sezione II civile; sentenza 4 agosto 1988, n. 4830; Pres. Carotenuto, Est. Rotunno, P.M. La Valva(concl. conf.); Pelosi (Avv. Titomanlio) c. Compagnia di assicurazione di Milano, Sandulli (Avv.Sandulli) e altri; Porfido (Avv. Arieta) c. Compagnia di assicurazione di Milano, Sandulli e altri.Cassa App. Napoli 23 novembre 1983Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1988), pp. 3267/3268-3271/3272Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23181535 .
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3267 PARTE PRIMA 3268
e 1464 c.c. in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazio ne nei contratti sinallagmatici, si presenta di regola come conse
guenza diretta ed immediata della malattia, la quale impedisce
di per sé lo svolgimento delle mansioni lavorative; ma è pur vero
che tale impedimento, secondo la ratio della stessa norma codici
stica, può discendere in certi casi particolari dalla malattia anche
in via indiretta e mediata. È il caso appunto, comunemente am
messo, del ricovero ospedaliero del soggetto il quale per la malat
tia, da cui è affetto, abbisogni di speciali accertamenti diagnostici
preordinati a interventi chirurgici, quantunque non urgenti, o a
particolari terapie programmabili nel tempo, ed è il caso altresì
del dipendente portatore, anche sano, di germi di malattia infetti
va, al quale l'astensione dal lavoro sia imposta per il pericolo
di contagio verso i propri compagni. In tutti questi casi particolari è dunque configurabile, ai fini
della tutela dell'art. 2110 c.c., un nesso di causalità, sebbene non
diretto ed immediato tra malattia ed impossibilità a prestare l'at
tività lavorativa, il quale dev'essere di volta in volta verificato
in concreto con il necessario rigore, al fine di evitare ogni abuso,
alla stregua dei principi generali desumibili dagli art. 40 e 41 c.p.,
ossia accertando se l'impedimento a rendere la prestazione lavo
rativa sia un evento che rientra nella serie di conseguenze ordina
rie a cui la malattia può dare origine secondo il criterio della
cosiddetta regolarità causale.
Nel caso di cure idrotermali, formanti oggetto della speciale
disciplina legislativa, il nesso causale, seppure indiretto e media
to, tra stato patologico di solito cronico o recidivante, che esige
le dette cure in funzione terapeutica o riabilitativa, e la impossi
bilità, durante la loro fruizione, della prestazione lavorativa, è
elemento costitutivo della singolare fattispecie legale, ed è pro
prio tale elemento, il quale, in presenza degli altri, non ha biso
gno ogni volta di apposita dimostrazione, che spiega e giustifica, nella logica della normativa speciale ed alla stregua delle suespo
ste considerazioni, la riconducibilità di codesta ipotesi particolare di assenza dal lavoro nella sfera di protezione apprestata alla ma
lattia dall'art. 2110 c.c.
Le assenze per cure idrotermali non possono neppure dirsi, con
riguardo ai prefissati limiti temporali, incompatibili con la disci
plina del citato art. 2110 c.c., ove si consideri che la tutela predi
sposta dalla norma codicistica per il caso di malattia non copre
necessariamente l'intero periodo di impedimento alla prestazione
lavorativa, e che, come già rilevato, quei limiti rispondono alla
peculiarità della terapia idrotemale ed al suo carattere ciclico e
non continuativo.
A respingere, infine, l'obiezione che, ove fosse in effetti appli
cabile, in tema di cure idrotemali, la disciplina dettata dall'art.
2110 c.c., priva di giustificazione sarebbe stata l'emanazione di
speciali disposizioni di legge al riguardo, è sufficiente richiamare
la già indicata esigenza, sentita dal legislatore, di una particolare
disciplina che regolasse il peculiare fenomeno del termalismo con
norme di ordine pubblico economico, inderogabili dall'autono
mia privata e collettiva, mediante la individuazione di rigorose condizioni e limiti di usufruibilità delle relative prestazioni, per il raggiungimento delle suaccennate molteplici finalità.
Una diversa soluzione del problema giustificherebbe quei so
spetti di incostituzionalità, di cui la Corte costituzionale ha già dichiarato la infondatezza con la citata pronuncia interpretativa di rigetto.
Il contrasto giurisprudenziale dev'essere, dunque, risolto con
l'affermazione del seguente principio. Nel regime dettato sia dell'art. 4 1. 7 agosto 1982 n. 526 sia
dall'art. 13 1. 11 novembre 1983 n. 638, di conversione, con mo
dificazioni, del d.l. 12 settembre 1983 n. 463, l'assenza dal lavoro
del dipendente privato per fruire, fuori delle ferie annuali, di cu
re idrotemali alle condizioni e nei limiti in quelle norme stabiliti,
si configura come una fattispecie legale di impossibilità tempora
nea della prestazione lavorativa, riferibile alla persona del dipen
dente, a lui non imputabile, legata, mediante un nesso di causalità
mediato ed indiretto, ad uno stato patologico che richiede, per effettive esigenze terapeutiche o riabilitative, la sottoposizione a
cure idrotermali del lavoratore, nei cui riguardi opera la tutela
dell'art. 2110 c.c., con il conseguente diritto dello stesso prestato re al relativo trattamento economico.
In conclusione, la sentenza impugnata, con l'affermare il dirit
to del Faraoni, impiegato precario, sulla base della non contro
II Foro Italiano — 1988.
versa sussistenza delle condizioni previste dalle citate norme di
legge del 1982 e del 1983, alla retribuzione a carico della datrice
di lavoro, per il periodo in cui si è sottoposto alle cure idroterma
li, non merita le censure mosse dalla banca ricorrente, sicché,
integrata la relativa motivazione con le considerazioni in diritto
sopra esposte, a norma dell'art. 384, 2° comma, c.p.c., il ricorso
dev'essere rigettato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 4 agosto
1988, n. 4830; Pres. Carotenuto, Est. Rotunno, P.M. La
Valva (conci, conf.); Pelosi (Avv. Titomanlio) c. Compagnia
di assicurazione di Milano, Sandulli (Avv. Sandulli) e altri;
Porfido (Avv. Arieta) c. Compagnia di assicurazione di Mila
no, Sandulli e altri. Cassa App. Napoli 23 novembre 1983.
Edilizia e urbanistica — Distanze — Mancanza di piano regolato re o programma di fabbricazione — Piano di ricostruzione —
Disciplina applicabile (L. 6 agosto 1967 n. 765, modifiche ed
integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150, art.
17).
Posto che il piano di ricostruzione non può considerarsi equipa
rabile ad un piano regolatore o ad un programma di fabbrica
zione, e sempre che in esso non vi sia una puntuale
regolamentazione in materia di distanze, si applicherà, nei con
fronti dei comuni provvisti del solo piano di ricostruzione, l'art.
17 l. 765/67. (1)
Svolgimento del processo. — Riassumendo davanti al Tribuna
le di Avellino nei confronti di Raffaele Porfido un procedimento di denunzia di nuova opera iniziato davanti al pretore il 23 set
tembre 1969, Olimpia Radicetti in nome proprio (quale usufrut
tuaria di un appartamento al secondo piano dell'edificio sito in
Avellino al corso Vittorio Emanuele n. 150) e in rappresentanza dei figli minori Stanislao e Stefano Tango (proprietari), esponeva
che il Porfido aveva eseguito lavori di sbancamento nell'attiguo
suo giardino, spingendo gli scavi sin sotto le fondamenta del pre
detto edificio di cui aveva compromesso la stabilità e determinato
il crollo di un angolo, ed aveva inoltre costruito in aderenza allo
stesso fabbricato, nonostante l'apertura di vedute; chiedeva per tanto disporsi l'abbattimento della nuova costruzione, illegittima
per inosservanza delle distanze legali, e condannarsi il Porfido
al risarcimento dei danni.
Il Porfido contestava gli addebiti mossigli e, in riferimento ai
danni lamentati dall'attrice, chiamava in giudizio Antonio Forna
sier, che aveva eseguito i lavori in appalto. Il Fornasier chiamava
a sua volta in garanzia la compagnia Milano di assicurazione.
Interveniva Antonio Sandulli, subentrando alla Radicetti e ai
Tango, di cui aveva acquistato i diritti con atto Giordano 30 giu
gno 1972. Lo stesso estendeva il giudizio a Giuseppe Pelosi e
ad Antonia Cannaviello, proprietari di unità immobiliari del fab
bricato costruito dal Porfido.
Il Tribunale di Avellino, con sentenza 10 giugno 1981, cosi
provvedeva: a) estrometteva dal giudizio la Radicetti e i Tango in seguito all'intervento del Sandulli; b) dichiarava estinto il pro
cesso nella parte relativa al chiesto risarcimento per crollo, essen
do stata trasferita l'azione nel processo penale per crollo colposo
di costruzione, e correlativamente cessata la materia del conten
dere nel rapporto del Porfido col Fornasier e di quest'ultimo con
la compagnia Milano di assicurazione; c) condannava il Porfido
(1) La sentenza confermata in parte qua, App. Napoli, 23 novembre
1983, è massimata in Foro it., Rep. 1984, voce Edilizia e urbanistica, n. 265. In senso sostanzialmente analogo alla pronuncia in epigrafe (che fa il paio con la n. 4828, depositata in pari data ma decisa in udienza
diversa), v. Cass. 4 marzo 1983, n. 1625, id., 1983, I, 1926 (la quale, limitando l'operatività dell'art. 17, 1° comma, 1. 6 agosto 1967 n. 765
ai soli comuni inclusi in appositi elenchi e sprovvisti di strumenti urbani
stici quali piano regolatore e programma di fabbricazione, sommette i
rimanenti comuni alla normativa codicistica), e 10 luglio 1985, n. 4108, id., Rep. 1985, voce cit., n. 395.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
al risarcimento dei danni a favore del Sandulli per violazione dei
limiti di altezza imposti dal locale piano di ricostruzione del 1949;
d) rigettava ogni altra richiesta formulata dal Sandulli nei con
fronti del Porfido e le domande dallo stesso proposte nei riguardi del Pelosi e della Cannaviello.
Proposta impugnazione principale dal Sandulli e incidentale dal
Porfido, la Corte d'appello di Napoli, con sentenza 23 novembre
1983 (Foro it., Rep. 1984, voce Edilizia e urbanistica, n. 265),
accoglieva quella principale, condannando il Porfido, il Pelosi
e la Cannaviello a demolire la parte del fabbricato costruita a
meno di ventiquattro metri dalle pareti finestrate di corso Vitto
rio Emanuele n. 150 e in solido al risarcimento dei danni per il mancato rispetto di tale distanza, col rinvio della determinazio
ne degli stessi e di quelli per violazione dei limiti di altezza a
carico del solo Porfido al prosieguo del giudizio. Osservava la corte partenopea: a) che, al tempo dell'edificazio
ne, il comune di Avellino era sprovvisto sia di piano regolatore
generale sia di programma di fabbricazione, e che il piano regola
tore, entrato in vigore il 21 febbraio 1972, non era applicabile, essendo stato ultimato l'edificio nel 1971; b) che, non essendo
equiparabile né a un piano regolatore generale né a un progrmma di fabbricazione il piano di ricostruzione adottato dal comune
di Avellino nel 1949 in seguito alle distruzioni belliche, doveva
ritenersi applicabile la distanza prevista in rapporto all'altezza dal
l'art. 17 1. 6 agosto 1967 n. 765 e disporsi conseguentemente l'eli
minazione del fabbricato per la parte posta a meno di ventiquattro metri dall'edificio del Sandulli; c) che l'altezza raggiunta dal fab
bricato (metri ventiquattro) eccedeva dal limite di metri venti pre scritto da una specifica norma del piano di ricostruzione e che
sul punto concernente la sussistenza di tale violazione si era for
mato il giudicato; d) che, per la determinazione dei danni relativi
a tale violazione e di quelli connessi alla inosservanza della di
stanza, occorrevano ulteriori accertamenti.
Il Porfido e il Pelosi hanno proposto ricorso per cassazione.
È seguito il controricorso del Sandulli. Sono state presentate memorie.
Motivi della decisione. — 1. - I due ricorsi, del Porfido e del
Pelosi, devono essere previamente riuniti, trattandosi di impu
gnazioni rivolte contro la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.). 2. - Va esaminato per primo il ricorso del Porfido, i cui primi
due motivi, da vagliare congiuntamente per la loro stretta con
nessione, denunziano, in riferimento al n. 3 dell'art. 360 c.p.c., la violazione degli art. 17 ss., 13 ss., 41 quinquies 1. 17 agosto 1942 n. 1150, dell'art. 17 1. 6 agosto 1967 n. 765, degli art. 2,
3 e 12 1. 27 ottobre 1951 n. 1402, del piano di ricostruzione della
città di Avellino approvato con d.m. 9 febbraio 1949, e, in rela
zione al n. 5 dello stesso art. 360, omessa, insufficiente e con
traddittoria motivazione.
Il ricorrente lamenta che la corte d'appello abbia ritenuto ap
plicabile, per la regolamentazione della distanza nel caso in esa
me, la disposizione dell'art. 17, 1° comma, lett. c), 1. 765/67,
sull'erroneo rilievo che il piano di ricostruzione, di cui il comune
di Avellino era fornito ai sensi del d.leg.lgt. 1° marzo 1945 n.
145, non fosse equiparabile a un piano regolatore generale o a
un programma di fabbricazione.
Sostiene che il piano di ricostruzione è uno strumento edilizio
contenente un programma urbanistico con caratteristiche struttu
rali e funzionali, che lo rendono analogo sia al piano regolatore
generale sia a quello particolareggiato e che, richiedendo esso una
semplificazione di forme e di procedure per ragioni di urgenza, ha un'efficacia pari a quella di un piano particolareggiato.
Richiama quindi alcune decisioni di questa Suprema corte a
sostegno della tesi di equiparabilità dei piani di ricostruzione ai
piani regolatori generali e di conservazione della loro efficacia
fino all'entrata in vigore dei piani regolatori disciplinanti la me
desima materia.
Addebita quindi alla corte d'appello di non aver tenuto conto
che le limitazioni poste dal menzionato art. 17 1. 765/67, di ca
rattere eccezionale, derogano al principio fissato dall'art. 873 c.c.
in materia di distanza delle costruzioni solo nell'assenza di qual
siasi regolamentazione urbanistica e che pertanto, nel caso in esa
me, l'adozione del piano di ricostruzione da parte del comune
di Avellino rendeva inoperanti le suddette limitazioni, con la con
seguenza dell'applicabilità del criterio basilare stabilito dal codice
civile. Tali prospettazioni del ricorrente Porfido non hanno pregio,
li Foro Italiano — 1988.
Le diverse e più gravose limitazioni dettate in materia di di
stanze fra costruzioni da leggi speciali o da regolamenti locali
sono integrative di quelle stabilite dal codice civile (art. 872-873)
e, in caso di violazione, comportano la restitutio in integrum a
favore del soggetto passivo della lesione, sia che stabiliscano la
distanza in una misura superiore a quella fissata da detto codice, sia che prescrivano particolari modalità di misurazione della di
stanza stessa, con riferimento o a determinati rapporti (ad es.
rapporto altezza-distanza) o a determinati punti fra i quali il di
stacco deve essere effettuato (ad es. tra fabbricati o tra fabbrica
to e confine). L'art. 17, 1° comma, lett. c), 1. 6 agosto 1967 n. 765 stabilisce
che, nei comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di fabbricazione, l'altezza di ogni edificio non può essere supe riore alla larghezza degli spazi pubblici o privati su cui esso pro
spetta e che la distanza degli edifici vicini non può essere inferiore
all'altezza di ciascuna fronte dell'edificio da costruire.
Tali limitazioni, che si aggiungono a quelle riguardanti il volu
me complessivo realizzabile in rapporto alla superfice del suolo
(lett. a dello stesso 1° comma dell'art. 17) e il numero dei piani consentito (lett. b), ovviamente operano là dove non vigono stru
menti urbanistici comprendenti di regola, come il piano regolato re generale e il programma di fabbricazione, anche la disciplina della materia, a cui le limitazioni stesse si riferiscono.
Ma i piani di ricostruzione, in origine previsti dal d.leg.lgt. 1° marzo 1945 n. 154 ed infine regolati dalla 1. 27 ottobre 1951
n. 1402, costituiscono una speciale categoria degli strumenti ur
banistici, diversa per natura e funzione da quella degli ordinari
mezzi di organizzazione edilizia territoriale, in quanto caratteriz
zata, oltre che dalla eccezionalità e dalla temporaneità, dallo sco
po specifico di attuare con immediatezza la ricostruzione degli
agglomerati distrutti o danneggiati in conseguenza degli eventi
bellici. Trattasi cioè di strumenti di emergenza, essenzialmente
rivolti ad assicurare la rinascita dei centri urbani in tempi brevi, anche attraverso il compimento di atti espropriativi per ragioni di pubblica utilità. Tuttavia, al di là delle immancabili disposizio ni dettate al fine di ottenere la rapida esecuzione del programma
ricostruttivo, i piani di ricostruzione possono anche contenere,
senza che per questo ne sia alterata la loro precipua natura, limi
tazioni di carattere urbanistico ritenute necessarie ad adeguare alle nuove esigenze urbanistiche lo sviluppo edilizio affidato all'i
niziativa privata: ben possono perciò comprendere anche norme, immediatamente obbligatorie, intese a disciplinare i rapporti di
vicinato e quindi, per la parte concernente la regolamentazione delle distanze, integrative delle prescrizioni dell'art. 873 c.c.
Pertanto, non in tutti i casi un piano di ricostruzione è equipa rabile agli strumenti urbanistici che rendono inoperanti le limita
zioni poste al 1° comma del menzionato art. 17, poiché, senza
l'inclusione della particolare materia a cui le limitazioni stesse
si riferiscono, la funzione del piano non si estende al di là del
compito fondamentale, che gli è proprio e che, di regola, ne fa
un'entità totalmente distinta dai piani regolatori generali e dai
programmi di fabbricazione. Solo sotto altri profili a tali stru
menti urbanistici il piano di ricostruzione è equiparato dalla giu
risprudenza di questa Suprema corte.
Ma, rimanendo nei limiti suoi tipici, per il contenuto e per
le specifiche finalità, il piano di ricostruzione adottato nel 1949
dal comune di Avellino, non sussisteva alcuna ragione ostativa — come esattamente ritennero i giudici di appello — all'applica
bilità, per la costruzione del ricorrente (e degli altri condomini), delle limitazioni poste dall'art. 17, 1° comma, lett. c), 1. 765/67.
Nonostante il carattere temporaneo, sancito dal 4° comma del
lo stesso articolo per tutte le limitazioni previste nei precedenti tre commi attraverso la prefissione della loro operatività «nei co
muni che hanno adottato il piano regolatore o il programma di
fabbricazione fino a un anno dalla presentazione al ministero per i lavori pubblici», non può esserne contestata la protrazione del
l'efficacia sino alla ultimazione dell'opera edilizia (pacificamente
risalente al 1971).
Infatti, l'art. 4 1. 1° ottobre 1971 n. 291, decretando col 1°
comma la fine delle limitazioni «di cui all'art. 17, 1°, 2° e 3°
comma, 1. 6 agosto 1967 n. 765» con decorrenza «dalla data di
presentazione del piano regolatore generale o del programma di
fabbricazione all'autorità competente per l'approvazione», pose
una deroga a tale disposizione per i «comuni inclusi in appositi
elenchi da approvare con decreti del ministro dei lavori pubblici,
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3271 PARTE PRIMA 3272
di concerto col ministro degli interni». Poiché il comune di Avel
lino fu incluso nell'apposito elenco approvato dall'art. 1 d.m.
27 aprile 1971, non vi è dubbio che le limitazioni in oggetto con
tinuarono ad essere ivi operanti sino a quando non entrò poi
in vigore il piano regolatore generale (21 febbraio 1972).
Sono pertanto destinate a cadere le argomentazioni svolte dal
Porfido contro l'applicabilità delle limitazioni poste dall'art. 17
1. 765/67. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 20 luglio
1988, n. 4708; Pres. Vela, Est. Corda, P.M. Simeone (conci,
parz. diff.); Soc. Caizzi (Avv. Jannarelli) c. Enel (Avv. Gam
bino). Cassa App. Bari 21 maggio 1984.
Indebito — Somma pagata in esecuzione di sentenza — Riforma — Restituzione — Interessi — Decorrenza — Accertamento
in concreto della buona o mala fede (Cod. civ., art. 1147, 2033).
Chi ha pagato indebitamente una somma in forza di sentenza
di condanna poi eliminata in sede di impugnazione ha diritto,
oltre che alla restituzione della somma, agli interessi dal giorno
della domanda di restituzione o dal giorno del pagamento a
seconda della condizione, che va accertata in concreto, di buo
na o mala fede di chi ha ricevuto il pagamento. (1)
(1) Non si rinvengono precedenti negli esatti termini. Mentre in via
generale è lo stesso codice civile a stabilire che, oltre alla restituzione, «chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto (...) agli interessi
dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure se questi era in buona fede, dal giorno della domanda» (art. 2033), la
giurisprudenza mostra incertezze, nella particolare ipotesi di indebito che
ricorre quando la somma è pagata in esecuzione di sentenza di condanna
poi riformata o annullata, sul punto specifico della decorrenza degli inte
ressi. Li fanno scattare dal giorno della domanda di restituzione, Cass.
25 settembre 1974, n. 2521, Foro it., Rep. 1974, voce Interessi, n. 11, sul presupposto del carattere moratorio di detti interessi; 14 gennaio 1974, n. 113, ibid., voce Cassazione civile, n. 313, citata nell'attuale decisione, e 14 ottobre 1972, n. 3071, id., Rep. 1972, voce Interessi, n. 3, queste ultime due senza alcun riferimento, almeno nelle massime, al requisito della buona fede dell'accipiens; 6 settembre 1969, n. 3076, id., Rep. 1969, voce cit., n. 7 (di cui è utile riportare la breve ma pregnante massima:
«Sulle somme indebitamente riscosse in virtù di un titolo giudiziale esecu
tivo, e quindi in buona fede, sono dovuti gli interessi moratori decorrenti
dalla data della domanda e non da quella del pagamento»), e 6 agosto 1965, n. 1877, id., Rep. 1965, voce cit., n. 6, sul presupposto del caratte
re moratorio degli interessi (anche queste due ultime decisioni sono state
citate in motivazione). Per Trib. Viterbo 14 novembre 1985, id., Rep.
1986, voce Indebito, n. 6, gli interessi decorrono «ai sensi dell'art. 2033
dalla costituzione in mora formulata con la stessa domanda di restituzio
ne nella fase di rinvio, salvo il caso (...) dell'avvenuta percezione della
prestazione indebita in mala fede» (si trattava di prestazioni previdenziali
corrisposte da un ente previdenziale in esecuzione di sentenza di primo
grado provvisoriamente esecutiva e poi riformata dalla Cassazione). Sta
bilisce invece la necessità di corrispondere gli interessi sin dal giorno del
pagamento, «per aversi ripristino della situazione anteriore», Cass. 26
ottobre 1973, n. 2769, id., Rep. 1973, voce Cassazione civile, n. 372, citata in motivazione.
Altre decisioni sono intervenute sul problema, analogo, relativo a som
me corrisposte, sempre in esecuzione di sentenza, a titolo di rimborso
di spese giudiziali e in seguito, per riforma della decisione nel merito, riconosciute non dovute secondo la regola della soccombenza. Secondo
Cass. 15 gennaio 1985, n. 59, id., Rep. 1985, voce Spese giudiziali, n.
9 (in extenso in Arch, circolaz., 1985, 725), anch'essa citata in motivazio
ne, «le regole della soccombenza e della causalità della lite prevalgono, come norme speciali attinenti al processo, sulla regola generale dell'art.
2033. (...) Vero è, infatti, che la parte vittoriosa in appello riceve le som
me in virtù di un titolo giudiziale immediatamente esecutivo — e ciò
accredita la sua buona fede — ma è anche vero che entrambe le parti
hanno, fin dall'origine, accettato l'alea del processo e che la precarietà dell'accertamento non definitivo (...) comporta la possibilità di una cadu
cazione futura. (...) L'esito della lite, che ciascuna delle parti può, in
termini di probabilità, prospettarsi, pone l'esigenza della restaurazione
del rapporto con l'integrale ripristino della situazione in cui l'avente dirit
II Foro Italiano — 1988.
Svolgimento del processo. — Con decreto n. 191 del 4 agosto
1963, veniva disposto il trasferimento all'Enel dell'impresa elet
trica gestita dalla s.n.c. «Caizzi e C.» con sede in Caguagno Va
rano (Foggia). L'ufficio tecnico erariale di Foggia determinava
l'indennizzo da liquidare alla società nella somma di lire
36.774.778, risultante dalla media aritmetica del costo di rico
struzione degl'impianti, al netto del degrado (19.060.000), e della
capitalizzazione del reddito dell'impresa, detratta l'imposta di r.m.,
aggiungendo il credito vantato dalla impresa (lire 9.547.684) e
sottraendo il debito della stessa (lire 9.547.547) antecedente alla
to si trovava prima di subire la menomazione patrimoniale. E tale risulta
to è in concreto realizzabile solo mediante la corresponsione degli interes
si fin dal giorno del versamento delle somme, in realtà non dovute».
(Il motivo dell'incertezza, connessa al giudizio, quale elemento che esclu
de la buona fede, sembra alla base anche della isolata massima di Cass.
20 gennaio 1969, n. 132, Foro it., Rep. 1969, voce Indebito, n. 8, secon
do cui colui che, in buona fede, ha percepito somme dovute, invece, ad altro soggetto, è tenuto a corrispondere a quest'ultimo gli interessi
legali dalla domanda giudiziale e, sulle somme percepite in corso di lite, dalla data del pagamento).
Si tratta di argomenti che in gran parte bene si adattano anche al caso
in cui le somme pagate e poi risultate non dovute attengano al merito
della controversia, ma, a quanto sembra, neppure prese in considerazione
dall'odierna decisione, laddove la questione è impostata in termini di con
trapposizione tra «i due equivalenti principi», della assoluta integralità del ripristino e della presunzione di buona fede, entrambi ricavati dalla
disciplina generale della ripetizione dell'indebito, senza lasciare alcuno
spazio ad una valutazione di specialità della disciplina e dei principi pro cessuali. La decisione sulla cui scia esplicitamente si pone l'attuale pro nuncia è invece Cass. 5 maggio 1983, n. 3071, id., Rep. 1983, voce cit., n. 6 (in extenso in Giust. civ., 1983, I, 2977), anch'essa resa in tema
di ripetizione di spese processuali e in cui si afferma semplicemente che
in materia «la disciplina applicabile è quella del pagamento eseguito sen
za titolo, contenuta nell'art. 2033, secondo cui gli interessi sono dovuti
dal giorno della domanda o dal giorno del pagamento dell'indebito, a
seconda che colui il quale ha ricevuto quest'ultimo sia o non in buona
fede». Un tale stato soggettivo va accertato con una indagine che spetta al giudice di merito e che deve operarsi anche quando accipiens sia un
ufficio della pubblica amministrazione. Nel rinviare la causa, pertanto, a un altro giudice di merito, la Suprema corte nella decisione da ultimo
citata precisa che egli dovrà tener presenti i criteri già fissati dalla stessa
corte in due sentenze: la n. 3076 del 1969, di cui è stata più su riportata anche la massima, e che sembra far derivare la buona fede dalla sola
esistenza del titolo giudiziale esecutivo, e la decisione del 18 febbraio
1982, n. 1025, Foro it., Rep. 1982, voce cit., n. 3, secondo la cui massi
ma anche in caso di pagamento di indebito «trova applicazione il princi
pio per cui la buona fede si presume, in difetto di specifiche prove contrarie».
Salvo il caso che per queste due sentenze le massime ufficiali siano
state del tutto mal formulate, non v'è quindi traccia della necessità di
accertare in ogni caso in concreto la buona o mala fede, criterio con
cui oggi la Cassazione si libera della spinosa questione in chiave sostan zialmente equitativa.
Sul problema se, in generale, in materia di ripetizione di indebito, ope ri la presunzione di buona fede di cui all'art. 1147, la giurisprudenza è orientata in prevalenza in senso affermativo: cfr. Cass 18 novembre
1987, n. 8466, id., Rep. 1987, voce cit., n. 7; Trib. Cagliari 4 febbraio
1985, id., Rep. 1986, voce cit., n. 9 (in extenso in Riv. giur. sarda, 1986,
116, con nota di Luminoso), da segnalare anche perché afferma che, «in
mancanza di qualsiasi prova sull'ammontare degli interessi e dei frutti, dovuti da\\'accipiens al solvens sulla somma indebitamente pagata, essi
possono essere determinati, in forza di una presunzione fondata sul noto
rio, nel quindici per cento annuo, pari agli interessi netti mediamente
corrisposti dagli istituti di credito sui depositi in conto corrente nel perio do considerato» (Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 8); Cass. 27 febbraio
1984, n. 1408, id., Rep. 1984, voce cit., n. 7 (in materia di condictio
indebiti tendente alla restituzione di cosa determinata ex art. 2037 c.c.); Cass. 18 febbraio 1982, n. 1025, già citata, e 12 marzo 1973, n. 685,
id., Rep. 1973, voce cit., n. 7 (anche questa in relazione all'art. 2037
c.c.). Secondo Cass. 17 giugno 1986, n. 4048, id., Rep. 1986, voce cit., n. 4 (in extenso in Arch, civ., 1986, 834), invece, la buona o mala fede
dell 'accipiens «va accertata in base alla situazione di fatto nota al desti
natario del pagamento nel momento in cui è stato eseguito, indipendente mente dalla conoscenza o falsa conoscenza di circostanze solo
apparentemente giustificative del comportamento dell'accipiens». La «domanda di restituzione», dalla cui data, secondo l'art. 2033, de
corrono gli interessi se l'accipiens era in buona fede, è, per giurispruden za consolidata, la domanda giudiziale; cfr. Cass. 10 marzo 1987, n. 2513, Foro it., Rep. 1987, voce cit., n. 9; 22 ottobre 1986, n. 6211, id., Rep. 1986, voce cit., n. 3; Pret. Varese 12 maggio 1986, ibid., n. 5 (in extenso in Informazione prev., 1986, 1223); Cass. 7 aprile 1982, n. 2138, Foro
it., Rep. 1983, voce cit., n. 7 (in extenso in Giur. it., 1983, I, 1, 976,
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