sezione III civile; sentenza 27 settembre 1988, n. 5259; Pres. Quaglione, Est. De Rosa, P.M.Amirante (concl. diff.); Soc. Saeva (Avv. Sebastiani) c. De Sario; De Sario (Avv. Gentiloni Silverj,Cocchi) c. Soc. Saeva e altra. Cassa Trib. Firenze 12 novembre 1985Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1989), pp. 119/120-123/124Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183732 .
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PARTE PRIMA
possibilità di imputazione del pagamento secondo le previsioni
degli art. 1193 e 1194 c.c., ma costituisce una causa di estinzione
parziale del credito, la cui rivalutazione deve essere necessaria
mente calcolata, per il tempo successivo e fino alla data della
decisione, sulla differenza ancora dovuta al lavoratore.
Inoltre queste sezioni unite, componendo il contrasto determi
natosi nella giurisprudenza della sezione lavoro sulla possibilità
di una separata azionabilità della pretesa del lavoratore di ottene
re la rivalutazione del proprio credito di lavoro, già soddisfatto
tardivamente nel suo importo originario, hanno risolto positiva
mente la questione, rilevando che l'art. 429, 3° comma, c.p.c.
integra una disposizione di carattere sostanziale, rivolta ad af
fiancare una componente d'indicizzazione al debito nominalistico
del datore di lavoro, per realizzare una retribuzione con connota
ti di realità, sia pure nei limiti del meccanismo dell'indennità di
contingenza: da ciò deriva che il credito del lavoratore può rite
nersi soddisfatto solo ove siano state oggetto di adempimento
entrambe le indicate componenti del suo trattamento, con l'ulte
riore conseguenza che, quando il credito stesso sia stato tardiva
mente soddisfatto solo nel suo importo originario, a prescindere
dalla colpevolezza o meno del ritardo, non può non riconoscersi
al lavoratore medesimo, al pari di qualsiasi creditore che abbia
ricevuto un pagamento parziale, il diritto di agire separatamente
per ottenere il residuo importo (Cass. 16 febbraio 1984, n. 1Ì48,
id., 1984, I, 383, e da ultimo Cass. 28 gennaio 1987, n. 841,
id., Rep., 1987, voce cit., n. 251; 28 agosto 1986, n. 5294, id.,
Rep. 1986, voce cit., n. 332; 25 luglio 1986, n. 4789, ibid., n. 351).
Infine ancora più recentemente la sezione lavoro di questa cor
te, affrontando il problema del trattamento fiscale della rivaluta
zione monetaria, ha escluso che essa rappresenti una forma di
risarcimento del danno (come tale intassabile) e ha ritenuto inve
ce che essa rappresenti una componente essenziale del credito di
lavoro e pertanto rientra, al pari della retribuzione nominale, nel
la nozione di reddito da lavoro dipendente prevista dall'art. 46,
1° comma, d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597 ai fini dell'imposta
sul reddito delle persone fisiche (vedi Cass. 15 maggio 1987, n.
4496, id., Rep. 1987, voce Tributi in genere, n. 550; 3 aprile 1987 n. 3253, ibid., voce Reddito delle persone fisiche (imposta
sul), n. 273; 21 giugno 1986, n. 4129, id., Rep. 1986, voce cit.,
n. 224; 2 febbraio 1985, n. 717, id., 1985, I, 1026). Se dunque il credito di lavoro deve definirsi un credito indiciz
zato, in relazione al quale il pagamento della somma necessaria
ad integrare il potere di acquisto originario della retribuzione è
da intendersi come adempimento di un'obbligazione in sé unita
ria e non come obbligo sostitutivo di risarcimento del danno,
la soluzione del problema del riparto della giurisdizione diventa
molto più semplice e lineare.
La pretesa di ottenere (anche in via autonoma) la rivalutazione
del credito di lavoro costituisce in questa prospettiva una doman
da di esatto adempimento dell'obbligazione retributiva ed è quin di proponibile davanti al giudice che ha la giurisdizione sul rapporto di lavoro (il giudice amministrativo nel caso di rapporto di pubblico impiego).
Ed è irrilevante che detta richiesta venga proposta sotto il pro filo di un risarcimento del danno per un asserito comportamento
illegittimo del datore di lavoro, perché, per stabilire la giurisdi
zione, è al petitum sostanziale che bisogna far riferimento e non
già alla prospettazione data dalla parte alle questioni da risolvere
(vedi i casi in cui gli stipendi arretrati vengano richiesti a titolo
di risarcimento del danno: Cass. 8 aprile 1983, n. 2491, id., Rep.
1983, voce Impiegato dello Stato, n. 658; 16 febbraio 1976, n.
490, id., Rep. 1976, voce cit., n. 159; 7 gennaio 1975, n. 15,
id., Rep. 1975, voce cit., n. 92). Lo stesso dicasi per gli interessi, che, in quanto dovuti dalla
maturazione del credito sulla somma rivalutata, prescindendo dalla
costituzione in mora e dalla colpa del debitore, sono da definirsi
corrispettivi (art. 1282 c.c.) e accessori del credito principale, e
quindi appartenenti alla giurisdizione del giudice amministrativo
(nel caso di pubblico impiego). La giurisdizione in materia del giudice ordinario si restringe
dunque alla sola ipotesi in cui il pubblico impiegato deduca di
aver subito dall'inadempimento del suo datore di lavoro un dan
no che supera la somma rivalutata percepita; in tal caso però il fondamento della domanda starà non nella natura dell'obbliga zione retributiva ma nel comportamento illecito del debitore e
l'accoglimento di essa dipenderà oltre che dalla costituzione in
Il Foro Italiano — 1989.
mora anche dall'allegazione e dalla dimostrazione del danno in
concreto subito dall'attore.
Nella specie, il pubblico impiegato, dopo una vertenza con la
regione Puglia durata parecchi anni, si era visto riconoscere dalla
datrice di lavoro il diritto ad un più favorevole inquadramento
e anzianità e aveva precepito i relativi arretrati nell'importo origi
nario ancor prima dell'inizio del presente giudizio. In questa causa l'attore aveva dedotto, sia in sede di richiesta
di decreto ingiuntivo che nell'ulteriore giudizio di merito, il dirit
to ad ottenere sugli arretrati già percepiti la rivalutazione auto
matica secondo gli indici Istat e gli interessi nella misura legale
dalla maturazione dei singoli crediti al saldo. Tale domanda che,
al momento della richiesta di decreto ingiuntivo, era immotivata,
veniva successivamente giustificata con un asserito comportamento
dilatorio della regione. Mai nel corso del giudizio è stato chiesto
un risarcimento del danno, che eccedesse l'importo di detta riva
lutazione.
Indipendentemente dalla tempestività di tale giustificazione (del
resto del tutto irrilevante per quel che si è detto) che deve essere
valutata dal giudice cui appartiene la giurisdizione, non vi è dub
bio che la presente azione è diretta ad ottenere la differenza retri
butiva rappresentata dalla rivalutazione, che avrebbe dovuto essere
corrisposta all'impiegato unitamente al credito originario al mo
mento del pagamento degli arretrati. E la cognizione su tale pre
tesa, comunque motivata, appartiene sicuramente alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, cosi come deciso nella sen
tenza impugnata. Il ricorso va dunque respinto.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 27 set
tembre 1988, n. 5259; Pres. Quaglione, Est. De Rosa, P.M.
Amirante (conci, diff.); Soc. Saeva (Avv. Sebastiani) c. De
Sario; De Sario (Avv. Gentiloni Silveri, Cocchi) c. Soc. Sae
va e altra. Cassa Trib. Firenze 12 novembre 1985.
Locazione — Legge 392/78 — Immobili adibiti ad attività alber
ghiera — Recesso del locatore — Limiti (L. 27 luglio 1978 n.
392, disciplina delle locazioni di immobili urbani, art. 29, 73;
d.l. 7 febbraio 1985 n. 12, misure finanziarie in favore delle
aree ad alta tensione abitativa, art. 1; 1. 5 aprile 1985 n. 118, conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 7 febbraio 1985
n. 12, art. 1; d.l. 9 dicembre 1986 n. 832, misure urgenti in
materia di contratti di locazione di immobili adibiti ad uso di
verso da quello di abitazione, art. 1; 1. 6 febbraio 1987 n. 15, conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 9 dicembre
1986 n. 832, art. 1).
Nelle locazioni di immobili adibiti ad esercizio di albergo, pensio ne o locanda, la facoltà di recesso del locatore è esclusa nelle
ipotesi di cui al 1° comma dell'art. 29 l. 392/78, e segnatamen te nell'ipotesi di necessità abitativa prevista dalla lett. a) di tale
norma; né può ritenersi che siffatta esclusione sia venuta meno
per effetto della formulazione dell'art. 1, comma 9 bis, d.l.
12/85 (come convertito nella l. 118/85), riguardante esclusiva
mente la misura dell'indennità di avviamento per il caso di rila
scio dell'immobile, tanto più ove si consideri l'eliminazione
dall'ordinamento della disposizione anzidetta dichiarata costi
tuzionalmente illegittima da Corte cost. 108/86, e la nuova for
mulazione dell'art. 69 l. 392/78, novellato dal d.l. 832/86
(convertito nella l. 15/87). (1)
(1) La Cassazione, ribadendo il principio — già più volte affermato — che la facoltà di recesso del locatore di immobile alberghiero è limitata ai soli casi previsti dal 2° comma dell'art. 29 1. 392/78, fuga i dubbi circa la portata del richiamo, operato dall'art. 1, comma 9 bis, d.l. 12/85
(introdotto dalla legge di conversione 118/85), della lett. a) dello stesso art. 29 a proposito delle locazioni alberghiere. A quest'ultimo riguardo, in senso difforme dalla Cassazione si erano espresse — nella temporanea vigenza della citata norma del 1985 — Pret. L'Aquila 13 dicembre 1985,
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Svolgimento del processo. — Con sentenza del 10 luglio 1984
il Pretore di Firenze rigettò il ricorso proposto da De Sario Anna
Maria nei confronti di Sarri Emilia e della soc. Saeva s.n.c. di
G. Vannuzzi, tendente ad ottenere il rilascio dell'immobile di sua
proprietà sito in Firenze, via Guelfa n. 45, condotto in locazione
dai convenuti, dovendo destinarlo ad abitazione della propria fi
glia, e dichiarava altresì improponibile la domanda subordinata
di risoluzione del rapporto per finita locazione.
Riteneva il pretore, quanto alla domanda principale, che, trat
tandosi di locazione alberghiera, il recesso ai sensi dell'art. 73
1. n. 392 del 1978 era consentito soltanto nelle due sole ipotesi di cui' al 2° comma dell'art. 29 1. cit. e non anche in quelle di
cui al 1° comma, e, quanto alla domanda subordinata, che la
stessa doveva essere proposta nelle forme ordinarie e non già se
condo il rito speciale, riservato alle controversie indicate nella
1. n. 392 del 1978. Avverso tale sentenza propose appello la De Sario che, dopo
aver fatto espressa acquiescenza alla seconda statuizione, chiese
che, in riforma della sentenza impugnata, fosse accolta la sua
domanda principale con la condanna dei convenuti al rilascio del
l'immobile nonché alla sua rimessione in pristino, con liquidazio
ne dell'indennità di avviamento sulla base dell'ultimo canone
corrisposto. I convenuti si costituirono e proposero appello incidentale af
finché venisse dichiarata improponibile la domanda di recesso,
sul presupposto che la locazione, sorta originariamente il 6 no
vembre 1973 era stata novata il 10 gennaio 1979, dopo l'entrata
in vigore della 1. n. 392 del 1978, con nuovo canone e scadenza
al 9 gennaio 1988; in subordine, chiesero la conferma della sen
tenza impugnata ed in ipotesi di accoglimento della domanda av
versaria la concessione del termine massimo per il rilascio, previa
determinazione dell'indennità di avviamento.
II Tribunale di Firenze, accogliendo parzialmente l'appello pro
posto dalla soccombente, con la sentenza ora impugnata, ha rite
nuto che per effetto della modificha all'art. 69 1. n. 392 del 1978,
introdotta dalla 1. 5 aprile 1985 n. 118, fosse consentito, anche
nel caso di locazioni alberghiere, il recesso del locatore per neces
sità di destinare l'immobile ad usi abitativi, ed ha quindi dichia rato risolto il contratto di locazione di cui trattasi condannando
la conduttrice al rilascio dell'appartamento anzidetto; ha poi de
terminato il compenso per la perdita dell'avviamento, dichiaran
do, infine nulla la domanda di riduzione in pristino proposta
dall'attrice, con la compensazione totale delle spese dei due gradi
del giudizio. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la s.n.c. Sae
va di G. Vannuzzi, in persona del suo legale rappresentante, e
Sarri Emilia, formulando tre motivi di annullamento, illustrati
da memoria. Resiste con controricorso Anna Maria De Sario che
propone ricorso incidentale illustrato da memoria.
Motivi della decisione. — (Omissis). Con il secondo motivo
dello stesso ricorso, denunziandosi violazione ed erronea applica
zione degli art. 29, 69, 73 1. n. 392 del 1978, ai sensi dell'art.
360, n. 3, c.p.c., i ricorrenti criticano l'interpretazione data dai
giudici del tribunale al novellato art. 69 stessa legge, che, a loro
avviso, non contiene alcuna deroga al regime stabilito dall'art.
29 per la cessazione delle locazioni alberghiere.
Con il secondo motivo, poi, i ricorrenti denunziano insuffi
ciente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in
ordine all'esistenza della dedotta necessità della locatrice.
Le censure debbono ritenersi fondate.
Il contratto di locazione dell'immobile sito in Firenze, via Guelfa,
45 fu stipulato dalle parti, per uso pensione, il 6 novembre 1973,
ed era in corso, per effetto delle proroghe legali, alla data di
entrata in vigore della 1. 27 luglio 1978 n. 392, com'è pacifico
in causa.
Foro it., Rep. 1986, voce Locazione, n. 465, e Pret. Firenze 21 giugno
1985, id., 1986, I, 828, con richiami di dottrina sul problema specifico. In argomento v., da ultimo, Corte cost., ord. 21 gennaio 1988, n. 63,
richiamata nella motivazione e riportata id., 1988, I, 1447, con aggiorna
ta nota redazionale di D. Piombo, che ha dichiarato manifestamente in
fondata, in riferimento agli art. 3, 35 e 41 Cost., la questione di legittimità
costituzionale degli art. 29, 2° comma, e 73 1. 392/78, nella parte in
cui limitano — per le locazioni alberghiere — le ipotesi di recesso del
locatore. Il testo del d.l. 832/86, coordinato con la legge di conversione
n. 15/87, può leggersi in Le leggi, 1987, 323.
Il Foro Italiano — 1989.
Ai fini dell'esercizio della facoltà di recesso del locatore si ap
plica, quindi, la norma transitoria dell'art. 73 1. cit. in relazione
all'art. 29, 2° comma (la cui legittimità costituzionale è stata af
fermata dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 63 del 1988,
Foro it., 1988, I, 1447). Tale norma stabilisce che per le locazioni
di immobili adibiti ad esercizio di albergo, pensione o locanda,
il locatore può negare la rinnovazione del contratto nelle ipotesi
previste dall'art. 7 1. 2 marzo 1963 n. 191 modificato dall'art.
4 bis d.l. 27 giugno 1967 n. 460, convertito, con modificazioni
nella 1. 28 luglio 1967 n. 628, e cioè, in caso di ristrutturazione
dell'immobile, ferma restando la destinazione alberghiera, o di
apporto allo stesso di notevoli migliorie tali da aumentarne la
capacità ricettiva o comunque da determinare il passaggio dell'a
zienda ad una categoria superiore, qualora l'immobile sia oggetto
di intervento sulla base di un programma comunale di attuazione
ai sensi delle leggi vigenti, o, infine in caso di esercizio diretto
dell'attività alberghiera.
Deve, quindi, ritenersi esclusa (come del resto lo era anche pri
ma dell'entrata in vigore della 1. n. 392 del 1978, v. Cass., sez.
un., 21 ottobre 1983, n. 6181, id., 1983, I, 3017), la facoltà di
recesso del locatore di immobile adibito ad esercizio alberghiero,
nelle ipotesi di cui al 1° comma dell'art. 29 cit. e segnatamente,
per quanto interessa la controversia in esame, nell'ipotesi di ne
cessità abitative contemplata dal n. 1 [recte: lett. a)] di tale norma.
Né poteva ritenersi, come ha fatto il Tribunale di Firenze, che
l'ultimo comma dell'art. 69 (nel testo modificato dall'art. 9 bis
[recte: art. 1, comma 9 bis] d.l. 7 febbraio 1985 n. 118 [recte:
n. 12, convertito nella 1. 118/85]), potesse contenere un'implicita
abrogazione delle norme anzidette, essendo ciò in contrasto con
i principi indicati nell'art. 15 disp. sulla legge in generale.
È vero che la non felice formulazione di quella norma, con
il riferimento, nel penultimo comma, alle ipotesi di rilascio di
cui alla lett. a) del 1° comma dell'art. 29, e la contestuale indica
zione della misura del compenso dovuto per la perdita dell'avvia
mento per le locazioni alberghiere, poteva far sorgere il dubbio
che anche per tali locazioni fosse consentito il rilascio per necessi
tà abitative.
Ma, non regolando quella norma, specificamente, la materia
disciplinata dall'art. 29, 2° comma, in quanto si riferiva esclusi
vamente alle conseguenze del rilascio ai fini della determinazione
del compenso anzidetto, era difficile pensare ad un'abrogazione
implicita delle disposizioni dettate dal cit. art. 29, 2° comma,
per il diniego di rinnovazione delle locazioni di immobili destinati
ad esercizio di albergo, pensione o locanda (v. art. 15 disp. sulla
legge in generale).
Comunque il problema non si pone dopo la sentenza n. 108
del 23 aprile 1986 della Corte costituzionale (id., 1986, I, 1145)
che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del cit. art. 9 bis,
precisando che, a seguito della caducazione di tale norma, deve
intendersi ripristinato, nella sua vecchia formulazione l'art. 69,
e, soprattutto, dopo la nuova 1. 6 febbraio 1987 n. 15 (che con
vertiva il d.l. 9 dicembre 1986 n. 832) che ha ridisegnato ex novo
tale norma, distinguendo, ai fini della determinazione del com
penso per la perdita dell'avviamento commerciale, le ipotesi di
rilascio di immobili destinati ad uso diverso dalle abitazioni, da
quelle di rilascio di immobili con destinazione alberghiera, e sta
bilendo per quest'ultime che l'indennità è dovuta nella misura
di venticinque mensilità del canone corrente di mercato aventi
le stesse caratteristiche, o di trentadue mensilità nei casi di cui
al 2° comma dell'art. 34.
Coordinando tali disposizioni, ed avuto riguardo al testo origi
nario dell'art. 69 in questione, se ne deve dedurre, che, ferme
restando le disposizioni di cui al 2° comma dell'art. 29, il legisla
tore ha voluto con tale norma soltanto adeguare la misura del
l'indennità da corrispondere al conduttore nel caso di diniego di
rinnovazione delle locazioni alberghiere nei casi già indicati, re
stando esclusa la possibilità del locatore di esercitare la facoltà
di far cessare tale locazióne per necessità abitative proprie o del
coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta, con
templata per gli altri immobili adibiti ad uso diverso dalla lett.
a) del 1° comma.
Risolto, cosi, definitivamente, il dubbio che la non felice for
mulazione del testo novellato dell'art. 69 aveva ingenerato nei
giudici del tribunale, non può che accogliersi la censura di cui
al secondo e terzo motivo del ricorso in esame. La sentenza im
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PARTE PRIMA
pugnata va, quindi, cassata, in relazione alle censure accolte, con
rinvio ad altra sezione del Tribunale di Firenze (anche in ordine
alle spese), che si adeguerà al principio suddetto (art. 384 c.p.c.).
L'accoglimento, in parte qua, del ricorso principale, determina
l'assorbimento del ricorso incidentale.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 3 agosto
1988, n. 4811; Pres. Scanzano, Est. Caizzone, P.M. Roma
gnoli (conci, diff.); Min. finanze (Avv. dello Stato Palatiel
lo) c. Gerbino. Conferma Comm. trib. centrale 1° febbraio
1984, n. 1059.
Redditi (imposte sui) — Irpef — Interessi passivi sostenuti da
società semplici — Deducibilità «prò quota» dal reddito dei
soci (D.p.r. 29 settembre 1973 n. 597, istituzione e disciplina
dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, art. 5, 10).
I soci di una società semplice possono dedurre dal loro reddito
soggetto ad Irpef, proporzionalmente alla quota di partecipa zione agli utili, gli interessi passivi sui mutui ipotecari sostenuti
dalla società. (1)
Svolgimento del processo. — Ettore Gerbino dichiarava per l'an
no 1975, ai fini dell'Irpef, i redditi di partecipazione provenienti a lui ed alla moglie dalla società semplice «Cornaletto» e deduce
va dal reddito complessivo proprio e della moglie lire 799.210
per interessi passivi su mutui ipotecari intestati alla suddetta so
cietà, della quale lui e la moglie erano gli unici soci.
L'ufficio distrettuale delle imposte dirette di Cuneo riteneva
non deducibili gli oneri anzidetti perché costituiti da interessi pas sivi a carico della società semplice; quindi iscriveva a ruolo l'Ir
pef di lire 381.478 ed accessori.
Con il ricorso contro il ruolo il Gerbino impugnava l'applica zione del suddetto tributo, sostenendo la legittimità della dedu
zione a favore dei soci degli interessi passivi pagati dalla società
semplice e non presi in considerazione nella determinazione del
reddito di fabbricati in capo a quest'ultima. All'esito del processo tributario instaurato dal contribuente, la
Commissione tributaria centrale, con decisione del 1° febbraio
1984 (n. 1059, Foro it., Rep. 1984, voce Reddito delle persone
fisiche (imposta), n. 173) in conformità al giudizio espresso dalla
commissione tributaria di secondo grado di Cuneo, respingeva il ricorso dell'ufficio, osservando che la legittimità della deduzio
ne risultava dagli art. 5 e 10, lett. e), d.p.r. 597/73 e che l'inter
pretazione dell'ufficio si risolverebbe in una disparità di
trattamento tra i soci di una società semplice ed i comproprietari di un immobile.
(1) La massima della sentenza confermata, Comm. trib. centrale 1° febbraio 1984, n. 1059, può leggersi in Foro it., Rep. 1984, voce Reddito delle persone fisiche (imposta sul), n. 173.
Nel senso dell'indeducibilità dal reddito dei soci degli interessi passivi sostenuti da società semplici, v. Comm. trib. I grado Torino 21 dicembre
1984, id., Rep. 1985, voce cit., n. 227; Comm. trib. centrale 1° febbraio
1984, n. 1102, id., Rep. 1984, voce cit., n. 170. Alla stessa conclusione giunge Comm. trib. centrale 17 novembre 1983,
n. 3715, ibid., n. 172, fondando la propria pronunzia sull'argomento del la già avvenuta deduzione dell'onere in sede di determinazione del reddi to societario.
La deducibilità degli interessi passivi da parte di società con soli redditi immobiliari viene recisamente esclusa da Comm. trib. I grado Urbino 23 gennaio 1982, id., Rep. 1982, voce cit., n. 123.
In una fattispecie riguardante un'associazione tra produttori agricoli, v. le discordanti Comm. trib. centrale 2 marzo 1985, n. 2137, id., Rep. 1985, voce cit., n. 226, e Comm. trib. II grado Catania 15 giugno 1983, id., Rep. 1983, voce cit., n. 170. Ancora in tema di attività agricola, cfr. Comm. trib. centrale 27 giugno 1983, n. 1557, ibid., n. 169.
Per i profili di costituzionalità attinenti alle tematiche considerate, v. Corte cost., ord. 4 novembre 1987, n. 368, id., 1988, I, 2464, con nota di richiami, citata in motivazione.
Come rilevato dalla Cassazione, la questione oggetto della pronunzia che si riporta può considerarsi ormai superata nella vigenza della nuova normativa risultante dal t.u. delle imposte dirette (cfr. art. 10, n. 3, d.p.r. 22 dicembre 1986 n. 917).
Il Foro Italiano — 1989.
Contro tale decisione ricorre il ministero delle finanze; non ha
svolto in questa sede alcuna attività difensiva Ettore Gerbino.
Motivi della decisione. — 1. - Con unico motivo, denunziando
violazione degli art. 5 e 10 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597 non
ché dell'art. 40 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 600 (art. 360, n. 3,
c.p.c.), l'amministrazione ricorrente assume che, contrariamente
a quanto ritenuto dalla decisione impugnata, l'onere degli inte
ressi passivi risulta non deducibile in capo alla società semplice, il cui reddito, essendo costituito dal solo possesso di immobili,
viene determinato con le regole di cui al titolo secondo del d.p.r. 597/73 ed in via transitoria secondo quanto previsto dall'art. 88
di tale decreto. Si assume altresì che il detto onere non può essere
dedotto neppure in capo ai soci perché ad essi perviene una quo ta di reddito già determinato al netto di tutte le passività concor
renti alla sua produzione e perché lo stesso non è compreso tra
gli oneri deducibili tassativamente elencati nell'art. 10 d.p.r. 597/73.
2. - Il ricorso non è fondato.
In base alla disciplina dell'imposta sul reddito delle persone
fisiche, introdotta dal d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597, nella sua
originaria formulazione, l'imposta si applica sul reddito comples sivo netto formato da tutti i redditi del soggetto passivo, compre si quelli a lui imputati ai sensi degli art. 4 e 5 (art. 3 d.p.r.). D'altro canto, i redditi delle società semplici, in nome collettivo
e in accomandita semplice, che hanno nel territorio dello Stato
la sede legale o amministrativa o l'oggetto principale della attivi
tà — che concorrono a formare il reddito complessivo — sono
imputati a ciascun socio, indipendentemente dall'effettiva perce
zione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili (art. 5 d.p.r. cit.).
Ai sensi dell'art. 10 d.p.r. 597, infine, dal reddito complessivo si deducono, se non sono deducibili nella determinazione dei sin
goli redditi che concorrono a formarlo, i seguenti oneri sostenuti
dal contribuente: . . . c) gli interessi passivi per i quali sia indica
to il domicilio, la residenza o la stabile organizzazione del perci
piente . . .
Dal complesso delle suddette norme risulta che, secondo il si
stema previsto dalla disciplina originaria dell'Irpef, ai fini della
deducibilità degli oneri dal reddito complessivo del contribuente
si richiedevano due requisiti: a) che gli oneri non fossero deduci
bili nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a for
marlo; b) che si trattasse di oneri sostenuti dal contribuente.
3. - Per controllare la esattezza della decisione impugnata, è
perciò necessario stabilire se in concreto sussistessero nella spe
cie, secondo la disciplina giuridica innanzi richiamata, entrambi
i suddetti requisiti. Quanto ad a), occorre verificare se l'onere degli interessi passi
vi gravanti sul reddito della società semplice fosse o meno dedu
cibile nella relativa determinazione, essendo evidente che, ove si
rispondesse affermativamente a tale quesito, si dovrebbe conclu
dere nel senso della indeducibilità, ex art. 10 cit., in difformità
dal giudizio espresso dalla Commissione tributaria centrale.
Ma la risposta deve essere negativa. La questione di legittimità
degli art. 5 e 10 d.p.r. 597/73, in riferimento agli art. 3 e 53
Cost., è stata recentemente esaminata dalla Corte costituzionale
in fattispecie identiche a quella sottoposta all'esame del collegio nel presente giudizio (ord. 4 novembre 1987, n. 368, id., 1988,
I, 2464). Si era dedotto in quella sede dai giudici a quibus che le norme
citate, impedendo, ai fini della determinazione del reddito delle
società semplici, la detrazione degli interessi passivi, violerebbero
i principi di eguaglianza e di capacità contributiva, costituendo
la deducibilità principio generale valevole in ogni caso nel diritto
tributario.
La Corte costituzionale, nel respingere la tesi dei contribuenti, ha dichiarato manifestamente non fondate le questioni di legitti mità degli art. 5 e 10, nonché degli art. 51 e 58 d.p.r. 597/73
in base al seguente rilievo: l'art. 51, ultimo comma, d.p.r. 597/73
sulla istituzione dell'Irpef, statuendo che le disposizioni del titolo
V, relative al reddito d'impresa (che prevedono appunto la dedu
cibilità degli interessi passivi), si applicano per la determinazione
del reddito delle società in nome collettivo e in accomandita sem
plice, anche se non esercitano attività commerciale, mentre ne
esclude il reddito delle società semplici, non determina alcuna
ingiustificata disparità di trattamento tra le medesime e le altre
società di persone, trattandosi di tipi diversamente regolati dal
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