cui al cita

to art. 9, cosi ponendo in essere un contratto in frode alla legge vietato dall'art. 1344 c.c.

Giova anzi a questo punto rilevare che questa corte si è pro nunciata a sezioni unite, anche se in epoca non recente (sent. 2697 del 21 agosto 1972), in un caso analogo, verificatosi con

riguardo alla applicazione della 1. reg. sic. 5 febbraio 1954 n.

1, recante norme integrative per la gestione di esattorie di impo ste dirette, che, all'art. 3, vieta ai delegati e gestori provvisori di procedere a nuove assunzioni di personale in pianta stabile, stabilendo che tale disposizione «costituisce norma imperativa ed

importa conseguentemente la nullità del negozio ad essa contra

rio stipulato dal delegato governativo, anche se la proibita assun

zione in pianta stabile di personale sia stata autorizzata

dall'amministrazione delegante». Restano in tali argomentazioni assorbite le critiche prospettate

dal ricorrente alla parte in cui la sentenza impugnata fa richiamo

al concetto di ordine pubblico. Invero, esse sono anche infondate

perché il concetto di ordine pubblico non risulta riferito alle esi

genze etiche medie, ma in quello più proprio di assetto politico fondamentale dello Stato, cioè di una normativa generale diretta

al contenimento della spesa pubblica, con cui non contrasta in

modo radicale un parallelo regime di eccezioni specifiche poste a tutela di imprescindibili interessi dell'amministrazione.

Il ricorso principale deve, pertanto, essere respinto. Del pari deve esserlo quello incidentale.

Le considerazioni che la centrale del latte svolge con riguardo alla natura del contratto per sostenere che la prestazione del Rosi

e del Criscuolo non era di pura mano d'opera e che essi si assu

mevano il rischio dell'impresa costituiscono valutazioni di fatto

in contrasto con la sentenza impugnata, la quale ha ampiamente

esposto, con ragionamento immune da vizi logici e giuridici non

ché ricco di particolari, i motivi per i quali ha ritenuto che la

scrittura privata contenente il contratto di appalto dissimulava

un contratto di lavoro subordinato, sicché non è consentito in

questa sede rivalutare le suddette circostanze. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 21 marzo

1989, n. 1402; Pres. Montanari Visco, Est. Triola, P.M. Si

meone (conci, parz. diff.); Failla (Avv. G. e L. Maniscalco

Basile, Vittorelli) c. Failla (Avv. Bruno). Cassa App. Paler

mo 24 ottobre 1984.

Successione ereditaria — Petizione — Acquisto del terzo a titolo

gratuito dall'erede apparente — Domanda di contestazione del

fondamento dell'acquisto presentata oltre i cinque anni dalla

tradizione — Buona fede — Onere della prova (Cod. civ., art.

534, 2652).

I terzi che abbiano acquistato a titolo gratuito dall'erede appa rente non devono provare la propria buona fede, qualora la

trascrizione della domanda con cui si contesta il fondamento

II Foro Italiano — 1989.

di un acquisto a causa di morte sia eseguita trascorsi cinque anni dalla data di trascrizione dell'acquisto. (1)

Svolgimento del processo. — Con ricorso in data 11 aprile 1980,

diretto al presidente del Tribunale di Palermo, Giovanni Failla

esponeva: che in data 4 marzo 1964 era deceduto il proprio zio

Nicolò Failla, il quale aveva disposto delle proprie sostanze con

testamento olografo del 29 gennaio 1964; che Nicolò Failla aveva

nominato eredi universali i propri fratelli Giuseppe (del quale es

so ricorrente era a sua volta erede) e Salvatore Failla; che Salva

tore Failla sosteneva che alcuni beni (nel frattempo donati al figlio

Giuseppe Failla) gli erano stati attribuiti in piena proprietà, men

tre invece dovevano ritenersi comuni ad entrambi gli eredi; tanto

premesso, il ricorrente chiedeva che venisse disposto il sequestro

(1) La sentenza capovolge esplicitamente il principio di diritto afferma to nell'unico precedente che è dato rinvenire sul punto, in tema di neces sità della prova della buona fede da parte dell'acquirente a titolo gratuito, avente causa dall'erede apparente, che intenda avvalersi del disposto di cui all'art. 2652, n. 7, c.c.

Cass. 15 marzo 1980, n. 1741 (Foro it., 1980, I, 2519, con nota di P. Lonero), sulla scia di una dottrina autorevole e dominante (L. Ferri, Tutela dei diritti,' in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1962, 274-275; Busnelli, Erede apparente, voce dell' Enciclopedia del diritto,

Milano, 1966, XV, 205-206), fondata sulla buona fede come elemento costitutivo dell'acquisto del terzo — e, pertanto, da provare da parte dell'interessato — sosteneva, infatti, che la disposizione dell'art. 2652, n. 7, rappresenta soltanto «un'integrazione dell'istituto dell'erede appa rente, che conserva le sue linee essenziali quali delineate dall'art. 534 c.c.

(...) dal che consegue che anche [nel caso di acquisto a titolo gratuito] il terzo è tenuto a fornire la dimostrazione della propria buona fede».

Sicché, «l'art. 2652, n. 7, estende gli effetti della pubblicità sanante an che ai terzi acquirenti a titolo gratuito, a condizione che siano trascorsi almeno cinque anni tra la trascrizione del loro acquisto e quella della domanda dell'erede vero»; ma «i principi relativi alla buona fede dell'ac

quirente ed alla prova di essa restano quelli fissati dall'art. 534». La sentenza in epigrafe riprende il ragionamento seguito da Cass. 15

marzo 1980, n. 1741, cit., e lo sottopone a revisione, affermando che l'art. 2652, n. 7, e l'art. 534 in realtà disciplinano istituti diversi, fattispe cie che coincidono solo per la parte corrispondente all'acquisto a titolo oneroso del terzo dall'erede apparente, come si ricava, tra l'altro, dalla clausola di riserva contenuta nell'art. 2652, n. 7. Pertanto, conclude l'ul tima sentenza della Cassazione, l'art. 2652, n. 7, «non integra l'art. 534

c.c., ma regola fattispecie diverse e richiede un requisito specifico (inerzia del vero erede per cinque anni) idoneo da solo a giustificare una diversità di disciplina in ordine alla prova della buona fede». E, nella sostanza, la tesi della corte appare convincente. Nel disegno del legislatore, l'acqui rente a titolo oneroso dall'erede apparente ha la possibilità di salvare

(subito) il suo acquisto a non domino, dimostrando la propria buona fede. L'acquirente a titolo gratuito invece non può farlo, dovendo aspet tare, per via della minore dignità di tutela accordata al proprio titolo di acquisto, che trascorrano cinque anni almeno, senza che sia stata tra scritta alcuna domanda di contestazione da parte dell'erede vero, dalla data di trascrizione dell'acquisto (da parte dell'erede apparente, come se

gnala la migliore dottrina — v. per tutti, L. Ferri, op. cit., 276; Id., Successioni in generale, in Commentario Scialojà-Branca, Bologna-Roma, 1969, sub art. 534, 226 — e non dall'acquisto del terzo, come invece

suppongono entrambe le sentenze di cui qui si discute). Una volta trascorsi i cinque anni, la logica del sistema sembra imporre

il ritorno alla regola generale, della presunzione della buona fede, a favo re del terzo acquirente. Il decorso del quinquennio, unito alla trascrizione del titolo, vale a salvaguardare gli acquisti a titolo gratuito (tale il feno meno della c.d. «pubblicità sanante»): gli acquisti a titolo oneroso vengo no preservati immediatamente, se sussistono invece i presupposti di cui all'art. 534, tra cui la prova della buona fede, esplicitamente richiesta dalla norma. Nella dottrina più recente, Bianca, Diritto civile 2, Milano, 1985, II, 502-503, sembra autorizzare tali conclusioni, pur non affrontan do in particolare il punto dell'onere della prova della buona fede da parte del terzo; sulla diversità dei presupposti a fondamento della disciplina di cui agli art. 534 e 2652, n. 7 (rispettivamente ispirati all'apparenza del diritto e al requisito formale della trascrizione), v. Grosso e Burdese, Le successioni, in Trattato diretto da Vassalli, Torino, 1977, 434-435; cfr. ancora Mengoni, Gli acquisti «a non domino»3, Milano, 1975, 362, 365 s., per la configurazione della buona fede nell'art. 2652, n. 7, come

requisito impeditivo dell'acquisto del terzo; F. S. Gentile, Trascrizione, voce del Novissimo digesto, Torino, 1973, 526; De Lise, Della trascrizio

ne, in Commentario diretto da De Martino, Roma, 1970, sub art. 2652, 460. Sul problema dell'onere della prova, in generale, v. Comoglio, Le

prove, in Trattato diretto da Rescigno, Torino, 1985, XIX, 163. Per

un inquadramento complessivo della tematica degli acquisti dall'erede ap

parente, v. invece, da ultimo, E. Conti, La petizione di eredità, in Trat tato diretto da Rescigno, Torino, 1982, V, 322 ss. [F. Cosentino]

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1811 PARTE PRIMA 1812

giudiziario dei beni in questione, sequestro che veniva autorizza

to dal presidente del tribunale.

Con atto notificato 18 luglio 1980 Giovanni Failla conveniva

davanti al Tribunale di Palermo Salvatore e Giuseppe Failla, chie

dendo la convalida del sequestro, la dichiarazione che i beni con

tesi erano comuni, con conseguente divisione degli stessi.

Il tribunale, con sentenza del 21 settembre 1982, rigettava la

domanda.

Giovanni Failla proponeva appello, che veniva accolto dalla

Corte d'appello di Palermo con sentenza non definitiva del 24

ottobre 1984.

La corte d'appello osservava che, nella specie, si trattava di

interpretare la clausola testamentaria indicata con il numero 12

del testamento di Nicolò Failla, del seguente tenore: «Lascio e

assegno la casa di mia proprietà sita in Carini di via San Lorenzo

n. 81 da me oggi abitata ed accludo l'altra casa di mia proprietà in via delle Scuole n. 45...».

La difficoltà nasceva dal fatto che la disposizione si inseriva

in un testamento col quale Nicolò Failla aveva prima disposto una serie di legati, in usufrutto ed in piena proprietà, in favore

della moglie, poi aveva proceduto alla haeredis institutio dei due

fratelli legittimi Giuseppe e Salvatore Failla, con precisazione che

a favore degli stessi vi erano delle «assegnazioni particolari e chia

rificatrici». Seguivano varie disposizioni numerate relative a sin

goli beni in cui veniva specificato il beneficiario, ad eccezione

di quella all'origine della controversia e che seguiva una disposi zione a favore di Salvatore Failla.

La corte d'appello riteneva che nella specie ricorreva una ipo tesi di divisione parziale effettuata dal testatore, con la conse

guenza che i beni non specificamente assegnati, come quelli per cui era causa, dovevano ritenersi attribuiti in comune a tutti gli eredi.

La conclusione secondo la quale l'intenzione del de cuius era

stata quella di attribuire i beni menzionati nella clausola n. 12

in comune a tutti gli eredi era comunque desumibile anche dall'e

same complessivo delle clausole costituenti il testamento.

La corte d'appello rilevava che l'adesione alla tesi dei convenu

ti, secondo la quale i beni oggetto della clausola in questione dovevano intendersi assegnati a Salvatore Failla, avrebbe reso su

perflua la espressa indicazione dei due fratelli del testatore come

eredi, contenuta nella prima parte, derivando tale qualità già dal

la assegnazione agli stessi dei vari beni menzionati nelle altre clau

sole. Né a favore di tale tesi valeva l'osservazione che nel

testamento non vi erano altre attribuzioni congiunte di beni, dal

momento che non si vedeva perché il de cuius avrebbe dovuto

comportarsi in maniera uniforme, a parte la ricorrenza nella spe cie dell'ipotesi di una divisione parziale.

Ugualmente non si poteva sostenere che se era pacifico che

per i beni indicati nelle clausole 5 e 6, pur non essendo menziona

to alcun beneficiario, quest'ultimo andava individuato nel desti

natario dell'ultima attribuzione, la stessa conclusione doveva valere

per i beni contemplati nella clausola n. 12. Non rientrava, infatti, nello stile del testatore riferire le attribuzioni senza specifica indi

cazione del beneficiario al soggetto in precedenza nominato, co

me era dimostrato dal fatto che, dopo avere annunciato una

elencazione di lasciti in favore della moglie, aveva poi ribadito

in uno di tali lasciti, indicato col n. 8, la qualità di legataria della moglie.

Ad avviso della corte d'appello un elemento decisivo in senso

favorevole alla tesi dell'attore era individuabile nel fatto che il

testatore aveva attribuito un numero ad ogni disposizione relati

va a singoli gruppi di beni aventi una identica destinazione sog

gettiva, il che portava ad escludere che i beneficiari della clausola

n. 12 fossero gli stessi di cui alla clausola precedente. Alla luce di quanto in precedenza esposto, la corte d'appello

riteneva che non era esatta l'affermazione degli appellanti secon

do la quale la clausola in questione, se interpretata nel senso so

stenuto dall'attore, sarebbe stata inutile, mentre la interpretazione da essi sostenuta era conforme all'art. 1367 c.c.

La corte d'appello, infine, riteneva infondata l'eccezione pro

posta da Giuseppe Failla di inopponibilità nei suoi confronti del

la sentenza di accoglimento della domanda per essere stata essa

trascritta, in data di più di cinque anni successiva alla trascrizio

ne dell'acquisto mortis causa contestato in favore del proprio dante

causa, in quanto nell'ipotesi prevista dall'art. 2652, n. 7, c.c., invocato da Giuseppe Failla, la buona fede dell'acquirente non

li Foro Italiano — 1989.

può essere presunta, ma va provata dall'interessato, costituendo

tale disposizione solo un'integrazione di quanto disposto dall'art.

534 c.c. con riferimento all'acquisto dall'erede apparente, in cui

la buona fede non è presunta. Nella specie, i contrasti tra parenti facevano propendere per

la presunzione hominis della malafede nella alienazione e nell'ac

quisto dei beni tra padre e figlio. Contro tale decisione hanno proposto separati ricorsi Giuseppe

Failla e gli eredi di Salvatore Failla, rispettivamente con cinque e con sei motivi. Resiste con controricorso Giovanni Failla. Giu

seppe Failla ha anche depositato memoria. I primi cinque motivi

di entrambi i ricorsi sono identici.

Motivi della decisione. — (Omissis). Col quarto motivo di en

trambi i ricorsi viene censurata la affermazione secondo la quale nella fattispecie considerata dall'art. 2652, n. 7, c.c. la buona

fede non è presunta, ma va provata dall'interessato, in conformi

tà al disposto dell'art. 534 c.c., sostenendosi che le due norme

disciplinano fattispecie diverse, il che giustificherebbe un diverso

regime probatorio della buona fede.

Il motivo è fondato. La tesi secondo la quale la buona fede

di cui all'art. 2652, n. 7, c.c. non si può presumere, ma va prova ta dall'avente causa, secondo quanto disposto dall'art. 534, 2°

comma, c.c., è stata affermata da Cass. 15 marzo 1980, n. 1741,

(Foro it., 1980, I, 2519) richiamata dalla sentenza impugnata. Tale decisione è partita dalla premessa secondo la quale la de

roga al principio della presunzione di buona fede di cui all'art.

534 c.c. va individuata nella necessità di una tutela particolar mente intensa dello status di erede effettivo e dei diritti che ne

conseguono nei confronti dei terzi e nella maggiore facilità, in

simili situazioni, per il terzo acquirente, di fornire, attraverso cir

costanze positive inerenti al proprio acquisto a non domino, la

prova concreta della propria buona fede.

A ciò si dovrebbe aggiungere, sulla scia di quanto affermato

nella relazione al re della commissione che ha redatto il codice

(n. 259) che nell'ipotesi in questione la buona fede è un elemento

costitutivo dell'acquisto che, appunto perché tale, deve essere pro vata dall'acquirente che la invoca.

Stando cosi le cose, secondo Cass. 15 marzo 1980, n. 1741, non si potrebbe dubitare del fatto che le stesse ragioni e le stesse

esigenze siano riscontrabili anche in riferimento all'ipotesi disci

plinata dall'art. 2652, n. 7, c.c. Ed invero non sarebbe concepibi le — a meno di non voler accusare il legislatore di assoluta

incoerenza — che due norme del codice civile che benché situate

materialmente in collocazione diversa), disciplinando l'identico isti

tuto (l'erede apparente e la situazione dei terzi che dallo stesso

abbiano acquistato beni facenti parte dell'eredità), assumano del

l'istituto stesso configurazioni diverse.

A ben vedere, l'art. 2652, n. 7, c.c. non farebbe altro che mag

giormente specificare, in relazione ad un problema particolare, la disciplina generale dei terzi aventi causa dall'erede apparente

già contenuta — nelle linee generali — nell'art. 534 c.c. E ciò

sarebbe confermato dal fatto che l'art. 2652, n. 7, c.c. contiene

un espresso richiamo all'art. 534 c.c., di cui fa salve (cioè terreb

be ferme) le disposizioni, in tutte le loro implicazioni e conse

guenze. In definitiva l'art. 2652, n. 7, c.c. estenderebbe gli effetti della

pubblicità sanante ai terzi acquirenti a titolo gratuito, a condizio

ne che siano trascorsi cinque anni almeno tra la trascrizione del

loro acquisto e la trascrizione della domanda dell'erede vero. I

principi relativi alla buona fede ed alla prova di essa resterebbe

ro, però, quelli fissati dall'art. 534 c.c.

Secondo Cass. 15 marzo 1980, n. 1741, infine, non si compren derebbe per quale motivo il beneficio della presunzione di buona

fede dovrebbe estendersi anche all'acquirente a titolo gratuito, che già viene a godere, per effetto del passaggio del quinquennio, del fatto che il suo acquisto a non domino viene fatto salvo.

In senso contrario all'orientamento espresso da tale decisione

va, innanzitutto, rilevato che non sembra esatta l'affermazione

che l'art. 2652, n. 7, e l'art. 534 c.c. disciplinano lo stesso istituto.

Questa Suprema corte ha già avuto occasione di affermare (Cass. 29 luglio 1966, n. 2114, id., 1967, I, 1867) che mentre l'art. 534

c.c. si riferisce esclusivamente alla petizione di eredità ed all'ac

quisto a titolo oneroso da chi è considerato erede apparente, os

sia da chi possiede o si comporta come erede o successore

universale, l'art. 2652, n. 7, c.c. si riferisce a tutti gli altri casi

in cui si contesta il fondamento di un acquisto a causa di morte,

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

il che significa che esso si applica all'acquisto a titolo oneroso

dall'erede in tutti i casi in cui non si rientra nella haereditatis

petitio, all'acquisto a titolo gratuito dall'erede apparente, agli ac

quisti dal legatario. Ne consegue che solo una ipotesi può in teoria, rientrare nel

campo di applicazione sia dell'art. 534 che dell'art. 2652, n. 7,

c.c., e cioè l'alienazione a titolo oneroso al terzo da parte dell'e

rede apparente. Ai fini dell'applicabilità dell'art. 2652, n. 7, però, è richiesto

un ulteriore requisito e cioè che la trascrizione della domanda

con la quale viene contestato il fondamento dell'acquisto a causa

di morte sia di almeno cinque anni successiva alla trascrizione

dell'acquisto stesso.

L'art. 2652, n. 7, c.c., quindi, non integra l'art. 534 c.c., ma

regola fattispecie diverse o richiede un requisito specifico (inerzia del vero erede per cinque anni) idoneo da solo a giustificare una

diversità di disciplina in ordine alla prova della buona fede.

Tale conclusione trova conferma nella stessa formulazione del

l'art. 2652, n. 7, c.c., il quale, prevedendo espressamente che

è «salvo quanto è disposto dal 2° e dal 3° comma dell'art. 534», lascia chiaramente intendere che le due norme disciplinano fatti

specie con presupposti diversi e non che l'una integri la disciplina contenuta nell'altra.

Con riferimento specifico alla presunta incomprensibilità del

riconoscimento del beneficio della presunzione della buona fede

nei confronti dell'acquirente a titolo gratuito, si può osservare

che gli acquisti a titolo gratuito dal terzo in buona fede sono

fatti salvi anche nelle ipotesi considerate nei n. 1, 4, 6 e 9 del

l'art. 2652 c.c., per le quali non si dubita che la buona fede sia

presunta, in conformità ai principi generali, per cui sarebbe piut tosto incomprensibile una diversità di disciplina riferita alla ipo tesi considerata nel n. 7. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 17 mar

zo 1989, n. 1347; Pres. Montanari Visco, Est. Meriggiola, P.M. Minetti (conci, conf.); Min. beni culturali ed ambientali

c. Sciarra ed altri. Regolamento di giurisdizione.

Antichità e belle arti — Ritrovamento di cose d'interesse storico

ed artistico — Premio — Determinazione — Giurisdizione am

ministrativa (L. 1° giugno 1939 n. 1089, tutela delle cose d'in

teresse artistico o storico, art. 44). Antichità e belle arti — Occupazione di suolo privato finalizzata

alla ricerca di cose d'interesse storico ed artistico — Indennizzo — Determinazione — Giurisdizione ordinaria — Fattispecie (L. 1° giugno 1939 n. 1089, art. 43).

Va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in ordi

ne alla domanda con cui il privato, nel cui fondo siano stati

rinvenuti oggetti d'interesse storico e/o artistico, richieda la de

terminazione del premio a lui spettante ai sensi dell'art. 44 I.

1089/39. (1)

(1) La sentenza segna un deciso mutamento d'indirizzo nella materia

esaminata, a differenza di quanto verrebbe fatto di credere leggendone la motivazione. Le sezioni unite, infatti pur qualificando, senza formule

equivoche, quale interesse legittimo la posizione del proprietario delle co

se scoperte di fronte alle facoltà della pubblica amministrazione nella de

terminazione del premio, precisano che «in momenti successivi ed in

determinate particolari circostanze, nel corso del procedimento per la de

terminazione del premio, ad esempio dopo la costituzione, in caso di

disaccordo con il ministro, della commissione di tre periti, di fronte alla

quale proprietario e pubblica amministrazione sono in condizione parita

ria», la posizione del proprietario ben può assurgere ad espressione di

un diritto soggettivo tutelato da norme di relazione. Cosi, tentando di

recuperare l'armonia complessiva del panorama giurisprudenziale forma

tosi nel tempo, a partire dagli anni '50, la decisione riportata non si sof

ferma a rilevare la profonda divergenza di opinioni che è alla base della

precedente giurisprudenza e dell'ultima decisione della Cassazione.

Infatti, le pronunce meno recenti che avevano affermato la giurisdizio ne dell'autorità giudiziaria ordinaria in ordine a controversie relative alla

determinazione del premio (ci si riferisce alla sentenza, ricordata in moti

1l Foro Italiano — 1989 — Parte 1-33.

Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia

avente ad oggetto la determinazione dell'indennità dovuta al

privato per l'occupazione del suolo, finalizzata alla ricerca di

cose d'interesse storico e/o artistico, disposta ai sensi dell'art.

43 l. 1089/39 (nella specie, il ministero per i beni culturali ed

ambientali, nonostante fosse stato sollecitato dal privato al fi ne di ottenere l'indennizzo, non aveva fornito alcuna risposta al riguardo). (2)

vazione, delle sezioni unite del 27 gennaio 1977, n. 401, Foro it., Rep. 1977, voce Antichità e belle arti, n. 36, e in Giust. civ., 1977, I, 1600; Giur. it., 1977, I, 1, 550; Ross. avv. Stato, 1977, I, 408, con nota forte mente critica di Vitaliani, nonché alla decisione di secondo grado resa nella medesima controversia da App. Roma 9 giugno 1975, Foro it., 1975, I, 2601, con nota di richiami), avevano si ad oggetto fattispecie particola ri e diverse da quella esaminata nell'odierna decisione (in quella sede, si controverteva circa l'impugnazione dell'accordo raggiunto tra lo sco

pritore di cose artistiche e la pubblica amministrazione - - e con il quale era già stato determinato il premio nella sua misura —, invocandosi da

parte dello scopritore l'annullamento per dolo dell'accordo, avendo l'am ministrazione operato al fine di contenere il valore delie cose ritrovate e poter, cosi, versare una somma irrisoria a titolo di premio); ma nella motivazione delle stesse sentenze sia i giudici di legittimità sia quelli di merito non avevano dubbi nel qualificare, in contrasto con la sentenza in epigrafe, la posizione del privato proprietario o dello scopritore (a seconda che si faccia riferimento alle ricerche effettuate direttamente dal lo Stato ovvero a quelle svolte dietro autorizzazione della pubblica ammi

nistrazione) come posizione di diritto soggettivo. In particolare, la sentenza 401/77 argomentava in tal senso muovendo dalla funzione del premio, definita «compensativa della diminuzione, o comunque del mancato in cremento patrimoniale, che, se pure non ravvisabile all'interno della di

sciplina speciale dettata per la materia in ragione dell'attribuzione della

proprietà dei reperti in via originaria allo Stato, si coglie però con tutta evidenza ove si faccia riferimento alla normativa sul tesoro in diritto co

mune, alla quale la legge speciale deroga negando, appunto, l'acquisto reale in capo sia al proprietario del fondo, che allo scopritore» (in tal modo rieditando l'insegnamento di Cass. 12 ottobre 1954, n. 3623, id., 1955, I, 497, con nota di richiami, relativa alla sussistenza del diritto al premio anche per lo scopritore che avesse omesso di presentare la de nuncia prevista dalla legge, e nella motivazione della quale si definiva

appunto come di diritto soggettivo la posizione del privato di fronte al l'attribuzione del premio; nello stesso senso si era espressa, sotto il vigore della previgente legge 20 giugno 1909 n. 364, Cass., sez. un., 31 marzo

1942, n. 886, id., Rep. 1942, voce Monumento, n. 12). Inoltre, notevole

peso veniva affidato, in quella sede, alla valutazione della composizione paritaria della commissione, prevista per la determinazione del premio in caso di disaccordo, che risulta «strutturata secondo una composizione che denota il riconoscimento normativo di un pari peso all'interesse» del la pubblica amministrazione e del privato (per una diversa valutazione della composizione dell'analoga commissione ex art. 31 1. 1089/39, per la determinazione del prezzo di prelazione, si rinvia a Cass. 17 febbraio

1976, n. 514, id., 1976, I, 1260, con ampia nota di richiami di C. M.

Barone). Del resto, che questo fosse l'indirizzo costante della giurispru denza è confermato dalla più recente decisione di merito (App. Lecce 22 aprile 1982, id., Rep. 1982, voce Antichità e belle arti, n. 40), che ha ribadito l'appartenenza alla giurisdizione ordinaria della controversia relativa alla domanda diretta all'attribuzione ed alla quantificazione del

premio dovuto dalla pubblica amministrazione Edio scopritore, ai sensi dell'art. 49 1. 1089/39.

La decisione riportata fonda il proprio convincimento essenzialmente sulla valutazione dell'ampia discrezionalità della pubblica amministrazio ne nella scelta del mezzo e delle modalità con cui può essere determinato il premio da riconoscere al privato (su tale aspetto v., in dottrina, la chiara esposizione di Cantucci, La tutela giuridica delle cose d'interesse artistico o storico, Padova, 1953, 419, che sottolinea la discrezionalità della sovrintendenza nell'operare la ripartizione di quanto viene ritrovato o scoperto, che potrà avvenire sul prezzo, sulle cose, parte sul prezzo e parte sulle cose); con ciò che ne deriva in termini di qualificazione dell'indennità dovuta a titolo di premio, che «costituisce anche l'espres sione di un criterio di giustizia distributiva e riconoscimento nei confronti

di coloro che hanno proceduto al ritrovamento o ai proprietari dei terre

ni, oltreché stimolo per ulteriori ricerche» (con espressioni del tutto ana

loghe si esprimeva già Grisoiia, La tutela delle cose d'arte, Roma, 1952, 452: «il premio, appunto perché tale, anche quando è conferito in natu

ra, non è corrisposto a titolo di un diritto sulle cose ritrovate o scoperte, ma serve (...) ad attuare un evidente criterio di giustizia distributiva»).

In dottrina, per un recente quadro d'assieme della disciplina delle cose

d'interesse storico ed artistico, cfr. Ferri, Beni culturali ed ambientali

nel diritto amministrativo, voce del Digesto pubbl., Torino, 1987, II, 217 ss.

(2) Questione nuova. Peraltro, la soluzione offerta dalla decisione in

epigrafe si coniuga correttamente con l'orientamento giurisprudenziale che

sostiene l'appartenenza alla giurisdizione ordinaria delle controversie re

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