sezione II civile; sentenza 27 novembre 1990, n. 11428; Pres. Anglani, Est. Patierno, P.M.Benanti (concl. conf.); Scaramucci e altri (Avv. Vettori, Rinaldi) c. Martinelli (Avv. Manzi,Rotini). Cassa App. Firenze 2 novembre 1985Source: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1991), pp. 471/472-475/476Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23185271 .
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PARTE PRIMA
o l'esclusione della singola fattispecie nell'ipotesi eccettiva del
l'art. 2103 c.c., non si possono trascurare le implicazioni della
contrattazione collettiva, tenendo soltanto conto dei casi di so
spensione del rapporto di lavoro previsti dalla legge. Come ha giustamente osservato il procuratore generale, l'au
tonomia delle parti contraenti ha dei limiti in ordine agli effetti
giuridici della sostituzione del lavoratore assente, ma non per la disciplina dei casi di assenza, con diritto alla conservazione
del posto, in ordine ai quali, si è detto, nulla dispone la norma
in questione. L'orientamento di questa corte non è rimasto fermo al prin
cipio che nega il diritto alla promozione automatica solo se la
sostituzione ha luogo nei casi di cui agli art. 2110 e 2111 c.c.
Ma la «linea di tendenza» verso un'interpretazione estensiva non
si può considerare in contrasto con la ratio legis (l'art. 13 1.
20 maggio 1970 n. 300 fa parte di un contesto che, per defini
zione, ha come scopo la tutela, da intendere come «primaria», del lavoratore), quando si tratta di clausole della normativa col
lettiva che il datore di lavoro è obbligato ad osservare, che limi
tano i suoi poteri di scelta e che, quindi, riducono le possibilità di arbitrarie discriminazioni. Cosi, il contemperamento degli in
teressi delle parti «contrapposte» (sempre valutato nelle leggi e in contratti che disciplinano il rapporto di lavoro) può coinci
dere con il contemperamento degli interessi di tutti i lavoratori
di una stessa azienda. E non solo nel senso (magari discutibile) della compressione del diritto del singolo «nell'interesse comu
ne», dato che possono determinarsi situazioni di conflitto tra
il diritto alla promozione automatica ed il diritto alla conserva
zione del posto (entrambi, è ovvio, meritevoli di pari tutela). Tutto ciò si evince chiaramente dalla motivazione della sentenza
(Cass. 1° agosto 1986, n. 4932, Foro it., Rep. 1986, voce Lavo
ro, (rapporto), n. 883: lavoratore assente, provvisoriamente de
stinato ad altre mansioni, per l'affidamento della sua professio
nalità) richiamata dal controricorrente.
Tuttavia, c'è un altro aspetto del problema da considerare
decisivo: la verifica, in concreto, dei motivi che determinano
le sostituzioni, onde svelare qualsiasi espediente eventualmente
posto in essere dal datore di lavoro per eludere la norma che
sancisce l'assegnazione definitiva alle mansioni superiori (vedi, tra le altre, Cass. n. 4479 del 27 luglio 1984, id., Rep. 1984,
voce cit., n. 661 e n. 7702 del 17 ottobre 1987, id., Rep. 1987,
voce cit., n. 950).
Inoltre, nei contratti collettivi, le clausole che disciplinano le
sostituzioni provvisorie, la loro durata ed il maggior compenso
per l'esercizio di mansioni superiori normalmente contengono, con riferimenti espliciti, anche la previsione del passaggio, dopo un certo periodo, alla categoria superiore del lavoratore, cui
sono state assegnate le mansioni ad essa corrispondenti. Si può
accertare, quindi, sia l'eventuale contrasto delle singole norme
(valutate anche in relazione a quelle che regolano le assunzioni
per coprire posti resisi vacanti) con le disposizioni dell'art. 2103
c.c. sia l'eventuale elusione (con la valutazione di singoli prov vedimenti dal datore di lavoro) della normativa di legge e con
trattuale, insieme.
In considerazione di quanto sopra, nel definire i limiti del
diritto alla promozione automatica, di cui all'art. 2103 c.c., at
tinenti all'ipotesi di sostituzione di lavoratore assente, con dirit
to alla conservazione del posto, si deve ritenere decisiva l'inda
gine rivolta ad accertare la corrispondenza delle disposizioni del
datore di lavoro alle previsioni legislative e contrattuali di as
senza temporanea del dipendente, comportante la necessità di
sostituzioni provvisorie, e ad escludere eventuali espedienti del
lo stesso datore di lavoro, preordinati con l'intento di vanifica
re il riconoscimento del diritto dei lavoratori chiamati a quelle sostituzioni.
Questa soluzione segue i criteri tracciati dalla sentenza 4932/86,
citata; ma si pone in contrasto con altre decisioni successive
(Cass. 93/87 e n. 4756/87, ibid., nn. 963, 961, che, però, sulla copetura dei posti mediante concorso, richiamano sentenze an
teriori al 1986: n. 5445/79, id., Rep. 1979, voce Impiegato dello
Stato, n. 496; 4958/80, id., Rep. 1980, voce Lavoro (rapporto), n. 442; 5673/81, id., Rep. 1981, voce cit., n. 581).
In ogni caso, è sempre la definizione del significato che il
legislatore ha inteso attribuire alla locuzione «lavoratore assen
te» la premessa logica che «condiziona» le varie interpretazioni. Per quanto riguarda il caso di specie, il Tribunale di Napoli
ha accertato, in punto di fatto, che i dipendenti Cirillo e Scan
II Foro Italiano — 1991.
siilo avevano sostituito altro dipendente (Lo Manto, con man
sioni superiori), il quale, assegnato a posto resosi vacante, in
attesa dell'esito del concorso, previsto per la relativa copertura, aveva poi ripreso possesso dell'ufficio ove era stato sostituito.
Detto giudice, inoltre, considerando anche le obiettive esigenze
aziendali, ha stabilito che l'Enel non aveva posto in essere al
cun espediente, al fine di eludere il meccanismo di promozione automatica del ricorrente.
Le conclusioni tratte dal tribunale non possono ritenersi, per le ragioni sopra esposte, in contrasto con le disposizioni del
l'art. 2103 c.c. e con i comuni canoni di ermeneutica legislativa. Con il secondo motivo, denunciando vizi di motivazione, in
relazione agli art. 13 dello statuto dei lavoratori, 22 del ccnl
e 116 c.p.c., il ricorrente ribadisce che le argomentazioni del
tribunale, sull'interpretazione dell'art. 13 1. 300/70, contrasta
no con la giurisprudenza di questa corte: e lamenta che le risul
tanze istruttorie, in particolare quelle concernenti la durata del
le mansioni superiori esercitate dal Cirillo e la consapevolezza dell'ente della protrazione della sostituzione oltre il periodo pro
grammato, sono state valutate dallo stesso giudice solo parzial mente ed erroneamente.
La risposta negativa al primo motivo di ricorso (esclusione del diritto alla promozione automatica, per l'ipotesi eccettiva
prevista dall'art. 2103 c.c.) ha valore assorbente. Diventa, quin
di, irrilevante l'esame della seconda censura del ricorrente, rela
tiva alla valutazione delle prove.
Pertanto, il ricorso deve essere rigettato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 27 no
vembre 1990, n. 11428; Pres. Anglani, Est. Paterno, P.M.
Benanti (conci, conf.); Scaramucci e altri (Aw. Vettori, Ri
naldi) c. Martinelli (Avv. Manzi, Rotini). Cassa App. Fi
renze 2 novembre 1985.
Successione ereditaria — Testamento — Clausola «si sine libe
ris decesserit» — Validità — Sostituzione fedecommissaria —
Criteri distintivi (Cod. civ. del 1865, art. 889). Contratto in genere — Interpretazione — Espressioni generali
— Riferimento (Cod. civ., art. 1364, 1369).
La clausola testamentaria si sine liberis decesserit non integra di per sé una sostituzione fedecommissaria, ma impone di
accertare caso per caso, sulla base della volontà del testatore
e delle particolari circostanze e modalità della disposizione, se essa sia impiegata per mascherare una doppia istituzione
ovvero se abbia avuto la funzione di una vera e propria con
dizione, con tutti i caratteri che le sono propri, ivi compresa
l'efficacia retroattiva. (1) Per quanto ampio e generale possa apparire il contenuto delle
clausole di un atto negoziale, queste devono essere interpreta te con riguardo all'oggetto sul quale le parti si erano proposte di contrattare, a meno che non sia dimostrato che i contraen
ti intesero riferirsi anche a rapporti non specificamente men
zionati. (2)
(1-2) La sentenza si uniforma all'orientamento, ormai prevalente in dottrina e giurisprudenza, che ammette la validità della disposizione testamentaria sottoposta alla condizione si sine liberis decesserit, quante volte l'accertamento della volontà del testatore, delle circostanze e mo dalità concrete consente di escludere l'elusione del divieto che colpisce la sostituzione fedecommissaria. La Suprema corte ha, infatti, confer mato la valutazione del giudice del merito che aveva, tra l'altro, valo rizzato la circostanza della giovane età (vent'anni) della beneficiaria della
disposizione al momento in cui il testamento fu redatto: il che, all'evi
denza, non consentiva affatto di prevedere se la donna «si sarebbe uni ta in matrimonio e sarebbe stata in grado di generare». Negli stessi
termini, in punto di diritto, si veda Cass. 17 maggio 1969, n. 1701, Foro it., 1969, I, 2555, e, più di recente, Trib. Napoli 3 dicembre 1975, id., Rep. 1976, voce Successione ereditaria, n. 79, che concluse per la frode al divieto della sostituzione fedecommissaria, dal momento che l'istituito aveva cinquantasette anni e la moglie cinquantaquattro.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Svolgimento del processo. — Con atto di citazione del 20
novembre 1980, Scaramucci Eufemia, Celso e Pietro Aldo con
venivano innanzi al Tribunale di Grosseto Martinelli Dante, chie
dendo che venisse dichiarato che essi erano gli unici eredi di
Scaramucci Eda, deceduta il 28 ottobre 1980, sia per testamen
to 6 settembre 1980, distrutto dal convenuto, sia in quanto le
gittimari insieme a costui, con conseguente attribuzione dei beni
ereditari.
Con citazione 3 luglio 1981, gli attori convenivano nuova
mente il Martinelli, chiedendo che venisse pure dichiarato che
metà dei beni caduti nella successione della de cuius e menzio
nati nell'atto anzidetto, dovevano essere esclusi dalla successio
ne e pervenire loro pro quota, in quanto, in forza del testamen
to 14 giugno 1936 del comune avo Scaramucci Celso, deceduto
il 27 agosto 1937, era stabilito che, ove la Scaramucci fosse — come in concreto — morta senza prole, i beni ereditari sa
rebbero passati allo stipite di casa Scaramucci. Riuniti i proce dimenti e costituitosi il Martinelli, obiettava, tra l'altro, che la
clausola anzidetta aveva le caratteristiche della vietata sostitu
zione fedecommissoria e, comunque, che con atto di divisione
6 giugno 1940, gli eredi di Celso Scaramucci avevano dichiarato
di non avere alcunché da pretendere gli uni dagli altri, per cui
la clausola si sine liberis decesserit era superata per rinuncia.
Con sentenza 15 marzo 1984, l'adito tribunale, tra l'altro, rite
neva la clausola contestata lecita, in quanto integrante condi
zione risolutiva, e che l'intercorsa divisione non toccasse la si
tuazione relativa alla sorte dei beni attribuiti alla Scaramucci
Edda e da valere dopo la sua morte, cosicché la stessa non
avrebbe potuto disporre mortis causa dei beni pervenutile in
eredità. Avverso tale pronuncia interponevano gravame, in via
principale il Martinelli e, in via incidentale, i convenuti e la
Corte d'appello di Firenze, con sentenza 2 novembre 1985, in
parziale riforma della prima decisione, respingeva la domanda
degli attori. Osservava, in particolare, che la clausola di cui
La soluzione muove dalla premessa che la sostituzione vietata pre suppone una doppia chiamata successoria e, quindi, un'attribuzione tem
poranea dei beni. Diversa l'ipotesi della condizione risolutiva collegata al momento della morte, in quanto la disposizione condizionale attri buisce una posizione successoria obiettivamente incerta. Il punto consi
ste, allora, nell'accertare se l'evento dedotto in condizione appaia o non incerto, secondo una valutazione condotta alla stregua del criterio di ragionevolezza.
Si tratta, precisamente, del principio di diritto enunciato da Cass. 19 gennaio 1985, n. 150, id., 1985, I, 701, con riferimento alla condi zione nisi nupserit e con espresso richiamo in motivazione alla posizio ne giurisprudenziale in merito alla clausola condizionale che ci occupa.
Secondo una posizione minoritaria (Taiamanca, Successioni testa
mentarie, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1965, 300
ss.), la disposizione sottoposta alla condizione in esame andrebbe ricon
dotta, in linea generale, alla sostituzione vietata. Quest'ultima si con creta in un'istituzione sottoposta a condizione risolutiva irretroattiva, id est, collegata ad un termine (la morte dell'istituito): la prima deter
mina se cessano o no gli effetti, il secondo il momento in cui la cessa zione ha effetto. Orbene, questo è proprio il regolamento di interessi divisato dal testatore, nel momento in cui appone la condizione si sine liberis-. anche se manchi un'espressa volizione in ordine all'efficacia re
troattiva della risoluzione, egli intende generalmente attribuire al bene ficiario il godimento dei beni assegnati, sino al momento in cui que st'ultimo abbia a morire. Al contrario, se si trattasse di condizione riso
lutiva tout court, bisognerebbe ammettere la risoluzione dell'attribuzione
anche prima della morte dell'istituito, quando appaia certo, secondo una valutazione ragionevole, che l'evento negativo dedotto in condizio
ne (l'assenza di figli) si verificherà.
Rimane da considerare il profilo, completamente trascurato nel pro cesso che ha dato luogo alla pronuncia in epigrafe, della illiceità della
condizione in esame, in quanto vincola la libertà sessuale del beneficia
rio. Sul punto, dubitativamente, Bianca, Diritto civile, II, La famiglia - Le successionia, Milano, 1985, 626. Al contrario, Bigliazzi Gerì (Il testamento, in Trattato diretto da Rescigno, Torino, 1982, VI, 134), la quale critica l'orientamento favorevole alle condizioni di contrarre
o non contrarre matrimonio, poiché si verrebbe a coartare in qualun
que modo, anche minimo, la libertà di autodeterminazione dell'onora
to, propende, in modo cauto, per la validità della condizione si sine liberis.
Da ultimo, si veda la rapida sintesi di Santarsiere, I due volti della
sostituzione «si sine liberis decesserit», in Arch, civ., 1988, 1023.
Quanto alla seconda massima, in termini sul punto di diritto, si veda
Cass. 16 gennaio 1986, n. 250, Foro it., Rep. 1986, voce Contratto
in genere, a. 271.
Il Foro Italiano — 1991 — Parte 1-9.
al testamento di Scaramucci Celso non mascherava una sostitu
zione fedecommissoria, ma costituiva una legittima condizione
risolutiva. Difettavano, invero, della predetta sostituzione, sia
la duplice vocazione in ordine successivo, sia l'imposizione a
carico del chiamato dell'obbligo di conservare i beni per resti
tuirli. Quanto all'intercorso atto di divisione 6 giugno 1940 tra
gli eredi di Scaramucci Celso, nello stesso era ravvisabile la ri
nuncia dei condividenti a far valere la clausola si sine liberis
decesserit. Le dichiarazioni contenute nell'atto in esame, secon
do cui i condividenti dichiaravano di nulla più pretendere gli uni dagli altri e si garantivano reciprocamente la libertà e pro
prietà dei beni assegnati, non integravano clausole di stile, ma
esplcitavano la volontà dei contraenti di addivenire alla definiti
va ed incondizionata attribuzione dei beni, con rinuncia alla
ricordata condizione testamentaria. A siffatta conclusione ad
duceva la complessiva lettura dell'atto, da cui si evinceva, in
ispecie, che i coeredi Vincenzo ed Ado Scaramucci avevano in
teso procedere all'assegnazione definitiva delle quote a ciascuno
dei coeredi, escludendo qualsiasi modifica futura in danno di
Eda, che pure era coerede condizionata. E pure il comporta mento successivamente tenuto dai condividenti confermava tale
conclusione, tanto è vero che Eda aveva successivamente ven
duto, senza alcuna difficoltà da parte degli altri coeredi, i beni
pervenutile. La rinuncia alla ricordata clausola, peraltro, risul
tava anche dal fatto che i coeredi non avevano provveduto alla
trascrizione del vincolo testamentario onde garantirsi nei con
fronti di terzi acquirenti o, genericamente, cautelarsi. Né pote va obiettarsi che, trattandosi di diritti non ancora venuti in es
sere, l'eventuale rinuncia sarebbe stata nulla ex art. 1118 c.c.
abrogato e 458 in vigore. Entrambe le norme, invero, non si
attagliavano alla fattispecie, poiché invalidanti gli atti dispositi vi di diritti attinenti ad una successione ancora non aperta, mentre
in concreto la divisione si riferiva ad un asse ereditario già per venuto ai condividenti. Accolta, infine, l'impugnazione princi
pale, restava assorbita la domanda del Martinelli tendente a far
dichiarare che i beni immobili, attribuiti allo stesso in seguito al testamento 18 settembre 1980, spettavano solo per metà agli attori.
Contro tale pronuncia, proponevano ricorso gli Scaramucci, in base a tre motivi di cassazione. Resiste con controricorso
il Martinelli, il quale ha proposto anche ricorso incidentale con
dizionato.
Motivi della decisione. — I due ricorsi in quanto proposti contro la stessa sentenza devono essere riuniti (art. 335 c.p.c.).
Logicamente pregiudiziale, per quanto sarà detto in seguito, è l'esame del ricorso incidentale con il quale nel denunciare la
violazione dell'art. 889 c.c. del 1865 in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. il ricorrente lamenta che i giudici del merito
negando l'esistenza di una sostituzione fedecommissoria nel te
stamento di Celso Scaramucci, avrebbero trascurato di conside
rare che se costui non avesse inteso imporre alcun vincolo, avreb
be disposto la restituzione dei beni con adeguata espressione dell'òf quod superesit senza violare la legge, posto che il divieto
del fedecommesso de residuo introdotto dal nuovo codice non
sarebbe retroattivo.
La censura è infondata. Occorre premettere che quando il
giudice del merito abbia esattamente indicato gli elementi che
caratterizzano la sostituzione fedecommissoria, l'indagine diret
ta ad accertare se una disposizione contenga o no una sostitu
zione del genere, essendo di mero fatto, è insindacabile in Cas
sazione, se sorretta da motivazione adeguata e logica.
Ora, poiché la clausola testamentaria si sine liberis decesserit
non implica di per sé una sostituzione fedecommissoria, doven
dosi accertare caso per caso, sulla base della volontà del testa
tore e delle particolari circostanze e modalità della disposizione se essa sia stata impiegata per mascherare una sostituzione fe
decommissoria, ovvero se essa abbia avuto la funzione di una
vera e prova condizione, con tutti i caratteri che le sono propri, ivi compresa l'efficacia retroattiva, funzionante risolutivamen
te, rispetto all'acquisto del primo istituito, non sembra che l'ar
gomentazione critica del ricorrente sia idonea a vulnerare il ra
gionamento della corte che è correttamente pervenuta alla con
clusione che la clausola apposta da Celso Scaramucci al proprio testamento non mascherasse una sostituzione fedecommissoria
essendosi il testatore limitato a sottoporre l'istituzione testamen
taria della nipote Eda a condizione risolutiva in caso della di
lei morte senza figli.
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PARTE PRIMA
L'obiezione del ricorrente che lo Scaramucci se non avesse
inteso disporre vincoli avrebbe imposto la restituzione dell'/c?
quod supererit senza incorrere in alcuna violazione, trova con
futazione nella stessa sentenza impugnata che deve dirsi convin
ta che la clausola in questione costituiva una condizione risolu
tiva vera e propria non si è richiamata al solo fatto della man
canza di un'espressa imposizione a carico del chiamato
dell'obbligo di conservare i beni per restituirli (tant'è che la Eda Scaramucci ha ceduto in vita parte dei beni a lei pervenuti senza
opposizione degli eventuali interessati), ma ha posto in rilievo
soprattutto che non vi era stata doppia istituzione, avendo il
testatore chiamato a succedergli la nipote che all'epoca contava
vent'anni e che non avrebbe potuto prevedere se si sarebbe uni
ta in matrimonio e sarebbe stata in grado di generare. La disposizione del testatore dunque certamente non era di
retta a regolare una seconda successione (fedecommesso) tanto
più se si considera, come ha osservato la corte, che nell'inter
pretazione delle clausole testamentarie in genere la presunzione
opera nel senso che il testatore abbia voluto disporre dei beni
in modo da non incorrere in sanzioni di nullità.
Occorre esaminare, pertanto, il ricorso principale. Con il primo motivo denunciando violazione e falza applica
zione degli art. 1362, 1364 e 1369 c.c. assumono i ricorrenti
che la corte avrebbe errato nel non reputare le richiamate clau
sole dell'atto di divisione come meramente di «stile», essendo
le stesse esclusivamente finalizzate alla prestazione delle garan zie cui i condividenti sono reciprocamente tenuti a prestarsi. In effetti, tali clausole si sarebbero sostanziate nel riconosci
mento dell'uguaglianza della quote reciprocamente assegnate, della completezza della divisione, nel senso che essa esauriva
l'intero asse ereditario, dell'inesistenza di vincoli o gravami sui
beni assegnati, ma solo in funzione dello scioglimento della co
munione ereditaria che sarebbe stato l'oggetto unico del con
tratto.
Il motivo è fondato. Lo schema argomentativo del giudice di appello si riassume nella sua struttura logica nella tesi che
le clausole contenute nell'atto di divisione intervenuto in data
6 aprile 1940 tra gli eredi di Scaramucci Celso non erano clau
sole di stile o comunque finalizzate ai soli effetti dello sciogli mento della comunione, bensì' avessero il più ampio significato di definitiva rinuncia da parte dei condividenti Celso e Vincen
zo Scaramucci a far valere nei confronti della nipote la clausola
risolutiva dell'istituzione ereditaria apposta nel testamento.
L'interpretazione della corte fiorentina dell'atto di divisione
è manifestamente errata dal punto di vista logico-giuridico. L'atto di divisione del 1940 tra gli eredi di Celso Scaramucci
aveva ad oggetto lo scioglimento della comunione ereditaria, cioè quello di trasformare la comproprietà indivisa su tutto l'asse
ereditario in proprietà piena e solitaria di ciascuno dei condivi
denti su determinati beni ad essi già appartenenti pro quota. La corte dunque non poteva esimersi dal considerare che le
clausole contenute nell'atto di divisione dovevano essere inter
pretate nell'ottica di quel negozio al fine di stabilire la concreta
incidenza della garanzia che le parti si erano reciprocamente prestate. Se vi avesse riflettuto si sarebbe accorta, come già rile vato dal primo giudice, che per quanto ampio e generale potes se apparire il contenuto di quelle clausole esse dovevano essere lette e interpretate a norma dell'art. 1364 c.c. in riferimento
all'oggetto che le parti si erano proposte di contrattare e cioè
10 scioglimento della comunione.
E anche se nulla vieta di accertare, secondo le comuni regole
dell'interpretazione, che l'oggetto del contratto quale effettiva
mente considerato e voluto dei contraenti, possa comprendere anche rapporti non specificamente menzionati, la corte, per ri
tenere che i condividenti oltre che sciogliere la comunione ave
vano inteso anche rinunciare all'efficacia futura della condizio ne risolutiva, avrebbe dovuto dimostrare, e non ha neanche pro vato a farlo, che nonostante la mancanza di un'espressa menzione di tale rinunzia nel titolo del contratto e nel suo contesto, le clausole sebbene contenute nell'atto di divisione, non avevano altro significato che quello di esprimere la volontà di rinunciare ad ogni aspettativa connessa alla condizione apposta nel testa mento di Celso Scaramucci.
Ma nulla di tutto questo risulta dalla sentenza impugnata, talché è evidente che il risultato interpretativo cui è pervenuta la corte del merito è palesemente viziato sul piano logico e giu ridico.
11 Foro Italiano — 1991.
In conclusione, il motivo di ricorso deve essere accolto, men
tre restano assorbiti gli altri motivi che investono sotto diversi
profili la motivazione impugnata. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata nei limiti delle
ragioni esposte, con rinvio della causa ad altra sezione della
stessa corte d'appello.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 23 novem
bre 1990, n. 11311; Pres. Benanti, Est. De Rosa, P.M. Det
tori (conci, conf.); Carratù (Aw. Cossu) c. Soc. Phoenix
Soleil; Soc. Phoenix-Soleil (Aw. Fornaro, G. Prosperetti) c. Carratù. Cassa Trib. Roma 25 luglio 1988.
Lavoro (rapporto) — Lavoratrici — Prolungamento del rap
porto al limite di età fissato per gli uomini — Licenziamento
illegittimo — Impresa con meno di quindici dipendenti —
Tutela reale — Applicabilità (Cod. civ., art. 2118; 1. 15 luglio 1966 n. 604, norme sui licenziamenti individuali, art. 11; 1.
20 maggio 1970 n. 300, norme sulla tutela della libertà e della
dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sin
dacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento, art.
18; 1. 9 dicembre 1977 n. 903, parità di trattamento fra uomi
ni e donne in materia di lavoro, art. 4; d.l. 22 dicembre 1981
n. 791, disposizioni in materia previdenziale, art. 6; 1. 26 feb
braio 1982 n. 54, conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 22 dicembre 1981 n. 791, art. unico).
Il rapporto della lavoratrice che abbia diritto, ai sensi dell'art.
4 l. n. 903 del 1977, alla prosecuzione fino al compimento del sessantesimo anno, è assistito dalla stabilità, prevista dal
l'art. 18 statuto dei lavoratori, quale che sia la dimensione
dell'impresa, derivandone in capo al datore l'obbligo di giu
stificare il recesso ai sensi dell'art. 3 I. n. 604 del 1966. (1)
(1) L'importanza della sentenza può essere apprezzata sotto moltepli ci profili.
Un primo piano di rilevanza non può che riguardare la specifica posi zione della donna lavoratrice: la corte aggiunge un ulteriore tassello nella direzione della parificazione delle posizioni fra i due sessi rispetto al licenziamento per il raggiungimento dell'età pensionabile.
Le scansioni evolutive — segnate da omologhi interventi della Corte costituzionale — possono riassumersi nei seguenti passaggi:
a) parificazione, quanto meno ai fini della copertura contro i licen ziamenti illegittimi, dell'età di conseguimento della pensione di vecchiaia, ricondotta al compimento del sessantesimo anno per uomini e donne
(v. Corte cost. 18 giugno 1986, n. 137, Foro it., 1986, I, 1749); b) eliminazione dell'onere di preventivo esercizio, restato ormai a ca
rico della sola donna lavoratrice, dell'opzione per la prosecuzione del
rapporto entro i sei mesi anteriori al pensionamento (v. Corte cost. 27 aprile 1988, n. 498, id., 1988, I, 1769 e già Cass. 749/87, ibid., nonché Cass. 6 marzo 1990, n. 1742, id., 1990, I, 1163, con nota di richiami, quest'ultima e quelle della Corte costituzionale menzionate in motivazione).
Restava aperto il problema del regime cui dovesse essere assoggettato il licenziamento illegittimo della lavoratrice con diritto alla prosecuzio ne del rapporto: è su quest'ultimo piano che si inserisce la nuova pro nuncia della corte, statuendo l'estensione della tutela «reale» anche nel le piccole imprese, in quanto tali formalmente sottratte a tale ambito
(allo stato, non constano decisioni che abbiano affrontato esplicitamen te la questione).
Può essere utile — anche al fine di meglio cogliere le ulteriori conse
guenze della decisione — ripercorrerne l'itinerario valutativo. Giova anzitutto segnalare che il discorso si avvale continuamente del
le simmetrie (letterali e logiche) che la Cassazione rinviene fra l'art. 4 1. 903/77 e l'art. 6 1. 54/82 e ciò sia sul piano della ratio protettiva che dell'indagine sulle conseguenze del licenziamento.
Nel merito, alla corte la conseguenza dell'estensione della stabilità del rapporto anche al di fuori del suo naturale campo di applicazione appare non solo in linea con le espressioni adoperate dal legislatore nelle due leggi, ma soprattutto coerente «agli scopi perseguiti dalle ri
spettive normative». Essi vengono rinvenuti nella «necessità di una leg ge che ... [consenta] a tutti gli appartenenti alle due categorie di conse
guire i benefici previsti e, perciò, di rimuovere il limite numerico che avrebbe impedito ad una parte dei lavoratori di conseguirli ostandovi l'esercizio del potere datoriale di recesso ad nutum».
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