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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sezione lavoro; sentenza 13 gennaio 1989, n....

Date post: 31-Jan-2017
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sezione lavoro; sentenza 13 gennaio 1989, n. 116; Pres. Antoci, Est. O. Fanelli, P.M. Martone (concl. conf.); Loiodice (Avv. C. M. Barone, Volpe) c. Banca Centro Sud; Banca Centro Sud (Avv. Spinelli) c. Loiodice. Conferma Trib. Trani 1° ottobre 1986 Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE (1989), pp. 1851/1852-1857/1858 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23184038 . Accessed: 25/06/2014 00:23 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.78.109.162 on Wed, 25 Jun 2014 00:23:27 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione lavoro; sentenza 13 gennaio 1989, n. 116; Pres. Antoci, Est. O. Fanelli, P.M. Martone(concl. conf.); Loiodice (Avv. C. M. Barone, Volpe) c. Banca Centro Sud; Banca Centro Sud (Avv.Spinelli) c. Loiodice. Conferma Trib. Trani 1° ottobre 1986Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1989), pp. 1851/1852-1857/1858Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23184038 .

Accessed: 25/06/2014 00:23

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1851 PARTE PRIMA 1852

chezza morale dei principi costituzionali, può provocare una nor

ma sicuramente calcolatrice e impopolare come l'art. 11 legge finanziaria 1988, è, in proposito, necessario premettere che «nel

la Costituzione — eccettuato il caso particolare del 2° comma

dell'art. 25, che stabilisce il divieto di leggi penali sfavorevoli re

troattive — non si rinviene alcuna disposizione, la quale contem

pli esplicitamente la retroattività delle leggi, vuoi per consentirla, vuoi per vietarla o variamente limitarla e disciplinarla».

Ciò, peraltro, non significa che il potere del legislatore di ema

nare leggi retroattive (perché interpretative o per scelta espressa) sia illimitato, sussistendo, al contrario, condizionamenti a quel

potere nonostante il silenzio della Costituzione.

Non è, però, nell'art. 11 preleggi — secondo cui «la legge non

dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo» —

che può individuarsi un criterio discretivo della legittimità della

legge retroattiva, in quanto tale disposizione contiene un princi

pio, a torto o a ragione, mai costituzionalizzato (le polemiche in ordine all'errata collocazione sistematica del principio per il

nostro ordinamento espresso dell'art. 11 preleggi risalgano al Co

de Napoléon del 1804) e, quindi, pacificamente destinato a fun

gere da mero criterio interpretativo. Devono piuttosto riscontrarsi il generale consenso che si regi

stra intorno alla tesi che sostiene la intangibilità del giudicato da parte della legge retroattiva, nonché la diffusione dell'opinio ne secondo cui il legislatore non può legittimamente emanare leg

gi retroattive in violazione di disposizioni costituzionali poste a

presidio di diritti o libertà garantite al cittadino.

In conseguenza, salvo il limite normativo del giudicato, siffat

to assetto legislativo implica la necessità di condurre caso per caso la valutazione dell'eventuale contrasto tra legge retroattiva

e norma costituzionale, senza che l'illegittimità della prima possa

semplicisticamente desumersi «dall'indole della fattispecie della

cui disciplina retroattiva si tratti».

Orbene, alla stregua di questi criteri di giudizio, deve escludersi

ogni dubbio di costituzionalità dell'art. 11 1. 67/88.

Invero, si rileva, in primo luogo, che nessun giudicato la ricor

rente può opporre all'operatività della nuova legge in tema di

prescrizione. Né si vede quale violazione del principio di uguaglianza derivi

dalla circostanza che l'art. 11 1. 67/88 «avrebbe fatto estinguere diritti che i titolari potevano ancora esercitare legittimamente (i crediti ultraquinquennali)», cosi ponendo quei soggetti in una si

tuazione diversa da «tutti gli altri casi di prescrizione», caratte

rizzati dall'iniziale e perdurante consapevolezza da parte del titolare

del diritto della durata del termine della prescrizione stessa. Troppo vasta è, invero, il comune denominatore della categoria — i tito

lari di diritti prescrittibili: di qualsiasi diritto sottoposto a qual siasi termine di prescrizione — all'interno della quale la tesi in

contestazione pretende di ravvisare una violazione del principio di uguaglianza, che, invece, consistendo — per quanto qui rileva — nel divieto di trattare in modo difforme situazioni soggettive

eguali, avrebbe potuto verificarsi nell'eventualità che la nuova

legge avesse operato irragionevoli distinzioni tra i titolari del di

ritto all'integrazione al minimo della pensione di reversibilità. Di

versamente opinando si finirebbe con il configurare una

incompatibilità assoluta tra legge retroattiva e istituto della pre

scrizione, in evidente contrasto con quanto si è premesso in tema

di inammissibilità di un criterio per materia discretivo della legit timità della legge retroattiva.

Con riguardo al diritto costituzionale di azione e di difesa —

che qui viene in considerazione sotto il primo profilo, come fa

coltà di agire in giudizio «per la tutela dei propri diritti e interessi

legittimi», piuttosto che nella sua ulteriore articolazione, «nel du

plice senso della possibilità per la parte di far valere direttamente

le proprie ragioni e della assistenza tecnico professionale» — si

rileva, inoltre, che il caso legislativo che si decide non è in alcun

modo assimilabile a quello, sicuramente in conflitto con il precet to costituzionale, dell'introduzione di «un termine prescrizionale di un giorno, di un'ora, di un minuto relativamente ad un diritto

destinato a durare per anni».

Se, infatti, in questa seconda ipotesi, «tutti avvertiremmo che in realtà si preclude la possibilità di far valere coattivamente il

diritto», nel nostro caso l'intervento del legislatore della legge finanziaria 1988 non incide in alcun modo sull'esercizio del dirit to di ottenere l'integrazione al minimo della pensione di reversi

bilità — che l'assicurato, ex art. 8 1. 533/73, poteva e può senza

Il Foro Italiano — 1989.

variazioni far valere con la presentazione della domanda in sede

amministrativa in applicazione di Corte cost. 314/85 —, ma è

semplicemente finalizzato a ridimensionare il contenuto patrimo niale del diritto in oggetto, che è stato ridotto da dieci a cinque anni di arretrati.

Quanto poi al riferimento agli art. 101 e 104 Cost, con Cass.

6125/85 cit. si rileva che nessun apprezzabile conflitto si verifica

tra potere legislativo e potere giudiziario allorché il primo condi

zioni il secondo con l'emanazione di una legge di interpretazione

autentica, «in quanto i giudici sono soggetti anche a tali leggi e l'indipendenza della magistratura non è minimamente intaccata

dal potere del legislatore di interpretare autenticamente le leggi, dato che in uno Stato di diritto tale potere, non vietato dalla

Costituzione, deve ritenersi consentito allo stesso legislatore». In conclusione deve, quindi, affermarsi il carattere interpretati

vo e legittimamente retroattivo dell'art. 11 1. 67/88, che, essendo

idoneo a regolare il caso che si decide, impone il rigetto della

domanda — dalla ricorrente limitata proprio agli arretrati matu

rati nel periodo interessato dalla nuova disposizione, «salvo ed

impregiudicato ogni suo maggior diritto» (sulla cui realizzazione

sono destinati ad incidere il parziale riconoscimento contenuto

nella circolare Inps n. 60117/Ago del 9 marzo 1987 e la disciplina di cui alla 1. 638/83) — per intervenuta prescrizione.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 13 gennaio

1989, n. 116; Pres. Antoci, Est. O. Fanelli, P.M. Martone

(conci, conf.); Loiodice (Avv. C. M. Barone, Volpe) c. Banca

Centro Sud; Banca Centro Sud (Avv. Spinelli) c. Loiodice.

Conferma Trib. Trani 1° ottobre 1986.

Sentenza, ordinanza e decreto in materia civile — Incompatibilità di funzioni del magistrato — Nullità della sentenza — Esclu

sione (Cod. proc. civ., art. 158, 161; cod. proc. pen., art. 185; r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, ordinamento giudiziario, art. 16; r.d.l. 31 maggio 1946 n. 511, guarentigie della magistratura, art. 2; d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3, statuto degli impiegati dello

Stato, art. 63).

La violazione da parte del magistrato di norme dell'ordinamento

giudiziario sull'incompatibilità di funzioni non determina né la

nullità né la inesistenza della sentenza resa dal medesimo (nella

specie, il ricorrente eccepiva l'incompatibilità di funzioni del

giudice di primo grado in quanto il di lui coniuge — in regime di comunione legale dei beni — era socio accomandatario di una società commerciale). (1)

(1) La Cassazione conferma la sentenza pronunciata da Trib. Trani 1° ottobre 1986, Foro it., 1987, I, 244, con nota di richiami.

La decisione in rassegna offre il destro a due osservazioni, una relativa

proprio al tema affrontato, l'altra relativa al diverso atteggiamento che assume il Supremo collegio di fronte a violazione di norme che regolano l'esercizio della funzione del giudice e della funzione del difensore.

Riguardo la prima, occorrono tre rilievi preliminari: a) il vizio dedotto dal ricorrente si era verificato nel giudizio di primo grado; b) tale vizio, per certo, non è tale da determinare la inesistenza della sentenza di prime cure, ma tutt'al più potrebbe dar luogo ad una nullità che ai sensi del l'art. 161 c.p.c. si converte in motivo di impugnazione; c) gli art. 353 e 354 c.p.c. non contemplano l'ipotesi di incompatibilità di funzioni del

giudice a quo. Sulla scorta di queste premesse si può concludere che la deduzione del

l'incompatibilità di funzioni con il mezzo di gravame non potrebbe co

munque far ottener altra utilità se non la rinnovazione degli atti compiuti in primo grado, ai sensi dell'art. 354, ultimo comma, c.p.c. (cfr. App. Milano 6 ottobre 1981, id., 1981, I, 2827, con nota di richiami).

Riguardo la seconda osservazione, stupisce che la Cassazione, mentre esclude qualsiasi rilevanza alla violazione da parte del giudice di norme che disciplinano vuoi il rapporto organico, vuoi il rapporto di servizio, rispetto agli atti compiuti da esso nell'esercizio del suo ufficio, si attiene a criteri di massimo rigore riguardo agli effetti della violazione da parte del professionista di norme che regolano l'esercizio della sua attività sulla validità degli atti da esso posti in essere.

Ci si riferisce in particolare all'indirizzo costante secondo cui l'atto

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Svolgimento del processo. — Luigi Loiodice, dipendente, con

la qualifica di funzionario, della Banca Centro Sud s.p.a presso la filiale di Barletta, con ricorso in data 5 febbraio 1985 al Preto

re di Barletta, premesso di essere stato licenziato per giusta causa

con provvedimento comunicatogli il 10 gennaio 1985, chiedeva

che il licenziamento intimatogli fosse dichiarato illegittimo perché carente di giusta causa e, conseguentemente fosse ordinato alla

Banca Centro Sud s.p.a. di reintegrarlo nel posto di lavoro.

(Omissis) In esito a complessa istruttoria l'adito pretore rigettava le do

mande con sentenza resa in data 10 dicembre 1985, che su appel lo del Loiodice, veniva confermata dal Tribunale di Trani con

sentenza 1° ottobre 1986.

In ordine all'assunto dell'appellante Loiodice, secondo cui il

pretore, dott. A. De Luce, essendo coniugato, in regime di comu

nione legale, con persona che era socio accomandatario della «Pa

rente antichità s.a.s. di Parente Maria Pia e C.», con sede in

Barletta, sarebbe incorso nella situazione di incompatibilità pre vista dall'art. 16 dell'ordinamento giudiziario (r.d. 3 gennaio 1941

n. 12) nella parte in cui stabilisce che i magistrati non possono «esercitare industrie o commerci, né qualsiasi libera professio

ne», che l'incompatibilità troverebbe fondamento nella responsa bilità solidale ed illimitata dei soci accomandatari per le

obbligazioni sociali (art. 2313 c.c.), la quale, in virtù delle norme

dettate dagli art. 186 e 190 c.c., renderebbe «evidente l'interesse

del Pretore di Barletta dott. De Luce nell'esercizio o, comunque, alle fortune dell'attività commerciale della Parente antichità s.a.s., socio accomandatario», osservava il tribunale che la tesi dell'ap

pellante, prima ancora che erronea sul piano delle conseguenze di diritto desunte dalla denunciata situazione di incompatibilità di funzioni, si presentava del tutto fuorviante anche con riferi

mento ai presupposti che darebbero corpo alla situazione d'in

compatibilità. Poiché la causa che, ai sensi dell'art. 16 ord. giud., genera

per il magistrato l'incompatibilità all'esercizio delle funzioni è co

stituita dall'esercizio «di industrie» o «commerci» o «di qualsiasi libera professione», era evidente che non un qualsiasi interesse,

più o meno intenso, alle «fortune» dell'attività commerciale od

industriale o della libera professione da altri eventualmente eser

citata configura l'incompatibilità prevista dalla legge, ma solo il

diritto, personale, concreto ed attuale interesse determinato dal

l'esercizio, da parte del magistrato, di quella determinata attività

interdettagli dalla legge. Sicché, troppo vago e generico, rispetto alla previsione di legge, sarebbe stato l'interesse del magistrato che aveva reso la sentenza impugnata all'esercizio o, comunque, alle «fortune» dell'attività commerciale della Parente antichità

s.a.s. condotta da sua moglie. Siffatta considerazione vale anche nell'ipotesi di un'idiretta re

sponsabilità del magistrato per le obbligazioni sociali della Pa

rente antichità s.a.s., di cui la moglie, in qualità di socio

accomandatario, potrebbe essere chiamata a rispondere illimita

compiuto dal procuratore extra districtum è assolutamente nullo o inesi stente (v., da ultimo, Cass. 15 luglio 1988, n. 4641, id., 1988, I, 3583, con nota di A. Proto Pisani; 23 marzo 1988, n. 2538, id., Mass., 389; 18 luglio 1987, n. 6332, id., Rep. 1987, voce Procedimento civile, n. 72). Ora, perché il Supremo collegio adotti due pesi e due misure rispetto alle conseguenze per violazioni, da parte dell'autore di un atto processua le, di norme che nell'uno come nell'altro caso disciplinano l'espletamento di una funzione, sfugge completamente. Senza voler entrare nel merito della decisione in rassegna, non si può fare a meno di rilevare che mentre le norme sull'ordinamento giudiziario tutelano in primo luogo l'interesse

pubblico al buon andamento e all'imparzialità dell'amministrazione (ree te: della giustizia) (art. 97 Cost.), e all'indipendenza del giudice (art. 108, 2° comma), le norme sull'ordinamento forense, ed in particolare quelle che limitano l'esercizio dell'attività del procuratore nell'ambito del di stretto di appartenenza, mirano a ripartire per cosi dire il «carico di lavo ro» fra i professionisti, tutelando un interesse che in primo luogo è di

categoria. Orbene, se proprio si volesse dare un giudizio di valore allora sarebbe

preferibile che l'atteggiamento della Cassazione fosse esattamente l'opposto. Tuttavia, poiché è da condividere il principio per cui le violazioni di

norme che disciplinano l'esercizio delle funzioni non debbano ripercuo tersi sulla validità degli atti compiuti dal giudice, coerenza vorrebbe che fosse abbandonato anche l'orientamento che penalizza con la invalidità assoluta o l'inesistenza l'atto compiuto dal procuratore extra districtum.

[M. Orsenigo]

Il Foro Italiano — 1989.

tamente ai sensi dell'art. 2312 c.c., ma tale responsabilità indiret

ta non potrebbe mai sorgere.

Invero, in primo luogo sicuramente irrilevante era il riferimen

to fatto dall'appellante alla norma dell'art. 177 c.c., poiché tale

norma fa ricadere nella comunione legale dei beni «le aziende

gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio», laddove l'azienda commerciale della Parente antichità s.a.s., pe raltro formalmente facente capo ad un soggetto giuridico distinto

da ciascuno dei due coniugi, pur costituita dopo il matrimonio, sarebbe gestita solo dalla moglie del magistrato.

Ugualmente erroneo era il richiamo alle norme dettate dagli art. 186 e 190 c.c., attesoché la prima norma non comprende tra gli obblighi gravanti sui beni della comunione anche quelli derivanti dai rapporti di commercio separatamente instaurati da

ciascuno dei coniugi e la seconda norma, prevedendo la respon sabilità sussidiaria dei beni personali di ciascun coniuge in caso

di incapienza dei beni della comunione, si riferisce espressamente alla responsabilità relativa ai debiti gravanti sulla comunione stessa, tra i quali non sono compresi quelli derivanti dalla gestione di

un'attività imprenditoriale condotta separatamente da uno dei

coniugi.

Infine, il coniuge della persona che eserciti separatamente un'at

tività imprenditoriale non potrebbe rispondere delle obbligazioni contratte nell'esercizio di tale attività neppure ai sensi dell'art.

189 c.c.: non ai sensi del 1° comma, perché ivi è prevista la re

sponsabilità sussidiaria dei beni della comunione, ma fino al va

lore corrispondente alla quota del coniuge obbligato e solo per

obbligazioni contratte da uno dei coniugi per il compimento di

atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, senza il consenso del

l'altro coniuge; non ai sensi del 2° comma, perché, pur essendosi

prevista la responsabilità sussidiaria dei beni della comunione an

che per i crediti sorti anteriormente al matrimonio, tale responsa bilità trova ugualmente limite nel valore della quota del coniuge

obbligato, sicché, comunque, la quota del coniuge non obbligato resta esente da essa.

Sicché andava escluso che, sia pure in via sussidiaria, il magi strato che aveva reso la sentenza impugnata potesse essere chia

mato a rispondere con la propria quota di beni recadenti nella

comunione legale delle obbligazioni di cui la moglie, quale socio

accomandatario della Parente antichità s.a.s., avesse dovuto esse

re chiamata a rispondere personalmente né, se anche fossero sus

sistenti i presupposti richiesti dalla legge per configurare la

denunciata situazione d'incompatibilità, non perciò potrebbero farsene derivare sulla sentenza impugnata le conseguenze giuridi che (inesistenza o nullità della sentenza) auspicate dall'appellante.

Certamente non può parlarsi di inesistenza della sentenza, per ché (cfr. Cass. 5 aprile 1982, n. 2081, Foro it., 1983, I, 411, con la quale fu ritenuta inesistente la sentenza deliberata dal giu dice monocratico che non abbia, almeno, diretto l'udienza di di

scussione»), a tale categoria giuridica è consentito far ricorso solo

per le più gravi violazioni delle leggi dell'ordinamento giudizia

rio, come nel caso della sentenza emessa a non iudice, cioè da

privato usurpatore di funzioni giurisdizionali o, come nel caso

oggetto della menzionata sentenza, di giudice monocratico dele

gato a deliberare e stendere la sentenza senza aver avuto alcun

rapporto con la causa, diretta da altro giudice monocratico.

Andava, altresì, escluso che dalla causa di incompatibilità che

si assumeva nella specie esistente potesse derivare la nullità della

sentenza.

Ai sensi dell'art. 158 c.p.c., i vizi attinenti alla posizione del

giudice dai quali deriva la nullità della sentenza sono solo quelli relativi alla «costituzione» del giudice (o all'intervento del p.m.).

Poiché nella citata norma non vengono indicati gli specifici vizi

che attengono alla costituzione del giudice, in dottrina e giuris

prudenza (cfr. la citata sentenza n. 2081/82 della Corte di cassa

zione) si fa correttamente ricorso alle disposizioni legislative dettate

in altri settori dell'ordinamento, che abbiano identico o analogo

oggetto. All'uopo, si ritiene idonea la norma di cui all'art. 185, 2° comma, c.p.p. che, nell'indicare le nullità di ordine generale che toccano la posizione processuale del giudice, dichiara insana

bili e rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del processo «le

nullità prevedute da questo articolo che riguardano la capacità e la costituzione del giudice...».

Orbene, al 1 ° comma dello stesso articolo le norme riguardanti la capacità e la costituzione del giudice sono identiche con quelle concernenti «la nomina e le altre condizioni di capacità del giù

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1855 PARTE PRIMA 1856

dice stabilite dalle leggi dell'ordinamento giudiziario e il numero

dei giudici necessario per costituire i collegi giudicanti».

Restano, quindi, escluse dalle cause di nullità le violazioni di

norme attinenti all'incompatibilità di funzioni stabilite dalle leggi dell'ordinamento giudiziario. Da tali violazioni possono derivare

solo sanzioni disciplinari, alla cui irrogazione è istituzionalmente

deputato il Consiglio superiore della magistratura. Secondo l'appellante, il pretore avrebbe, comunque, violato l'art.

51, ultimo comma, c.p.c., avendo omesso di chiedere di essere

autorizzato ad astenersi dal giudicare, come, invece, sarebbe sta

to consigliabile, ricorrendo «gravi ragioni di convenienza».

Anche tale assunto era privo di ogni minimo fondamento, non

comprendendosi quali sarebbero le «gravi ragioni di convenien

za» che avrebbero dovuto consigliare come opportuna l'astensione.

Ad ogni buon conto, l'appellante banca si era dato carico di

produrre certificazione attestante che essa non ha alcun rapporto con la «Parente antichità s.a.s.», né con i suoi soci Parente Ma

ria Pia e Parente Francesco. (Omissis) Alla luce di tutte le considerazioni svolte il tribunale riteneva

l'addebito relativo alla negoziazione degli assegni confermato in

tutta la sua gravità e da solo idoneo a configurare la giusta causa

che rendeva legittimo il provvedimento risolutorio adottato dalla

banca, mentre, quanto all'addebito relativo alla gestione del ser

vizio di tesoreria dell'Usi BA/1, a prescindere dal fondamento,

da accertare in sede penale, dell'accusa di appropriazione di som

me dalla banca rivolte al Loiodice, le risultanze deponevano sicu

ramente per una gestione del servizio gravemente scorretta e

negligente, della quale il ricorrente, quale esclusivo responsabile, era tenuto a rispondere.

Conclusivamente, la condotta inadempiente del Loiodice, in par ticolar modo quella relativa all'autorizzazione al cambio degli as

segni a favore del Di Pierro, del Lamanuzzi e del Petrelli, aveva

scosso la fiducia che la banca riponeva in lui a tal punto da ren

dere impossibile la prosecuzione del rapporto. Avverso tale deci

sione ricorre il Loiodice per tre motivi; resiste con controricorso

la banca, che propone ricorso incidentale condizionato, illustrato

con memoria.

Motivi della decisione. — Il ricorso principale e quello inciden

tale vanno riuniti (art. 335 c.p.c.). Col primo motivo del ricorso principale il Loiodice, denun

ciando violazione e falsa applicazione dell'art. 16 r.d. n. 12 del

1941 e degli art. 143, 147, 148, 155, 2° comma, 156, 3° comma,

177, lett. b) e c), 178, 191, 1° comma, c.c., 158 c.p.c., nonché

vizi di motivazione su punti decisivi della controversia, sostiene

che il Pretore di Barletta era incompatibile ai sensi dell'art. 16

dell'ordinamento giudiziario approvato con il r.d. 12/41, in quanto sua moglie — con cui si trova in regime di comunione di beni — è socia accomandataria di una società commerciale, e da ciò

desumendo in via principale l'inesistenza ed in via subordinata

la nullità della sentenza di primo grado. Ad avviso del ricorrente, nella previsione della citata norma

rientrerebbe anche la situazione di un magistrato, in regime di

comunione legale dei beni, coniuge di imprenditore o di socio

illimitatamente responsabile di società commerciale, in quanto la

ratio dell'art. 16 sarebbe quella di impedire che il giudice abbia

alcun interesse, anche solo potenziale, ai risultati di un'attività

imprenditoriale, giacché in tal caso l'interesse del magistrato al

l'attività del coniuge non sarebbe un interesse di mero fatto, né

un interesse vago, bensì un interesse giuridicamente protetto dal

l'ordinamento.

Il Loiodice analizza prima i cosiddetti profili «negativi» di in teresse o di responsabilità indicando: a) l'art. 191, 1° comma,

c.c., secondo cui il fallimento determina lo scioglimento della co

munione; b) il principio enunciato da alcune pronunzie di merito, secondo cui la presunzione muciana sarebbe applicabile anche ai

beni caduti in comunione per effetto di acquisti effettuati dal

coniuge imprenditore; c) il principio enunciato da una sentenza

di merito, secondo cui il creditore personale di un coniuge po trebbe agire in executivis sui beni della comunione limitatamente

alla quota dell'obbligato, anche senza la preventiva escussione

del patrimonio personale di quest'ultimo. Analizza poi i cosiddetti profili «positivi» di interesse del magi

strato di coniuge imprenditore dichiarandosi agli art. 177, lett.

c), e 178 c.c., secondo i quali fanno parte della comunione, se

sussistono al momento del suo scioglimento, i proventi dell'atti

II Foro Italiano — 1989.

vità separata da ciascun coniuge costituita dopo il matrimonio,

nonché gli incrementi dell'impresa stessa.

Infine invoca l'art. 193, 2° comma, secondo cui ciascun coniu

ge può chiedere la separazione giudiziale dei beni quando il disor

dine degli affari dell'altro coniuge o la condotta da questo tenuta

nell'amministrazione dei beni metta in pericolo i suoi interessi.

Il ricorrente passa indi ad analizzare le conseguenze giuridiche della pretesa incompatibilità, affermando che la sentenza pronun ciata da giudice incompatibile sarebbe inesistente, e che l'incom

patibilità sarebbe accertabile dal giudice ordinario

indipendentemente dall'intervento del Consiglio superiore della

magistratura.

Inoltre, il tribunale avrebbe ignorato la eccezione di nullità del

la sentenza di primo grado, per vizi relativi alla costituzione del

giudice ex art. 158 c.p.c., limitandosi ad affermare, attraverso

il rinvio all'art. 185 c.p.p., che le cause di incompatibilità non

rientrano tra i vizi di costituzione del giudice.

Assume, infine, il ricorrente che la sentenza impugnata non

avrebbe motivato la insussistenza nella specie delle gravi ragioni di convenienza ex art. 51, 2° comma, c.p.c., che avrebbe dovuto

indurre il giudice di prime cure ad astenersi.

Il motivo è infondato sotto tutti i suoi aspetti; ma sembra deci

sivo e prioritario il secondo in quanto, anche ad ammettere in

ipotesi che sussista una causa di incompatibilità, mai da essa po trebbe discendere la nullità, e tanto meno l'inesistenza, della sen

tenza emessa da giudice versante in quella situazione.

I pubblici dipendenti sono legati alla pubblica amministrazione

cui appartengono da due diversi tipi di rapporto, strutturalmente

e funzionalmente distinti, anche se l'uno presuppone l'altro; il

rapporto organico, consistente nella relazione fra un organo o

ufficio della pubblica amministrazione ed il soggetto ad esso pre

posto, vale a dire fra una struttura organizzativa e l'agente la

cui attività viene imputata ad essa, o, se attiene ai rapporti ester

ni, all'ente o amministrazione cui l'organo o ufficio appartiene

(rapporti c.d. di rappresentanza o immedesimazione organica i

cui vizi possono incidere sulla validità degli atti posti in essere

dall'agente); e il rapporto di servizio, che è il rapporto fra l'ente

o amministrazione e i soggetti ad esso assegnati, rapporto di ca

rattere personale, che può essere coattivo o volontario, ordinario

o professionale; in quest'ultimo caso trattasi di un rapporto di

lavoro, in base al quale un soggetto pone a disposizione dell'ente

una propria attività lavorativa dietro retribuzione.

Tale rapporto, che in presenza di determinati requisiti è un

rapporto di pubblico impiego, non è che uno dei rapporti di ser

vizio sulla base del quale può instaurarsi il rapporto organico; e le vicende relative alle posizioni soggettive di diritto-obbligo inerenti al rapporto di servizio o d'impiego sono indifferenti ri

spetto al rapporto organico. La incompatibilità è un requisito particolare del rapporto di

servizio (che si differenzia dai requisiti generali quali, ad esem

pio, la cittadinanza, l'età, il godimento dei diritti politici, l'ido

neità fisica, il sesso) e si distingue in inidoneità per incompatibilità, e in incompatibilità di mansioni.

La prima — il cui esempio principale è costituito dalla ineleggi bilità — rende invalida l'assegnazione all'organo, ufficio e servi

zio, e importa decadenza dallo stesso; l'altra, invece, si risolve

in un divieto di cumulo di funzioni o di mansioni, e non compor ta inidoneità, ma soltanto che colui il quale si trovi investito in

più posizioni di servizio incompatibili sia tenuto a optare per una

di esse, o, in caso di mancata opzione, deve essere dichiarato

decaduto da una di esse.

Una figura ancora più attenuata di incompatibilità è quella con

sistente nella inammissibilità di appartenenza al medesimo orga no di persone legate da particolari rapporti (es., art. 62 c.p.p.).

Le disposizioni relative alla incompatibilità, in quanto limitati

ve di diritti, sono sempre di stretta interpretazione. In ogni caso la presenza di una causa di incompatibilità incide

unicamente sul rapporto di servizio, e quindi non può svolgere alcuna influenza sul rapporto organico, e conseguentemente sulla

validità degli atti posti in essere dal soggetto nello svolgimento delle funzioni o mansioni conferitegli in virtù del rapporto or

ganico.

Cosi, per gli impiegati pubblici in genere, vige il divieto di eser citare il commercio, l'industria o professioni, o di assumere im

pieghi alle dipendenze di privati (art. 60 d.p.r. 10 gennaio 1957

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

n. 3, t.u. delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato); e, ove ad esso contravvenga, l'impiegato viene

diffidato, e, a parte l'eventuale azione disciplinare, la disobbe

dienza alla diffida comporta la decadenza dall'impiego (art. 63).

Analoga disposizione è posta per i magistrati dall'art. 16 dell'or

dinamento giudiziario (divieto di assumere pubblici o privati im

pieghi od uffici, e di esercitare industrie o commerci o qualsiasi libera professione), e la sua inosservanza è sanzionata, pur sem

pre sul piano del rapporto di servizio, dall'art. 2 r.d.l. 31 marzo

1946 n. 511, sulle guarentigie della magistratura, a norma del

cui 2° comma, in deroga alla inamovibilità sancita dal 1°, i magi strati possono anche senza il loro consenso essere trasferiti ad

altra sede o ad altre funzioni con deliberazione (art. 55 d.p.r. 16 settembre 1958 n. 916) del Consiglio superiore della magistra

tura, quando si trovino in uno dei casi di incompatibilità previsti

dagli art. 16, 18 e 19 dell'ordinamento giudiziario. A causa dei due diversi piani su cui si muovono il rapporto

organico e quello di servizio nessuna incidenza, dunque, si verifi

ca sulla validità degli atti posti in essere dal magistrato in situa

zione di incompatibilità. E identica soluzione viene adottata per quei diversi casi di in

compatibilità costituiti dalle situazioni di astensione o ricusazione

previsti dai due codici di rito, ed espressamente qualificati, ap

punto, come di incompatibilità da quello penale (art. 61, 64):

situazioni, peraltro, identiche a quelle previste, pur in mancanza

di analoga qualificazione, del codice di rito civile agli art. 51 e 52.

In relazione ad essi la nullità è stata ripetutamente esclusa dalla

giurisprudenza di questa corte (Cass. pen. 29 maggio - 2 agosto

1968, n. 561, secondo cui l'esistenza di motivi di incompatibilità o di ricusazione non determina nullità alcuna ex art. 185 c.p.p.

poiché l'esistenza di motivi di incompatibilità o di ricusazione

non incide sulla capacità generica del giudice, che sia stato rego larmente investito della funzione giurisprudenziale in conformità

alle leggi di ordinamento giudiziario, ma riguarda soltanto una

condizione di esercizio del potere di giuridicare; Cass. 9 luglio

1983, n. 4642, id., Rep. 1983, voce Astensione, ricusazione e re

sponsabilità del giudice, n. 16; 25 maggio 1981, n. 3431, id., Rep.

1981, voce cit., n. 17; 9 gennaio 1981, n. 200, ibid., n. 19, secon

do cui la violazione dell'obbligo di astensione non comporta nul

lità della sentenza, unico rimedio consentito alle parti essendo

quello della ricusazione o, alla pubblica amministrazione, nel ca

so delle incompatibilità previste dall'ordinamento giudiziario, quel lo del trasferimento d'ufficio, o, se del caso, del procedimento

disciplinare). E a maggior ragione la nullità va quindi esclusa per l'incompa

tibilità prevista, come si è detto, sul piano del rapporto d'impie

go, dall'ordinamento giudiziario. Del tutto improponibile, poi, è la prospettazione, nel caso di incompatibilità, di inesistenza del

la sentenza, perché questa può darsi solo quando essa manchi

di quel minimo di elementi o di presupposti che sono necessari

per produrre quell'effetto di certezza giuridica che è lo scopo del

giudicato (Cass. 3 agosto 1984, n. 4646, id., Rep. 1985, voce

Sentenza civile, n. 31); ovvero quando sia pronunciata da parte di organo privo di qualsiasi potere giurisdizionale (Cass. 19 aprile

1983, n. 2713, id., Rep. 1983, voce cit., n. 63).

Dunque, la non configurabilità di alcuna forma di invalidità

della sentenza nel caso di incompatibilità esime dall'indagare se

la dedotta incompatibilità sussista: è solo appena il caso di rileva

re che, cosi come la impugnata sentenza con accuratissima ed

attenta motivazione ha escluso ogni nullità o inesistenza, con non

minore approfondimento ha escluso la ravvisabilità dell'incom

patibilità, per tutte le ineccepibili ragioni riassunte in normativa,

affatto scalfite dal pur generoso sforzo difensivo. Cosicché anche

sul punto la sentenza merita conferma. (Omissis)

Il Foro Italiano — 1989.

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 13 gen naio 1989, n. Ill; Pres. Montanari Visco, Est. Meriggiola, P.M. Di Renzo (conci, diff.); Lo Mastro ed altri (Avv. D'In

zhxo, Fiammini Minuto) c. Soc. Sip (Avv. G. Guarino, Pal

ladino). Regolamento di giurisdizione.

Telefono — Contratto di abbonamento — Introduzione della ta

riffazione a tempo per le telefonate urbane — Contestazione — Azione di accertamento negativo della pretesa degli utenti — Giurisdizione ordinaria (Cod. proc. civ., art. 41; 1. 20 mar

zo 1865 n. 2248, ali. E, sul contenzioso amministrativo, art.

2; d.p.r. 29 marzo 1973 n. 156, approvazione del testo unico

delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e delle telecomunicazioni, art. 304, 305; d.p.r. 30 aprile 1982

n. 189, norme in materia di tariffe telefoniche, art. 25).

Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda con

cui la Sip chiede di procedere ad un accertamento negativo del

la pretesa degli utenti di non corrispondere le maggiori somme

da essa richieste a seguito dell'introduzione, in alcuni centri

urbani, della tariffazione a tempo, qualora le contestazioni in

vestano in modo diretto e primario la posizione contrattuale

dell'utente nei confronti della società concessionaria. (1)

(1) La tariffazione a tempo per le telefonate urbane è stata introdotta

per la prima volta con l'art. 25 d.p.r. 30 aprile 1982 n. 189, avverso il quale insorsero le associazioni degli utenti, provocando la pronuncia delle sezioni unite in epigrafe. Il d.p.r. 189/82 prevedeva il conteggio di uno scatto per ogni sei minuti di conversazione nelle ore in cui alle

telefonate interurbane va applicata la tariffa ordinaria e quella delle ore di punta e per tutte le chiamate in partenza, a qualsiasi ora, da posti telefonici pubblici; di venti minuti per le conversazioni nelle ore di appli cazione della tariffa ridotta serale, notturna e festiva, limitatamente alle

reti urbane con oltre un milione di abbonati. L'art. 25 d.p.r. 25 luglio 1984 n. 376, ha, poi, esteso tali modalità di tariffazione anche alle reti urbane con oltre trecentomila abitanti, prolungando a nove minuti la du rata dello 'scatto' per le comunicazioni in partenza da telefoni a disposi zione del pubblico.

Costituisce principio ormai pacificamente consolidato in giurispruden za quello secondo cui rientra nella cognizione del giudice amministrativo

la controversia nella quale si faccia questione della legittimità degli atti

con i quali l'autorità governativa abbia fissato le tariffe del servizio tele fonico (cfr. Cass. 20 luglio 1983, n. 4995, Foro it., 1983, I, 2114; n.

4994, id., Rep. 1983, voce Telefono, n. 7; n. 4993, ibid., n. 6; n. 4992, id., Rep. 1984, voce cit., n. 8, e in Giust. civ., 1984, I, 202, annotata da Morelli, In tema di tutela degli utenti (e dei relativi comitati di dife sa?) avverso provvedimenti determinativi di tariffe del servizio telefonico, v. anche Iannotta, Le giurisdizioni del giudice amministrativo, Milano,

1982, 205 s.); e la relativa decisione ha efficacia erga omnes (cosi espres samente Cons. Stato, sez. V, 13 febbraio 1981, n. 40, Foro it., 1981,

III, 209); mentre l'autorità giudiziaria ordinaria può essere investita della controversia solo quando quest'ultima abbia ad oggetto le posizioni sog

gettive derivanti dal contratto di utenza, come, ad es., quando sia richie sto l'adempimento di prestazioni contrattuali o sia fatto valere il loro

inadempimento nei confronti della controparte (Cass. 4992/83, in moti

vazione). Spetta, pertanto, al giudice ordinario conoscere della controver sia in cui l'utente del servizio telefonico, negando la legittimità del

provvedimento amministrativo che ha disposto aumenti tariffari, ne invo

chi la disapplicazione e contesti la facoltà della concessionaria di sospen dere il servizio disattivando l'impianto, assumendo di non essere

inadempiente per il fatto di non aver corrisposto le somme richieste in

applicazione di tali provvedimenti (v. Cass. 29 novembre 1978, n. 5620,

id., 1978, I, 2707, e le conformi, tutte in pari data dal n. 5613 al n.

5635, id., Rep. 1978, voce cit., nn. 10-31; 17 settembre 1977, n. 3992, id., 1977, I, 2393; 17 settembre 1977, n. 3991, id., Rep. 1977, voce cit., n. 12, e in Giust. civ., 1977, I, 1839, commentata da De Fina, Utenza

telefonica e questioni di giurisdizione). Il provvedimento che fissa le nuo

ve tariffe può essere disapplicato solo se la sua illegittimità derivi dall'a

vere la pubblica amministrazione agito senza potere, o al di fuori del

suo potere, o in carenza dei presupposti del potere stesso (Cass. 5620/78). Tale potere, in buona sostanza, può essere esercitato in presenza dei tra

dizionali vizi di legittimità dell'atto amministrativo; incompetenza, viola

zione di legge, eccesso di potere, anche se si discute sui profili dell'eccesso

di potere sindacabili dal giudice ordinario (cfr. Virga, Diritto ammini

strativo, 2. Atti e ricorsi, Milano, 1987, 240; F. Satta, Principi di giusti

zia amministrativa, Padova, 1978, 59 ss.). Chi ha tentanto una diversa

impostazione ha concluso che l'atto amministrativo può essere disappli cato dal giudice ordinario quando risulti contrario alle c.d. norme di rela

zione, cioè di esistenza dei poteri della pubblica amministrazione (A.

Romano, La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice civile, in Dir. proc. ammin., 1983, 20).

Il potere di disapplicazione riconosciuto al giudice civile può apparire

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