sezione III civile; sentenza 8 gennaio 1991, n. 89; Pres. Morsillo, Est. Fiduccia, P.M. Fedeli(concl. conf.); Scuotto (Avv. Antinolfi) c. Scaturchio. Cassa Trib. Napoli 18 giugno 1985Source: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1991), pp. 1461/1462-1465/1466Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23185456 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
E, perciò, la «irreperibilità» che consente il ricorso all'ecce
zionale procedimento descritto nell'art. 140 c.p.c. deve conse
guire alla impossibilità di eseguire la consegna dell'atto al desti
natario non soltanto quando la notificazione non avvenga a mani
proprie o nei luoghi nei quali la legge presume che egli possa essere reperito (art. 139, 1° comma, già citato), ma anche quan do nei suddetti luoghi manchino (nel senso che non esistano) o non si rinvengano (nel senso che non siano presenti) le perso ne che la norma processuale designa come organo idoneo a ga rantire la trasmissione dell'atto, a causa della relazione o del
rapporto, di diritto o di fatto, esistente con il destinatario di esso.
Consegue, quindi, che la notificazione prefigurata, per il caso
che qui interessa, di irreperibilità del destinatario, nell'art. 140
c.p.c., può essere effettuata, come procedimento eccezionale, solamente nei casi in cui sia risultato impossibile eseguirla nei
luoghi e con le modalità previsti negli art. 138 e 139 già citati, le cui prescrizioni disegnano il normale procedimento di notifi
cazione.
Ora, dell'impossibilità di eseguire la notificazione secondo le
regole di carattere generale è necessario che l'organo notificante
faccia constare nell'apposita relata, al fine, appunto, di rendere
palesi le circostanze che giustificano il ricorso all'eccezionale
procedimento di notificazione previsto nell'art. 140 cit., non po tendo la suddetta impossibilità essere desunta, nemmeno per im
plicito, dalla forma di notificazione concretamente adottata dal
l'organo della notificazione: non è, invero, rimessa alla discre
zionalità di tale organo la scelta della forma della notificazione, essendo questa, nel sistema delle regole processuali, legalmente
predisposta in modo da rendere realizzabile la trasmissione del
l'atto al soggetto al quale è diretto e possa, in conseguenza,
raggiungere lo scopo cui è destinato.
E, perciò, ove risulti che la notificazione sia stata eseguita con modalità non giustificate da circostanze implicanti l'impos sibilità di essere effettuata nelle forme di cui agli art. 138 e
139 c.p.c., deve ritenersi — ed è il caso di specie — che l'atto
non ha raggiunto lo scopo, per effetto, appunto, dell'inosser
vanza dell'ordine delle forme di notificazione inderogabilmente stabilite dalla legge al fine precipuo di consentire al suo destina
tario di avere conoscenza dell'atto.
Ne deriva la nullità della notificazione (art. 156, 3° comma, e 160 c.p.c.) non rapportabile al solo fatto che nella relata di
notifica sia omessa l'indicazione analitica delle ragioni atte a
spiegare la forma di notificazione adottata (art. 148, 2° com
ma, c.p.c., il quale in relazione a tale omissione non commina
alcuna nullità: sent. 4298 del 1987, Foro it., Rep. 1989, voce
Notificazione civile, n. 41) ma rapportabile, invece, all'illegale adozione del procedimento notificatorio, risultato improduttivo dell'effetto suo proprio.
Alla stregua delle fatte considerazioni ed in accoglimento del
ricorso della Biani deve quindi dichiararsi, a mente dell'art. 160
c.p.c., la nullità del ricorso con il quale i Solli avevano intro
dotto la lite davanti al Pretore del lavoro di Ceccano e degli atti conseguenziali del processo, in essi comprese le sentenze
di primo e di secondo grado; consegue che la causa, ai sensi
dell'art. 383, 3° comma, c.p.c., va rimessa al Pretore del lavoro
di Ceccano.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 8 gen
naio 1991, n. 89; Pres. Morsdxo, Est. Fiduccia, P.M. Fede
li (conci, conf.); Scuotto (Aw. Antinolfi) c. Scaturchio. Cassa
Trib. Napoli 18 giugno 1985.
Locazione — Legge 392/78 — Immobili adibiti ad uso diverso
dall'abitazione — Deposito — Applicabilità — Condizioni (L. 27 luglio 1978 n. 392, disciplina delle locazioni di immobili urbani, art. 27).
In caso di locazione di immobile ad uso deposito, è applicabile
la disciplina degli ari. 27 ss. I. 392/78 quando, pur in difetto di un rapporto pertinenziale o di servizio rispetto ad altro
immobile, detto deposito sia in concreto funzionalmente e/o
Il Foro Italiano — 1991.
spazialmente collegato — ancorché per iniziativa del condut
tore — all'esercizio di una delle attività contemplate dal cita
to art. 27, sempre che tale collegamento risulti legittimo alla
luce delle originarie pattuizioni contrattuali o al successivo
comportamento delle parti (come la protratta tolleranza del
locatore). (1)
Svolgimento del processo. — Con atto notificato in data 10
ottobre 1980 Marianna Scaturchio intimava ad Anna Scuotto, conduttrice di un suo locale terraneo, licenza per finita locazio
ne convenendola dinanzi al Pretore di Napoli per la relativa
convalida ed il rilascio di detto immobile.
La Scuotto si opponeva alla convalida sostenendo che il loca
le terraneo era stato locato per uso deposito a servizio dell'atti
vità commerciale, svolta in altro suo vicino immobile, e che
di conseguenza la relativa locazione era da includersi tra quelle
previste al n. 1 dell'art. 27 1. n. 392 del 1978, richiamato dal
successivo art. 67.
Il pretore con sentenza del 14 gennaio 1983 respingeva la do
manda di rilascio dell'immobile locato alla Scuotto, proposta dalla Scaturchio.
Quest'ultima proponeva appello, sostenendo che l'immobile
era stato locato per uso deposito e cosi non era compreso tra
gli immobili adibiti ad uso commerciale e quindi era escluso
dalla regolamentazione ex 1. n. 392 del 1978.
Il Tribunale di Napoli accolgieva l'appello e quindi la do
manda della Scaturchio, ordinando l'immediato rilascio dell'im
mobile alla Scuotto, con sentenza del 18 giugno 1985.
I giudici di appello, dopo aver rilevato che l'immobile in que stione era stato locato per «solo uso di deposito», considerava
no che tali immobili non erano da comprendersi tra quelli adi
biti ad uso commerciale od artigianale — agli effetti della 1.
n. 392 del 1978 — salvo che di per sé ovvero in relazione al
contratto fossero posti a servizio di altro immobile a tali usi
impiegato, cioè fossero pertinenze di tale altro immobile oppure
posti in tale rapporto in modo implicito nel caso di locali dello
stesso proprietario e locati coevemente, o diversamente ne risul
tassero esplicitamente con il contratto, senza che il conduttore
potesse unilateralmente a ciò destinarli.
Quindi i detti giudici osservavano che tale seconda situazione
si era verificata avendo la Scuotto preso in locazione il deposito
(1) La pronunzia si segnala perché, oltre a confermare l'orientamento consolidato secondo cui la locazione di un immobile ad uso «deposito» è disciplinata dagli art. 27 ss. 1. 392/78 solo in presenza di uno stretto
collegamento «spaziale e/o funzionale» con una delle attività di cui
allo stesso art. 27 o all'art. 42 stessa legge, sottolinea l'irrilevanza a tal fine di un rapporto pertinenziale ex art. 817 c.c. Negli stessi termini, v. — anche nella motivazione — la richiamata Cass. 28 novembre 1987, n. 8871, Foro it., Rep. 1988, voce Locazione, n. 158 (per esteso in
Arch, locazioni, 1988, 51). Più in generale sul problema dell'applicabi lità della 1. 392/78 in relazione ad immobili complementari ad una delle
attività dalla stessa legge tutelate, v. Cass. 5 marzo 1986, n. 1418, Foro
it., 1987, I, 1248, con nota di richiami di D. Piombo, ed ivi ampi riferi menti casistici. Adde, con riguardo a locali per uso deposito e nello stesso senso della sentenza qui riprodotta: Cass. 20 febbraio 1987, n.
1829, id., Rep. 1987, voce cit., n. 108; 16 luglio 1986, n. 4599, id.,
Rep. 1986, voce cit., n. 192; Pret. Palermo 11 gennaio 1989, id., Rep. 1989, voce cit., n. 170; Pret. Molfetta 5 giugno 1986, id., Rep. 1987, voce cit., n. 141 (su un caso di immobile adibito a deposito di strumenti
per la pesca); nonché, da ultimo, Cass. 22 gennaio 1990, n. 326, id.,
Mass., 46 e Trib. Milano 23 febbraio 1989, Arch, locazioni, 1990, 556.
V. anche Pret. Lecce 16 febbraio 1987, Foro it., Rep. 1987, voce cit., n. 109 (e Arch, locazioni, 1987, 567), che ha in termini generali escluso
l'applicabilità degli art. 27 ss. 1. 392/78 alle locazioni di immobili per uso «deposito».
La destinazione ad uso deposito commerciale dell'immobile non com
porta, comunque, il riconoscimento al conduttore del diritto all'inden
nità di avviamento, che infatti viene concordemente negato, difettando
le condizioni di cui agli art. 34-35 1. 392/78. Per riferimenti in proposi
to, v., da ultimo, la nota di D. Piombo a Corte cost. 481/89, Cass.
4664/89 ed altre, in Foro it., 1990, I, 783. Su una fattispecie particolare di deposito merci concesso in uso a
terzi nell'ambito di un complesso immobiliare gestito in regime di ma
gazzini generali, v., invece, Trib. Genova 13 ottobre 1988, id., Rep. 1989, voce cit., n. 147 (per esteso in Arch, locazioni, 1989, 340), che
ha escluso trattarsi di un contratto privatistico di locazione.
Sulla disciplina dell'ipotesi del mutamento d'uso attuato unilateral
mente dal conduttore, ex art. 80 1. 392/78, v., da ultimo, Cass. 14
luglio 1989, n. 3310 e 7 aprile 1989, n. 1684, Foro it., 1990, I, 2264.
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1463 PARTE PRIMA 1464
quando era già conduttrice di locale ad uso artigianale
commerciale, rilevando che in conseguenza la destinazione a
servizio di tale locale avrebbe dovuto essere convenuta e risulta
re dal contratto o quanto meno avere la successiva adesione
della Scaturchio, mentre era rimasto provato solo lo stato d;
fatto creato unilateralmente dalla conduttrice e cosi, tutt'al più, una mera tolleranza della locatrice, non comportante modifies
dei patti contrattuali.
Contro questa sentenza la Scuotto ha proposto ricorso pei la sua cassazione con cinque motivi di censura. Non si è costi
tuita l'intimata Scaturchio.
Motivi della decisione. — Con il primo motivo del ricorse
la Scuotto denuncia «violazione ed erronea applicazione del
l'art. 27, n. 1, richiamato dall'art. 67 1. 27 luglio 1978 n. 392», deducendo che per tale normativa la locazione ad uso deposito è assoggettata al regime dell'attività esercitata nell'altro locale
quando risulti il collegamento spaziale e/o funzionale con tale
attività e quindi sostenendo che nella specie tale collegamento con l'attività artigianale-commerciale svolta nel vicino locale di
essa ricorrente era rimasto provato sia dalla dichiarazione del
1968 all'ufficio imposte di consumo che dalla testimoniale, con
la conseguenza dell'applicabilità della 1. n. 392 del 1978 negli art. 27, n. 1, e 67, nonché della sopravvenuta normativa della
1. n. 118 del 1985.
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta «violazione del
l'art. 1342 c.c. sull'interpretazione del contratto — violazione
dell'art. 2697 c.c. sull'onere della prova — per effetti e conse
guenze sull'esatta applicazione dell'art. 27 o dell'art. 67 1. n.
392 del 1978», assumendo che per il contratto «uso deposito», consentendo lo stesso il deposito di materiale di qualsiasi genere salva una specifica pattuizione limitativa, occorreva riferirsi al
la natura e funzione delle cose depositate e cosi aveva rilevanza
l'eventuale collegamento spaziale e/o funzionale con altro loca
le ove si fosse svolta una delle attività di cui all'art. 27, derivan
done la soggezione allo stesso regime; e quindi deduce che nella
specie si era in presenza di tale evenienza non essendovi alcuna
clausola limitativa del deposito, ma il dato pacifico del detto
collegamento con l'altro locale in cui essa conduttrice espleta attività artigianale e commerciale ed addirittura risultando in
re ipsa tale destinazione del deposito per la qualità di operatrice commerciale della conduttrice, con la conseguenza che incom
beva alla locatrice la prova del divieto, con pattuizione espres sa, del deposito di cose di uso artigianale o commerciale.
Ancora, con il terzo motivo la ricorrente si duole per «viola
zione dell'art. 1362, 1° e 2° comma, c.c.» in ordine alla inter
pretazione del contratto di locazione con riguardo al dato paci fico di operatrice commerciale di essa conduttrice e cosi alla
negletta sua chiara volontà contrattuale di stipulare un deposito ad uso commerciale, aggiungendo che l'accertato uso siffatto non costituiva una mera tolleranza bensì quel comportamento successivo delle parti, conferma della loro reale intenzione.
Gli esposti motivi — che vanno esaminati congiuntamente per la loro sostanziale connessione — meritano di essere accolti nei
limiti che saranno delineati.
Invero, al riguardo del problema che con le anzidette censure la ricorrente ripropone circa l'applicabilità della disciplina della 1. n. 392 del 1978 agli immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello abitativo, che è stata denegata nell'ipotesi che ne oc
cupa dall'impugnata sentenza, va ricordato che da questa corte si è costantemente ritenuto che l'art. 27 della citata legge ha individuato una serie di attività che, conferendo all'immobile in cui esse si svolgono una funzione lato sensu economico
produttiva (nei casi dell'art. 27) oppure sociale (in quelli speci ficati dall'art. 42), giustifica la particolare durata della locazio ne c.d. «non abitativa» con la conseguenza che la suddetta di
sciplina non è estensibile in via diretta ed ordinaria ad un im
mobile ad uso deposito, salvo che lo stesso non sia in concreto
funzionalmente e/o spazialmente collegato con una delle attivi tà considerate dalla detta normativa, divenendo in tal caso inci dente la relativa ratio e pienamente giustificata la correlativa
applicazione (v. Cass. 28 novembre 1987, 8871, Foro it., Rep. 1988, voce Locazione, n. 158; 16 luglio 1986, n. 4599, id., Rep. 1986, voce cit., n. 192; 28 aprile 1986, n. 2943, ibid., n. 193; 3 novembre 1982, n. 5775, id., 1983, I, 1004).
In tal indirizzo si è anche perspicuamente precisato (v. sen
tenza n. 8871/87, cit.), e va ribadito anche con riguardo alla
fattispecie che ne occupa, che per il cennato collegamento è
Il Foro Italiano — 1991.
sufficiente l'obiettiva e funzionale connessione tra deposito ed
esercizio di una delle attività contemplate dall'art. 27, sempre che lo stesso non sia il frutto di un'arbitraria e contestata ini
ziativa del conduttore, chiarendosi ancora al riguardo la neces
sità che siffatto uso specifico dell'immobile locato, ancorché
realizzato dal conduttore, non risulti illegittimo avuto riguardo alle originarie pattuizioni contrattuali, al comportamento suc
cessivo delle parti (desumibile da tutte le circostanze del caso
concreto) ed alla normativa applicabile al rapporto.
Orbene, alla luce delle esposte considerazioni deve riconoscersi
la sostanziale fondatezza delle censure della ricorrente, non po tendosi non constatare che la sentenza impugnata, nel negare
per l'immobile locato — a solo uso deposito — alla Scuotto
la specificata assoggettabilità alla 1. n. 392 del 1978, non solo
si appalesa in sostanziale dissonanza con il precisato indirizzo
di questa corte, allorquando postula per l'operatività della 1.
n. 392 del 1978 per gli immobili per «uso deposito» la sussisten
za, quanto meno, di un rapporto di servizio con altro immobi
le, in cui le attività considerate dal citato art. 27 siano espletate dal conduttore, enucleando in via principale la natura di quel
rapporto con riferimento al regime delle pertinenze, ma altresì
si pone in ulteriore spiccante e censurabile discrasia rispetto a
quell'orientamento giurisprudenziale laddove, nell'escludere che
quel rapporto di servizio (rectius lo specificato collegamento fun
zionale e/o spaziale del deposito allogato nell'immobile locato)
possa essere legittimamente creato ad iniziativa del conduttore, ne richiede l'esclusiva non equivoca risultanza dal contratto, non
riscontrandola nella fattispecie, e vieppiù ove, pur consideran
do equivalente alla richiesta originaria pattuizione la successiva
adesione della locatrice, conclusivamente nega una tale valenza
con riguardo alla desunta situazione di tolleranza di quest'ulti ma rispetto alla comprovata destinazione strumentale del depo sito alle attività commerciali (esercitate in altro immobile) at
tuata dalla conduttrice.
Invero, va ribadito in proposito che ai fini dell'applicabilità
agli immobili ad uso deposito della disciplina dell'art. 27 1. n.
392 del 1978 — oltre l'ovvia ipotesi della espressa pattuizione del deposito per una specifica destinazione strumentale alle atti
vità ivi considerate — quel che rileva non è la necessaria costi
tuzione di un rapporto pertinenziale o di servizio tra immobili, come si è inesattamente affermato dai giudici del merito, bensì
quel rapporto di effettuale complementarità dell'immobile adi
bito a deposito rispetto alle attività considerate dal citato art.
27, che ne giustifica l'incidenza della relativa disciplina per iden
tità della relativa ratio, talché è sufficiente — come già si è
indicato — il concreto riscontro di funzionale e/o spaziale con
nessione tra deposito ed esercizio (e le obiettive esigenze) di una
delle dette attività, ancorché attuata dalla parte conduttrice del
l'immobile, salvo restando il debito vaglio — ed in tale ambito assume rilevanza il dato contrattuale — della legittimità di tale
condotta alla luce delle iniziali pattuizioni contrattuali, come del pari con riguardo al comportamento successivo delle parti nelle circostanze del caso concreto.
Ordunque, di tale debita prospettiva della riferita normativa, invocata dalla ricorrente, è correlativamente mancata nella sen tenza impugnata la coerente osservanza non solo ove si postula la necessaria — ma per contro non richiesta — incidenza ai fini dell'applicabilità della 1. n. 392 del 1978 di un rapporto
pertinenziale o di servizio tra l'immobile adibito a deposito e
quello sede dell'attività considerata dall'art. 27 cit., ma anche
conseguentemente con riguardo alla corretta ed esaustiva appli cazione dei cennati parametri di valutazione della legittimità di
quella conferente condotta della conduttrice. Infatti, laddove, come nel caso che ne occupa, quel dato effettuale ha sostanzia to specificamente la pattuita adibizione a deposito dell'immobi le locato, senza smentire od alterare tale convenuta destinazione
del godimento del bene, non avendo comportato la radicale so
stituzione dell'uso contrattuale, né la sovrapposizione di una
ulteriore destinazione oggettivamente differente dal convenuto uso a deposito dell'immobile (v. per riferimenti: Cass. 13 no
vembre 1963, n. 2981, id., Rep. 1963, voce cit., n. 326), bensì'
proprio questo funzionalmente correlando per necessità ed atti vità del conduttore, non limitate o vietate da specifiche iniziali
clausole pattizie (o cogenti normative), non può non convenirsi in rispondenza con il sostanziale assunto della ricorrente che
tale uso specifico del bene locato se non può, né poteva consi derarsi — come invece sostanzialmente si è reputato dai giudici
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
di appello — in tal modo esorbitare dalle facoltà attribuite al
conduttore al negativo riscontro nell'originaria convenzione di
tali specifici limiti — come rilevato dagli stessi giudici con l'e
sclusiva individuata pattuizione dell'uso di deposito del locale
—, peraltro non poteva essere conclusivamente svalutato nel suo
significato e cosi nel legittimo incidere sul regime del rapporto locativo obliterandosi — come si è operato dai giudici del meri
to — la valenza della pur rilevata condotta della locatrice, cioè
della sua corrispondente persistente tolleranza all'attuazione da
parte della conduttrice di quel funzionale indirizzo del deposito locato.
Al riguardo, se è vero che — come è ius receptum — siffatta
condotta del locatore non può valere a convalidare la situazione
di fatto attuata dal conduttore con il mutamento di destinazio
ne della cosa locata, ben diversamente va ritenuto nella specie sol si rifletta che — come sopra detto — l'anzidetto uso specifi co del bene locato realizzato dalla conduttrice non si configura va di per sé come una arbitraria iniziativa non importando un
sostanziale mutamento della destinazione dell'immobile, come
convenuta con l'iniziale pattuizione, né trovando in questa uno
specifico divieto, con la conseguenza che in consonanza con
le censure della ricorrente deve riconoscersi che per la desunta
tolleranza da parte della locatrice dell'accertata iniziativa della
conduttrice e, in tal senso, per la sua conoscenza della stessa
e cosi la persistente mancata contestazione al riguardo — anche
alla luce della esperibilità dell'azione di risoluzione a norma del
l'art. 80 1. n. 392 del 1978 e delle sue significative conseguenze sulla disciplina del rapporto in caso di inerzia (v. per riferimenti
Cass. 7 marzo 1984, n. 1598, id., 1984, I, 2546) — non solo
non poteva non appalesarsene la concorrente — e per contro
obliata nella sentenza impugnata — positiva valenza ermeneuti
ca, a norma del 2° comma dell'art. 1362 c.c., della pattuizione locativa ma benanco la detta condotta non poteva non rilevare
proprio per i conseguenziali riflessi precennati — apoditticamente non considerati dai giudici del merito — come incidente mani
festazione di una convergente volontà della locatrice e cosi, co
me ulteriore riprova, alla stregua della complessiva volontà del
le parti, dell'insussistenza dell'illegittimità dell'uso specifico del
l'immobile locato per la presenza di un rilevante consenso
afferente de iure all'attuata funzionale destinazione del detto
bene ed alla sua conseguente qualificazione in ragione di quel
l'interpretazione della normativa dettata dall'art. 27 1. n. 392
del 1978, che si è enunciata.
In conclusione delle esposte considerazioni è conseguente l'ac
coglimento dei primi tre motivi del ricorso della Scuotto (re stando assorbiti sia il quarto motivo, con cui si denuncia «vio
lazione dell'art. 9 bis 1. 5 aprile 1985 n. 118» assumendo che
per tale legge non era più consentita la generica finita locazione
bensì il diniego di rinnovo per i motivi dell'art. 29 1. n. 392
del 1978, che doveva trovare applicazione; che il quinto moti
vo, relativo alla «violazione dell'art. 91 c.p.c.» in ordine alle
spese del secondo grado che con il rigetto dell'appello andava
no poste a carico della soccombente) e per l'effetto la cassazio
ne della sentenza impugnata con il rinvio della causa ad altro
giudice — che si designa in altra sezione del Tribunale di Napo li — perché provveda in un nuovo giudizio alle debite indagini motivazionali attenendosi ai principi di diritto enunciati.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 5 gennaio
1991, n. 44; Pres. Vela, Est. Morelli, P.M. Donnarumma
(conci, conf.); Soc. Sai (Avv. E. Biamonti, Poguani) c. Cor
ti; Corti (Avv. Guidi, Galantini) c. Soc. Sai. Cassa App. Milano 17 dicembre 1985.
Assicurazione (contratto di) — Assicurazione contro i danni «a
primo rischio» — Clausola d'esclusione della copertura assi
curativa — Apponibilità — Limiti — Fattispecie (Cod. civ., art. 1907).
Al contratto di assicurazione contro i danni c.d. «a primo ri
schio» (che comporta l'obbligo, per l'assicuratore, di risarcire
Il Foro Italiano — 1991.
per intero, in deroga alla regola proporzionale ex art. 1907
c.c., il danno fino alla concorrenza della somma assicurata) è validamente opponibile una clausola di esclusione della co
pertura assicurativa, purché risulti, tra limite di copertura e
massimale di polizza, una differenza quantitativa tale da ren
der compatibile la clausola con la funzione economico-giuridica del contratto (nella specie, nell'ambito di una polizza «tutti
i rischi gioiellieri», con massimale, per «rischio portavalori», di 350 milioni di lire, è stata confermata la nullità della clau
sola di esclusione della copertura assicurativa che prevedeva, come limite di copertura per il trasporto di preziosi, un valo
re identico al massimale). (1)
(1) Non risultano specifici precedenti in termini. Sul funzionamento della regola stabilita dall'art. 1907 c.c., cfr. la
lontana Cass. 21 luglio 1962, n. 1989, Foro it., 1962, I, 1900, nonché, per qualche riferimento al caso di specie, la recente Cass. 21 ottobre
1989, n. 4259, id., Rep. 1989, voce Assicurazione (contratto), n. 102. In dottrina, oltre agli autori citati nella nota che segue, v. G. Fanel
li, Assicurazione contro i danni, voce dell' Enciclopedia giurìdica Trec
cani, Roma, 1988, III, 7 s.
# * #
I rìschi del(l'assicurazione a) primo rischio.
1. - La decisione sollecita qualche chiosa, sia sul piano esplicativo che su quello ricostruttivo, soprattutto perché la corte delinea per la
prima volta, a quanto consta, schema tipico ed effetti giuridici del con tratto di assicurazione c.d. «a primo rischio» (o «a primo fuoco»),
1.1. - Il fatto: un commerciante di preziosi stipula una polizza «tutti i rischi gioiellieri»; le parti si preoccupano di definire, preliminarmente ed in modo esplicito, il contratto «a primo rischio assoluto e cioè senza
l'applicazione della regola proporzionale di cui all'art. 1907 c.c.»; fra le altre, risultano convenute le clausole, secondo cui a) il capitale assi curato per «rischio portavalori» ammonta a 350 milioni di lire e b) «la . . . polizza non copre . . i danni derivanti ... da perdite di cose assicurate quando l'ammontare dei beni trasportati da due o più perso ne che siano comunque insieme ecceda complessivamente lire 350 milio
ni»; nel corso di un trasporto di gioielli viene perpetrata una rapina che provoca all'assicurato un danno, consensualmente accertato, di 363
milioni; l'assicuratrice rifiuta di pagare l'indennizzo (qualsiasi indenniz
zo), eccependo che il valore dei beni trasportati eccedeva, contraria mente a quanto pattuito, il valore massimo convenuto come limite di
copertura (350 milioni).
2. - Per comprendere appieno alcuni passaggi — forse un po' ellittici — delle argomentazioni svolte dalla corte, occorre precisare che, in tan to è giuridicamente concepibile un contratto di assicurazione «a primo rischio», in quanto si verta in ipotesi di assicurazione parziale (o sot
toassicurazione): infatti, nei casi di assicurazione piena (in cui v'è coin cidenza fra somma assicurata e valore dell'interesse), manca il presup posto per l'applicazione della «regola proporzionale» (che si risolve nel la sopportazione, a carico dell'assicurato, di parte proporzionale del danno se il valore assicurato è inferiore a quello reale) e, quindi, del
correttivo rappresentato dalla clausola «a primo rischio», che dà all'as sicurato il diritto all'indennità piena (non decurtata proporzionalmente) fino alla concorrenza della somma assicurata, minore — si ribadisce — del valore assicurabile (sottoassicurazione, appunto).
E che, nella specie, si trattasse di assicurazione parziale, emerge dalla
incontestata circostanza, secondo cui, al momento del sinistro, il danno accertato (363 milioni) risultava superiore al massimale di polizza.
2.1. - La dottrina (cfr. Mainardi, L'assicurazione a primo rischio nel ramo incendi, in Assicurazioni, 1934, 527; Vivante, Il contratto di assicurazione, in II codice di commercio commentato, Torino, 1936,
141, spec. 149; Donati, Trattato del diritto delle assicurazioni, Milano,
1954, II, 257 ss.; Salandra, Dell'assicurazione, in Commentario Scialoja
Branca, Bologna-Roma, 1966, 314 s.; Polotti Di Zumaglia, Assicura
zione contro gli incendi, voce del Digesto comm., Torino, 1987, I, 450)
distingue due forme principali di assicurazione «a primo rischio»: quel la a primo rischio assoluto (in cui non viene dichiarato il valore degli interessi assicurati), o relativo (in cui è presente la predetta dichiarazio
ne); e quella mista — fra copertura di primo rischio e regola proporzio nale — in cui «l'assicuratore risarcisce, sempre fino alla concorrenza
della somma assicurata, l'intero danno solo se la somma assicurata è
inferiore, in una misura non superiore ad una determinata quota (di solito il 10% ma anche superiore e fino al 50% se l'insufficienza è
causata da rialzo del corso dei prezzi nei tre mesi antecedenti al sini
stro), al valore dell'interesse (cioè se la sottoassicurazione non superi il tot per cento)» (cosi Donati, op. loc. cit.).
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