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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sezione lavoro; sentenza 18 maggio 1989, n....

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sezione lavoro; sentenza 18 maggio 1989, n. 2383; Pres. Chiavelli, Est. Micali, P.M. Tridico (concl. conf.); Azienda municipalizzata trasporti di Genova (Avv. Barbantini, Medina) c. Piana (Avv. D'Aloisio, Bastreri). Conferma Conc. Genova 28 maggio 1985 Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE (1989), pp. 2455/2456-2463/2464 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23184142 . Accessed: 28/06/2014 08:21 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.31.194.107 on Sat, 28 Jun 2014 08:21:51 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione lavoro; sentenza 18 maggio 1989, n. 2383; Pres. Chiavelli, Est. Micali, P.M. Tridico(concl. conf.); Azienda municipalizzata trasporti di Genova (Avv. Barbantini, Medina) c. Piana(Avv. D'Aloisio, Bastreri). Conferma Conc. Genova 28 maggio 1985Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1989), pp. 2455/2456-2463/2464Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23184142 .

Accessed: 28/06/2014 08:21

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2455 PARTE PRIMA 2456

specificamente per l'assunzione del dipendente un atto formale di nomina, la mancanza di questo potrà determinare l'illegittimi tà dell'assunzione, ma non potrà condurre all'esecuzione del rap

porto, pur se invalidamente sorto, dallo schema del rapporto di pubblico impiego (rileverà, perciò, ai fini della decisione del merito, ma non riguardo al punto della giurisdizione).

Concernendo la controversia in esame un rapporto di pubbli co impiego, la cognizione su di essa appartiene, in base agli art. 29, 1° comma, r.d. n. 1054 del 1924 e 7, 2° comma, 1.

n. 1034 del 1971 alla giurisdizione esclusiva del giudice ammini

strativo. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 18 maggio 1989, n. 2383; Pres. Chiavelli, Est. Micali, P.M. Tridico

(conci, conf.); Azienda municipalizzata trasporti di Genova (Aw. Barbantini, Medina) c. Piana (Avv. D'Aloisio, Bastreri).

Conferma Corte. Genova 28 maggio 1985.

Procedimento davanti al pretore e al conciliatore — Conciliatore — Giudizio di equità — Fattispecie (Cod. proc. civ., art. 113,

114).

Il giudice conciliatore, nel decidere sempre secondo equità, osser vati i principi regolatori della materia, deve valutare gli effetti che deriverebbero da una pronuncia secondo stretto diritto e

compararli, se del caso sostituendoli, con quelli che, secondo criteri motivabili, e comunque oggettivamente desumibili dal

l'ordinamento, anche inteso in senso lato, sembrino risolvere il caso di specie secondo giustizia (nella specie, il giudice conci liatore — con decisione confermata dalla Suprema corte — aveva

condannato l'azienda ricorrente a restituire al lavoratore dipen dente quanto recuperato, per mezzo di ritenute sullo stipendio, a fronte di contributi per spese sanitarie erogati, in misura pa lesemente eccessiva, dalla cassa di mutuo soccorso aziendale

gestita a titolo di mandato oneroso dagli stessi dipendenti; e ciò in considerazione del fatto che l'applicazione delle norme in materia di errore di cui all'art. 1428 c.c. — cui si sarebbe

giunti con una pronuncia secondo diritto —- avrebbe comporta to una decisione ingiusta alla luce dei principi in materia di eccessiva onerosità, tenendo conto del c.d. favor lavoratoris, della natura alimentare dei contributi erogati, e comunque del

l'oggettiva disparità di posizioni economiche delle parti in

causa). (1)

Svolgimento del processo. — Il giudice conciliatore di Genova, con sentenza in data 28 luglio 1985, condannava l'Azienda muni

cipale di Genova (Amt) a pagare al dipendente Angelo Piana la somma di lire 789.000 per spese sanitarie da lui sostenute e non rimborsabili dal servizio sanitario nazionale, sui rilievi seguenti: 1) che, a seguito della soppressione della cassa di soccorso azien

dale, determinata dall'entrata in vigore del servizio sanitario sud

detto, era rimasto in vita un fondo speciale alimentato soltanto dai contributi dei dipendenti, ed amministrato dall'Amt col per sonale già addetto alla gestione della cassa disciolta; 2) che tali

dipendenti avevano elargito all'attore una somma certamente esor bitante in proporzione al patrimonio amministrativo, perché ave vano applicato un tariffario regionale nuovo rispetto al vecchio

(1) La massima è sostanzialmente conforme, nella sua portata pratica, a Pret. Bologna 22 agosto 1987, Foro it., 1988, I, 975, con nota redazio nale di V. Farnararo; ibid., trovasi anche l'ampio studio di Varano, Note in tema di giudizio di equità, cui si rinvia.

Si noti che la sentenza del Pretore di Bologna interveniva soprattutto sul punto specifico del giudizio di equità, mentre nella motivazione della decisione in rassegna si percepisce anche lo sforzo di definire il significato ontologico di equità; si tratta di argomentazioni più storico-filosofiche che giuridiche. Si può ricordare come il Pretore di Bologna ha, allo sco po, preferito attingere, invece, ai principi costituzionali, conformandosi in ciò all'opinione prevalente della dottrina (per la quale, anche specifica mente sul giudizio dinanzi al conciliatore, v. Varano, cit.). [V. Farnararo]

Il Foro Italiano — 1989.

regolamento della cassa di soccorso; 3) che tale somma, però, era stata recuperata a torto dall'Amt mediante ritenuta sulle re

tribuzioni dell'attore, perché i dipendenti che l'avevano elargito,

quali mandatari a titolo oneroso dell'azienda datrice di lavoro, erano incorsi, per loro colpa, in un errore inescusabile; 4) che

la controversia dovendo esser riguardata, in diritto, sotto l'aspet to della negotiorum gestio, cosi come sostenuto dall'azienda con

venuta, postulava l'applicazione delle regole stabilite per il contratto

di mandato a titolo oneroso, secondo il combinato disposto degli art. 2030 e 1710 c.c.; 5) che, pertanto, ne conseguiva che la con

dotta gravemente negligente dell'Amt che, attraverso i suoi di

pendenti, non aveva saputo ben calcolare tra patrimonio amministrativo e soddisfazione proporzionale ed adeguata delle

singole richieste, doveva ricadere su di essa, dal momento che

il credito dell'attore doveva esser ritenuto di carattere sostanzial

mente alimentare.

Da qui il ricorso dell'Amt ed il controricorso del Piana.

Motivi della decisione. — L'azienda ricorrente, col primo mo

tivo di cassazione proposto, deducendo violazione e falsa appli cazione dell'art. 100 c.p.c., ha sostenuto che il giudice a quo aveva

errato nell'aver ritenuto la sua legittimazione passiva al giudizio, dal momento che il fondo era costituito .esclusivamente dai con tributi dei suoi dipendenti che lo amministravano tramite loro

delegati. La doglianza è inammissibile.

L'Amt ha ammesso, nel giudizio di merito, di essere l'ammini

stratrice del fondo, onde, essendo stata colei qui liti se obtulit, non può oggi, pena l'inammissibilità della censura proposta, so

stenere una circostanza diversa, che comporterebbe nuove indagi ni di fatto, precluse, come tali, nel giudizio di legittimità.

Tale doglianza pertanto, essendo inammissibile, dev'essere ri

gettata. L'azienda ricorrente, infine, deducendo violazione e falsa ap

plicazione dell'art. 3 1. 30 luglio 1984 n. 399, in relazione agli art. 2028 e 1710 c.c., oltre che motivazione insufficiente e con

traddittoria circa un punto decisivo della controversia, in relazio

ne all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., ha sostenuto che il giudice conciliatore aveva errato, sia in punto di fatto, avendo ritenuto

oneroso il contratto di mandato intercorso tra essa ed i suoi di

pendenti amministratori del fondo, sia in punto di diritto, sotto un doppio profilo: 1) perché aveva ritenuto che la colpa dei di

pendenti, suoi mandatari, doveva esser valutata con maggior ri

gore, sul rilievo che trattavasi di contratto di mandato a titolo

oneroso, come già detto, assunto dai primi nei suoi confronti:

2) perché aveva ritenuto, infine, che il credito dell'attore doveva

essere considerato di natura alimentare, onde esso doveva essere considerato irripetibile.

La doglianza è infondata. L'affermazione fatta dal giudice con

ciliatore circa l'onerosità del mandato dei dipendenti dell'Amt

quali amministratori del fondo, nei confronti dell'azienda quale mandante, dev'esser ritenuta, innanzi tutto, immune da vizio lo

gico, con riguardo alla congruità ed alla sufficienza della motiva

zione, sul rilievo che i dipendenti suddetti percepivano una

retribuzione per svolgere le mansioni suddette.

In secondo luogo dev'esser ritenuta incensurabile la ratio deci dendi seguita dal giudice a quo, avendo egli giudicato conforme mente al precetto di cui all'art. 113, 2° comma, c.p.c., che dispone che: «il conciliatore decide secondo equità osservando i principi regolatori della materia».

Per quanto concerne, anzi tutto, il canone equitativo, il conci

liatore ha tenuto conto dei criteri in cui esso consiste (e già espo sti da questa corte nella sentenza n. 2056 del 22 marzo 1986, Foro it., Rep. 1987, voce Lavoro (rapporto), n. 2527) avendolo

fatto risiedere in una relazione di giustizia che ha come termini di riferimento l'alterità, cioè la comparazione delle parti contraenti,

quali portatori, ciascuna, d'interessi specifici; la distributività, che

proporzionalizza i diritti in relazione ai soggetti, e la commutati

vità, che pone in relazione oggettiva il danno ed il guadagno, il vantaggio e lo svantaggio contrattuale.

Il collegio ritiene, anzi tutto, di esaminare la doglianza concer

nente il mancato rispetto delle norme di legge denunziate, che

avrebbero dovuto dar luogo, secondo la tesi esposta dall'Amt, ad una decisione secundum ius.

Deve premettersi subito che la censura, sotto tale aspetto, è errata.

Il giudice conciliatore, secondo la norma già citata, non è chia

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

mato a decidere secondo diritto, come dispone, per contro, il

I ° comma dello stesso articolo per gli altri organi giudicanti, bensì'

deve giudicare secondo criteri equitativi, che devono trovare in

scrizione nei principi giuridici stabiliti di volta in volta dal legis latore.

La locuzione «principi regolatori della materia» lascia intende

re infatti, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tal giudice,

pur non potendo sovvertire, o non tenere in conto, i fondamenti

dei singoli istituti giuridici, perché dotati di un loro principio in trinseco di giustizia, potenziata, addirittura, dall'organicità e dal

la sistematicità stessa della materia, permeata a sua volta da

altrettanto spirito equitativo, ha un suo grado di equità ulteriore

da esercitare, ed a cui modellare i principi di diritto applicabili, in vista della soluzione, il più possibile personalizzata, del caso

concreto.

Tale ulteriore favor iuris edicendi, pone il conciliatore al più alto grado possibile di equilibrio tra il rigore e l'inflessibilità in trinseca della legge ed il suo carattere di ideale di giustizia da

realizzare.

Di tale ratio legis ne danno conferma i lavori preparatori, se

condo lo svolgimento e lo sviluppo che al concetto di equità ven

ne dato in base ad una sua progressiva elaborazione e

razionalizzazione.

Il relatore nominato in seno alla commissione giustizia del se

nato al fine di elaborare un testo unificato che tenesse conto delle

tre proposte di legge iniziali (9a legislatura — disegni di legge e relazioni — documenti n. 156, 252 e 255), pur avendo fatto

presente che il comitato ristretto che era stato nominato all'uopo aveva già elaborato la norma nel testo che oggi si legge nel 2°

comma dell'art. 113 c.p.c.. pose in evidenza, nella seduta della

commissione suddetta in sede referente del 14 marzo 1984, che

la locuzione «osservando i principi regolatori della materia», con

riferimento al giudizio di conciliazione, avrebbe dovuto essere «ul

teriormente approfondita, data la delicatezza evidente della mate

ria del giudizio di equità». L'acquisizione compiuta dei termini di tale tematica, ed il con

cetto stesso di giudizio di equità nei limiti già stabiliti per l'enun

ciazione della norma, ebbe luogo al senato nella seduta pubblica del 24 maggio 1984 in cui venne approvata la legge nel suo com

plesso, che, a sua volta, era già stata discussa ed approvata nei

suoi singoli articoli dalla commissione giustizia suddetta in sede

redigente. Esso fu illustrato dal relatore nei termini seguenti: 1) «siccome

l'espressione equità è certamente gratificante, ma evoca troppi

concetti e può avere molti significati, è opinione della commissio

ne che questo testo debba interpretarsi nel senso che il giudice

conciliatore deve rispettare i principi del diritto e della legge scrit

ta; egli non può, cioè, dare della controversia al suo esame una

soluzione contrastante con l'imperativo della legge»; 2) «equità,

in questo testo, significa, anzi tutto, equità processuale nel senso

che il giudice deve decidere in maniera meno formalistica, senza

essere tenuto al rispetto formale e di tutti i procedimenti legali

per la formazione del suo convincimento»; 3) «egli, inoltre, deve

raggiungere la giusta soluzione confrontando la sostanza dell'im

perativo della legge, anche al di fuori di tutti quei passaggi che

scandiscono il procedimento di efficacia della fattispecie legale,

senza, però, lo ripeto, poter collegare al fatto giudicato effetti

diversi né, ancor meno, contrari a quelli legali». Il legislatore, pertanto, ha voluto che il giudizio di equità con

sistesse in una sublimazione del giudizio formulato secundum ius,

perché lo ha voluto integrato coi principi stessi dalla ragion natu

rale e dello spirito di giustizia che, quale regola morale suprema

(«la giustizia è signora e regina di tutte le virtù», Cicerone, De

officiis, lib. 3° cap. 4°) anima la coscienza dell'uomo e lo rende

simia dei. Il giudizio di equità, pertanto, commesso al giudice conciliato

re è molto più difficile a rendersi di quello da pronunziarsi secon

do diritto, perché esso, pur non potendo prescindere dalla lettera

della legge, ne presuppone, necessariamente, anche la conoscenza

della ratio, e cioè la ragione stessa del dictamen practicum che

le leggi di volta in volta perseguono, quale ragion pura di cono

scenza di esse, considerate sotto l'aspetto universalistico di cate

gorie astratte e razionali, nonché particolaristico, di ontologie

impositive, oltre che come principio morale insito nell'animo del

l'uomo per legge di natura.

Tale modo di concepire il giudizio di equità ha indotto il legis

latore stesso a non consentire un processo di appello intorno ad

II Foro Italiano — 1989.

esso, negando l'esperimento dei mezzi ordinari d'impugnazione ed ammettendo soltanto il ricorso per cassazione che, quale stru

mento processuale ordinato in via principale al controllo delle

giurisdizioni di merito circa la corretta applicazione delle leggi, consente il riscontro logico-giuridico dei parametri di equità adot

tati di volta in volta da quel giudice in decisioni personalizzate al massimo, come espressione stessa della relazione di giustizia da lui applicata al caso concreto (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.).

Il relatore della legge, al senato, fu, sul punto, inequivocabile: «il secondo punto da sottolineare è quello che stabilisce che le

sentenze del conciliatore sono ricorribili in Cassazione; questo ri

sultato si è raggiunto dopo lunghi ripensamenti ed un dibattito

assai articolato; si è ritenuto che per questo tipo di sentenze sia

opportuno non incentivare gli appelli, ed ammettere soltanto il

ricorso per cassazione, che si avrà, prevedibilmente, quando la

parte avrà ritenuto di aver subito un'ingiustizia particolare».

Questo è il motivo per cui la revisio prioris instantiae del giudi zio di equità non può aver luogo presso altro giudice di merito,

ma soltanto in sede di giudizio di legittimità, che è quello che

consente la verifica dei parametri stessi del concetto di giustizia sotto il profilo della violazione, e che è l'espressione massima

del concetto di giustizia realizzata in un ordinamento giuridico

posto da uno Stato di diritto.

Il concetto di equità, pertanto, nel sistema voluto dal legislato

re, non ha carattere ex se, di norma giuridica; non si tratta, nel

sistema del codice di procedura civile, del potere del giudice di

far ricorso all'equità normativa, qual era quella accordata, in an

tico, ai praetores, e, in un passato più recente, dal codice civile

al giudice del lavoro, che poteva creare diritto per i casi in tutto

od in parte non disciplinati con disposizioni apposite. Tale forma di equità è scomparsa del tutto dal codice civile

a seguito dell'abolizione della norma di cui all'art. 423 , 2° com

ma, c.c., cagionata dalla soppressione dell'ordinamento corpora

tivo, perché essa facultava quel giudice a «disporre nuove

condizioni di lavoro» in deroga ai contratti corporativi, che ave

vano valore di legge in senso formale e sostanziale, ex art. 4,

n. 1, preleggi, onde quelle decisioni erano sin da allora ricorribili

in Cassazione, ex art. 360, n. 3, c.p.c. cosi come disposto dagli

art. 423 e 471 c.c.

L'equità voluta dal legislatore, pertanto, è oggi di carattere in

tegrativo dell'ordinamento giuridico vigente e, quindi, come già

detto, molto più complessa ad attuarsi, e molto più difficile, a

realizzarsi, nella sua concezione unitaria e totalizzante (entelecheica)

che l'ethos del giudice deve esprimere nell'archetipo stesso del

sillogismo giuridico che gli è stato istituzionalmente demandato,

in cui la domanda di giustizia è la premessa maggiore, la negazio

ne di essa la premesa minore, ed il giudizio di equità il terzo

medio, nella sua scomposizione, a sua volta, di applicazione legis

lativa e di tutela proporzionalizzata dei diritti e degli interessi

dei litiganti riguardati come persone singole. Il legislatore, quindi, ha fatto rivivere il giudizio di equità inte

grativa, quale consilium sapientis iudiciale, com'esso era stato con

cepito nel periodo intermedio dalla scuola giusnaturalista, ed è

stato secondato in ciò dall'ispirazione stessa della nostra Carta

costituzionale, che dedica ai «rapporti etico-sociali» un titolo ap

posito: 1) «l'equità è la volontà del magistrato ordinata, con le

regole della prudenza, a correggere il rigor della legge in un giu

dizio civile a seconda delle circostanze particolari»; 2) «si deve

convenire come il nome di equità può servire facilmente di prete

sto all'arbitrario, e la facilità di passare dall'equità all'arbitrario

è una grande ragione per sottomettere il giudice al testo preciso

della legge»; 3) «non deve, dunque, esser permesso al giudice

in verun caso di dare un giudizio che sia contrario al vero signifi

cato delle parole della legge, perché il corpo delle leggi racchiude

un sistema di equità generale e concatenato: ogni materia ha prin

cipi fondamentali, i quali, come i raggi di una circonferenza, coin

cidono al centro medesimo; per la qual cosa il giudice, in questo

sistema ed in questi principi, e non già nella sua immaginazione

debba attingere le ragioni che lo determinano a pronunziare, ed

a questo centro, appunto, egli debba dirigere il testo della legge»;

3) «l'equità permessa nei giudizi è assai meno estesa di quella

permessa negli arbitramenti: in questi le parti rinunziano, per co

si dire, alle leggi scritte, per rimettersi all'equità naturale che sup

pongono nella mente e nel cuore di coloro che nominano per

arbitri, conciosiacosachè essere lecito ai medesimi darsi carico di

diverse circostanze che il legislatore non ha potuto né voluto pre

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2459 PARTE PRIMA 2460

vedere, perché essi non hanno altra regola che la giustizia»; 4)

«l'opinione in favore del giudizio di equità predomina nel mon

do, ma questa opinione potrebbe forse generare l'idea che il giu dice non avesse tanto bisogno di studiare le leggi; ma, se si pone

attenzione a quanto abbiamo detto, si avrà motivo di convincersi

essere assai più necessaria la sapienza e la riflessione per giudica

re secondo equità, che col testo della legge» (Foramitx: enciclo

pedia legale, alla voce: equità). Equità quindi, secondo, l'intenzione

del legislatore, non significa giudizio apodittico, non conoscibile

nei suoi postulati logici e razionali, bensì espressione composita di legge e di giustizia, quali criteri, rispettivamente, generali e

particolari, assoluti e relativi, per la definizione ottimale del suum

cuique tribuere.

Il giudizio di equità, in tal modo, si palesa come la sintesi della

letteralità della legge, della sua ratio ordinamentale (interpreta

zione) e del dovere essere giuridico, inteso come espressione asso

luta del sentimento di giustizia, che vive nel cuore degli uomini

come espressione della loro legge naturale, secondo la nostra tra

dizione giuridica: «la ragione stessa delle leggi o la benigna equi tà non tollerano che quanto è stato stabilito dal legislatore per l'utilità degli uomini, si rivolga severamente in loro pregiudizio a causa di un'interpretazione più dura» (Modestino, D.I. 3,25).

Or non v'è dubbio, tornando più da presso al caso in esame,

che il giudice conciliatore ha fatto buon governo dei principi di

diritto applicati con riguardo agli istituti della negotiorum gestio e del mandato, avendo definito utile gestione l'amministrazione

del fondo da parte dell'Amt, che non concorreva più ad alimen

tare quel patrimonio coi suoi contributi, ma dispensava come sus

sidi soltanto le somme costituite dai versamenti dei suoi dipendenti, ed avendo qualificato egli come contratto di mandato a titolo

oneroso l'attività svolta dai dipendenti dell'Amt, deputati, come

loro mansione di lavoro, all'amministrazione del fondo suddetto.

Il giudice a quo, pertanto, si è mantenuto, anzi tutto, nei limiti

del giudizio secondo diritto, cosi come è stato riconosciuto espli citamente dalla stessa azienda ricorrente, ed ha ottemperato e per sonalizzato equitativamente tale giudizio, con debita

proporzionalizzazione ed applicazione del favor lavoratoris allor

quando ha ritenuto che la responsabilità dei mandatari a titolo

oneroso (dipendenti amministrativi) avrebbe dovuto esser valuta

ta con maggior rigore anche nei confronti dell'attore, socio mu

tualistico, che, per errore dei dipendenti suddetti, aveva ricevuto

una somma eccessiva, che non avrebbe potuto restituire sine in

commodo gravi, perché l'aveva speso in stato di bisogno, deter

minato da malattia e da correlativa indisponibilità finanziaria.

Di tale componente equitativa del giudizio, quanto a razionalità

ed a congruità, è sufficiente rilevare che il giudice a quo ha ben

conciliato la pronunzia secondo diritto e quella equitativa in una

sintesi di giustizia immune da vizi formali e sostanziali.

Egli, invero, ha operato una scelta tra il criterio legislativo e

quello di equità allorquando ha ritenuto di discostarsi dalla rego la di diritto in base alla quale l'errore commesso dagli impiegati

amministratori, per essere causa di annullamento del contratto, avrebbe dovuto essere essenziale e riconoscibile dall'altro contraen

te, ex art. 1428 c.c., allontanandosi, in tal modo, dalla disciplina dei vizi del consenso, e sostituendo questa col criterio della ecces

siva onerosità, per equità naturale, determinata da impossibilità

oggettiva dell'attore a restituire quanto speso in stato di bisogno

per cure mediche.

Tale potere di scelta tra più regole di diritto, in sede di giudizio di equità, è l'espressione più alta della sapienza giuridica, che

è già essa stessa una scelta tra più soluzioni da compiersi in base

al maggior metro di giustizia da realizzare, secondo la nostra tra

dizione giuridica con riguardo al concetto stesso di legge: «consi

deriamo, ora, il principio ed il fondamento del diritto: piacque,

dunque, agli uomini più dotti in tale disciplina partire dalla leg

ge, se è vero che la legge, secondo la loro stessa definizione, è

principio e norma suprema inerente alla natura, la quale ordina

ciò che si deve fare e proibisce il contrario.

«Questa norma stessa, quando è profondamente impressa e ra

dicata nella mente dell'uomo, ha valore di legge, e la legge, per

essi, è la sapienza, la cui forza consiste nell'ordinare di agire ret

tamente e nel vietare di fare il male.

«Ritengono, anzi, che essa, in base al suo nome greco, sia sta

ta cosi chiamata dall'accordare a ciascuno il suo; io, invece, se

condo l'etimologia latina, ritengo che essa provenga da: scegliere

{lex, da electio).

Il Foro Italiano — 1989.

«Come i greci, infatti, ripongono nella legge il significato di

equità, cosi noi vi riponiamo quello di scelta, ma entrambi i si

gnificati ben si adattano alla parola; se il ragionamento è esatto,

il diritto deve trarre origine dalla legge, che è il principio fonda

mentale della natura, mente e ragione del sapiente, norma del

giusto e dell'ingiusto» (Cicerone, De legibus, lib. 1° cap. 6).

Che questo, poi, sia il significato e lo scopo intrinseco del giu

dizio di equità se ne ha conferma dalla discussione svoltasi in

aula al senato nella seduta già citata del 24 maggio 1984, secondo

le considerazioni seguenti: 1) «un teorico del diritto ha scritto

che si chiamano giudizi di equità quelli in cui il giudice è autoriz zato a risolvere una controversia senza fare ricorso ad una norma

di legge prestabilita, onde il giudizio di equità non può esser defi

nito come l'autorizzazione del giudice a produrre diritto al di

fuori di ogni limite materiale imposto dalle norme superiori»;

2) «è vero, però, che per i più, l'equità è considerata piuttosto che potere di creare diritto, come potere di adattare il diritto già

esistente alle speciali esigenze del caso singolo nello spirito della

codificazione vigente, mentre, per altri, la decisione di equità de

ve ispirarsi a quei sentimenti di comprensione umana e di solida

rietà sociale su cui si affida la conciliazione»; 3) «il giudice,

pronunziando secondo equità, dovrebbe ricavare il criterio del

suo giudizio con maggiore libertà, adattandolo alle circostanze

particolari del caso da decidere in modo da formulare una regola

giuridica concreta che gli sembri più giusta per il singolo caso».

Il legislatore stesso, quindi, ha concepito il giudizio di concilia

zione come una decisione improntata, strumentalmente, a sapien

za, sotto l'aspetto logico-formale (de congruo), ed a giustizia, sotto l'aspetto alternativo e proporzionale {de condigno), onde

il giudice conciliatore, nell'adempimento della sua funzione, de

v'essere un filosofo del diritto nell'accezione più stretta del termi

ne: «coloro che aspirano alla sapienza si chiamano filosofi, e la

filosofia, se si vuol tradurre esattamente il vocabolo, altro non

è che amor di sapienza» (filos sofè, Cicerone, De officiis, lib.

2°, cap. 2°). Da qui l'errore di fondo commesso dall'azienda ricorrente, che

ha affrontato la censura proposta contro la sentenza impugnata soltanto sotto l'aspetto tecnico-giuridico e della logicità formale

ad esso ordinata, anziché nella visione più vasta, più pregnante e più vera, nel caso concreto, dalla congruità del giudizio espres so nella proporzionalizzazione degli opposti interessi, non avendo

essa considerato la giustizia «come la regina e la signora di tutte

le virtù» (Cicerone, op. cit.). Il giudice conciliatore, anche sotto l'aspetto già accennato, ha

pronunciato una decisione conforme ai criteri di giustizia suddet

ti, onde la sentenza impugnata, dev'essere ritenuta immune sia

da vizio logico che giuridico, ex art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. I criteri di equità, infatti, costituiscono, a loro volta, la pre

messa maggiore del sillogismo giuridico che si chiede al giudice di formulare (sia sotto l'aspetto logico-formale che sostanziale), le circostanze di fatto la premessa minore, e la sentenza di terzo

medio.

I criteri di equità, inoltre, sono sempre ostensibili in sentenza,

perché realizzano quel concetto particolare di giustizia del caso

singolo, da un lato, quale prospettiva del criterio più ampio e

più generale che esso assume all'interno di un ordinamento giuri dico e, dall'altro, come ideologia di un assetto statuale, quale il nostro, di diretta ispirazione giusnaturalista, come dimostra la

nostra Carta costituzionale nella prima formulazione che essa eb

be in ordine all'enunciazione dei diritti di civiltà ad opera della

prima sottocommissione dell'assemblea costituente nella seduta

del 1° ottobre 1946: «l'autonomia dell'uomo e le singole libertà

in cui essa si concreta sono garantite dalle norme seguenti, e de

vono essere esercitate per l'affermazione e per il perfezionamento della persona in armonia con le esigenze di bene comune e per il continuo incremento di esso nella solidarietà sociale», confor

memente all'insegnamento giusnaturalista fondato sul principio che «la legge naturale conserva ed assicura il bene comune» (Ci

cerone, De officiis, lib. 3°, cap. 6°). II concetto stesso di equità, peraltro, più volte richiamato an

che nel codice civile, presuppone l'esistenza di una legge non scritta, vivente nel cuore di ogni uomo, che le leggi positive integrano là ove essa non detta, o è bisognevole di regolamentazione parti colare nel tempo e nello spazio.

Anche tale affermazione trova conferma nella nostra tradizio

ne giuridica più significativa, che fa risalire la legge scritta a quella

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

naturale, e quest'ultima a principi divini: «i primi padri delle na

zioni gentili ch'erano giusti per la creduta pietà di osservare gli

auspici, che credevano divini i comandi di Giove, dal quale appo i latini era chiamato lous, ne fu anticamente detto ious il gius che poi, contratto, si disse jus, onde la giustizia, appo tutte le

nazioni s'insegna naturalmente con la pietà ...» (Giambattista

Vico, La scienza nuova, introduzione). In secondo luogo, l'obbligo della motivazione, che è l'espres

sione razionale stessa della sentenza, e di quella di equità, in par ticolare (e che non avrebbe senso in difetto di un potere di

controllo), è stato assunto, ormai, a regola di civiltà giuridica dall'art. Ill Cost., che l'impone per tutti i provvedimenti giuris

dizionali, onde anche i parametri di equità devono essere esposti nelle sentenze e razionalizzati come principi di diritto in senso

formale e sostanziale.

La norma costituzionale suddetta, pertanto, assolve, nel caso

specifico dei giudizi di equità, al compito di fugare dalle decisioni

giurisdizionali qualsiasi sospetto di arbitrio, obbligando i giudici a far si che le motivazioni che le sorreggono siano sempre com

prensibili e soddisfacenti, e sottrae, nello stesso tempo, se stessa

dall'accusa eventuale di essere — come è stato osservato — «un'af

fermazione di diritto concentrata nel vuoto» (Kelsen, La dottri

na del diritto). Nel caso in esame, i termini del giudizio di equità devono esse

re ricercati, anzi tutto, secondo i principi già esposti, nel concetto

stesso di giustizia, insito, come già detto, nella legge naturale,

e gradatamente, nei principi costituzionali, nello spirito informa

tore del contratto stipulato tra i dipendenti dell'Amt, relativa

mente ai criteri di mutuo soccorso, ed all'obbligo assunto

dall'azienda di amministrarlo attraverso suoi impiegati (quale legge

privata voluta dalle perti) nelle norme imperative del codice civi

le, quali «principi regolatori della materia» ex art. 113, 2° com

ma, c.c., e, infine, nella nostra stessa tradizione giuridica, che

è elemento comprimario d'ermeneutica legislativa, ex art. 12, 1°

comma, preleggi. Il concetto di giustizia, invero, costituisce il primum movens

di quello di equità, onde di esso dev'esserne fatta una specifica

zione preliminare, potendosi rispetto all'ordinamento giuridico po

sitivo, come principio di legalità, cioè come conformità alla legge,

quale criterio assoluto di giustizia formale, e, rispetto al caso sin

golo, come principio di eguaglianza, secondo i precetti della legge

naturale.

Esso, a sua volta, racchiude in sé due concetti minori: il pri

mo, di relazione, dal momento che ogni ordinamento si rivolge

ad una pluralità di soggetti, ed il secondo, di parità, come media

zione tra posizioni antinomiche o, comunque, divergenti (Aristo

tele, Etica a Nicomaco, V, 2, 1130 b: dikaion come nominon

e dikaion come ison e, quindi, la prima, pros eteron, e la seconda

katà mesos), per cui tale comprensione di più concetti in un uni

ca nozione di carattere universale (più precisamente, categoriale,

quale il nous, per l'appunto) ha fatto ben scrivere ai giusnatuali

sti che: iustintiam intelligere difficile est. Fatte tali premesse, deve rilevarsi che il contratto concluso tra

i dipendenti dell'Amt aveva natura e carattere di società di mu

tuo soccorso, e, quindi, era ispirato allo scopo di contribuire al

l'alleviamento delle spese che ciascun socio affronta, quale

lavoratore a reddito fisso, nel concorso contemporaneo di due

eventi sfavorevoli: la perdita della salute, ed il bisogno contem

poraneo di maggior denaro, determinato dalla necessità di curar

si e di provvedere alle spese ordinarie di mantenimento.

Tale contratto veniva amministrato, quale utile gestione, dalla

società datrice di lavoro, che ne sosteneva, come già detto, le

spese più rilevanti (la retribuzione dei dipendenti amministratori),

quale sua espressione realizzata di favor lavoratoris nella vita

aziendale.

Essa, avendo commesso attraverso gli amministratori materiali

un errore nel criterio di spesa da seguire, a causa dell'adozione

di un tariffario eccessivamente prodigo, aveva operato una trat

tenuta sullo stipendio dell'attore.

Fatte tali premesse, deve osservarsi che il giudice conciliatore

ha ben posto la prima relazione di giustizia con riguardo ai sog

getti mediante l'individuazione esatta del parametro alternativo,

perché ha posto in comparazione l'attore, da un lato, e l'Amt,

dall'altro, quale amministratrice del patrimonio societario.

Il requisito dell'alterità, infatti, comporta, anzi tutto, la co

1l Foro Italiano — 1989.

struzione di una relazione tra i soggetti sottoposti a giudizio, ne

cessitata dal postulato logico, assunto a priori, che quei soggetti devono essere almeno due, dal momento che «nessuno può com

mettere ingiustizia contro se stesso (Aristotele, op. cit., V, 10). La distinzione dei soggetti, pertanto, è il primo elemento di

formulazione del giudizio, perchè consente di considerare le parti in se stesse e nelle caratteristiche che sono loro proprie, e di ope

rarne, di conseguenza, ai tempi d'oggi, una prima distinzione in

persone fisiche ed in persone giuridiche. In tal modo si nota subito che là dove la fictio iuris della per

sona giuridica è uno dei soggetti del giudizio, anche se plurimo, come nel caso in esame, stando da una stessa parte l'Amt ed

il fondo che essa amministra, mentre dall'altra vi è una persona fisica (il socio mutualistico, nella specie), tali parti, seppure uguali dinanzi alla legge (giustizia formale), non lo saranno altrettanto

nelle loro relazioni, nei loro comportamenti e nei loro interessi, e ciò obbliga il giudice a porre la relazione di giustizia secondo

un criterio meritato di proporzionalità e di personalizzazione, che

è la forma più perfetta di giustizia come eguaglianza (concetto di equità).

Il conciliatore ha dato, sul punto, un esempio emblematico di

personalizzazione del giudizio di equità, perché ha riguardato, da un lato, l'Amt, quale ente suscettibile soltanto di esser leso,

quoad litem, in un'attività di amministrazione di entità economi

ca modestissima ed insuscettibile, per sua natura stessa, di essere

offesa in un diritto della personalità, quale quello di vivere e ben

vivere, cui aveva fatto riferimento, per contro, l'attore con la

sua pretesa di respingere la restituzione della somma richiestagli. Il giudice a quo, poi, ha riguardato la persona di quest'ultimo

nella sua dimensione sociale, umana ed economica del lavoratore

che vive del suo guadagno, e da cui deve trarre tutto quanto

gli è necessario per la difesa dei suoi diritti naturali afferenti alla

personalità, come quelli, in particolare, alla salute ed alla sussi

stenza giornaliera che in quel momento aveva minacciato.

Da un lato, quindi, un semplice interesse economico e, dall'al

tro, un pathos, un'istanza di vita e di superamento di necessità

e di contingenze, eliminabili da parte dell'attore soltanto attin

gendo, anche indirettamente, a tutte le risorse cui dava luogo la sua posizione di lavoratore, compreso il sussidio del tutto oc

casionale al quale aveva diritto a titolo di soccorso tra compagni

di lavoro.

L'aspetto retributivo della giustizia, a sua volta, è ordinato alla

ripartizione dei diritti intesi come norme giuridiche (anche nel

caso di equità integrativa, come quello in esame) e, quindi, come

regole di civiltà giuridica in cui ciascun cittadino si vede ricono

sciute posizioni di diritto adeguate ai suoi meriti o ai suoi biso

gni; elemento, quindi, che riafferma in sé il principio

dell'eguaglianza che verrebbe violato nel caso che venisse fatto

un trattamento eguale a meriti (morali od economici) diseguali.

Tale elemento proporzionalizza i diritti in relazione ai soggetti,

onde esso implica tutta una valutazione di possibilità, alternative,

incidenze e sbocchi che sarebbero altrimenti impensabili se la re

lazione di giustizia venisse riguardata soltanto sotto l'aspetto com

mutativo, e, cioè, economicistico.

Esso, in primo luogo, pone in evidenza la persona del lavora

tore tutelato da un contratto di mutua assistenza tra compagni

di lavoro e, quindi, da considerare nel suo aspetto più debole

di soggetto bisognoso di soccorso, da comparare alla disponibili

tà economica del fondo, secondo i criteri contabili stabiliti per

esso dalla società datrice di lavoro attraverso i dipendenti asse

gnati alla sua amministrazione, e nello stesso tempo, da correlare

alla responsabilità diretta dell'Amt quale utile gerente del patri

monio societario.

Il parametro retributivo, quindi, riguarda, da un lato, l'istanza

di soccorso per la tutela di un diritto della personalità e, dall'al

tro, la sopportabilità economica dell'erogazione disposta, affetta

da un errore di valutazione in eccesso, in vista di altri interventi

potenziali da fronteggiare, a paragone di quello attuale prospet

tato dall'attore.

Or il conciliatore ha ritenuto essere ragione poziore di equità

accordare tutela a quest'ultimo, rispetto all'esigenza economici

stica prospettata dall'Amt, e ciò per un motivo peculiare alla con

dizione di lavoratore subordinato che l'autore stesso rivestiva.

Ha ritenuto, anzi tutto, saggiamente, nell'ambito degli istituti

giuridici da applicare, di non ritenere l'errore commesso dall'Amt

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2463 PARTE PRIMA 2464

come un possibile vizio del consenso, quale causa di annullamen

to del contratto, bensì' da considerarsi, in via equitativa, e tenuto

conto del caso particolare, come causa efficiente di responsabilità dell'Amt avendolo inscritto nell'ambito del mandato a titolo one

roso concernente i dipendenti amministratori, che ha ritenuto chia

mati a rispondere, praeter legem, sempre in via equitativa, dell'errore commesso anche nei confronti dei terzi, qual era

l'attore.

Il conciliatore, in tal modo, non può esser censurato per essersi

allontanato dalla legge scritta, perchè ha ritenuto di dare preva

lenza, sotto l'aspetto retributivo, al principio del favor lavorato

ris, che, nel mondo del lavoro (considerato, questo, in tutti i suoi

aspetti, anche complementari od occasionali), è componente es

senziale di riequilibro di qualsiasi aspetto economico, relazionato

con la condizione minima di sussistenza vivibile, dal momento

che il lavoro è, per il prestatore d'opera subordinato, l'unica ri

sorsa di cui dispone per la soddisfazione di qualsiasi sua esigen

za, vitale o non.

Anche sotto tale aspetto dev'esser precisato che il favor lavora

toris, mentre secondo il diritto positivo trova radice nella consta

tazione che l'autonomia pattizia, nella materia del lavoro, contrariamente alla previsione libertaria e paritaria a cui muove

l'art. 1322 c.c., non è adeguata alla tutela del lavoratore, perché non è idonea a determinare in itinere un risultato equilibrato de

gli interessi opposti dei contraenti, come ha evidenziato questa corte con la sentenza n. 5977 del 29 novembre 1985 (Foro it.,

Rep. 1986, voce Lavoro (rapporto), n. 2099), nel giudizio di equità,

invece, essa trova giustificazione nella nostra tradizione giuridica,

prescindendo, ovviamente, dalla condizione schiavista che anima

va il mondo romano, onde il favor assunse, all'inizio, valore su

premo di difesa della libertà degli uomini: «dobbiamo ricordare

che anche verso le persone umili dev'essere osservata la giustizia; e più umile di ogni altra è la condizione e la sorte degli schiavi.

«Ottimo è il consiglio di quelli che raccomandano di valersi

di loro come di lavoratori mercenari; si esiga un buon lavoro, ma si dia la ricompensa dovuta» (Cicerone, De officiis, lib. I,

cap. 13°). La componente commutativa del concetto di giustizia, infine,

pone in relazione oggettiva il danno ed il guadagno, cioè le cose

e le azioni nel loro valore intrinseco, considerandole pari in ter

mini reali, onde tende a creare, sotto l'apetto materiale, un rap

porto di eguaglianza tra le parti che si trovano davanti al giudice, e da qui la sua funzione di mediazione tra il danno e la sua ripa

razione, con riferimento all'attribuzione concreta dei beni della

vita, quale, in tema di obbligazioni, l'attribuzione della res in

iudicium deducta; in materia extracontrattuale, il risarcimento del

danno patito; in campo giuslavoristico, la retribuzione dovuta; ancorché si tratti di beni immateriali, come quelli che afferiscono

alla tutela dei diritti della personalità, alle invenzioni ed ai bre

vetti, ovvero alla protezione degli status sociali.

Deve rilevarsi subito che il giudice conciliatore, anche sotto

tale aspetto, ha ben giudicato secondo equità, perché ha propor zionalizzato correttamente il diritto in contesa, riconducendo ad

eguaglianza, anche quantitativa, l'elargizione erroneamente dispo

sta, da un lato, e l'interesse a recuperarla, dall'altro.

Ha riguardato comparativamente, la natura sostanziale alimen

tare della somma richiesta, ex art. 32 Cost., e la congruità num

maria nella proiezione esclusiva di altre potenziali sovvenzioni, incerte ed inconoscibili, che l'Amt, avrebbe potuto erogare, qua le amministratice del fondo, ed ha espresso un giudizio comples sivo di prevalenza del primo diritto sulla seconda cautela.

Da quanto fin qui esposto consegue che il ricorso è infondato

e dev'essere rigettato.

li Foro Italiano — 1989.

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 15 mag gio 1989, n. 2329; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Vercel

lone, P.M. Di Renzo (conci, diff.); Consolato generale

britannico di Napoli (Avv. Porzio, Boce) c. Toglia (Aw. Fer

raro). Regolamento preventivo di giurisdizione.

Giurisdizione civile — Ufficio consolare straniero in Italia — Per

sonale dipendente — Differenze retributive per mansioni supe

riori — Controversia — Giurisdizione italiana (Cod. proc. civ.,

art. 4; 1. 7 marzo 1957 n. 298, ratifica ed esecuzione della con

venzione consolare fra l'Italia e la Gran Bretagna con gli an

nessi protocolli di firma e scambio di note, conclusi in Roma

il 1° giugno 1954: convenzione, art. 6, 13; 1. 9 agosto 1967

n. 804, ratifica ed esecuzione delle convenzioni diplomatiche e sulle relazioni consolari, e dei protocolli connessi, adottate

a Vienna, rispettivamente il 18 aprile 1961 e il 24 aprile 1963:

convenzione 18 aprile 1961, art. 43).

Sussiste la giurisdizione italiana e spetta al giudice ordinario la

cognizione della controversia promossa da dipendente di uffi cio consolare straniero in Italia al fine di conseguire esclusiva

mente differenze retributive connesse all'assunto esercizio di

mansioni superiori. (1)

II

PRETURA DI ROMA; sentenza 31 marzo 1989; Giud. Giuliani; Cecchi Paone ed altri (Avv. Tobia) c. Ambasciata della Repub blica socialista cecoslovacca (Avv. Michalickova).

Giurisdizione civile — Immobile sede di ambasciata di Stato este

ro — Installazione di centrale telegrafico-telefonica — Azione

reale — Giurisdizione italiana — Insussistenza (Cost., art. 10; cod. civ., art. 1171, 1172; cod. proc. civ., art. 5; 1. 9 agosto 1967 n. 804: convenzione 18 aprile 1961, art. 22, 31).

Il giudice italiano è carente di potestà giurisdizionale a conoscere

dell'azione reale proposta al fine di bloccare la installazione

di una centrale telegrafico-telefonica sul tetto dell'immobile se

de dell'ambasciata della Cecoslovacchia, ai sensi degli art. 22, 1° e 3° comma, 31, 1° comma, lett. a), della convenzione di

Vienna 18 aprile 1961, ratificata con l. 9 agosto 1967 n. 804. (2)

(1-2) Entrambe le sentenze assumono le proprie decisioni in base ad un coerente adattamento alle fattispecie concrete in esame di principi ge nerali comunemente enunciati dalla giurisprudenza; tuttavia, mentre Pret. Roma 31 marzo 1989 assume, in applicazione di quei principi, una deci sione in linea con la costante giurisprudenza in materia (per ogni riferi

mento, anche in relazione all'art. 31 della convenzione di Vienna 24 aprile 1963, v. la nota di richiami a Cass. 3 febbraio 1986, n. 666 e 17 gennaio 1986, n. 283, Foro it., 1986, I, 598), Cass. 2329/89 statuisce, invece, in termini contrastanti con le precedenti decisioni in materia di giurisdi zione per i rapporti di lavoro con sedi diplomatiche estere (v. Cass. 15

luglio 1987, n. 6172, id., 1988, I, 1134, con nota di richiami) e proprio con il consolato generale britannico di Napoli (Cass. 17 gennaio 1986, n. 283, cit.), ove il discrimine fra la giurisdizione italiana e quella stranie ra viene fondato non sull'oggetto della domanda (conseguimento di sole differenze retributive, come in Cass. 2329/89), ma sulla natura della pre stazione, cosi che solo per le attività «manuali e saltuarie» (Cass. 6172/87) si possa escludere l'immunità giurisdizionale di uno Stato estero, mentre la si debba affermare per tutte le attività di «carattere impiegatizio» (sempre Cass. 6172/87). La sent. 2329/89 sembrerebbe in termini con il più recen te orientamento della Cassazione sui rapporti di lavoro con l'Ordine di

Malta, ritenuti assoggettati alla giurisdizione italiana, ma, a ben vedere, Cass. 3 febbraio 1988, n. 1073 (ibid., 1134) motiva ancora sulla natura

(imprenditoriale-privatistica) dell'attività esercitata e Cass. 18 febbraio 1989, n. 960 (id., 1989, I, 677, con nota di C.M. Barone) sulla esistenza di una specifica convenzione dalla quale dedurre l'inserimento nell'ordina mento italiano dell'attività esercitata.

Cass. 2329/89 apre, quindi, un nuovo settore alla cognizione della giu risdizione italiana nei rapporti di lavoro in esame, coerente con i principi generali ma attenta anche all'interesse del lavoratore ed al suo diritto, quale cittadino italiano, di fruire di una piena tutela giurisdizionale dei

propri diritti ed interessi legittimi (art. 24 Cost.).

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