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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sezione lavoro; sentenza 6 febbraio 1988, n....

Date post: 31-Jan-2017
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sezione lavoro; sentenza 6 febbraio 1988, n. 1293; Pres. Pandolfelli, Est. Panzarani, P.M. Tridico (concl. conf.); Credito italiano (Avv. Visconti, Montuschi) c. Cavicchi e altro (Avv. Forti, Bondi). Conferma Trib. Ravenna 11 settembre 1985 Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE (1988), pp. 783/784-787/788 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23181133 . Accessed: 25/06/2014 04:05 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.78.108.47 on Wed, 25 Jun 2014 04:05:34 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione lavoro; sentenza 6 febbraio 1988, n. 1293; Pres. Pandolfelli, Est. Panzarani, P.M. Tridico(concl. conf.); Credito italiano (Avv. Visconti, Montuschi) c. Cavicchi e altro (Avv. Forti,Bondi). Conferma Trib. Ravenna 11 settembre 1985Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1988), pp. 783/784-787/788Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23181133 .

Accessed: 25/06/2014 04:05

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PARTE PRIMA

con l'ambito del giudizio di merito, come avviene per le questioni di giurisdizione e di competenza che si pongono con uguale con

tenuto in tutti i gradi del giudizio. Sussistono, allora, nel proble ma qui esaminato, le identiche ragioni per le quali si ritiene

pacificamente che la Cassazione debba statuire sulla giurisdizione e sulla competenza sulla base degli atti, senza incontrare lo scher

mo dell'apprezzamento del giudice di merito.

Va affermata, in altri termini, l'analogia — per gli effetti qui considerati — tra la situazione in cui il giudice di merito abbia

ravvisato il proprio difetto di giurisdizione o di competenza e

la situazione in cui, per la ritenuta natura irrituale dell'arbitrato, il giudice adito abbia negato la potestas decidendi che gli derive

rebbe dall'accertamento della natura rituale dello stesso arbitrato.

2. - Deve, quindi, procedersi ad accertare, anche sulla base

di tutti gli elementi di fatto acquisiti al processo, se le parti han

no dato vita ad un arbitrato rituale o libero.

Nell'arbitrato rituale le parti affidano agli arbitri una funzione

sostitutiva di quella del giudice, in quanto vogliono una pronun cia che, col crisma dell'autorità giudiziaria, acquisti un valore

pari a quello di una sentenza; nell'arbitrato irrituale le parti con

feriscono agli arbitri un mandato a definire la controversia in

via negoziale con una pronuncia riconducibile alla volontà dei

mandanti e da valere come contratto tra questi concluso.

La sentenza impugnata, pur avendo posto con esattezza la li

nea distintiva tra i due istituti giuridici, ha errato nell'inquadrare la fattispecie da essa decisa nell'ambito dell'arbitrato libero anzi

ché in quello dell'arbitrato rituale.

A favore della seconda qualificazione sono subito percepibili alcune significative espressioni che si leggono nella scrittura pri vata stipulata tra le parti in data 12 aprile 1979. Con essa l'appal tatore Giagheddu ed il committente Peri deferiscono ad un arbitro

(scelto di comune accordo) ovvero, in mancanza di accordo, ad

un collegio di tre arbitri «ogni controversia» esistente tra le stesse

in relazione al contratto di appalto; le parti si riferiscono alla

«decisione arbitrale» ed alla «misura che sarà decisa dal lodo

arbitrale»; esse stesse definiscono le proprie posizioni come «ri

spettive pretese»; gli arbitri dovranno rendere il lodo entro un

termine; il lodo sarà «inappellabile e deciderà anche in ordine

alle spese arbitrali».

Tutte le espressioni trascritte, nel loro insieme ed alcune anche

prese singolarmente (decisione, pretesa), dimostrano che le parti non si sono riferite alla elaborazione di elementi negoziali, bensì', usando locuzioni proprie del processo civile, hanno inteso l'atti

vità degli arbitri come sostitutiva di quella del giudice. Né argomento contrario può trarsi — come si legge nella sen

tenza impugnata — dal fatto che le parti si siano riferite al potere arbitrale come quello di un «amichevole compositore» (non rile

va qui accertare il fatto, controverso tra le parti, se questa clau

sola si riferisca solo all'ipotesi dell'arbitro unico o anche a quella del collegio arbitrale). La qualificazione degli arbitri come ami

chevoli compositori non è determinante al fine della individua

zione del tipo di arbitrato (Cass. 14 luglio 1983, n. 4832), potendo essa essere intesa come attributiva del potere di decidere secondo

equità (art. 822 c.p.c.). Gli elementi finora esposti non contrastano con il fatto — su

cui fa leva essenzialmente la sentenza impugnata — che le parti, nella menzionata scrittura, hanno dichiarato di «transigere tutte

le questioni» tra esse insorte nel giudizio pendente presso la Pre

tura de La Maddalena. La transazione, infatti, va collegata alle

altre clausole della scrittura privata (oltre quelle sub a ed / relati

ve all'arbitrato), con le quali le parti hanno fatto reciproche con

cessioni rispetto alle posizioni da loro sostenute nel giudizio

pretorile. Queste clausole risolvono vari contrasti; alcuni sono au

tonomi rispetto alle controversie deferite al giudizio arbitrale (con

segna dell'appartamento, per il cui ottenimento il Peri aveva adito

il pretore ex art. 700 c.p.c.); altri contrasti vengono, invece, rego lamentati in via provvisoria, in attesa della definizione del giudi zio arbitrale (deposito da parte del Peri della somma di denaro

a garanzia delle pretese avanzate dal Giagheddu). L'intento tran

sattivo, pertanto, non esclude che, per tutto ciò che non sia stato

definito dalle clausole della scrittura privata, le parti si siano affi

date al giudizio arbitrale, voluto (anch'esso stesso come modalità

della composizione transattiva) in sostituzione della decisione giu

diziaria, per la quale esse avevano instaurato giudizio ordinario.

Convergente con la interpretazione che questo collegio dà del

compromesso è stato il comportamento tenuto dalle parti succes

sivamente alla conclusione dell'atto (rilevante ex art. 1362, cpv.,

Il Foro Italiano — 1988.

c.c.). Molte delle questioni che ambedue le parti hanno proposto al collegio arbitrale (e risultanti dal testo del lodo arbitrale) fan

no riferimento al contenuto di un accertamento giudiziario (enti tà dei danni, dei vizi e difformità dell'opera, ecc.): il Peri, in

particolare, nella memoria 15 ottobre 1979, ha chiesto la «liqui dazione delle spese del giudizio arbitrale a carico della parte soc

combente». Il riferimento alla soccombenza in un giudizio si pone chiaramente su un piano giurisdizionale, e non certo contrattuale.

3. - In conclusione, il ricorso del Giagheddu va accolto e la

sentenza impugnata va cassata. La causa va rinviata, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d'appello di Roma, che de

ciderà sulla impugnazione proposta dal Giagheddu ex art. 828

c.p.c., ritenendo che essa abbia per oggetto un arbitrato rituale.

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 6 febbraio

1988, n. 1293; Pres. Pandolfelli, Est. Panzarani, P.M. Tri

dico (conci, conf.); Credito italiano (Avv. Visconti, Montu

schi) c. Cavicchi e altro (Avv. Forti, Bondi). Conferma Trib.

Ravenna 11 settembre 1985.

Lavoro (rapporto) — Lavoratrici madri — Assenza per malattia

del bambino — Convalescenza (Cost., art. 37; 1. 30 dicembre

1971 n. 1204, tutela delle lavoratrici madri, art. 7).

La lavoratrice madre ha diritto di assentarsi dal lavoro ex art.

7,2° comma, l. 1204 del 1971 durante le malattie del bambino

di età inferiore a tre anni, tra esse comprendendosi la convale

scenza, e cioè la fase conclusiva dell'infermità durante la qua

le, dopo il superamento dei sintomi acuti, il paziente deve ancora

recuperare le proprie normali condizioni biopsichiche. (1)

II

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 21 ottobre

1987, n. 7767; Pres. Afeltra, Est. Corsaro, P. M. Di Renzo

(conci, diff.); Inps (Avv. Lipari) c. Marcucci (Avv. Agostini).

Conferma Trib. Siena 17 settembre 1984.

Previdenza sociale — Allontanamento dal posto di lavoro per malattia infettiva del figlio — Indennità di malattia — Spettan za (L. 11 gennaio 1943 n. 138, costituzione dell'«Ente mutualità

Istituto per l'assistenza di malattia ai lavoratori», art. 5, 6).

Ha diritto alla indennità economica di malattia il lavoratore al

lontanato dal servizio dall'autorità sanitaria per malattia infet tiva (salmonellosi) del figlio. (2)

I

Motivi della decisione. — Con l'unico motivo l'istituto banca

rio ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione di una norma

di diritto nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motiva

(1-2) Trib. Ravenna 11 settembre 1985, riassunta in Foro it., Rep. 1986, voce Lavoro (rapporto), n. 1894, leggesi in Giust. civ., 1986, I, 236, con nota di R. Del Punta, Assenze della lavoratrice madre per le malattie del bambino e poteri di controllo del datore di lavoro, e in Dir lav., 1986, II, 95, con nota di M. N. Bettini (entrambe le note si soffermano sul profilo, estraneo alla decisione 1293/88 in epigrafe com'è ivi espressa mente detto, dell'applicabilità dell'art. 5 1. 300 del 1970 ai fini del con trollo della malattia del bambino). Trib. Siena 17 settembre 1984 è riassunta in Foro it., Rep. 1985, voce cit., n. 1724.

Sui principi di cui alle massime non si rinvengono, invece, precedenti di legittimità in termini. Per un primo commento alla sentenza 7767/87, cfr. P. Dui, Portatori sani e indennità di malattia, in Dir. e pratica lav., 1987, 3186.

In materia di tutela di lavoratrici madri, cfr., da ultimo, Cass. 20 otto bre 1987, n. 7747, Foro it., 1988, I, 441, e Cass. 27 aprile 1987, n. 4079, ibid., 203 (quest'ultima relativa all'istituto di cui all'art. 7, 2° comma, 1. 1204 del 1971 esaminato da Cass. 1293/88).

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

zione circa punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e

5, c.p.c.) in relazione all'art. 7, 2° comma, 1. 30 dicembre 1971

n. 1204.

Criticando la tesi del tribunale circa la possibilità di ricondurre

nel concetto di malattia del bambino idonea a giustificare l'assen

za della lavoratrice madre anche la parte iniziale del periodo di

convalescenza collegato dalla necessità di assistenza, il ricorrente

deduce che nella sentenza impugnata non appare chiaro se l'as

senza debba ritenersi giustificata ancorché estesa a periodi di pri ma convalescenza ovvero se la certificazione dei medici di fiducia

(circa la necessità dell'assistenza materna) debba ritenersi di ca

rattere assorbente, in relazione di che non si vede la ragione del

l'espletamento della consulenza tecnica la quale ha precisato che

durante la convalescenza non sussiste malattia in senso medico

legale, anche se il bambino in tenera età necessita di presidi tera

peutici, e l'assistenza della madre ha carattere solo profilattico. Il ricorrente deduce quindi che l'art. 7, 2° comma, 1. del 1971

non comprende affatto nel concetto di malattia quello di conva

lescenza (fase di remissione) e tale norma dev'essere interpretata in senso restrittivo comportando invero l'eccezionale esonero del

debitore dall'obbligo di adempiere la prestazione. Aggiunge che

il tribunale è incorso in vizio di motivazione allorquando ha con

siderato necessaria l'assistenza materna, il che era invece l'ogget to della causa e la consulenza aveva concluso in senso negativo. Deduce ancora che, non potendo le malattie certificate ragione volmente durare per sei mesi consecutivi, sarebbe stato necessario

procedere a un adeguato e più approfondito accertamento dia

gnostico, mentre il tribunale, pur dando atto che fra i singoli

episodi morbosi vi erano stati sicuramente dei periodi di remis

sione e quindi anche di guarigione, ha preferito unificare le intere

assenze.

Tutto ciò richiamato, dev'essere rilevata, per le ragioni che se

guono, l'infondatezza del ricorso. Va peraltro premesso che nella

fattispecie non è più oggetto di dibattito la questione circa la

possibilità per il datore di lavoro, in caso di assenze della lavora

trice madre per malattia del bambino a norma dell'art. 7, 2° com

ma, 1. 30 dicembre 1971 n. 1204, di richiedere i relativi controlli

medici sia pur nel rispetto delle garanzie di cui all'art. 5 dello

statuto dei lavoratori, problema questo di indubbia delicatezza

su cui però questa corte non deve e non può nel presente giudizio

pronunciarsi. Ciò che invece rimane oggetto di discussione, alla stregua delle

censure contenute nell'unico motivo del ricorso, è, in sostanza,

solo il punto relativo al significato che, al fine di stabilire la legit timità delle assenze della lavoratrice, dev'essere dato all'espres

sione «durante le malattie del bambino di età inferiore a tre anni»,

di cui alla già richiamata disposizione della 1. n. 1204 del 1971.

In proposito dev'essere anzitutto considerato che la disciplina

contenuta in tale legge (cosi come, in precedenza in quella 26

agosto 1950 n. 860) e, in particolare, la tutela del posto di lavoro

da essa garantita durante determinati periodi anteriori e successi

vi al parto, in relazione peraltro al divieto assoluto della presta

zione ovvero alla facoltà della lavoratrice di assentarsi per sei

mesi entro il primo anno di età del bambino e — nell'ipotesi

appunto di malattia di questo — fino a che il medesimo non

abbia compiuto tre anni, costituiscano espressione di un'equili

brata armonizzazione di interessi e di un'adeguata considerazione

di primari valori che trovano il loro fondamentale e univoco rife

rimento nella norma di cui all'art. 37, 1° comma, Cost., che,

oltreché stabilire la parità dei diritti della donna lavoratrice ri

spetto al lavoratore (prima parte), prescrive che le condizioni di

lavoro devono consentirle «l'adempimento della sua essenziale fun

zione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale

adeguata protezione» (parte seconda). Tali fondamentali valori

morali e sociali, di cui la Costituzione si è fatta interprete, esigo

no pertanto che la collettività partecipi al compito «protettivo»

della madre e del bambimo e ciò, tra l'altro, attraverso l'assisten

za sanitaria pubblica e le prestazioni previdenziali corrisposte, in

diversa misura e in determinati periodi (art. 15, 1° e 2° comma,

della suddetta legge), e che inoltre, nello svolgimento del rappor

to di lavoro, vi sia un ragionevole contemperamento delle rispet

tive esigenze delle parti. Per quanto concerne pertanto il periodo

di assenza facoltativa fino al compimento del terzo anno di età

del bambino — e a prescindere dai sei mesi previsti nel 1 ° comma

dell'art. 7 — tale contemperamento si esprime, in sintesi, nel di

ritto della lavoratrice di conservare, durante tale periodo, il pro

prio posto di lavoro senza però la percezione né della retribuzione

Il Foro Italiano — 1988.

né di alcuna indennità previdenziale. Dal che deriva innanzi tutto

la necessità per il datore di lavoro di predisporre l'organizzazione

dell'impresa in modo da tener conto delle possibili assenze della

lavoratrice, durante le quali tuttavia egli non viene a risentire

del costo economico del rapporto se non in misura limitatissima,

e, cioè, in relazione al solo computo dell'anzianità di servizio

della lavoratrice medesima (con esclusione invece degli effetti re

lativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o gratifica natalizia). Il vantaggio che la lavoratrice ottiene durante il periodo in cui

(a parte, ripetesi, i sei mesi previsti dal 1° comma dell'art. 7 della

legge) sia assente dal lavoro per provvedere al proprio bambino

infratreenne che sia stato colto da malattia è, pertanto, solo quel lo della conservazione del posto di lavoro e della maturazione

dell'anzianità di servizio. Con tale soluzione si è cosi attuato quel

contemperamento delle rispettive esigenze dei soggetti del rappor to di lavoro, di cui si è sopra accennato, onde consentire alla

lavoratrice l'adempimento della sua «essenziale funzione familia

re» senza peraltro eccessivo onere per il datore di lavoro. La con

siderazione, quindi, del fondamento e dell'alta finalità sociale della

disciplina di cui trattasi consente di risolvere sul piano giuridico il problema della determinazione del concetto di malattia del bam

bino che, tenuto conto di tale fondamento e di tale finalità, deve

necessariamente comprendere, non soltanto la fase di alterazione

patologica in atto, ma altresì' quella della convalescenza, con ciò

intendendosi — conformemente, del resto, ai criteri propri della

scienza medica — la fase conclusiva della malattia stessa durante

la quale, dopo il superamento dei sintomi acuti, il paziente deve

ancora recuperare le proprie normali condizioni biopsichiche. È

noto peraltro come la scienza medica evidenzi altresì' la delicatez

za di tale fase, durante la quale sono possibili — data la debilita

zione dell'organismo — pregiudizievoli ricadute. Va, del resto,

considerato che, anche ai fini della determinazione della durata

del comporto per malattia del lavoratore, non può non ritenersi

giustificata la protrazione dell'assenza dovuta appunto alla con

valescenza nel senso sopra indicato. Si rileva ancora come la scienza

medica parli altresì' di psicoterapia del convalescente e sottolinei

la necessità che gli venga assicurato il necessario clima per il com

pleto suo ristabilimento fisico e psichico. Orbene, tutto ciò non

può, ovviamente, non essere ancor più marcatamente pertinente

nei confronti del bambino ammalatosi nei suoi primissimi anni

di vita ed è evidente come il ruolo della madre si riveli, per i

suddetti profili, assolutamente insostituibile anche durante la fase

della convalescenza.

La nozione di malattia, agli specifici fini di cui trattasi, dev'es

sere perciò logicamente intesa in modo conforme alla ratio della

disciplina in esame, e perciò come comprensiva di quel periodo

in cui, in diretta connessione causale con una sofferta affezione

morbosa, il bambino non abbia ancora adeguatamente riacqui

stato le sue normali condizioni. Correttamente pertanto nella fat

tispecie il Tribunale di Ravenna ha rilevato la necessità

dell'assistenza materna per prevenire ricadute e per aiutare il re

cupero psicologico del bambino in un'età in cui la presenza affet

tiva della madre è realmente insostituibile. Né può sottacersi,

tenendo presenti dati di comune esperienza, la situazione di con

creta difficoltà in cui una lavoratrice può sovente venirsi a trova

re, anche sul piano economico, onde farsi coadiuvare da persone

capaci dell'assistenza convalescenziale di un bambino fin tanto

che non sia nuovamente possibile l'utilizzazione degli organismi

sociali che si occupano dell'infanzia.

Conclusivamente dev'essere perciò affermato che la disposizio

ne dell'art. 7, 2° comma, 1. n. 1204 del 1971 va interpretata,

non già in senso restrittivo come dedotto dal ricorrente, bensì

alla luce delle sue evidenti finalità di garantire l'adempimento

dell'essenziale funzione familiare della lavoratrice madre e di as

sicurare a lei e al bambino una speciale adeguata protezione, se

condo la ricordata formula dell'art. 37, 1° comma, Cost. La

nozione di assenze durante le malattie del bambino di cui alla

detta disposizione della 1. n. 1204 dev'essere perciò necessaria

mente recepita nel significato di assenze effettuate in connessione

delle malattie del bambimo e pertanto anche in relazione alle ne

cessità attinenti alla fase convalescenziale. (Omissis)

II

Motivi della decisione. — Denunciando la violazione e l'errata

interpretazione degli art. 5 e 6 1. 11 gennaio 1943 n. 138, il ricor

rente deduce: che la legge non dà alcuna definizione della malat

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PARTE PRIMA

tia assistibile; tuttavia, si ricava dal sistema normativo che deve

trattarsi di un'alterazione fisica o fisio-psichica, che riguardi la

persona del lavoratore, rendendolo incapace al lavoro; che, a tut

to concedere, si potrebbe considerare ammalato un portatore sa

no di germi, per giustificare il suo allontanamento dal lavoro, a fini profilattici e non terapeutici; ma, nella specie, la Marcucci

è stata allontanata dal lavoro non già perché portatrice di salmo

nellosi, ma perché lo era suo figlio, convivente; che gli accerta

menti hanno escluso il contagio; ed in queste condizioni è

impossibile considerare la ricorrente «affetta da malattia»; che

l'accoglimento delle conclusioni cui sono pervenuti i giudici di

merito porterebbe a riconoscere il diritto all'indennità di malattia

a tutti quanti. Le censure sono infondate. Anche se la motivazione della sen

tenza impugnata deve essere corretta parzialmente, ai sensi del

l'art. 384, ultima parte, c.p.c., la decisione del Tribunale di Siena

deve essere confermata.

Non può accogliersi l'affermazione «di principio», secondo la

quale, per rispettare il precetto costituzionale dell'art. 58, occorre

includere tra le ipotesi di indennizzabilità qualsiasi caso di allon

tanamento dal posto di lavoro che abbia «in qualche modo colle

gamento con la malattia».

Rimanendo nell'ambito del caso sottoposto ad esame, per la

soluzione della questione è decisivo il «momento iniziale» della

vicenda; ossia le ragioni che hanno indotto l'autorità sanitaria

a sospendere le prestazioni di lavoro della Marcucci: suo figlio era portatore sano di salmonellosi. L'Inps stesso afferma che si

potrebbe, al più, considerare ammalato il portatore sano di ger

mi, ma non il convivente. Non considera, però, che il dato di

fatto della convivenza viene assunto dagli organi sanitari nel pre

supposto che «anche» il lavoratore possa essere portatore di ger mi (magari «non sano») e, come tale, è allontanato dal posto di lavoro. Non vi può essere differenza tra le due ipotesi; neppu re «dopo» l'esito degli accertamenti concernenti quelle condizioni

del lavoratore, che hanno provocato l'intervento coercitivo del

l'autorità sanitaria. Peraltro, non è sostenibile, e questo vale in

generale, l'esclusione della tutela assicurativa, con valutazione ex

post (errore della diagnosi dell'affezione presupposta). Ritornan

do al momento iniziale, gli apprezzamenti, essenzialmente tecni

ci, degli organi sanitari, che, per superiori esigenze di profilassi e prevenzione, impongono l'allontanamento del lavoratore dal po sto di lavoro, non sono insindacabili in altra sede (Inps, autorità

giudiziaria), neppure in considerazione delle implicazioni negati ve prospettate dal ricorrente (estensione illimitata del concetto di

indennizzabilità delle malattie). Tali conseguenze non possono giustificare, in questa sede, l'af

fermazione della non indennizzabilità del lavoratore, in base ad

una rigorosa definizione clinica del concetto di malattia ed in

mancanza di nozione legislativa della malattia. Non lo consente

la ratio di tutta la normativa in materia di assicurazione obbliga toria contro le malattie. In particolare, l'art. 5 1. 11 gennaio 1943

n. 138 non distingue tra i «vari casi di malattie», né li definisce.

Per quanto riguarda le malattie infettive, poi, non rileva, ai fini

che qui interessano, la distinzione tra malato e portatore sano

di germi patogeni. In conclusione, quando l'autorità sanitaria di

spone l'allontanamento dal posto di lavoro, per ragioni di igiene e profilassi, del lavoratore, ritenuto, al momento dell'allontana

mento, per qualsiasi motivo, possibile portatore (anche «sano») di germi infettivi, permane l'obbligo dell'ente assicuratore di cor

rispondere le prestazioni previste per i casi di malattia.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 22 gennaio

1988, n. 481; Pres. Falcone, Est. Borruso, P.M. Amirante

(conci, conf.); Soc. Sip (Avv. Sartoreixi) c. Soc. Sipro (Avv.

Esposito, Verde). Conferma App. Napoli 4 ottobre 1982.

Telefono — Conduttura telefonica — Servitù di passaggio ed ap

poggio — Diramazione su fondi vicini — Indennità — Spettan za (D.p.r. 29 marzo 1973 n. 156, t.u. delle disposizioni in materia

postale, di bancoposta e di telecomunicazioni, art. 232, 233).

Al proprietario di un fondo, se è fatto obbligo di consentire gra tuitamente il passaggio e l'appoggio delle condutture telefoni

li. Foro Italiano — 1988.

che e necessarie all'allacciamento del suo apparecchio, spetta un giusto ristoro laddove attraverso il suo fondo vengano col

legati apparecchi telefonici di proprietari di immobili vicini. (1)

Svolgimento del processo. — Sin dal 1964 la s.p.a. Sipro aveva

in Casoria due telefoni esterni allacciati alla rete pubblica da un

cavo che , nell'ultimo tratto, era aereo in quanto sorretto da pali. Nel 1974 la Sip (società italiana per l'esercizio telefonico) senza

alcun preventivo accordo con la Sipro e senza far ricorso alla

speciale procedura di imposizione coattiva di servitù, sostituiva

detto allacciamento aereo con un cavo interrato, corrente, per

circa 210 mt., sotto un terreno di proprietà della Sipro. In prossimità del punto di immissione del cavo nel sottosuolo

della Sipro, veniva costruito, sempre sul suo terreno, anche un

«pozzetto di diramazione» in muratura.

Detto cavo — raggiunti gli edifici della Sipro — si diramava

a sua volta attraverso una cassetta posta su un muro della Sipro, in dieci coppie di cavetti: due proseguivano all'interno attraverso

il muro per alimentare i due telefoni della Sipro, e altri otto pro

seguivano, invece, verso l'esterno per collegare altri otto apparec chi telefonici installati in edifici vicini di proprietà esclusiva di terzi.

A seguito di ciò, la Sipro conveniva avanti al Tribunale di Na

poli la Sip perché, in via principale, sentisse dichiarare illegittima la posa del cavo e la creazione del pozzetto nella sua proprietà ed ordinare la rimozione con condanna della Sip al risarcimento

dei danni e — in via subordinata — qualora fosse ritenuta possi bile l'imposizione della servitù coattiva, condannare la Sip al pa

gamento della relativa indennità, oltre a quanto dovuto per il

periodo di occupazione illegittima ed interessi legali. La Sip resisteva sostenendo l'infondatezza di entrambe le

domande.

Espletata la consulenza tecnica da cui risultava la situazione

di fatto in premessa descritta, il tribunale con sentenza del 1980 — ritenuto che in base all'art. 95 r.d. 19 luglio 1941 n. 1198

(richiamato dal nuovo codice postale e delle telecomunicazioni

del 29 marzo 1973 n. 156) la Sipro, quale utente del servizio tele

fonico, aveva l'obbligo di concedere gratuitamente l'appoggio e

il passaggio nell'immobile di sua proprietà delle condutture tele

foniche delle quali qui trattasi — rigettava le domande attrici.

La Sipro proponeva gravame e la Corte d'appello di Napoli, con sentenza depositata il 4 ottobre 1982, in totale riforma della

decisione di primo grado, condannava la Sip alla rimozione delle

opere eseguite nella proprietà Sipro sopradescritte nonché al pa

gamento di lire 1.000.000 a titolo di risarcimento dei danni equi

tativamente valutati sulla base delle seguneti considerazioni:

I) Nel caso in esame non è applicabile né l'art. 231 del nuovo

codice postale (d.p.r. 29 marzo 1973 n. 156), né l'art. 95 del

regolamento del predetto codice, perché entrambi gli articoli, nel

sancire l'obbligo di concessione del passaggio gratuito di condut

ture, fili o di qualsiasi altro impianto negli immobili di proprietà

aliena, prevedono che la detta concessione sia diretta alla instal

lazione nei predetti immobili di apparecchi telefonici. Quando in

vece — come nel caso in esame — il passaggio di condutture,

fili, ecc. sia diretto alla installazione del telefono in proprietà di terzi, allora ricorre l'ipotesi di cui all'art. 233 del nuovo codice

postale, che prevede l'imposizione di una vera e propria servitù

coattiva la quale in mancanza di accordo del proprietario dell'im

mobile su cui la servitù deve gravare, deve essere costituita con

(1) Nell'affermare il principio di cui in massima, la corte liquida la

tesi sostenuta dalla società telefonica attrice secondo cui gli art. 233 e

234 cod. postale in materia di servitù telefoniche andrebbero letti nel

senso di negare un ristoro non solo nell'ipotesi — codificata — in cui

il passaggio con appoggio delle condutture è diretto a soddisfare le esi

genze di utenza del proprietario del fondo interessato, bensì' anche nel

diverso caso in cui attraverso quello stesso passaggio la Sip provveda all'allacciamento di apparecchi telefonici appartenenti a terzi proprietari di fondi finitimi. Naturalmente, in tali frangenti di uso promiscuo della

conduttura, l'indennità andrà commisurata in relazione al sacrificio effet

tivamente imposto al proprietario. La direttiva ribadisce l'orientamento

espresso da Trib. Napoli 23 ottobre 1981, Foro it., Rep. 1982, voce Posta

e telecomunicazioni, n. 3; mentre, per quanto attiene all'insussistenza del

l'obbligo in capo al proprietario di uno stabile a concedere l'appoggio

gratuito di condutture atte a soddisfare esigenze di servizio pubblico, v.

Cass. 28 aprile 1982, n. 2661, id., 1982, I, 1893, con nota di richiami, cui si rinvia per i riferimenti di dottrina.

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