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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sezione III civile; sentenza 18 giugno 1987,...

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Page 1: PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sezione III civile; sentenza 18 giugno 1987, n. 5371; Pres. Schermi, Est. Taddeucci, P.M. Leo (concl. conf.); Beck Peccoz (Avv.

sezione III civile; sentenza 18 giugno 1987, n. 5371; Pres. Schermi, Est. Taddeucci, P.M. Leo(concl. conf.); Beck Peccoz (Avv. Paoletti, Ferreri) c. Mozzi e altri; Mascheroni ed altri (Avv. A.Leone) c. Beck Peccoz e altro; Capriata (Avv. E. Ferrari) c. Mozzi e altri; D'Oria (Avv. Vianello,Carbone) c. Mozzi e altri. Cassa App. Torino 28 gennaio 1985Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1988), pp. 181/182-193/194Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23181034 .

Accessed: 28/06/2014 08:11

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

straniero può essere adottato da italiani con efficacia in Italia in quanto l'autorità competente dello Stato straniero abbia, in

una forma e nell'altra (vedasi anche art. 34, 3° comma), manife stato la volontà di consentire che quel suo cittadino minorenne

lasci la sua comunità, familiare e nazionale, per inserirsi in un'al tra comunità. Il giudice italiano non può pronuciare provvedi menti di adozione o tesi alla adozione di minori stranieri (ad esem

pio dichiarazione di efficacia di provvedimenti stranieri «come»

affidamenti preadottivi) se non gli consta tale consenso dello Sta to straniero. Ed ovviamente se esso non gli consta attraverso l'u

so degli strumenti conoscitivi necessari e legali, tra cui, come si

è visto, lo strumento della legalizzazione da parte delle rappre sentanze diplomatiche o consolari dell'estero; legalizzazione che

sola può dare la certezza che davvero a pronunciare il provvedi mento fu un giudice e quel giudice (o più in generale un funzio

nario investito di specifica competenza, e quel funzionario). Il

rischio, trascurando questa essenziale cautela, è gravissimo; che

cioè il minorenne straniero entri in Italia e magari sia adottato

da cittadini italiani in base ad un provvedimento straniero radi

calmente nullo o addirittura inesistente, con tutte le conseguenze

immaginabili sulla stessa validità della pronuncia italiana.

Né all'esigenza ora indicata supplisce la dichiarazione dell'au

torità consolare (art. 31, 1° comma, ultima parte) che il provve dimento «è conforme alla legislazione dello Stato». La dichiara

zione relativa è di conformità del contenuto del provvedimento alla legislazione dello Stato, nel che si può comprendere anche

l'accertamento in astratto della competenza dell'autorità che ha

pronunciato ad emettere quei provvedimenti. Ma non compren

de, non può comprendere, l'altro accertamento, tipico della legi

slazione, della autenticità della firma apposta e soprattutto della

legale qualità di chi tale forma ha apposto. Il Tribunale per i minorenni di Genova, dichiarando l'efficacia

in Italia di quel provvedimento straniero cui risultano apposte firme non legalizzate, ha dunque violato l'art. 17 1. 4 gennaio 1968: e la violazione è tale da ripercuotersi sulla legittimità del

provvedimento impugnato. Il relativo decreto va quindi cassato. Il rinvio è fatto allo stesso

Tribunale per i minorenni di Genova, competente funzionalmen

te. Quel tribunale trarrà le conseguenze del principio di diritto

ora formulato, rifiutando la dichiarazione di efficacia ove non

risulti operata la legalizzazione delle firme su apposte sul provve dimento del quale si è richiesta la dichiarazione di efficacia.

Gli altri motivi del ricorso del p.m. risultano assorbiti, data

la pregiudizialità del primo motivo, qui accolto.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 18 giu

gno 1987, n. 5371; Pres. Schermi, Est. Taddeucci, P.M. Leo

(conci, conf.); Beck Peccoz (Avv. Paoletti, Ferreri) c. Mozzi

e altri; Mascheroni ed altri (Avv. A. Leone) c. Beck Peccoz

e altro; Capriata (Avv. E. Ferrari) c. Mozzi e altri; D'Oria

(Avv. Vianello, Carbone) c. Mozzi e altri. Cassa App. Tori

no 28 gennaio 1985.

Rappresentanza nei contratti — Ripetizione di indebito — Legit timazione passiva del rappresentante — Fattispecie (Cod. civ., art. 1388)

Prescrizione e decadenza — Responsabilità precontrattuale — Pre

scrizione — Fattispecie (Cod. civ., art. 2947). Contratto in genere — Responsabilità precontrattuale — Invali

dità del negozio — Violazione di legge — Fattispecie (Cod.

civ., art. 1338).

Dichiarata la nullità del contratto concluso in frode alla legge dal rappresentante, con abuso e sviamento dei suoi poteri di

rappresentanza legale, e dal terzo, consapevole dell'illecito, le

gittimato passivo all'azione di repetitio indebiti proposta da que st'ultimo è il rappresentante (nella specie, il contratto era ma

nifestamente diretto ad eludere il divieto, per il genitore, di

alienare i beni dei figli minori, e di riscuotere i capitali senza

la preventiva autorizzazione del giudice tutelare). (1)

(1) Non constano precedenti negli esatti termini.

Sull'impossibilità di esperire l'azione di ripetizione nei confronti del

terzo, che rimanga estraneo al rapporto fra solvens e accipiens, v. Cass.

4 maggio 1978, n. 2087, Foro it., 1979, I, 180, con ampia nota di richiami.

Il Foro Italiano — 1988.

Poiché la culpa in contrahendo rientra nel genus della responsa bilità extracontrattuale, il termine di prescrizione è quello, di

cinque anni, previsto dall'art. 2947 c.c. (2) Non può configurarsi responsabilità per culpa in contrahendo,

quando la causa di invalidità del negozio sia nota alle parti. (3)

Svolgimento del processo. — Con atto di citazione notificato

il 27 e 28 ottobre 1980 Luigi Mozzi conveniva in giudizio davanti

al Tribunale di Torino Carla Beck Peccoz, il di lei figlio Clemen

te D'Oria Beck Peccoz, il notaio Carlo Mussa ed Augusto Arecco

(dipendente della prima) esponendo una complessa vicenda relati

va alle promesse di vendita del castello di Montaldeo, con tutti

i beni mobili in esso contenuti ed i fondi rustici annessi.

Detto complesso (di proprietà dell'allora minorenne Clemente

D'Oria) aveva costituito oggetto di una opzione di vendita rila

sciata in data 7 agosto 1969 dalla Carla Beck Peccoz in favore

di Olivio Adulto Mascheroni, o di persona da lui indicata, per il prezzo di lire 670 milioni. Subentrato al Mascheroni nel rap

porto, il Mozzi aveva avviato trattative per la rivendita a terzi

dei beni, assumendo gravosi impegni per compensi d'intermedia

zione, stime ed altro.

Quindi, con scrittura privata del 24 settembre 1969 la Beck

Peccoz si era impegnata a vendere al Mozzi il castello, con le

sue dipendenze e pertinenze, per il complessivo prezzo di lire 620

milioni (cosi ridotto per la minore estensione — 77 anziché 164

ettari — del terreno da cedersi) ricevendo un acconto di 50 milioni.

(2) Negli esatti termini, v. Cass. 19 aprile 1983, n. 2705, Foro it., Rep. 1983, voce Contratto in genere, n. 143.

In generale sulla natura extracontrattuale dell'illecito precontrattuale, v. Cass. 28 gennaio 1972, n. 199, id., 1972, I, 2088. In tema di libertà contrattuale e recesso dalle trattative, v. Cass. Francia 20 marzo 1972, id., 1974, IV, 76, con nota di F. Prandi.

Quanto alla prescrizione degli interessi corrispettivi sulle somme inde

bitamente percette, v. Cass. 13 maggio 1977, n. 1884, id., Rep. 1977, voce Prescrizione e decadenza, n. 146.

(3) La sentenza afferma che, qualora la causa di invalidità del contrat to sia nota alle parti, non è dato configurare responsabilità per culpa in contrahendo. Il caso di specie riguardava un contratto stipulato in frode alla legge; infatti, vi era stata compartecipazione, da un lato, a

porre in essere l'illecito valutario onde consentire alla parte residente in

Italia di raggiungere un fine vietato dall'art. 2 1. 786/56, e dall'altro ad

eludere l'applicazione dell'art. 320 c.c, che prevede l'autorizzazione, da

parte del giudice tutelare, al genitore per la vendita di beni appartenenti al minore.

In merito all'illecito valutario, v. Cass. 21 luglio 1981, n. 4686, Foro

it., 1983, I, 771, con nota di richiami. Sul raffronto fra nullità negoziale e realtà fiscale, v. F. Marchetti, Gli effetti fiscali del contratto nullo

ed il contratto fiscalmente illecito. Profili sistematici, in Riv. critica dir.

privato, 1985, 525.

Sull'impossibilità di configurare responsabilità per culpa in contrahen

do quando la causa di invalidità del negozio, ignorata da una delle parti, derivi da norma di legge che, per presunzione assoluta, deve essere nota

alla generalità dei cives, v. Cass. 11 febbraio 1982, n. 835 Foro it., Rep. 1982, voce Contratto in genere, n. 98. Nello stesso senso Cass. 4 ottobre

1974, n. 2603, id., 1975, I, 373, con nota di richiami. Senonché, quest'o rientamento, ricevuto senza scosse in giurisprudenza (ma v. Trib. Roma 14 maggio 1980, id., Rep. 1981, voce cit., n. 113, la quale afferma che il dovere di conoscenza della legge non si pone in eguale misura a carico

di tutti i destinatari della norma e non può identificarsi, sempre e in

ogni caso, con la negligenza, ma va valutato caso per caso onde accertare

se la presenza di cause di nullità o di annullamento derivanti dalla viola

zione di norme di legge, fosse riconoscibile dalla parte che ha confidato

nella validità del contratto), incontra forti resistenze dottrinarie (v., tra

gli altri, R. Scognamiglio, Dei contratti in genere, in Commentario, a

cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970, 224). Sul punto, da ultimo, F. Carresi, Il contratto, in Trattato di diritto

civile e commerciale, già diretto da Cicu e Messineo, continuato da Men

goni, Milano, 1987, XXI, t. 2, 716 ss., spec. 717, a cui dire: «ritenere

che l'ignoranza della legge possa talvolta essere scusabile e quindi esone

rare il trasgressore dalle conseguenze della violazione commessa, oltre

ad urtare contro il principio costituzionale di uguaglianza porterebbe in

fatti inevitabilmente a questa conseguenza: che il giudice dovrebbe caso

per caso, e secondo criteri che non potrebbero che essere i più soggettivi, valutare se la norma appartiene alla categoria di quelle che possono e

quindi debbono essere conosciute anche dal più sprovveduto dei cittadini

o invece alla categoria delle norme la cui conoscenza è solo alla portata dei culti-, per non dire poi della necessità che s'imporrebbe al giudice di largheggiare in comprensione nei casi in cui l'ignoranza della norma

venisse invocata da un cittadino straniero, tanto più se appartenente a

un popolo di civiltà diversa dalla nostra».

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PARTE PRIMA

Accertatosi successivamente che il terreno alienando misura qua

ranta ettari, era stata sottoscritta dalla Beck Peccoz e dal Mozzi

una nuova scrittura privata in data 8 novembre 1969 a tenore

della quale il prezzo della futura vendita dei vani del minore era

stato ridotto a lire 600 milioni, il promittente acquirente aveva

versato un ulteriore acconto di 10 milioni di lire ed era entrato

in possesso del complesso, ed il versamento del residuo prezzo

a saldo (lire 540 milioni) era stato rimandato al momento in cui

fossero state espletate dal notaio Mussa le pratiche affidategli

con separata lettera di incarico.

Con quest'ultima scrittura — datata sempre 8 novembre 1969 — le parti contraenti avevano congiuntamente rilasciato mandato

al notaio di istruire ed inoltrare all'autorità giudiziaria competen

te la richiesta di autorizzazione alla vendita, pattuendo che, in

caso di rigetto dell'istanza, il compromesso sarebbe stato ritenuto

risolto per mutuo consenso, con restituzione delle somme versate

a titolo di acconto; e così pure per il caso che lo Stato avesse

esercitato il diritto di prelazione spettantegli sui beni di alienazio

ne ai sensi della 1. n. 1089 del 1939.

Nel caso, invece, di conseguita autorizzazione, le parti autoriz

zavano il notaio, «sempre congiuntamente, ad indicare nello sti

pulando atto, od atti pubblici, di trasferimento il prezzo od i

prezzi che risulteranno dalla autorizzazione stessa, fermo ed im

pregiudicato il corrispettivo totale tra noi pattuito con la odierna

promessa di vendita».

In data 3 dicembre 1969 la Beck Peccoz ed il notaio mandata

rio avevano presentato ricorso al giudice tutelare competente per ottenere l'autorizzazione alla vendita dei beni del minore, indi

cando il valore di essi — secondo stime periziali allegate — nel

l'importo di lire 123.682.800 e tacendo dello stipulato compro

messo.

Ottenuta dal giudice (in data 5 gennaio 1980) l'autorizzazione

alla vendita per un prezzo non inferiore a quello di stima ora

indicato, il Mozzi aveva rilasciato al notaio Mussa (in data 31

gennaio 1970) un assegno posdatato e privo di copertura per lire

100 milioni. Solo qualche giorno dopo, il Mozzi — sottoposto, a suo dire,

a pressioni ed a minaccia di arresto — e la Beck Peccoz avevano

sottoscritto, in data 18 febbraio 1970, una nuova scrittura priva ta (in parte modificatrice di quella datata 8 novembre 1969) a

tenore della quale, datosi atto dell'inadempimento del promitten te acquirente al versamento dell'acconto di lire 100 milioni, que sti versava la somma di lire 2 milioni e rilasciava alla controparte

quattro pagherò cambiali a breve scadenza pari a lire 18 milioni, veniva precisato che gli importi sino ad allora versati (lire 62 mi

lioni) sarebbero stati ritenuti a titolo di caparra, da incamerarsi

in caso di mancato pagamento di una o più delle rate ancora

dovute a saldo, con scadenze tra il 15 marzo ed il 30 luglio 1970.

Esponeva altresì il Mozzi nell'atto di citazione che soltanto do

po la sottoscrizione del contratto del 18 febbraio 1970 era venuto

a conoscenza della indicazione, nella richiesta di autorizzazione

presentata al giudice tutelare, di un valore di mercato dei beni

promessigli in vendita assai inferiore a quello reale (con pregiudi zio per il minore proprietario e per il promissario acquirente, espo sto all'esercizio eventuale del diritto di prelazione da parte dello

Stato); che soltanto nei primi mesi del 1971 era venuto a cono

scenza dell'asportazione di suppellettili e quadri dal castello, at

tuata nottetempo dall'amministratore della controparte, Augusto

Arecco; che nel decennio tra il 1970 ed il 1980 era stato costretto

a difendersi, con conseguenze economiche disastrose, dalle prete se dei terzi con cui aveva assunto impegni in ordine ai beni pro

messigli in vendita; che con lettera raccomandata del proprio le

gale avv. Tabor in data 30 maggio 1975 invano aveva sollecitato

le controparti ad addivenire ad una definizione dei rapporti. Sulla base di tali premesse il Mozzi chiedeva al tribunale: di

dichiarare la nullità del contratto in data 18 febbraio 1970 per

qualsiasi causa intravedenda nei fatti esposti, ed in difetto pro nunziarne l'annullamento per violenza o dolo; di dichiarare la

validità della scrittura dell'8 novembre 1969 emettendo ex art.

2932 c.c. sentenza costitutiva dei suoi effetti traslativi; in subor

dine, di emettere la pronuncia costitutiva in ordine ad entrambe

le scritture, dell'8 novembre 1969 e del 18 febbraio 1970, dichia

randosi la inadempienza della Beck Peccoz rispetto ad esse ed

a quelle anteriori; di condannare la predetta, e se del caso il figlio

Clemente D'Oria ormai maggiorenne, al risarcimento dei danni

arrecati sia sotto il profilo contrattuale che sotto il profilo extra

II Foro Italiano — 1988.

contrattuale; in ulteriore subordine, di dichiarare quelle scritture

risolte per fatto e colpa della Beck Peccoz e di condannarla peri

menti al risarcimento dei danni, quantificati nella somma di lire

1.632.951.731 (in essa compresi gli importi versati a titolo di ac

conto e di caparra). Nei confronti del notaio Mussa, chiedeva che fosse accertata

la sua inadempienza al mandato conferitogli con lettera dell'8

novembre 1969 per infedele e fraudolenta esecuzione dell'incarico

e fosse pertanto emessa condanna al risarcimento dei danni, indi

cati in lire 1.632.951.731; nei confronti, infine, del predetto uni

tamente alla Beck Peccoz ed all'Arecco, che al pagamento della

somma suindicata essi fossero in solido condannati, a titolo risar

citorio, «per la serie di illeciti dai medesimi dolosamente com

messi».

Tutti i convenuti, costituitisi, eccepivano la intervenuta prescri

zione dei diritti ex adverso fatti valere. Inoltre, Carla Beck Pec

coz chiedeva in via riconvenzionale che il contratto del 18 feb

braio 1970 fosse dichiarato risolto per effetto di clausola risoluti

va espressa, stante il mancato pagamento del residuo prezzo; in

linea subordinata che il Mozzi fosse condannato al pagamento

della somma di lire 18 milioni dovuta quale caparra. Dal suo

canto Clemente D'Oria (nato il 31 agosto 1966 e divenuto mag

giorenne con la entrata in vigore della 1. 8 marzo 1975 n. 39)

instava tra l'altro acché il contratto preliminare di vendita stipu

lato a suo nome dalla madre, allora esercente la potestà genito

riale, fosse dichiarato nullo perché volto ad eludere le norme im

perative di legge poste a garanzia degli interessi patrimoniali dei

minori.

Con sentenza del 10 febbraio 1983 il Tribunale di Torino —

premesso che la scrittura privata dell'8 novembre 1969 feceva parte

integrante del contratto preliminare sottoscritto il 18 febbraio 1970

e stipulato dalla Beck Peccoz in nome e per conto del figlio,

ed escluso che tale accordo fosse affetto da nullità — dichiarava

estinta per prescrizione decennale ogni altra azione, di annulla

mento, risoluzione, risarcimento, fatta valere dal Mozzi, dichia

rava la Beck Peccoz non legittimata a richiedere il versamento

della residua caparra e rigettava la domanda del D'Oria.

Avverso tale pronuncia interponeva appello il Mozzi insistendo

per l'accoglimento delle domande tutte proposte in primo grado.

Negava anzitutto che i diritti azionati fossero estinti per pre

scrizione, anche per effetto delle efficacia interruttiva da attribui

re alla lettera del proprio legale in data 30 maggio 1975. Insisteva

affinché i contratti intercorsi tra le parti fossero dichiarati nulli

perché — tra l'altro — stipulati in frode alla legge e rivolti ad

eludere le norme pubblicistiche sulla tutela dei beni appartenenti ai minori (e sottoposti a vincolo storico-artistico da parte dello

Stato) rimproverando al tribunale di non aver tenuto conto sia

del «motivo illecito comune alle parti ed indubbiamente determi

nante», sia della consapevolezza in entrambe le parti (Beck Pec

coz e Mozzi) della divergenza tra la loro determinazione causale, indirizzata a fine illecito, e la causa tipica del contratto prescelto.

Mediante impugnazioni incidentali Carla Beck Peccoz e Cle

mente D'Oria insistevano nelle rispettive loro domande riconven

zionali.

A loro volta gli appellati Capriata Lorenzina, ved. Mussa, Giu

seppe e Maia Mussa (quali eredi di Carlo Mussa) e Giuseppe Arec

co (quale erede di Augusto Arecco) chiedevano di essere assolti

dalle pretese risarcitone dell'appellante principale. Quest'ultimo, in sede di memoria di replica, segnalava una ulteriore ragione di nullità del contratto, in quanto prevedeva il pagamento del

prezzo dovuto da lui promissario acquirente (cittadino italiano

non residente in Italia) in franchi svizzeri da accreditare presso banca da indicare dalla Beck Peccoz (residente in Italia) in viola

zione delle norme valutarie di cui alla 1. n. 786 del 25 luglio 1956.

Con sentenza del 28 gennaio 1985 la Corte d'appello di Torino — premesso che il contratto preliminare del 24 settembre 1969

doveva ritenersi consensualmente risolto e sostituito dagli accordi

successivi; che il contenuto della scrittura privata dell'8 novem

bre 1969, per le parti non modificate, doveva ritenersi trasfuso

nel successivo accordo del 18 febbraio 1970, perdendo ogni auto

noma individualità e con esso integrandosi; che nel negoziare la

Beck Peccoz aveva agito in nome proprio non avendo dichiarato

di stipulare in nome e per conto del figlio minorenne — perveni va alla conclusione che il contratto preliminare di compravendita era affetto da una triplice causa di nullità assoluta totale: a) anzi

tutto perché esso infrangeva il divieto, posto dall'art. 2 d.l. 6

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

giugno 1956 n. 476, convertito in 1. 25 luglio 1956 n. 786, ai

residenti di compiere qualsiasi atto idoneo a produrre obbligazio ni fra essi ed i non residenti: b) in secondo luogo perché esso

era manifestamente teso ad eludere il divieto, per i genitori, di

alienare i beni dei figli minori, di riscuotere i loro capitali e di

reinvestirli senza la preventiva autorizzazione del giudice tutelare, ex art. 320 c.c., necessaria anche in ordine alle modalità del reim

piego; vincoli la cui elusione, per una parte notevolissima del prezzo

concordato, era stata ben nota ed accettata dal promissario ac

quirente; c) in terzo luogo perché dall'accordo si desumeva il co

mune intento dei paciscenti di omettere del tutto, in occasione

del successivo trasferimento della proprietà, la denuncia prevista dall'art. 30 1. n. 1089 del 1939, per consentire allo Stato l'eserci

zio del diritto di prelazione su beni vincolati per il loro interesse

storico ed artistico, e prima ancora la denuncia prescritta dal

l'art. 32 della citata legge in occasione del trasferimento del pos

sesso del castello e dei suoi arredi al promissario acquirente. Dall'accertamento di queste tre cause di nullità la corte di me

rito faceva derivare il rigetto di tutte le domande di annullamento

e di adempimento proposte dal Mozzi e dalla Beck Peccoz (que

st'ultima, per la residua caparra), nonché quelle di risoluzione

per inadempimento proposte dalle suddette parti e dal D'Oria,

e faceva discendere altresì' il rigetto: a) della domanda di condan

na della Beck Peccoz e dei suoi ausiliari Arecco e Mussa per

responsabilità precontrattuale ex art. 1337 e 1338 c.c., in quanto

le cause di invalidità del contratto erano, oggettivamente, note

volute ed accettate, con i rischi ad esse inerenti, da entrambi i

contraenti; b) della domanda di condanna degli eredi del notaio

Mussa, per inadempienza al mandato, stante la radicale nullità

dell'incarico — di cui alla lettera dell'8 novembre 1969 — per

le stesse ragioni che inficiavano il coevo contratto cui esso ineri

va; c) della domanda di condanna dei predetti, dell'Arecco e del

la Beck Peccoz a titolo di responsabilità aquiliana, poiché non

potevano ad essi (o loro dante causa) imputarsi le allettanti ed

esagerate prospettazioni di rapido guadagno che avevano indotto

il Mozzi alla negoziazione.

Quanto poi ai supposti «illeciti» lamentati dal Mozzi la corte

torinese osservava: che dalla stessa sua prospettazione dei fatti

emergeva la non configurabilità della ipotesi delittuosa di estor

sione; che della asserita sottrazione di beni mobili non poteva

dolersi il Mozzi, di essi mai divenuto proprietario; che il decorso

della prescrizione, di cui all'art. 2947 c.c. — per il ristoro di

danni derivanti da fatti assertivamente delittuosi risalenti al gen

naio 1970 o ad epoca anteriore — non era stato interrotto dal

l'invio della lettera raccomandata del 30 maggio 1975 poiché in

essa non si faceva cenno a pretese risarcitorie da comportamenti

illeciti. La corte di merito riteneva peraltro che, in esito alla dichiarata

nullità del contratto, fosse da accogliere soltanto la domanda del

Mozzi, tendente alla restituzione della somma di lire (50+10 + 2 = )

62 milioni da lui versata in più riprese a titolo di acconto e poi

trasformata in caparra: trattandosi di diritto configurabile come

ripetizione di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., enucleabile en

tro il quadro della più ampia pretesa risarcitoria formulata a det

taglio del solvens, e non estinto per prescrizione poiché il decorso

decennale di questa era stato interrotto con la richiesta di «reinte

grazione» del Mozzi «nelle somme ingiustamente versate» espres

samente contenuta nella lettera raccomandata del 30 maggio 1975.

Veniva pertanto pronunciata condanna della Carla Beck Peccoz

al pagamento, in favore del Mozzi, della somma di lire 62 milioni

con gli interessi legali dal di della domanda (27 ottobre 1980)

in considerazione dello stato di presumibile ignoranza della nulli

tà del contratto, in cui l'accipiens versava quando le somme le

erano state rimesse.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione:

la Carla Beck Peccoz, con atto notificato il 6 marzo 1985, sulla

base di tre motivi di censura; Adulto Olivio Mascheroni nella

qualità di procuratore speciale di Luigi Mozzi, unitamente a que

st'ultimo in proprio, con atto notificato il 5 aprile 1985 sulla base

di sei motivi di annullamento. A quest'ultimo ricorso hanno resi

stito: Carla Beck Peccoz con controricorso; Clemente D'Oria con

controricorso contenente ricorso incidentale; Lorenzina Capriata

ved. Mussa, Giuseppe e Maria Mussa (erredi di Carla Mussa)

unitamente a Giuseppe Arecco (erede di Augusto Arecco) con

controricorso contenente ricordo incidentale condizionato. Tut

II Foro Italiano — 1988.

te le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. Motivi della decisione. — (Omissis). Ciò premesso, giova pre

cisare, attraverso una valutazione d'assieme dei ricorsi, principale ed incidentale, i limiti della materia in questa sede di legittimità ancora in discussione.

Più non si controverte, infatti, in ordine al rigetto delle diverse

domande, hinc et inde proposte, per l'annullamento, la risoluzio

ne per inadempimento e la esecuzione specifica della progettata

compravendita, e non più si contesta la declaratoria della nullità

del contratto preliminare, risultante unitariamente disciplinato dalle

scritture datate 8 novembre 1969 e 18 febbraio 1970 per come

pronunziata dalla corte torinese: punti tutti non investiti da spe

cifica impugnazione e da tenere fermi perché coperti da giudicato. Ancora si contende, invece in questa sede in ordine: a) alle

conseguenze restitutorie nascenti dalla dichiarata nullità del con

tratto (1°, 2° e 3° motivo del ricorso Beck Peccoz, 1° motivo

e prima parte del 2° motivo del ricorso Mozzi); b) alla imputabi

lità, unilaterale o bilaterale, dei comportamenti indebiti che han

no condotto alla pronuncia di nullità, con conseguenti problemi

di responsabilità contrattuale e precontrattuale (seconda parte del

2° motivo, 3°, 4° e 6° motivo del ricorso Mozzi); c) alla respon

sabilità aquiliana da fatti illeciti connessi con la vicenda negoziale

(5° motivo del ricorso Mozzi; ricorso incidentale eredi Mussa ed

Arecco); d) alla compensazione delle spese relative al contraddit

torio tra il Mozzi ed il D'Oria (ricorso incidentale di quest'ultimo). Tali questioni devono essere ora esaminate secondo la succes

sione dettata da esigenze di priorità logico-giuridica e di sintesi

espositiva.

2) Sostiene la ricorrente principale Beck Peccoz, con il primo

motivo della sua impugnazione, che la corte torinese sarebbe in

corsa nella violazione dell'art. 112 del codice di rito ed in vizio

di carenza di motivazione relativamente al punto in cui aveva

pronunziato condanna per ripetizione d'indebito ai sensi dell'art.

2033 c.c. senza avvedersi: che detta condanna non aveva costitui

to oggetto, da parte del Mozzi, di specifica domanda; che data

la diversità dei presupposti (e dei fini) ai quali l'ordinamento ri

collega le diverse azioni di responsabilità per danni e di repetitio

indebiti, non era consentito ravvisare la proposizione di quest'ul

tima nell'ambito della più ampia e generica domanda risarcitoria

formulata dalla controparte, sia a titolo contrattuale sia a titolo

extracontrattuale e con riferimento di tutti i fatti da lui esposti.

La censura è priva di fondamento. Spetta, infatti, al giudice

del merito la interpretazione della domanda: ed essa deve essere

correttamente condotta accertando la portata dell'atto sulla base

non solo della sua formulazione letterale, ma soprattutto del suo

contenuto sostanziale, con riguardo alle finalità perseguite dalla

parte e dal provvedimento richiesto in concreto, secondo quanto

è desumibile dall'insieme delle deduzioni e delle tesi svolte, e del

le eventuali precisazioni formulate in corso di giudizio, in ordine

alla situazione controversa (principio consolidato: cfr. tra le più

recenti sentenze, Cass. n. 5733 del 1985, Foro it., Rep. 1985,

voce Procedimento civile, n. 105).

A tali criteri ermeneutici si è rettamente attenuta la corte tori

nese: la quale ha tenuto presente — come emerge dalla imposta

zione stessa della sua decisione — la distinzione tra domanda

risarcitoria (che ha rigettato) e domanda restitutoria (che ha ac

colto); ed ha altresì rilevato essere stata quest'ultima espressa

mente proposta nell'atto originale di citazione e ribadita nell'atto

di appello. Né all'esame dell'istanza, con cui si chiedeva la resti

tuzione delle somme di denaro (lire 62 milioni) corrisposte alla

Beck Peccoz, poteva ostare la sua collocazione ad esordio dell'e

lencazione delle voci di danno emergente assertivamente sofferto

(per un ammontare di lire 1.632.951.731), dal momento che la

ragione di siffatta, spuria, aggregazione era fornita dalla accesso

ria pretesa di rivalutazione monetaria delle somme restituende (in

misura triplicata rispetto a quelle versate; pretesa quest'ultima

giustamente respinta dalla corte di merito; cfr. Cass. n. 1762 del

1969, id., Rep 1969, voce Moneta nelle obbligazioni, n. 4, tra

le numerose altre).

3) Una volta fermo il punto che l'azione ripetitoria ex art. 2033

c.c. fu efficacemente esperita dal solvens, viene in esame la que

stione della individuazione del soggetto obbligato alla restituzio

ne delle somme e quindi legittimato a resistere alla condictio in

debiti sine causa. La questione è investita sia dal secondo motivo

del ricorso della Beck Peccoz quanto dal primo motivo del ricor

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PARTE PRIMA

so del Mozzi, attraverso censure che possono essere congiunta mente esaminate in quanto rivolte a contrastare l'affermazione

della corte torinese, secondo la quale la madre esercente la pote stà genitoriale avrebbe stipulato il compromesso di vendita dei

beni di proprietà del figlio minore in nome proprio e non quale

legale rappresentante di quest'ultimo non avendo espressamente

speso il nome di lui.

Sostengono entrambi i ricorrenti che il giudice di appello, cosi'

opinando, sarebbe incorso nella violazione e falsa applicazione delle norme in tema di rappresentanza legale (art. 1387, 1388 in relazione all'art. 320 c.c.) e di quelle in tema di interpretazione del contratto, oltre che nel vizio di incoerente e contraddittoria

motivazione, ai sensi dell'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. Rileva questa corte che il segnalato vizio della motivazione per

contrarietà a diritto, non inficia l'iter logico-giuridico seguito dalla

sentenza impugnata cosi profondamente da non potere essere iso

lata ed espunto dalla sequela argomentativa adottata senza pro vocare uno iato tra le premesse, accertate in linea di fatto e le

conseguenze fattene derivare per legge; e si risolve pertanto in

un incidentale error in iudicando emendabile attraverso l'uso dei

poteri correttivi attribuiti al giudice della legittimità ai sensi del

l'ultimo comma dell'art. 384 c.p.c. Giova infatti ricordare che la qualificazione di un negozio giu

ridico consta di due momenti: a) la ricerca e la individuazione

degli elementi di fatto, b) la loro assunzione nelle corrispondenti fattispecie legali; che le operazioni del primo momento sono tipi che dell'attività giurisdizionale del giudice del merito (risolvendo si in indagini e valutazioni di fatto sottratte al controllo di legitti mità se adeguatamente e correttamente motivate), mentre le ope razioni del secondo momento sono passibili di critica anche in sede di legitttimità, comportando esclusivamente l'applicazione delle norme giuridiche regolatrici della fattispecie concreta (cfr. Cass. n. 4333 del 1983, id., Rep. 1983, voce Contratto in genere, n. 236; n. 4222 del 1976, id., Rep. 1976, voce cit., n. 182).

Nel caso in esame, è di tutta evidenza — per quanto concerne le operazioni del primo momento — che la corte torinese ha (esau rientemente e correttamente motivando) individuato, in linea di

fatto, la peculiarità della vicenda negoziale, caratterizzata dalla

consapevolezza in entrambe le parti della appartenenza al minore Clemente D'Oria dei beni promessi in vendita dalla sua genitrice; della necessità di ottenere dal giudice tutelare l'autorizzazione al

trasferimento, e soprattutto caratterizzata dalla volontà comune ad entrambi i paciscenti — per come risultava dall'incarico con ferito congiuntamente al notaio con lettera richiamata nel coevo contratto dell'8 novembre 1969 — di far figurare nel futuro con tratto definitivo un prezzo minore di quello in realtà dovuto allo

scopo, previsto e di concreto programmato, di eludere l'applica zione delle norme imperative di cui all'art. 320 c.c. circa il reim

piego della somma riscuotenda.

Partendo da tali accertamenti e valutazioni, a lui riservati, il

giudice del merito è pervenuto alla conclusione (in questa sede, si ripete, non impugnata) della nullità del contratto siccome sti

pulato in frode alla legge e contrario a norme imperative, in tal modo accogliendo la tesi propugnata dallo stesso promissario ac

quirente Mozzi nell'atto di appello, laddove (fatto richiamo a Cass. n. 3568 del 1971, id., Rep. 1971, voce cit., n. 163) individuava la fraudolenza dell'accordo concluso nella divergenza consapevo le fra causa tipica del contratto prescelto e determinazione causa le delle parti indirizzata alla elusione di norme pubblicistiche det tate a favore del minore, e laddove ammetteva e sosteneva la comunanza dei motivi (illeciti) che avevano indotto, lui come la

controparte, alla pattuizione. Ma una volta ricollegata per questa via alle suindicate promesse la conclusiva pronuncia di nullità del negozio, risultava del tutto incongruente e contraddittorio spie gare, in punto di diritto, che la Beck Peccoz si era impegnata «in nome proprio» perché, nel negoziare, non aveva espressa mente dichiarato di agire nella qualità di esercente la potestà ge nitoriale sul figlio proprietario dei beni promessi in vendita.

Come è noto, infatti, il principio della indispensabilità della

espressa spendita del nome del rappresentato affinché nella sfera

patrimoniale di questi si producano direttamente gli effetti del

contratto, è applicabile all'ipotesi di rappresentanza volontaria, ma non può estendersi alla rappresentanza legale: campo nel quale i poteri del rappresentante sono stabiliti direttamente dalla legge (e gli competono come propri in relazione all'ufficio affidatogli), con la conseguenza che sono sufficienti, da un lato la volontà

inequivoca, anche se tacita, di agire come rappresentante dell'in

Ii Foro Italiano — 1988.

capace e, dall'altro lato, la consapevolezza di trattare con chi

ha quella veste (cfr. Cass. n. 4261 del 1974, id., Rep. 1974, voce

Rappresentanza nei contratti, n. 4; n. 3980 del 1969, id., Rep. 1970, voce Obbligazioni e contratti n. 317).

Altro era, invero, il principio di diritto al quale il giudice del merito, nel qualificare giuridicamente l'accordo come non idoneo

a produrre qualsivoglia effetto entro la sfera patrimoniale del mi

nore rappresentante, avrebbe dovuto attenersi. Una volta escluso

che al contratto si attagliasse la sanzione dell'annullabilità ex art.

322 c.c., ed una volta affermata la nullità assoluta della pattui zione perché inficiata dalla violazione di norme inderogabili, di

per sé rivelatrice dell'anormale e scorretto esercizio dei poteri di

rappresentanza, si imponeva la considerazione che il contratto

concluso dal rappresentante produce direttamente effetto nei con

fronti del rappresentante sempreché non vi sia esorbitanza, da

parte del primo, dai limiti delle facoltà — dalla legge e dall'inte

ressato — conferitegli. Limite generale, questo, stabilito dall'art.

1388 c.c. ed operante — come la più accreditata dottrina confer

ma — tanto nel settore della rappresentanza volontaria quanto in quello della rappresentanza legale.

Detto principio trova complementare rispondenza in quello con

sacrato nell'art. 1398 c.c. a tenore del quale la responsabilità del

danno sofferto dal terzo, incolpevole contraente, viene diretta

mente addossata su colui che abbia contrattato come rappresen tante senza averne i poteri od eccedendo i limiti delle facoltà con

feritegli; né può dubitarsi che da detta mancanza o da dettto ec

cesso derivi — sempre in capo al contraente in difetto e non an

che in capo al soggetto rappresentato — anche l'obbligazione re

stitutoria ex art. 2033 c.c., quando di essa ricorrano i presuppo sti, e quando la nullità del contratto sia stata riconosciuta in di

pendenza causale con la preordinata violazione dei poteri di rap

presentanza (e di quest'ultima assuma, in definitiva, valore di

sanzione). E sebbene nel caso di specie l'applicazione dell'art. 1398 c.c.

fosse da escludere — data la volontaria e cosciente compartecipa zione del terzo alla illiceità inficiante il contratto — valido resta

va il principio, enucleabile dal sistema, dell'esonero dell'incapace

rappresentato da ogni effetto conseguente a contratto dichiarato

nullo perché lesivo dei suoi interessi.

Ne discende che — dichiarata la nullità del contratto concluso in frode alla legge dal rappresentante, con abuso e sviamento dei suoi poteri di rappresentanza legale, e dal terzo, con consape vole compartecipazione all'illecito — legittimato passivo all'azio

ne di repetito indebiti proposta da quest'ultimo è il rappresentan te, non il rappresentato, perché la esorbitanza dai limiti e dai fini assegnati al potere rappresentativo dalla legge, come ostava alla diretta riferibilità all'incapace degli effetti del negozio (art. 1388 c.c.), cosi impedisce poi, a nullità dichiarata, che il residuo

effetto restitutorio previsto dall'art. 2033 c.c. prenda campo nel l'area di detta riferibilità diretta.

Cosi corretta la motivazione in diritto adottata dalla corte tori

nese, restano ferme le conclusioni cui essa è ulteriormente perve nuta, sia nel ravvisare nella lettera del 30 maggio 1975 indirizzata

alla Beck Peccoz (in proprio e non nella qualità) effetto interrut tivo del decorso decennale della prescrizione prevista per la con dicio indebiti, sia nell'escludere che il figlio di lei, Clemente D'Oria — divenuto maggiorenne per effetto della 1. 8 marzo 1975 n. 39 anteriormente alla data sopraindicata — fosse comunque ob

bligato, o co-obbligato alla restituzione delle somme.

Giova del resto, ricordare il consolidato insegnamento di que sta corte regolatrice che, facendo leva sul carattere personale del

l'azione restitutoria ex art. 2033 c.c., ravvisa la legittimazione attiva e passiva rispetto ad essa esclusivamente in capo al solvens ed aì\'accipiens (cfr. Cass n. 16606 del 1978, id., Rep. 1978, voce

Cassazione civile, n. 207) indipendentemente dalla destinazione finale della somma — sia questa rimasta nel patrimonio dell'acci

piens o ne sia uscita per incrementare il patrimonio altrui (cfr. Cass. n. 1842 del 1960, id., Rep. 1960, voce Indebito, n. 3) —

e che conseguentemente nega l'esperibilità di detta azione nei con fronti del terzo il quale, rimasto estraneo al rapporto tra solvens ed accipiens, abbia tratto vantaggio dalla utilizzazione fatta da

quest'ultimo della somma ricevuta (cfr. Cass. n. 2087 del 1978, id., Rep. 1978, voce cit., n. 7).

Principi questi che a ragione possono essere richiamati nel pre sente giudizio sol che si ricordino le peculiarità della dichiarata

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

illiceità della causa del negozio, illiceità per sua natura ostativa

ad individuare nel minore, tramite la sua legale rappresentante, la «parte» che detta vita all'accordo stipulato con il solvens.

4) Sostiene la Beck Peccoz — con il terzo motivo del ricorso

principale, impostato sulla pretesa violazione dell'art. 2035 c.c.

e sulla pretesa carenza di motivazione sul punto — che la corte

di merito, una volta accertato che il contratto, nel suo contenuto

complessivo risultante dalla promessa di vendita dell'8 novembre

1969 e dalla lettera-mandato di pari data (e dal successivo accor

do del 18 febbraio 1970), era manifestamente diretto ad eludere

il divieto, per il genitore, di alienare i beni dei figli minori, e di riscuotere i capitali senza la preventiva autorizzazione del giu dice tutelare, senza rispettare le modalità di reimpiego da questi stabilite a norma dell'art. 320 c.c., e dopo avere precisato che

le clausole pattizie in quel senso dirette erano ben conosciute ed

accettate anche dal Mozzi, avrebbe dovuto coerentemente esclu

dere la repetibilità delle somme da quest'ultimo versante, quali

oggetto di prestazioni eseguite in vista di uno scopo costituente, anche da parte del solvens, una offesa al buon costume.

La censura non si risolve in una eccezione in senso tecnico,

improponibile in sede di legittimità in ragione della sua novità, in quanto occorre considerare — in senso contrario — che la

disciplina unitaria della condictio indebiti trova il suo completa mento nella disposizione di cui all'art. 2035 c.c. la quale funge da limite legale all'applicabilità del precedente art. 2033 c.c. di

modo che il giudice di merito, chiamato a pronunziarsi su di una

condictio ob iniustam causam, deve procedere d'ufficio e sulla

base delle risultanze processuali acquisite alla ulteriore valutazio

ne dell'atto o del contratto, di cui abbia già ravvisato la illegalità o la contrarietà all'ordine pubblico, sul diverso piano della sua

eventuale contrarietà al buon costume; tenendo presente, da un

lato, che la nozione dei negozi contrari al buon costume com

prende (oltre a quelli che infrangono le regole del pudore sessuale

e della decenza) anche quelli che urtano contro quei principi e

quelle esigenze etiche della coscienza collettiva elevati a livello

di morale sociale, in un determinato momento ed in un dato am

biente (cfr. Cass. n. 4414 del 1981, id., Rep. 1981, voce Presci

zione e decadenza, n. 16; n. 234 del 1960, id., Rep. 1960, voce

Indebito, n. 9); e per altro verso che sono irripetibili ex art. 2035

c.c. i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume

ma non pure le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio ille

gale per contrarietà a norme imperative (cfr. Cass. n. 1035 del

1977, id., Rep. 1977, voce cit., n. 5). La sollevata censura è dunque ammissibile, ma non è fondata.

Contrastante con la morale sociale (intesa quale parametro eti

co cui uniforma il proprio comportamento la generalità delle per sone corrette e di sani principi) e tale da ricadere sotto la sanzio

ne prevista dall'art. 2035 c.c. sarebbe un accordo fraudolento

intercorso tra l'acquirente dei beni immobili di proprietà del mi

nore ed il loro genitore inteso a defraudare questi ultimi del prez zo dovuto, o di parte di esso, dividendosi fra loro la differenza

tra il minor prezzo per cui la vendita è stata autorizzata dal giu dice (dolosamente tenuto all'oscuro delle reali condizioni pattuite

per il trasferimento immobiliare) ed il maggior prezzo che l'ac

quirente si è obbligato a corrispondere (cosi la citata sentenza

di questa corte n. 234 del 1960), senonché diverse sono le circo

stanze di fatto accertate, nel caso in esame, dal giudice del merito.

Il giudizio espresso da quest'ultimo si è infatti fermato alla

constatazione della fraudolenza del contratto, perché rivolto ad

eludere norme imperative di legge dettate a tutela dei minori, in

quanto nessun elemento probatorio acquisito forniva base speci fica e certa all'affermazione che lo scopo ulteriore ed ultimo per

seguito (dal solvens oltre che dall'accipiens, come prescritto dal

l'art. 2035 c.c.) fosse quello di pervenire alla occulta suddivisione

tra loro della maggior parte del prezzo ricavando dalla compra vendita con corrispondente immiserimento del patrimonio dell'in

capace. In ordine a siffatta, immorale, finalità la corte torinese avreb

be potuto, al più, formulare una diagnosi di mero sospetto; ma

non di certezza: essendo dato di esperienza che talvolta il genito

re tende ad eludere le disposizioni dettate dal giudice tutelare cir

ca il reimpiego dei capitali non già per mascherare indebite ap

propriazioni in pregiudizio del minore, bensì per destinare (nell'i

teresse di quest'ultimo) le somme riscuotende ad investimenti di

versi, anche se più rischiosi, rispetto a quelli per i quali l'autoriz

zazione giudiziale potrebbe essere concessa.

Il Foro Italiano — 1988.

Ma la formulazione di una ipotesi di un pur fondato sospetto circa le finalità di spoliazione del minore perseguite con il con

tratto sarebbe stata del tutto inconcludente perché non bastevole

a giustificare il diniego della repetibilità delle somme ai sensi del

l'art. 2035 c.c.

Né la ricorrente può comunque dolersi che il giudice del merito

non abbia intravisto nel negozio quello scopo immorale che alla

medesima decisamente nega ed in ordine al quale nessuna preter messa od erronea valutazione di elementi di prova segnala.

5) Sempre in tema di pretese restitutorie ex art. 2033 c.c., oc

corre quindi esaminare la prima parte del secondo motivo del

ricorso proposto dal Mozzi, la quale investe il capo della senten

za con cui la corte torinese ha stabilito la decorrenza degli inte

ressi legali sulla somma (lire 62 milioni) da rimborsare dalla data

della domanda giudiziale (27 ottobre 1980) anziché dalle date (set tembre e novembre 1969, febbraio 1970) dei vari versamenti ef

fettuati; ha escluso la repetibilità dei frutti.

Al riguardo il ricorrente lamenta che la corte di merito, nel

ritenere che la Beck Peccoz versasse al momento della ricezione

delle somme in stato di buona fede, sarebbe incorsa nella viola

zione degli art. 2033 e 1362 c.c., oltreché in vizio di carente e

contraddittoria motivazione, sostanzialmente sotto due profili: a)

perché — con riferimento alle tre cause di nullità ravvisate nel

contratto — non poteva essere ignorata la esclusiva responsabili tà dell'accipiens (la quale, residente in Italia, era destinataria del

divieto, ex art. 2 1. n. 476 del 1956, di assumere obbligazioni

con, e di ricevere pagamenti da «non residenti» senza autorizza

zione ministeriale; la quale, con l'ausilio del notaio e di altri man

datari, aveva taciuto al giudice tutelare l'esistenza del compro messo di vendita ed il prezzo in esso concordato, ed aveva omes

so di comunicare allo Stato la decisione di vendere beni vincolati

per il loro interesse artistico); b) perché in ogni caso la concor

rente mala fede del solvens non avrebbe mai potuto vanificare

quella dell 'accipiens in ipotesi di comune consapevolezza dei vizi

inificianti il negozio, e comportanti causa di nullità (come espres samente riconosciuto dalla corte di merito).

Premesso che il pagamento degli interessi sugli esborsi effet

tuati (compreso quello di lire 62 milioni) ha costituito oggetto di specifica domanda da parte del Mozzi sin dall'atto introdutti

vo del giudizio, la censura sopra riassunta sotto la lett. b) —

che è assorbente rispetto a quella sub a) — risulta fondata e deve

essere accolta, con le precisazioni che saranno ora indicate.

È anzitutto evidente che può farsi questione di repetibilità di

«frutti» solo quando il pagamento non dovuto abbia avuto ad

oggetto una res fruttifera diversa dal danaro, mentre la restitu

zione derivante dall'inesistenza della obbligazione pecuniaria (co me nella specie) può comprendere, oltre al capitale, gli interessi,

che rappresentano la fruttuosità del danaro (sempreché siano sta

ti richiesti, configurando un debito autonomo), che hanno natura

compensativa e sono soggetti a prescrizione quinquennale ex art.

2948, n. 4, c.c. (cfr. Cass. n. 1884 del 1977, id., Rep. 1977, voce

Prescrizione e decadenza, n. 146); che decorrono, infine, dal giorno della domanda giudiziale — intesa in senso tecnico — o dal gior no del pagamento a seconda che Vaccipiens sia stato in buona

od in mala fede. Estranea al debito restitutorio, cosi precisato, resta la maggiore fruttuosità che, tramite utile reimpiego, sia sta

to tratto dal denaro ricevuto, cosi conseguendo un arricchimento

di cui solo nell'ambito della diversa azione ex art. 2041 c.c. po

trebbe tenersi conto posto che si è fuori delle ipotesi previste da

gli art. 2037 e 2038 c.c., di restituzione o di alienazione di cosa

determinata.

E per stabilire — in ordine alla decorrenza degli interessi —

lo stato di buona o mala fede dell 'accipiens, la giurisprudenza

di questa corte ha già avuto occasione di precisare (cfr. Cass.

n. 1190 del 1963, id., Rep. 1963, voce Indebito, n. 3), in contra

sto con la tesi sostenuta dalla controricorrente Beck Peccoz, che

occorre avere riguardo al momento del pagamento, e non al mo

mento in cui, caducata la causa solvendi, insorga la obbligazione

restitutoria.

Poiché la mancanza della causa giustificativa della prestazione

eseguita (fondamento dell'azione di ripetizione) può a sua volta

derivare — secondo consolidata giurisprudenza — o dal difetto

di una originaria causa contrattuale idonea (condictio indebiti si

ne causa, come per il caso di nullità assoluta del negozio), oppu

re dal venir meno della causa originariamente esistente (condictio

indebiti ob causam finitam, come per il caso di annullamento,

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PARTE PRIMA

risoluzione od inefficacia del negozio), si è a volte sostenuto la

non configurabilità di una buona fede dell'accipiens, nelle ipotesi del primo tipo (cfr. Cass. n. 2490 del 1952, id., Rep. 1952, voce

Prova testimoniale, n. 104). Ma anche seguendo un orientamento meno rigoroso (cfr. Cass.

n. 685 del 1973, id., Rep. 1973, voce Indebito, n. 2), se il con

tratto venga dichiarato nullo per fatto imputabile al solvens —

od anche all'accipiens —, la qualificazione come di buona fede

del comportamento di quest'ultimo al momento della ricezione

della prestazione non dovuta non può prescindere, quanto meno, dall'affermazione della di lui ignoranza di ledere l'altrui diritto.

Ora, dato che la buona fede, in senso soggettivo, consiste nella

persuasione di agire in conformità alle regole del diritto, nella

convinzione della legalità del proprio comportamento, del quale

(in concreto) l'agente ignori la non conformità alla legge, e cioè

in definitiva l'antigiuridicità (cfr. Cass. n. 1308 del 1983, id., Rep. 1983, voce Contratto in genere, n. 217, nella motivazione) non

sembra sostenibile che siffatto stato intellettivo di non conoscen

za assista colui che abbia posto in essere un contratto dichiarato

nullo perché concluso in frode alla legge; e per di più nella piena

consapevolezza «della esistenza dei fatti che comportavano la nul

lità del contratto» medesimo, come in linea di fatto già accertato

dal giudice del merito, che in esso ha ravvisato lo strumento «strut

turato e preordinato per fronteggiare, se del caso, le conseguenze della prevista violazione di una norma imperativa di legge».

Né, ad escludere la mala fede dell'accipiens giova — contraria

mente all'avviso espresso nella sentenza impugnata — il rilievo

della mala fede del solvens, alla prima associata nella comune

consapevolezza dei vizi comportanti la nullità del negozio. A parte che, nel tema in esame, occorre considerare lo stato

soggettivo di chi riceve la prestazione indebita e di chi la esegue

(cfr. Cass. n. 2050 del 1978, id., Rep. 1978, voce Titoli di credi

to, n. 79), gioverà ricordare che la prescrizione legislativa della

decorrenza degli interessi a far tempo dalla domanda giudiziale costituisce un beneficio concesso ali 'accipiens in precipua consi

derazione del suo stato di buona fede, e cioè in ragione di una

condizione che — meritoria di maggior tutela — giustifica la de

roga al principio generale, di cui all'art. 1282 c.c., relativo alla

decorrenza di pieno diritto degli interessi corrispettivi sui crediti

liquidi ed esigibili di somma di denaro. Da ciò deriva che, una

volta esclusa la buona fede deli'accipiens (nel senso sopra indica

to), la deroga non ha ragione di operare e riprende vigore la

regola generale, quale che sia stata la condizione, di buona o

di mala fede, del solvens, nel momento in cui ha eseguito la pre stazione indebita.

Il capo della sentenza relativo alla decorrenza degli interessi

sulla restituenda somma di lire 62 milioni deve pertanto essere

cassato e la causa — ristretta per quanto si dirà al contradditto

rio tra la Beck Peccoz ed il Mozzi — deve essere rimessa per il nuovo esame al giudice del rinvio, che si designa in una sezione

diversa della Corte d'appello di Torino.

E nell'ambito del riesame si valuterà tra l'altro se è stata ecce

pita validamente la pescrizione (quinquennale) del debito restitu

torio relativo agli interessi in questione.

6) Passando alla diversa materia delle pretese risarcitorie da

culpa in contrahendo, possono essere congiuntamente esaminate

le doglianze esposte dal Mozzi nell'ultima parte del secondo mo

tivo, e nel terzo motivo del suo ricorso, in quanto convergenti nel sostenere — sotto il profilo della violazione e falsa applica zione delle norme sugli effetti della nullità del contratto e della

insufficienza e contraddittorietà della motivazione — l'esclusiva

riferibilità alla condotta illegale della Beck Peccoz (e dei suoi pro curatori speciali Mussa ed Arecco) delle varie cause di nullità del

contratto e l'assenza, da parte propria, di un qualsiasi supporto, di volizione o di conoscenza, rispetto ad esse.

Dalla lettura delle diffuse censure si evince che, sostanzialmen

te, il ricorrente sostiene: a) che in tema di illeciti valutari, i divieti

posti dall'art. 2 d.l. n. 476 del 1956 sono indirizzati al contraente

residente in Italia (quale la Beck Peccoz) e non anche al «non

residente» (tanto più che egli, risiedendo in Svizzera, ignorava

quelle norme); b) che gli oneri relativi al diritto di prelazione

spettante allo Stato sui beni vincolati per il loro interesse artistico

incombono solo ai proprietari di essi; c) che egli era rimasto estra

neo alla preparazione della documentazione (perizie) ed alla pre sentazione dell'istanza in base alle quali il giudice tutelare, tenuto

Il Foro Italiano — 1988.

all'oscuro dell'esistenza del compromesso di vendita, aveva que sta autorizzato per un prezzo assai inferiore a quello reale. Tali

prospettazioni risultano del tutto inidonee al fine, che il ricorren

te si prefigge, di infirmare la reiezione, da parte della corte d'ap

pello, delle domande risarcitorie fondate su pretesa culpa in con

trahendo e su responsabilità precontrattuale, dal momento che

per la configurabilità di detta responsabilità occorre — secondo

il paradigma delineato dagli art. 1337 e 1338 c.c., cui è riconduci

bile anche il disposto di cui all'art. 1398 c.c. — che il contraente

in buona fede dimostri di avere confidato, senza sua colpa nella

validità del contratto.

Ora, quando il negozio si presenti minato da una pluralità di

cause di invalidità, ciascuna delle quali sia stata ritenuta dal giu dice del merito sufficiente a sorreggere la pronunzia di nullità

(come nella specie), la prova dell'affidamento incolpevole cui so

pra si accennava deve essere fornita in ordine a tutte le predette

cause; né l'affidamento si profila meritevole di tutela (e prima

ancora, configurabile) quando entrambe le parti contraenti siano

state compartecipi dell'illecito che abbia dato luogo ad almeno

una delle cause di invalidità, cosi divenendo di quest'ultima cor

responsabili.

Taciuta, pertanto, ogni altra considerazione, la essenzialità del

la indagine cui questa corte deve attendere conduce alla constata

zione, anzitutto, che si versa in ipotesi di contratto dichiarato

nullo perché stipulato in frode alla legge ex art. 1344 c.c. (cosic ché non interessa la coincidenza dei motivi illeciti che hanno in

dotto le parti alla pattuizione) ed in secondo luogo che, per con

solidata giurisprudenza, l'accertamento della comune volontà ne

goziale costituisce un compito istituzionalmente riservato al giu dice del merito il cui apprezzamento al riguardo, risolvendosi in

un giudizio di fatto, sfugge al controllo di legittimità, se congrua mente e correttamente motivato.

E nell'ambito di detto giudizio di fatto, il giudice del merito

ha per l'appunto accertato: a) che il Mozzi, cittadino non resi

dente, fu compartecipe dell'illecito valutario, nel senso che era

consapevole della strutturazione del negozio in modo tale da con

sentire alla controparte, residente in Italia, di raggiungere un fine

vietato dall'art. 2 1. 25 luglio 1956 n. 786, e quindi fulminato

da nullità ex art. 1418 e 1344 c.c.; b) che analoga consapevolezza animava il Mozzi circa la fraudolenza del negozio consegnato in

modo da eludere l'applicazione delle norme imperative di cui al

l'art. 320 c.c.

Sia l'uno che l'altro accertamento, sono idonei — autonoma

mente — a giustificare non solo la dichiarata nullità del contrat

to, ma altresì' il rigetto di ogni pretesa risarcitoria ulteriore rispet to alla esperita ripetizione dell'indebito, dal Mozzi impostata sul

la asserita culpa in contrahendo della controparte. Ancor meno fondato è l'assunto del ricorrente secondo cui il

vantato diritto risarcitorio sarebbe soggetto a prescrizione decen

nale e questa sarebbe stata interrotta dalla lettera dell'avv. Tabor

datata 30 maggio 1975.

È ricorrente, nella giurisprudenza di questa corte, l'affermazio

ne che la responsabilità precontrattuale (ex art. 1337 e 1338 c.c.) rientra nel genus della responsabilità extraccontrattuale (cfr. Cass.

n. 749 del 1976, id., Rep. 1976, voce Appello civile, n. 57; n.

2385 del 1974, id., Rep. 1974, voce Contratto in genere, n. 106; n. 3129 del 1972, id., Rep. 1972, voce Contratti della p.a., n.

14) con la conseguenza che è ad essa applicabile il termine breve

di prescrizione di cui all'art. 2947 c.c. (cfr. Cass. n. 2705 del

1983, id., Rep. 1983, voce Contratto in genere, n. 143). E, a

parte che tra la data dell'ultimo contratto tra le parti (18 feb

braio 1970 e quella della ricezione della citata lettera era decorso

oltre un quinquennio, sta comunque di fatto che la corte di meri

to (mediante accertamento in questa sede non censurabile: cfr.

Cass. n. 528 del 1982, id., Rep. 1982, voce Prescrizione e deca

denza, n. 117) ha comunque escluso ogni efficacia interruttiva

della prescrizione, in ordine a pretese risarcitorie, dato che nella

missiva si faceva esclusivamente cenno alla diversa pretesa resti

tutoria («di reintegrazione del Mozzi nelle somme ingiustamente

versate»). Se infatti gli effetti interruttivi della prescrizione vanno circo

scritti, sotto il profilo oggettivo, al diritto di cui si chiede il sod

disfacimento, ne discende che — essendo ontologicamente diver

so il credito risarcitorio da illecito precontrattuale od extracon

trattuale dal credito restitutorio da indebito oggettivo (anche se

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Page 8: PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sezione III civile; sentenza 18 giugno 1987, n. 5371; Pres. Schermi, Est. Taddeucci, P.M. Leo (concl. conf.); Beck Peccoz (Avv.

GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

reclamatali nei confronti del medesimo soggetto passivo) — la

richiesta di pagamento del secondo, contenuta in atto di costitu

zione in mora, non può valere ad interrompere il termine prescri ziona in ordine al primo credito (vedi, in fattispecie in parte

analoghe Cass. n. 272 del 1964, id., Rep. 1964, voce cit., n. 59

e Cass. n. 100 del 1970, id., Rep. 1970, voce cit., n. 71, nella

motivazione). (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 18 giugno

1987, n. 5351; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Sensale, P.M. Sgroi V. (conci, conf.); Min. finanze (Avv. dello Stato

Mari) c. Pinzari. Conferma Comm. trib. centrale 7 luglio 1983,

n. 1888.

Ricchezza mobile (imposta sulla) — Reddito presunto da reim

piego di somme ricavate dalla vendita di immobile — Imposi zione — Inammissibilità (Cod. civ., art. 2727, 2729; d.p.r. 29

gennaio 1958 n. 645, t.u. sulle imposte dirette, art. 86).

L'esistenza di un capitale derivante da compravendita non con

sente di invocare la presunzione che le somme, una volta perce

pite, siano impiegate in modo fruttifero, poiché a tale risultato

si perverrebbe sulla base di una duplice presunzione per sé inam

missibile: la prima, che ogni somma di danaro, anche se riscos

sa a titolo di corrispettivo nei contratti di scambio, debba pre sumersi impiegata; la seconda, che, da tale impiego, debba pre sumersi la percezione di un reddito tassabile ex art. 86 t.u.

29 gennaio 1958 n. 645. (1)

Svolgimento del processo. — L'ufficio distrettuale delle impo

ste dirette di Roma notificò a Serafino Pinzari un avviso di ac

certamento e, in rettifica del reddito da questo dichiarato per l'anno 1968, vi incluse il reddito presunto, prodotto dal reinvesti

mento di somme ricavate dalla vendita d'immobili.

Soccombente dinanzi alla commissione tributaria di secondo

grado, il contribuente propose ricorso alla Commissione tributa

(1) 11 principio espresso nella sentenza in epigrafe (coeva a Cass. 23

aprile 1987, n. 3929, e 5 giugno 1987, n. 4918), risulta pressoché consoli

dato. Negli stessi termini e per identiche fattispecie, v. Cass., sez. un., 9 maggio 1985, n. 2871, Foro it., Rep. 1985, voce Ricchezza mobile, n. 38; 24 ottobre 1985, n. 5250, ibid., n. 39; Comm. trib. centrale 9

ottobre 1984, n. 8667, ibid., voce Complementare sul reddito (imposta), n. 13; Cass. 26 aprile 1979, n. 2412, id., Rep. 1979, voce Ricchezza mo

bile, n. 118; Comm. trib. centrale 18 dicembre 1975, n. 16370, id., Rep.

1976, voce Complementare sul reddito (imposta), n. 11. Negli stessi ter

mini e per analoghe fattispecie, cfr. Comm. trib. centrale 22 febbraio

1982, n. 1850, id., Rep. 1983, voce Ricchezza mobile, n. 132. Per un

orientamento in parte difforme, cfr. Cass. 17 febbraio 1986, n. 934, id.,

Rep. 1986, voce Complementare sul reddito (imposta) n. 18 (e in Dir.

e pratica trib., 1986, II, 795, con osservazioni di G. Gentili), secondo

cui la presuzione di impiego di capitali al livello minimo del deposito bancario non integrerebbe una praesumptio de praesumpto.

Analoghe considerazioni si registrano per altre fattispecie; per esempio l'esistenza del capitale, derivante da indennità di espropriazione, non è

stata ritenuta sufficiente (da Comm. trib. centrale 26 febbraio 1986, n.

1685, Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 23) a legittimare un suo presunto

impiego fruttifero. Anche l'iscrizione in bilancio di un debito verso terzi

non giustifica la presunzione che esso produca interessi: cfr. sul punto Cass. 4 marzo 1985, n. 1814, ibid., voce Ricchezza mobile, n. 45, nonché

Cass. 11 dicembre 1978, n. 5827 (id., Rep. 1979, voce cit., n. 113) secon

do la quale sarebbe ammissibile l'utilizzazione di criteri presuntivi anche

quando disancorati dalle risultanze formali del titolo. Per un orientamen

to di segno opposto, rispetto alla sentenza in epigrafe, v. Comm. trib.

centrale 26 aprile 1985, n. 3801, id., Rep. 1985, voce cit., n. 52.

Quanto alle ipotesi in cui le società, rinunciando agli interessi, anticipi no ai soci il rimborso delle obbligazioni, la Cassazione (sent. 4 marzo

1985, n. 1814, id., Rep. 1986, voce cit., n. 9) ha escluso la presunzione dell'esistenza di un reddito. Sul punto e, in particolare sulla presunzione di finanziamento dei soci a società, v., in dottrina, T. Bajardi, Finanzia

menti dei soci e presunzioni di interessi, in Società, 1985, 1207; G. Lau

rini, Il trattamento fiscale delle delibere assembleari relative alle anticipa zioni dei soci in conto capitale: una soluzione per un vecchio problema in Banca, borsa, ecc., 1980, I, 365; T. Corrado, La presunzione di frut tuosità nei finanziamenti dei soci e suoi limiti, in Comm. trib. centr.,

1976, II, 1194.

Il Foro Italiano — 1988 — Parte 1-4.

ria centrale deducendo la erroneità della tesi secondo la quale i capitali, ricavati da trasferimenti immobiliari e non immediata

mente reinvestiti, producono redditi tassabili: tesi che, secondo

il contribuente, si basa su una doppia presunzione, la prima che

nessuno trattiene capitali liquidi, ma li reinveste; la seconda che,

operato il reinvestimento, questo sia sempre fruttuoso e produtti vo di reddito tassabile (primo motivo). Il contribuente si doleva,

inoltre, che fosse stata disattesa la documentazione relativa al

l'avvenuto acquisto d'immobili (secondo e terzo motivo), anche

sulla base di errati riferimenti temporali (quarto motivo). La Commissione tributaria centrale ha accolto il primo motivo

e dichiarato assorbiti gli altri, osservando che, anche a voler con

cedere che la prima presunzione possa trovare ingresso, su di essa

non se ne può fondare una seconda, cioè quella della fruttuosità

degli investimenti effettuati.

Contro tale decisione l'amministrazione delle finanze ha pro

posto ricorso per cassazione in base a due motivi. Il Pinzari non

ha svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione. — 1) Con il primo motivo la ricorrente

denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 133, in rela

zione all'art. 86 t.u. 29 gennaio 1958 n. 645, e degli art. 2727

e 2729 c.c., nonché il vizio di mancanza, insufficienza e contrad

dittorietà di motivazione su un punto decisivo della controversia;

denuncia, inoltre, la violazione dell'art. 26 d.p.r. 26 ottobre 1972

n. 636.

L'amministrazione sostiene che il riconoscimento della presun zione di futtuosità postula, quanto meno, la possibilità che il reim

piego sia, a sua volta, ricostruibile induttivamente e che, alla stre

gua degli art. 2727 e 2729 c.c., sia a tale scopo utilizzabile la

considerazione che, essendo il denaro fruttifero per sua natura,

debba ritenersene il reimpiego da parte di chi ne abbia la disponi

bilità, specialmente se si tratti, come nel caso concreto, di un

operatore commerciale professionale. La decisione impugnata sarebbe, per ciò, censurabile per viola

zione di legge, se avesse inteso affermare che dalle disposizioni tributarie derivi la impossibilità di accertare presuntivamente il

reimpiego; sarebbe, invece, incorsa in un eccesso dai limiti della

propria competenza per aver preteso di rinnovare un accertamen

to di mero fatto attinente a valutazione estimativa, e nel vizio

di difetto e contraddittorietà di motivazione, se se ne dovesse

ricostruire il significato come accertamento di fatto della isuffi

cienza di elementi a dar corpo ad una presunzione di reimpiego di capitali.

Con il secondo motivo la ricorrente denunzia la mancanza, in

sufficienza e contraddittorietà della motivazione su un punto de

cisivo e la violazione dell'art. 19 d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 636,

censurando la decisione impugnata per aver ritenuto esistenti con

creti elementi tali da giustificare il convincimento che il contri

buente, con il capitale ricavato, avesse acquistato immobili.

La Commissione tributaria centrale non avrebbe considerato

l'esistente «scoordinamento temporale» tra l'acquisizione delle di

sponibilità finanziarie e gli acquisti immobiliari; né avrebbe tenu

to conto della contraria affermazione, da parte del contribuente,

di aver estinto con il denaro ricavato dalle vendite, precedenti

passività; né infine, avrebbe avuto presenti la irregolarità della

documentazione prodotta e la non corrispondenza tra l'importo dei pretesi reimpieghi e quello delle disponibilità finanziarie.

Le supposte censure, che, per connessione, devono essere esa

minate congiuntamente, sono infondate, pur se la motivazione

della decisione impugnata richiede la precisazione di taluni prin

cipi che vi sono presupposti più che esplicitamente enunciati, o

che non vi sono correttamente affermati.

2) Tale decisione si fonda sulla considerazione che dal possesso di capitali liquidi non può trarsi, con carattere di necessarietà,

la presunzione dell'impiego di tali capitali (i quali potrebbero ri

cevere una diversa destinazione) e che, anche ammessa questa

presunzione, su di essa non può innestarsi l'altra, avente ad og

getto la fruttuosità degli investimenti effettuati.

Occorre, innanzi tutto, rilevare che la decisione impugnata ri

solve la controversia tributaria con un'affermazione di principio

non implicante accertamenti di fatto relativi a valutazione esti

mativa. Non possono, quindi, trovare ingresso le censure, in tal

senso formulate dall'amministrazione ricorrente nel primo (in parte)

e nel secondo motivo e peraltro già disatteso, in analoga formu

lazione, dalle sentenze delle sezioni unite 9 maggio 1985, n. 2871

e 24 ottobre 1985, n. 5250 (Foro it., Rep. 1985, voce Ricchezza

mobile, nn. 38, 39).

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