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sezione II civile; sentenza 21 marzo 1989, n. 1402; Pres. Montanari Visco, Est. Triola, P.M.Simeone (concl. parz. diff.); Failla (Avv. G. e L. Maniscalco Basile, Vittorelli) c. Failla (Avv.Bruno). Cassa App. Palermo 24 ottobre 1984Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1989), pp. 1809/1810-1813/1814Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23184031 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
sulla legge in generale, la legge finanziaria, al pari di tutte le
altre, si presume conosciuta e diviene obbligatoria per tutti, de
corso il periodo di vacatio legis, che, nella specie, fu molto limi
tato in quanto detta legge entrò in vigore il giorno successivo
a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale (art. 23). Da ciò deriva che il tribunale, dopo aver ritenuto che il con
tratto di appalto dissimulava un contratto di lavoro, ha esatta
mente stabilito che questo era nullo a norma del combinato
disposto degli art. 1343 e 1418 c.c.
Appunto per la natura imperativa della norma contenente il
divieto rivolto non solo all'amministrazione pubblica, ma anche
a tutti i cittadini, non può condividersi la diversa tesi prospettata dai ricorrenti secondo la quale il contratto sarebbe valido e avrebbe
potuto essere ritenuto nullo soltanto se escluso in frode alla leg
ge, se cioè fosse stato l'effetto di un accordo tra la centrale muni
cipalizzata del latte ed i ricorrenti, i quali, consapevoli di non
poter concludere un valido contratto di lavoro, avrebbero adotta
to la forma dell'appalto al fine di eludere il divieto di cui al cita
to art. 9, cosi ponendo in essere un contratto in frode alla legge vietato dall'art. 1344 c.c.
Giova anzi a questo punto rilevare che questa corte si è pro nunciata a sezioni unite, anche se in epoca non recente (sent. 2697 del 21 agosto 1972), in un caso analogo, verificatosi con
riguardo alla applicazione della 1. reg. sic. 5 febbraio 1954 n.
1, recante norme integrative per la gestione di esattorie di impo ste dirette, che, all'art. 3, vieta ai delegati e gestori provvisori di procedere a nuove assunzioni di personale in pianta stabile, stabilendo che tale disposizione «costituisce norma imperativa ed
importa conseguentemente la nullità del negozio ad essa contra
rio stipulato dal delegato governativo, anche se la proibita assun
zione in pianta stabile di personale sia stata autorizzata
dall'amministrazione delegante». Restano in tali argomentazioni assorbite le critiche prospettate
dal ricorrente alla parte in cui la sentenza impugnata fa richiamo
al concetto di ordine pubblico. Invero, esse sono anche infondate
perché il concetto di ordine pubblico non risulta riferito alle esi
genze etiche medie, ma in quello più proprio di assetto politico fondamentale dello Stato, cioè di una normativa generale diretta
al contenimento della spesa pubblica, con cui non contrasta in
modo radicale un parallelo regime di eccezioni specifiche poste a tutela di imprescindibili interessi dell'amministrazione.
Il ricorso principale deve, pertanto, essere respinto. Del pari deve esserlo quello incidentale.
Le considerazioni che la centrale del latte svolge con riguardo alla natura del contratto per sostenere che la prestazione del Rosi
e del Criscuolo non era di pura mano d'opera e che essi si assu
mevano il rischio dell'impresa costituiscono valutazioni di fatto
in contrasto con la sentenza impugnata, la quale ha ampiamente
esposto, con ragionamento immune da vizi logici e giuridici non
ché ricco di particolari, i motivi per i quali ha ritenuto che la
scrittura privata contenente il contratto di appalto dissimulava
un contratto di lavoro subordinato, sicché non è consentito in
questa sede rivalutare le suddette circostanze. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 21 marzo
1989, n. 1402; Pres. Montanari Visco, Est. Triola, P.M. Si
meone (conci, parz. diff.); Failla (Avv. G. e L. Maniscalco
Basile, Vittorelli) c. Failla (Avv. Bruno). Cassa App. Paler
mo 24 ottobre 1984.
Successione ereditaria — Petizione — Acquisto del terzo a titolo
gratuito dall'erede apparente — Domanda di contestazione del
fondamento dell'acquisto presentata oltre i cinque anni dalla
tradizione — Buona fede — Onere della prova (Cod. civ., art.
534, 2652).
I terzi che abbiano acquistato a titolo gratuito dall'erede appa rente non devono provare la propria buona fede, qualora la
trascrizione della domanda con cui si contesta il fondamento
II Foro Italiano — 1989.
di un acquisto a causa di morte sia eseguita trascorsi cinque anni dalla data di trascrizione dell'acquisto. (1)
Svolgimento del processo. — Con ricorso in data 11 aprile 1980,
diretto al presidente del Tribunale di Palermo, Giovanni Failla
esponeva: che in data 4 marzo 1964 era deceduto il proprio zio
Nicolò Failla, il quale aveva disposto delle proprie sostanze con
testamento olografo del 29 gennaio 1964; che Nicolò Failla aveva
nominato eredi universali i propri fratelli Giuseppe (del quale es
so ricorrente era a sua volta erede) e Salvatore Failla; che Salva
tore Failla sosteneva che alcuni beni (nel frattempo donati al figlio
Giuseppe Failla) gli erano stati attribuiti in piena proprietà, men
tre invece dovevano ritenersi comuni ad entrambi gli eredi; tanto
premesso, il ricorrente chiedeva che venisse disposto il sequestro
(1) La sentenza capovolge esplicitamente il principio di diritto afferma to nell'unico precedente che è dato rinvenire sul punto, in tema di neces sità della prova della buona fede da parte dell'acquirente a titolo gratuito, avente causa dall'erede apparente, che intenda avvalersi del disposto di cui all'art. 2652, n. 7, c.c.
Cass. 15 marzo 1980, n. 1741 (Foro it., 1980, I, 2519, con nota di P. Lonero), sulla scia di una dottrina autorevole e dominante (L. Ferri, Tutela dei diritti,' in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1962, 274-275; Busnelli, Erede apparente, voce dell' Enciclopedia del diritto,
Milano, 1966, XV, 205-206), fondata sulla buona fede come elemento costitutivo dell'acquisto del terzo — e, pertanto, da provare da parte dell'interessato — sosteneva, infatti, che la disposizione dell'art. 2652, n. 7, rappresenta soltanto «un'integrazione dell'istituto dell'erede appa rente, che conserva le sue linee essenziali quali delineate dall'art. 534 c.c.
(...) dal che consegue che anche [nel caso di acquisto a titolo gratuito] il terzo è tenuto a fornire la dimostrazione della propria buona fede».
Sicché, «l'art. 2652, n. 7, estende gli effetti della pubblicità sanante an che ai terzi acquirenti a titolo gratuito, a condizione che siano trascorsi almeno cinque anni tra la trascrizione del loro acquisto e quella della domanda dell'erede vero»; ma «i principi relativi alla buona fede dell'ac
quirente ed alla prova di essa restano quelli fissati dall'art. 534». La sentenza in epigrafe riprende il ragionamento seguito da Cass. 15
marzo 1980, n. 1741, cit., e lo sottopone a revisione, affermando che l'art. 2652, n. 7, e l'art. 534 in realtà disciplinano istituti diversi, fattispe cie che coincidono solo per la parte corrispondente all'acquisto a titolo oneroso del terzo dall'erede apparente, come si ricava, tra l'altro, dalla clausola di riserva contenuta nell'art. 2652, n. 7. Pertanto, conclude l'ul tima sentenza della Cassazione, l'art. 2652, n. 7, «non integra l'art. 534
c.c., ma regola fattispecie diverse e richiede un requisito specifico (inerzia del vero erede per cinque anni) idoneo da solo a giustificare una diversità di disciplina in ordine alla prova della buona fede». E, nella sostanza, la tesi della corte appare convincente. Nel disegno del legislatore, l'acqui rente a titolo oneroso dall'erede apparente ha la possibilità di salvare
(subito) il suo acquisto a non domino, dimostrando la propria buona fede. L'acquirente a titolo gratuito invece non può farlo, dovendo aspet tare, per via della minore dignità di tutela accordata al proprio titolo di acquisto, che trascorrano cinque anni almeno, senza che sia stata tra scritta alcuna domanda di contestazione da parte dell'erede vero, dalla data di trascrizione dell'acquisto (da parte dell'erede apparente, come se
gnala la migliore dottrina — v. per tutti, L. Ferri, op. cit., 276; Id., Successioni in generale, in Commentario Scialojà-Branca, Bologna-Roma, 1969, sub art. 534, 226 — e non dall'acquisto del terzo, come invece
suppongono entrambe le sentenze di cui qui si discute). Una volta trascorsi i cinque anni, la logica del sistema sembra imporre
il ritorno alla regola generale, della presunzione della buona fede, a favo re del terzo acquirente. Il decorso del quinquennio, unito alla trascrizione del titolo, vale a salvaguardare gli acquisti a titolo gratuito (tale il feno meno della c.d. «pubblicità sanante»): gli acquisti a titolo oneroso vengo no preservati immediatamente, se sussistono invece i presupposti di cui all'art. 534, tra cui la prova della buona fede, esplicitamente richiesta dalla norma. Nella dottrina più recente, Bianca, Diritto civile 2, Milano, 1985, II, 502-503, sembra autorizzare tali conclusioni, pur non affrontan do in particolare il punto dell'onere della prova della buona fede da parte del terzo; sulla diversità dei presupposti a fondamento della disciplina di cui agli art. 534 e 2652, n. 7 (rispettivamente ispirati all'apparenza del diritto e al requisito formale della trascrizione), v. Grosso e Burdese, Le successioni, in Trattato diretto da Vassalli, Torino, 1977, 434-435; cfr. ancora Mengoni, Gli acquisti «a non domino»3, Milano, 1975, 362, 365 s., per la configurazione della buona fede nell'art. 2652, n. 7, come
requisito impeditivo dell'acquisto del terzo; F. S. Gentile, Trascrizione, voce del Novissimo digesto, Torino, 1973, 526; De Lise, Della trascrizio
ne, in Commentario diretto da De Martino, Roma, 1970, sub art. 2652, 460. Sul problema dell'onere della prova, in generale, v. Comoglio, Le
prove, in Trattato diretto da Rescigno, Torino, 1985, XIX, 163. Per
un inquadramento complessivo della tematica degli acquisti dall'erede ap
parente, v. invece, da ultimo, E. Conti, La petizione di eredità, in Trat tato diretto da Rescigno, Torino, 1982, V, 322 ss. [F. Cosentino]
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1811 PARTE PRIMA 1812
giudiziario dei beni in questione, sequestro che veniva autorizza
to dal presidente del tribunale.
Con atto notificato 18 luglio 1980 Giovanni Failla conveniva
davanti al Tribunale di Palermo Salvatore e Giuseppe Failla, chie
dendo la convalida del sequestro, la dichiarazione che i beni con
tesi erano comuni, con conseguente divisione degli stessi.
Il tribunale, con sentenza del 21 settembre 1982, rigettava la
domanda.
Giovanni Failla proponeva appello, che veniva accolto dalla
Corte d'appello di Palermo con sentenza non definitiva del 24
ottobre 1984.
La corte d'appello osservava che, nella specie, si trattava di
interpretare la clausola testamentaria indicata con il numero 12
del testamento di Nicolò Failla, del seguente tenore: «Lascio e
assegno la casa di mia proprietà sita in Carini di via San Lorenzo
n. 81 da me oggi abitata ed accludo l'altra casa di mia proprietà in via delle Scuole n. 45...».
La difficoltà nasceva dal fatto che la disposizione si inseriva
in un testamento col quale Nicolò Failla aveva prima disposto una serie di legati, in usufrutto ed in piena proprietà, in favore
della moglie, poi aveva proceduto alla haeredis institutio dei due
fratelli legittimi Giuseppe e Salvatore Failla, con precisazione che
a favore degli stessi vi erano delle «assegnazioni particolari e chia
rificatrici». Seguivano varie disposizioni numerate relative a sin
goli beni in cui veniva specificato il beneficiario, ad eccezione
di quella all'origine della controversia e che seguiva una disposi zione a favore di Salvatore Failla.
La corte d'appello riteneva che nella specie ricorreva una ipo tesi di divisione parziale effettuata dal testatore, con la conse
guenza che i beni non specificamente assegnati, come quelli per cui era causa, dovevano ritenersi attribuiti in comune a tutti gli eredi.
La conclusione secondo la quale l'intenzione del de cuius era
stata quella di attribuire i beni menzionati nella clausola n. 12
in comune a tutti gli eredi era comunque desumibile anche dall'e
same complessivo delle clausole costituenti il testamento.
La corte d'appello rilevava che l'adesione alla tesi dei convenu
ti, secondo la quale i beni oggetto della clausola in questione dovevano intendersi assegnati a Salvatore Failla, avrebbe reso su
perflua la espressa indicazione dei due fratelli del testatore come
eredi, contenuta nella prima parte, derivando tale qualità già dal
la assegnazione agli stessi dei vari beni menzionati nelle altre clau
sole. Né a favore di tale tesi valeva l'osservazione che nel
testamento non vi erano altre attribuzioni congiunte di beni, dal
momento che non si vedeva perché il de cuius avrebbe dovuto
comportarsi in maniera uniforme, a parte la ricorrenza nella spe cie dell'ipotesi di una divisione parziale.
Ugualmente non si poteva sostenere che se era pacifico che
per i beni indicati nelle clausole 5 e 6, pur non essendo menziona
to alcun beneficiario, quest'ultimo andava individuato nel desti
natario dell'ultima attribuzione, la stessa conclusione doveva valere
per i beni contemplati nella clausola n. 12. Non rientrava, infatti, nello stile del testatore riferire le attribuzioni senza specifica indi
cazione del beneficiario al soggetto in precedenza nominato, co
me era dimostrato dal fatto che, dopo avere annunciato una
elencazione di lasciti in favore della moglie, aveva poi ribadito
in uno di tali lasciti, indicato col n. 8, la qualità di legataria della moglie.
Ad avviso della corte d'appello un elemento decisivo in senso
favorevole alla tesi dell'attore era individuabile nel fatto che il
testatore aveva attribuito un numero ad ogni disposizione relati
va a singoli gruppi di beni aventi una identica destinazione sog
gettiva, il che portava ad escludere che i beneficiari della clausola
n. 12 fossero gli stessi di cui alla clausola precedente. Alla luce di quanto in precedenza esposto, la corte d'appello
riteneva che non era esatta l'affermazione degli appellanti secon
do la quale la clausola in questione, se interpretata nel senso so
stenuto dall'attore, sarebbe stata inutile, mentre la interpretazione da essi sostenuta era conforme all'art. 1367 c.c.
La corte d'appello, infine, riteneva infondata l'eccezione pro
posta da Giuseppe Failla di inopponibilità nei suoi confronti del
la sentenza di accoglimento della domanda per essere stata essa
trascritta, in data di più di cinque anni successiva alla trascrizio
ne dell'acquisto mortis causa contestato in favore del proprio dante
causa, in quanto nell'ipotesi prevista dall'art. 2652, n. 7, c.c., invocato da Giuseppe Failla, la buona fede dell'acquirente non
li Foro Italiano — 1989.
può essere presunta, ma va provata dall'interessato, costituendo
tale disposizione solo un'integrazione di quanto disposto dall'art.
534 c.c. con riferimento all'acquisto dall'erede apparente, in cui
la buona fede non è presunta. Nella specie, i contrasti tra parenti facevano propendere per
la presunzione hominis della malafede nella alienazione e nell'ac
quisto dei beni tra padre e figlio. Contro tale decisione hanno proposto separati ricorsi Giuseppe
Failla e gli eredi di Salvatore Failla, rispettivamente con cinque e con sei motivi. Resiste con controricorso Giovanni Failla. Giu
seppe Failla ha anche depositato memoria. I primi cinque motivi
di entrambi i ricorsi sono identici.
Motivi della decisione. — (Omissis). Col quarto motivo di en
trambi i ricorsi viene censurata la affermazione secondo la quale nella fattispecie considerata dall'art. 2652, n. 7, c.c. la buona
fede non è presunta, ma va provata dall'interessato, in conformi
tà al disposto dell'art. 534 c.c., sostenendosi che le due norme
disciplinano fattispecie diverse, il che giustificherebbe un diverso
regime probatorio della buona fede.
Il motivo è fondato. La tesi secondo la quale la buona fede
di cui all'art. 2652, n. 7, c.c. non si può presumere, ma va prova ta dall'avente causa, secondo quanto disposto dall'art. 534, 2°
comma, c.c., è stata affermata da Cass. 15 marzo 1980, n. 1741,
(Foro it., 1980, I, 2519) richiamata dalla sentenza impugnata. Tale decisione è partita dalla premessa secondo la quale la de
roga al principio della presunzione di buona fede di cui all'art.
534 c.c. va individuata nella necessità di una tutela particolar mente intensa dello status di erede effettivo e dei diritti che ne
conseguono nei confronti dei terzi e nella maggiore facilità, in
simili situazioni, per il terzo acquirente, di fornire, attraverso cir
costanze positive inerenti al proprio acquisto a non domino, la
prova concreta della propria buona fede.
A ciò si dovrebbe aggiungere, sulla scia di quanto affermato
nella relazione al re della commissione che ha redatto il codice
(n. 259) che nell'ipotesi in questione la buona fede è un elemento
costitutivo dell'acquisto che, appunto perché tale, deve essere pro vata dall'acquirente che la invoca.
Stando cosi le cose, secondo Cass. 15 marzo 1980, n. 1741, non si potrebbe dubitare del fatto che le stesse ragioni e le stesse
esigenze siano riscontrabili anche in riferimento all'ipotesi disci
plinata dall'art. 2652, n. 7, c.c. Ed invero non sarebbe concepibi le — a meno di non voler accusare il legislatore di assoluta
incoerenza — che due norme del codice civile che benché situate
materialmente in collocazione diversa), disciplinando l'identico isti
tuto (l'erede apparente e la situazione dei terzi che dallo stesso
abbiano acquistato beni facenti parte dell'eredità), assumano del
l'istituto stesso configurazioni diverse.
A ben vedere, l'art. 2652, n. 7, c.c. non farebbe altro che mag
giormente specificare, in relazione ad un problema particolare, la disciplina generale dei terzi aventi causa dall'erede apparente
già contenuta — nelle linee generali — nell'art. 534 c.c. E ciò
sarebbe confermato dal fatto che l'art. 2652, n. 7, c.c. contiene
un espresso richiamo all'art. 534 c.c., di cui fa salve (cioè terreb
be ferme) le disposizioni, in tutte le loro implicazioni e conse
guenze. In definitiva l'art. 2652, n. 7, c.c. estenderebbe gli effetti della
pubblicità sanante ai terzi acquirenti a titolo gratuito, a condizio
ne che siano trascorsi cinque anni almeno tra la trascrizione del
loro acquisto e la trascrizione della domanda dell'erede vero. I
principi relativi alla buona fede ed alla prova di essa resterebbe
ro, però, quelli fissati dall'art. 534 c.c.
Secondo Cass. 15 marzo 1980, n. 1741, infine, non si compren derebbe per quale motivo il beneficio della presunzione di buona
fede dovrebbe estendersi anche all'acquirente a titolo gratuito, che già viene a godere, per effetto del passaggio del quinquennio, del fatto che il suo acquisto a non domino viene fatto salvo.
In senso contrario all'orientamento espresso da tale decisione
va, innanzitutto, rilevato che non sembra esatta l'affermazione
che l'art. 2652, n. 7, e l'art. 534 c.c. disciplinano lo stesso istituto.
Questa Suprema corte ha già avuto occasione di affermare (Cass. 29 luglio 1966, n. 2114, id., 1967, I, 1867) che mentre l'art. 534
c.c. si riferisce esclusivamente alla petizione di eredità ed all'ac
quisto a titolo oneroso da chi è considerato erede apparente, os
sia da chi possiede o si comporta come erede o successore
universale, l'art. 2652, n. 7, c.c. si riferisce a tutti gli altri casi
in cui si contesta il fondamento di un acquisto a causa di morte,
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
il che significa che esso si applica all'acquisto a titolo oneroso
dall'erede in tutti i casi in cui non si rientra nella haereditatis
petitio, all'acquisto a titolo gratuito dall'erede apparente, agli ac
quisti dal legatario. Ne consegue che solo una ipotesi può in teoria, rientrare nel
campo di applicazione sia dell'art. 534 che dell'art. 2652, n. 7,
c.c., e cioè l'alienazione a titolo oneroso al terzo da parte dell'e
rede apparente. Ai fini dell'applicabilità dell'art. 2652, n. 7, però, è richiesto
un ulteriore requisito e cioè che la trascrizione della domanda
con la quale viene contestato il fondamento dell'acquisto a causa
di morte sia di almeno cinque anni successiva alla trascrizione
dell'acquisto stesso.
L'art. 2652, n. 7, c.c., quindi, non integra l'art. 534 c.c., ma
regola fattispecie diverse o richiede un requisito specifico (inerzia del vero erede per cinque anni) idoneo da solo a giustificare una
diversità di disciplina in ordine alla prova della buona fede.
Tale conclusione trova conferma nella stessa formulazione del
l'art. 2652, n. 7, c.c., il quale, prevedendo espressamente che
è «salvo quanto è disposto dal 2° e dal 3° comma dell'art. 534», lascia chiaramente intendere che le due norme disciplinano fatti
specie con presupposti diversi e non che l'una integri la disciplina contenuta nell'altra.
Con riferimento specifico alla presunta incomprensibilità del
riconoscimento del beneficio della presunzione della buona fede
nei confronti dell'acquirente a titolo gratuito, si può osservare
che gli acquisti a titolo gratuito dal terzo in buona fede sono
fatti salvi anche nelle ipotesi considerate nei n. 1, 4, 6 e 9 del
l'art. 2652 c.c., per le quali non si dubita che la buona fede sia
presunta, in conformità ai principi generali, per cui sarebbe piut tosto incomprensibile una diversità di disciplina riferita alla ipo tesi considerata nel n. 7. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 17 mar
zo 1989, n. 1347; Pres. Montanari Visco, Est. Meriggiola, P.M. Minetti (conci, conf.); Min. beni culturali ed ambientali
c. Sciarra ed altri. Regolamento di giurisdizione.
Antichità e belle arti — Ritrovamento di cose d'interesse storico
ed artistico — Premio — Determinazione — Giurisdizione am
ministrativa (L. 1° giugno 1939 n. 1089, tutela delle cose d'in
teresse artistico o storico, art. 44). Antichità e belle arti — Occupazione di suolo privato finalizzata
alla ricerca di cose d'interesse storico ed artistico — Indennizzo — Determinazione — Giurisdizione ordinaria — Fattispecie (L. 1° giugno 1939 n. 1089, art. 43).
Va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in ordi
ne alla domanda con cui il privato, nel cui fondo siano stati
rinvenuti oggetti d'interesse storico e/o artistico, richieda la de
terminazione del premio a lui spettante ai sensi dell'art. 44 I.
1089/39. (1)
(1) La sentenza segna un deciso mutamento d'indirizzo nella materia
esaminata, a differenza di quanto verrebbe fatto di credere leggendone la motivazione. Le sezioni unite, infatti pur qualificando, senza formule
equivoche, quale interesse legittimo la posizione del proprietario delle co
se scoperte di fronte alle facoltà della pubblica amministrazione nella de
terminazione del premio, precisano che «in momenti successivi ed in
determinate particolari circostanze, nel corso del procedimento per la de
terminazione del premio, ad esempio dopo la costituzione, in caso di
disaccordo con il ministro, della commissione di tre periti, di fronte alla
quale proprietario e pubblica amministrazione sono in condizione parita
ria», la posizione del proprietario ben può assurgere ad espressione di
un diritto soggettivo tutelato da norme di relazione. Cosi, tentando di
recuperare l'armonia complessiva del panorama giurisprudenziale forma
tosi nel tempo, a partire dagli anni '50, la decisione riportata non si sof
ferma a rilevare la profonda divergenza di opinioni che è alla base della
precedente giurisprudenza e dell'ultima decisione della Cassazione.
Infatti, le pronunce meno recenti che avevano affermato la giurisdizio ne dell'autorità giudiziaria ordinaria in ordine a controversie relative alla
determinazione del premio (ci si riferisce alla sentenza, ricordata in moti
1l Foro Italiano — 1989 — Parte 1-33.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia
avente ad oggetto la determinazione dell'indennità dovuta al
privato per l'occupazione del suolo, finalizzata alla ricerca di
cose d'interesse storico e/o artistico, disposta ai sensi dell'art.
43 l. 1089/39 (nella specie, il ministero per i beni culturali ed
ambientali, nonostante fosse stato sollecitato dal privato al fi ne di ottenere l'indennizzo, non aveva fornito alcuna risposta al riguardo). (2)
vazione, delle sezioni unite del 27 gennaio 1977, n. 401, Foro it., Rep. 1977, voce Antichità e belle arti, n. 36, e in Giust. civ., 1977, I, 1600; Giur. it., 1977, I, 1, 550; Ross. avv. Stato, 1977, I, 408, con nota forte mente critica di Vitaliani, nonché alla decisione di secondo grado resa nella medesima controversia da App. Roma 9 giugno 1975, Foro it., 1975, I, 2601, con nota di richiami), avevano si ad oggetto fattispecie particola ri e diverse da quella esaminata nell'odierna decisione (in quella sede, si controverteva circa l'impugnazione dell'accordo raggiunto tra lo sco
pritore di cose artistiche e la pubblica amministrazione - - e con il quale era già stato determinato il premio nella sua misura —, invocandosi da
parte dello scopritore l'annullamento per dolo dell'accordo, avendo l'am ministrazione operato al fine di contenere il valore delie cose ritrovate e poter, cosi, versare una somma irrisoria a titolo di premio); ma nella motivazione delle stesse sentenze sia i giudici di legittimità sia quelli di merito non avevano dubbi nel qualificare, in contrasto con la sentenza in epigrafe, la posizione del privato proprietario o dello scopritore (a seconda che si faccia riferimento alle ricerche effettuate direttamente dal lo Stato ovvero a quelle svolte dietro autorizzazione della pubblica ammi
nistrazione) come posizione di diritto soggettivo. In particolare, la sentenza 401/77 argomentava in tal senso muovendo dalla funzione del premio, definita «compensativa della diminuzione, o comunque del mancato in cremento patrimoniale, che, se pure non ravvisabile all'interno della di
sciplina speciale dettata per la materia in ragione dell'attribuzione della
proprietà dei reperti in via originaria allo Stato, si coglie però con tutta evidenza ove si faccia riferimento alla normativa sul tesoro in diritto co
mune, alla quale la legge speciale deroga negando, appunto, l'acquisto reale in capo sia al proprietario del fondo, che allo scopritore» (in tal modo rieditando l'insegnamento di Cass. 12 ottobre 1954, n. 3623, id., 1955, I, 497, con nota di richiami, relativa alla sussistenza del diritto al premio anche per lo scopritore che avesse omesso di presentare la de nuncia prevista dalla legge, e nella motivazione della quale si definiva
appunto come di diritto soggettivo la posizione del privato di fronte al l'attribuzione del premio; nello stesso senso si era espressa, sotto il vigore della previgente legge 20 giugno 1909 n. 364, Cass., sez. un., 31 marzo
1942, n. 886, id., Rep. 1942, voce Monumento, n. 12). Inoltre, notevole
peso veniva affidato, in quella sede, alla valutazione della composizione paritaria della commissione, prevista per la determinazione del premio in caso di disaccordo, che risulta «strutturata secondo una composizione che denota il riconoscimento normativo di un pari peso all'interesse» del la pubblica amministrazione e del privato (per una diversa valutazione della composizione dell'analoga commissione ex art. 31 1. 1089/39, per la determinazione del prezzo di prelazione, si rinvia a Cass. 17 febbraio
1976, n. 514, id., 1976, I, 1260, con ampia nota di richiami di C. M.
Barone). Del resto, che questo fosse l'indirizzo costante della giurispru denza è confermato dalla più recente decisione di merito (App. Lecce 22 aprile 1982, id., Rep. 1982, voce Antichità e belle arti, n. 40), che ha ribadito l'appartenenza alla giurisdizione ordinaria della controversia relativa alla domanda diretta all'attribuzione ed alla quantificazione del
premio dovuto dalla pubblica amministrazione Edio scopritore, ai sensi dell'art. 49 1. 1089/39.
La decisione riportata fonda il proprio convincimento essenzialmente sulla valutazione dell'ampia discrezionalità della pubblica amministrazio ne nella scelta del mezzo e delle modalità con cui può essere determinato il premio da riconoscere al privato (su tale aspetto v., in dottrina, la chiara esposizione di Cantucci, La tutela giuridica delle cose d'interesse artistico o storico, Padova, 1953, 419, che sottolinea la discrezionalità della sovrintendenza nell'operare la ripartizione di quanto viene ritrovato o scoperto, che potrà avvenire sul prezzo, sulle cose, parte sul prezzo e parte sulle cose); con ciò che ne deriva in termini di qualificazione dell'indennità dovuta a titolo di premio, che «costituisce anche l'espres sione di un criterio di giustizia distributiva e riconoscimento nei confronti
di coloro che hanno proceduto al ritrovamento o ai proprietari dei terre
ni, oltreché stimolo per ulteriori ricerche» (con espressioni del tutto ana
loghe si esprimeva già Grisoiia, La tutela delle cose d'arte, Roma, 1952, 452: «il premio, appunto perché tale, anche quando è conferito in natu
ra, non è corrisposto a titolo di un diritto sulle cose ritrovate o scoperte, ma serve (...) ad attuare un evidente criterio di giustizia distributiva»).
In dottrina, per un recente quadro d'assieme della disciplina delle cose
d'interesse storico ed artistico, cfr. Ferri, Beni culturali ed ambientali
nel diritto amministrativo, voce del Digesto pubbl., Torino, 1987, II, 217 ss.
(2) Questione nuova. Peraltro, la soluzione offerta dalla decisione in
epigrafe si coniuga correttamente con l'orientamento giurisprudenziale che
sostiene l'appartenenza alla giurisdizione ordinaria delle controversie re
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