sezioni unite civili; sentenza 20 gennaio 1989, n. 308; Pres. Granata, Est. Maltese, P.M. Minetti(concl. conf.); Soc. Fontana (Avv. Comandini, Villani, Lampiasi) c. Capitanucci (Avv. Cerrai).Regolamento preventivo di giurisdizioneSource: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1989), pp. 1109/1110-1115/1116Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183915 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
uno di riposo, consiste, dunque, nella possibilità di dare una ca
denza variabile al riposo compensativo, a condizione, però, che
nel complesso delle turnazioni ovvero della organizzazione delle
lavorazioni, indicate nella normativa statale (per la editoria che
qui interessa, d.m. 8 agosto 1972), sia rispettato il rapporto di
sei giorni di lavoro ad uno di riposo, ma non consiste, invece, nell'esonerare il datore di lavoro dall'obbligo di indennizzare il
prestatore del pregiudizio che egli risente per aver lavorato conti
nuativamente per sette giorni. Il fatto, perciò, che tale sposta mento sia legittimo, se comporta che esso perda il carattere della
illiceità (la quale ingenera l'obbligo del risaricimento affermato
da questa corte con riferimento, appunto, ai casi in cui non è
consentito lo spostamento del giorno di riposo compensativo), non comporta anche l'esonero del datore di lavoro dall'obbligo di corrispondere l'indennizzo al lavoratore che ha eseguito la pre stazione richiestagli nel settimo o nei giorni successivi, essendo
l'indennizzo dovuto ogni qualvolta l'esercizio, pur se legittimo, di un diritto arreca pregiudizio alle situazioni soggettive dei terzi.
E, perciò, l'azienda, avendo legittimamente preteso la presta zione lavorativa nel settimo giorno (o anche oltre), se può essere
esonerata dall'adempimento di una obbligazione risarcitoria, è tut
tavia obbligata all'adempimento di una prestazione indennitaria
a favore dei dipendenti per il sacrificio ad essi imposto. Non hanno pregio, perciò, le censure che si appuntano sulla
statuizione che attiene alla riconosciuta sussistenza di tale pregiu dizio ed alla liquidazione della indennità riparatoria.
Vero è che il giudice a quo ha fatto riferimento al risarcimento
del danno: tuttavia, la impropria definizione che esso giudice ha
dato della natura dell'obbligazione datoriale satisfattiva del dirit
to del lavoratore, non inficia la validità della sentenza impugna
ta, essendo rimasto immutato il presupposto di fatto causativo
dell'indennizzo ed avendo il giudice del merito adottato per la
liquidazione di esso i criteri di equità che sono tipici di tale istitu to (ad es. art. 2045 c.c. sulla liquidazione equitativa del danno
cagionato da chi agisce in stato di necessità; art. 2047, 2° com
ma, c.c. in materia di liquidazione del danno cagionato dall'inca
pace; art. 843, 2° comma, c.c. in materia di accesso nel fondo
altrui: in tali ipotesi si demanda, appunto, al giudice di liquidare
la indennità con criteri di equità).
Posto, perciò, che il riposo compensativo era stato goduto ol
tre il limite costituzionale (art. 36, 3° comma, Cost.) ma in forza
di una disposizione di legge (art. 5 1. n. 370 del 1934) che ne
consentiva lo spostamento oltre il settimo giorno, rendendo, in
tal modo, legittima la prestazione lavorativa del detto giorno,
che, però, nello stesso tempo, cagionava un pregiudizio psico
fisico ai dipendenti che erano stati obbligati a lavorare nel giorno
destinato, appunto, al recupero delle energie psico-fisiche, va os
servato che la esistenza del danno — che la ricorrente contesta — è provata proprio dalla situazione nella quale i lavoratori ave
vano eseguito la prestazione, mentre la liquidazione della inden
nità deve ritenersi incensurabile, perché il giudice del merito si
è correttamente avvalso dei criteri equitativi.
Né, infine, esso giudice avrebbe potuto apportare una riduzio
ne alla indennità liquidata equitativamente nella misura di tre ore
di retribuzione, perché le altre somme corrisposte ai lavoratori
erano satisfattive della prestazione del lavoro effettuato nella gior
nata di domenica (e perciò imputabili ad una diversa e distinta
causale), mentre l'importo delle tre ore di retribuzione indenniz
zavano la penosità del lavoro prestato nel settimo giorno (ovvia
mente non coincidente con la domenica).
Le osservazioni che sorreggono la reiezione delle censure fin
qui esaminate consentono, poi, di ritenere non pertinenti quelle
doglianze con le quali si addebita al tribunale di aver omesso
qualsiasi indagine in ordine alle clausole dei contratti collettivi,
succedutisi dal 1972, che si occupano della retribuibilità del lavo
ro prestato nel giorno di domenica: occorre, in proposito, ancora
una volta ricordare che il caso deferito al giudice del merito non
riguardava la retribuibilità di tale lavoro, ma aveva ad oggetto
la diversa ed autonoma fattispecie, ovviamente non contemplata
in detti contratti, della indennizzibilità del danno psico-fisico ri
sentito dai lavoratori che avevano prestato la propria attività nel
settimo giorno. Non era perciò richiesta l'interpretazione della
clausola collettiva, se non al limitato fine — che risulta persegui
to dal tribunale — di escludere che il trattamento contrattuale
previsto per il lavoro domenicale fosse satisfattivo anche del la
II Foro Italiano — 1989.
voro maggiormente usurante prestato nel o anche oltre il settimo
giorno.
E, proprio in siffatto diverso atteggiarsi della fattispecie si rin
viene il distacco dai precedenti giurisprudenziali di questa corte
nei quali, essendo stato dedotto che il lavoro prestato nel settimo
giorno — cadente di domenica — doveva essere compensato co
me lavoro straordinario festivo, bene a ragione era stato deman
dato al giudice del rinvio di accertare se ed in quale misura il
compenso contrattuale del lavoro straordinario, eventualmente de
stinato a compensare anche la prestazione di cui si discute, risul
tasse conglobato nella retribuzione complessiva. Tale esigenza non ricorre nella specie, essendo pacifico — per
averlo riteratamente affermato la stessa ricorrente — che il lavo
ro prestato nel settimo o nei successivi giorni non era stato auto
nomamente compensato.
Peraltro, non avendo la società ricorrente proposto una perti nente deduzione di merito, questa corte viene a trovarsi nella im
possibilità di demandare ad altro giudice il compito di identificare i periodi in cui la prestazione del settimo giorno, essendo coinci
dente con la domenica, si sarebbe dovuta retribuire nelle forme
e con i mezzi previsti per il lavoro domenicale e distinguerla dai
periodi nei quali il lavoro del settimo giorno, cadendo in un gior no diverso dalla domenica, si sarebbe dovuto altrimenti com
pensare. Posta perciò la diversità delle fattispecie e ricordato che nel
caso in esame era fuori discussione la legittimità dello spostamen to del giorno di riposo settimanale, perché tale spostamento era,
appunto, consentito dall'art. 5 della 1. n. 370 del 1934, appare del tutto fuor di proposito la deduzione, prospettata nella memo
ria, con la quale la società ricorrente sostiene che, ove si voglia ritenere «che il nostro sistema positivo sancisca il principio inde
rogabile della cadenza fissa del riposo settimanale, nel senso che
esso debba necessariamente seguire dopo sei giorni consecutivi
di lavoro, le norme portate dagli art. 1, 3 e 5 della menzionata
legge si porrebbero in contrasto con l'art. 36, 3° comma, Cost.»:
la correzione apportata alla sentenza impugnata alla stregua del
l'opposto principio enuciato dalla Corte costituzionale con le già menzionate decisioni n. 146 del 1971, n. 65 del 1973 e n. 23 del
1982, esclude, infatti, che le suddette norme possano essere diver
samente interpretate. Il ricorso deve, quindi, essere rigettato.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 20 gen naio 1989, n. 308; Pres. Granata, Est. Maltese, P.M. Mi
netti (conci, conf.); Soc. Fontana (Avv. Comandini, Villani,
Lampiasi) c. Capitanucci (Avv. Cerrai). Regolamento preven tivo di giurisdizione.
Tributi in genere — Controversia tra sostituto d'imposta e sosti
tuito — Giurisdizione delle commissioni tributarie — Contrad
dittorio (D.p.r. 26 ottobre 1972 n. 636, revisione della disciplina del contenzioso tributario, art. 16; d.p.r. 29 settembre 1973
n. 602, disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito, art. 38).
La controversia promossa dal dipendente nei confronti del datore
di lavoro per denunciare l'illegittimità della ritenuta d'acconto
Irpef da questi operata e per chiedere la condanna al pagamen to delle relative somme rientra nella giurisdizione delle com
missioni tributarie e deve essere in quella sede decisa con efficacia di giudicato e nel contraddittorio della amministrazione finan
ziaria dello Stato. (1)
(1-2) Con le decisioni in rassegna (per la sent. 308/89 è stata omessa
la parte di motivazione comune alla sent. 1200/88) la Cassazione confer
ma il mutamento di giurisprudenza, attuato con le sent. 21 gennaio 1988, nn. 441 e 440, Foro it., Mass., 76, e confermato, fra l'altro, con le suc
cessive 1° marzo 1988, nn. 2152 e 2151, ibid., 323, rispetto a quanto deciso con precedenti pronunzie in materia, ove era stata affermata la
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PARTE PRIMA
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 5 feb
braio 1988, n. 1200; Pres. Bile, Est. Maltese, P.M. Virgilio
(conci, diff.); Trans World Airlines - Twa Inc. (Avv. G. Mos
sa, Pileried, Picciaredda) c. Min. finanze. Regolamento pre ventivo di giurisdizione.
Tributi in genere — Controversia tra sostituto d'imposta e sosti
tuito — Giurisdizione delle commissioni tributarie — Legitti mazione — Fattispecie (D.p.r. 26 ottobre 1972 n. 636, art. 16;
d.p.r. 29 settembre 1973 n. 602, art. 38).
È devoluta alla cognizione esclusiva delle commissioni tributarie
la controversia avente ad oggetto la legittimità della ritenuta
fiscale d'acconto operata dal datore di lavoro sulle retribuzioni
corrisposte al lavoratore, anche se sorta in sede di giudizio di
opposizione all'esecuzione intrapresa dal secondo contro il pri mo (in motivazione la corte precisa che quest'ultimo giudizio, che resta nella competenza del giudice ordinario, deve restare
sospeso e che la causa tributaria può essere promossa, in con
traddittorio con l'amministrazione finanziaria, sia dal sostitui
to che dal sostituto d'imposta). (2)
I
Svolgimento del processo. — Con ricorso al Pretore di Milano, in funzione di giudice del lavoro, Marcello Capitanucci espose che la spa Luigi Fontana e C., alle cui dipendenze egli si era
trovato in qualità di dirigente, nel corrispodergli la somma di
lire 425.224.544 a titolo di risarcimento del danno per la sua ar
bitraria estromissione dall'azienda, aveva illegittimamente opera to una ritenuta di lire 170.344.950, a titolo di acconto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef).
Chiese, pertanto, che la spa Fontana venisse condannata al pa
gamento di tale somma, ancora dovutagli, di lire 170.344.950.
La società convenuta ha proposto regolamento preventivo di
giurisdizione a queste sezioni unite per l'accertamento della com
petenza giurisdizionale delle commissioni tributarie.
Motivi della decisione. — La ricorrente sostiene che la cogni zione della controversia è riservata ratione materiae alle commi
sioni tributarie, previa istanza di rimborso all'intendenza di
finanza.
Il ricorso è fondato. Le sezioni unite hanno già chiarito con
sentenza n. 1200 del 5 febbraio 1988, (omissis). Nel caso in esame, la lite fra datore e prestatore di lavoro sulla
legittimità della ritenuta d'acconto ha natura, appunto, tributa
ria, in quanto, per le ragioni esposte, il titolo della ritenuta ha
carattere meramente fiscale; e la controversia si deve necessaria
mente svolgere nei confronti dell'amministrazione finanziaria.
Perciò la disposizione dell'art. 38 d.p.r. n. 602 del 1973, secon do la quale 1' «istanza (...) può essere presentata anche dal per
cipiente della somma assoggettata a ritenuta» deve essere intesa nel senso che al soggetto passivo della ritenuta d'acconto è attri
buito, non diversamente che al soggetto attivo, il potere di agire soltanto davanti al giudice speciale tributario; non, di certo, nel
senso che gli sia riconosciuta una facoltà di libera scelta fra la
giurisprudenza speciale e quella ordinaria.
Ne consegue, ancora, che nella lite sorta e nel processo instau
rato fra due privati — soggetto attivo e soggetto passivo della
ritenuta d'acconto — la questione della legittimità della ritenuta
potrà assumere, come nel caso deciso dalla sentenza citata n.
spettanza al giudice ordinario delle controversie tra sostituto d'imposta e sostituito sulla legittimità delle trattenute fiscali operate dal primo: per ogni riferimento, v. Cass. 16 dicembre 1986, n. 7553, id., 1987, I, 3323, con nota di richiami.
Per altri riferimenti: sulla dichiarazione dei sostituti d'imposta, v. la nota di richiami a Corte cost. 4 novembre 1987, n. 364, id., 1988, I, 1458; sulla improponibilità delle azioni di ripetizione e di arricchimento dinanzi al giudice ordinario per imposte erroneamente pagate, Cass. 27
aprile 1988, n. 3174, id., 1989, I, 172, con nota di richiami; sulla esten sione della giurisdizione delle commissioni tributarie. Comm. trib. II gra do Grosseto 27 settembre 1988, ibid., Ill, 62, e Tar Campania, sez. I, 30 giugno 1987, n. 399, ibid., 58, con nota di L. Verrenti.
Il Foro Italiano — 1989.
1200 del 1988, i caratteri tipici della «causa pregiudiziale» rispet to a quella di competenza del giudice ordinario (trattavasi allora
di una controversia di opposizione all'esecuzione), ma potrà an
che esaurire, come nel caso in esame, l'intero oggetto della lite
e determinare, quindi, senza problemi collaterali di coordinamen
to fra le due procedure, l'improponibilità della domanda davanti
al giudice ordinario, in considerazione della compentenza giuris dizionale esclusiva del giudice tributario.
In questo senso, appunto, deve essere decisa la questione posta dalla società ricorrente, con la dichiarazione della giurisdizione delle commissioni tributarie.
II
Svolgimento del processo. — Con sentenza del 13 novembre
1973 il Pretore di Roma condannò la Trans World Airlines - Twa
alla immediata reitengrazione nel posto di lavoro di Maria Schmid
Garulli, perché illegittimamente licenziata.
Condannò inoltre la Twa a pagare alla Garulli la somma di
lire 2.000.000, pari alla retribuzione dovutale per un periodo la
vorativo di cinque mesi.
In esecuzione della sentenza, la Twa reintegrò la Garulli nel
suo posto di lavoro. Non le corrispose, tuttavia, l'intera somma
di lire 2.000.000 liquidata dal pretore, ma soltanto la somma di
lire 1.799.000, detratte lire 201.000, che aveva versato all'esatto ria delle imposte dirette di Roma per ritenuta Irpef, ai sensi del
l'art. 23 d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600.
La Garulli, sostenendo di aver diritto al pagamento integrale delle cinque mensilità, nell'ammontare di lire 2.000.000 stabilito
dal pretore, esegui un pignoramento mobiliare a carico della Twa
per la differenza non compostale di lire 201.000, in base al titolo
esecutivo rappresentato dalla sentenza stessa.
La Twa propose opposizione all'esecuzione, sostenendo di ave
re legittimamente versato all'erario lire 201.000, in ottemperanza agli obblighi derivanti dalle disposizioni sopra citate della legge tributaria.
Il pretore, ritenendo la controversia di natura tributaria, rimise le parti davanti al tribunale ai sensi dell'art. 9 c.p.c.
Con atto notificato alla Garulli in data 11 ottobre 1976, la
Twa riassunse il processo davanti al Tribunale di Roma.
Con ordinanza del 12 luglio 1977, il tribunale dispose l'integra zione del contraddittorio nei confronti del ministero delle finan
ze, titolare del credito d'imposta e quindi parte necessaria nel
giudizio fra la contribuente Garulli e il «sostituto d'imposta» Twa.
L'amministrazione finanziaria, sebbene regolarmente citata, non si costituì in giudizio.
Rimessa la causa al collegio per la decisione, la Twa propose ricorso a queste sezioni unite per regolamento preventivo di giuris dizione, chiedendo che venisse dichiarata la compentenza giuris dizionale del giudice speciale tributario a conoscere della controversia. L'avvocatura dello Stato ha aderito alla richiesta della ricorrente.
Motivi della decisione. — La Twa, premesso di essere stata condannata dal pretore a pagare alla dipendente Garulli la som ma di lire 2.000.000 a titolo non risarcitorio ma retributivo, tal ché legittimamente essa avrebbe operato su quell'importo la ritenuta d'acconto di lire 201.000 ex art. 23 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 600, sostiene che, a norma degli art. 16 d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 636 e 38 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 602, soltanto le
commissioni tributarie sarebbero competenti a conoscere della con
troversia.
Il ricorso è fondato nel senso e nei limiti che saranno precisati.
Bisogna, invero, distinguere fra la controversia di opposizione del debitore all'esecuzione e la causa pregiudiziale di accertamen to della legittimità della ritenuta d'acconto.
Oggetto della controversia di opposizione è l'impugnazione del titolo esecutivo: per mezzo di essa la Twa tende a dimostrare che in epoca posteriore alla formazione del titolo stesso — rap presentato dalla sentenza del pretore di condanna della datrice di lavoro al pagamento della somma di lire 2.000.000 a favore della dipendente — un fatto sopravvenuto, consistente nella ri tentuta d'acconto di lire 201.000, operata dalla datrice di lavoro, ne avrebbe posto nel nulla l'efficacia per il corrispondente valore.
La «causa pregiudiziale» — di intendere nel preciso significato tecnico di questione pregiudiziale che il giudice è tenuto a risolve
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
re e a decidere con effetti di giudicato sostanziale — concerne
l'accertamento della legittimità della ritenuta d'acconto effettua
ta dalla Twa. A tale pregiudiziale accertamento (che potrebbe, in ipotesi, già risultare da un giudicato esterno dell'organo giuris dizionale speciale e pertanto non si identifica senza residui con
la causa stessa di opposizione) è subordinata la pronuncia sul
fondamento dell'impugnazione del titolo esecutivo, cioè sulla per durante efficacia di questo per l'importo sopra indicato di lire
201.000. Ora, non c'è dubbio che sulla causa principale di opposizione
all'esecuzione dovrà, in definitiva, pronunciarsi l'autorità giudi ziaria ordinaria. Ma non altrettanto si può dire della causa pre
giudiziale sulla legittimità della ritenuta di acconto, che appartiene alla competenza esclusiva del giudice speciale tributario e neces
sariamente coinvolge l'amministrazione delle finanze, cioè l'ente
pubblico titolare del potere impositivo. Per convincersene, basta esaminare le disposizioni vigenti.
Con la riforma tributaria, il sistema positivo risulta dalle nor
me degli art. 16 d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 636 e 38 d.p.r. 29
settembre 1973 n. 602.
Secondo l'art. 16, 3° comma, d.p.r. n. 636 del 1972, contenen
te la disciplina dei termini per ricorrere, nei casi in cui il paga
mento del tributo ha avuto luogo senza preventiva imposizione
e nei casi in cui il contribuente afferma essere sopravvenuto il
diritto al rimborso, si considera imposizione il rifiuto di restitu
zione della somma pagata, ovvero il silenzio dell'amministrazione
dopo l'intimazione effettuata nelle forme previste.
Secondo l'art. 38 d.p.r. n. 602 del 1973, concernente il rimbor
so di versamenti diretti, nel caso di inesistenza, totale o parziale,
dell'obbligo di versamento (oltre che nel caso di errore materiale
o di duplicazione), il soggetto che ha effettuato il versamento
diretto può presentare all'intendenza di finanza istanza di rim
borso entro il termine di decadenza di diciotto mesi dalla data
del versamento stesso. La medesima istanza può presentare anche
il percipiente delle somme assoggettate a ritenuta entro il termine
di decadenza di diciotto mesi dalla data in cui la ritenuta è stata
operata. Nell'una e nell'altra ipotesi consegue all'eventuale rifiu
to del rimborso il diritto del richiedente di esperire ricorso alla
commissione tributaria di primo grado (art. 38, 4° comma, e 37,
2° comma, d.p.r. n. 602 del '73). Trattasi di un sistema compiuto di tutela giurisdizionale dei
diritti del contribuente, come hanno chiarito, con sentenza dell'8
marzo 1977, n. 942 (Foro it., 1977, I, 811), queste sezioni unite
in relazione agli art. 1, 16, 46 d.p.r. n. 636 del 1972 e 6, ali.
E, 1. n. 2248 del 1865.
Sarebbe inutile, quindi, nel presente giudizio, tornare a discu
tere della possibilità, per il contribuente, di esperire in via pre
ventiva un'azione di mero accertamento negativo del debito
d'imposta, azione improponibile non solo davanti al giudice or
dinario ma anche davanti al giudice speciale tributario, poiché
il ricorso accordato dalla legge al soggetto passivo dell'obbliga
zione d'imposta ha per oggetto soltanto specifici atti dell'ammi
nistrazione finanziaria di accertamento, d'imposizione, ovvero di
rifiuto di restituzione di somme riscosse.
Occorre soltanto trarre da queste esatte premesse le debite con
clusioni in materia di ritenuta d'acconto.
Dedurne, cioè, che il giudice ordinario non può pronunciarsi
sulla legittimità della ritenuta non soltanto, com'è ovvio, in via
principale, con efficacia vincolante verso l'amministrazione finan
ziaria, ma neppure incidenter tantum con effetti limitati alle parti
private. Il principio della competenza giurisdizionale esclusiva delle com
missioni tributarie appare di tutta evidenza con riguardo all'azio
ne esperibile dall'autore della ritenuta, il quale, se ha versato la
somma, può chiederne il rimborso soltanto nelle forme anzidette
dell'istanza amministrativa e del ricorso alla commissione tribu
taria; e, rispettivamente, se non l'ha versata, può ricorrere alla
commissione stessa contro gli atti impositivi dell'amministrazione
conseguenti all'iscrizione a ruolo a proprio carico delle somme
ritenute e non corrisposte (art. 33 d.p.r. 29 settembre 1973 n.
600 e art. 11 d.p.r. 29 settembre 1973 n. 602).
Ma alla stessa conclusione dell'esclusività della giurisdizione delle
commissioni tributarie si deve pervenire a proposito dell'azione
esperibile dal soggetto passivo della ritenuta, produttore e perci
piente del reddito, agisca egli direttamente contro la pubblica am
ministrazione per ottenere il rimborso, ovvero pretenda dall'autore
Il Foro Italiano — 1989.
della ritenuta stessa, quale controparte privata nel rapporto di
diritto civile, la corresponsione di una somma di pari ammontare
come elemento integrante della retribuzione.
In realtà, stabilire se la ritenuta sia stata legittimamente opera
ta non è mai un semplice «punto» pregiudiziale od una mera
«questione» pregiudiziale, di decidere incidenter tantum con ef
fetti limitati al procedimento in corso, ma — si ripete — è sem
pre una vera e propria «causa» pregiudiziale, da risolvere e decidere
con effetti di giudicato sostanziale nei confronti dei legittimi con
traddittori, e perciò nei confronti dell'amministrazione finanzia
ria, dal giudice competente intuitu materiae a conoscerne.
Il produttore del reddito, che ha subito la ritenua, non è libero
di adire, a sua scelta, il giudice speciale tributario o il giudice
ordinario, per farne dichiarare la illegittimità e per ottenere il
pagamento della somma, ma deve necessariamente agire, ai fini
del rimborso, davanti alle commissioni tributarie.
Postulare, invero, una giurisdizione elettivamente concorrente
dell'a.g.o. significherebbe esporre la controparte, che ha effet
tuato la ritenuta, all'eventualità e al rischio di pagare due volte
la stessa somma, in base a due pronunce contrastanti provenienti
da due giudici diversi: come accadrebbe se, riconosciuta dal giu
dice ordinario, adito dal percepiente del reddito, l'illegittimità della
ritenuta, con obbligo della controparte di corrisponderne all'atto
re l'equivalente ammontare, il giudice speciale, adito dall'autore
della ritenuta, dichiarasse questa pienamente legittima, rifiutan
done al ricorrente il rimborso.
Nel caso concreto, la datrice di lavoro Twa rischierebbe, da
un lato, di soggiacere all'azione esecutiva del creditore, dall'altro
di subire il rifiuto del rimborso da parte dell'autorità finanziaria.
In una prospettiva più ampia, corrisponde a queste considera
zioni di ordine pratico l'esame della ratio del sistema.
La ritenuta d'acconto, invero, pur non costituendo oggetto di
un'obbligazione d'imposta in senso stretto, dato che nell'anno
solare potrebbe anche non sorgere alcun debito d'imposta, è cer
tamente oggetto di un'obbligazione accessoria e strumentale alla — eventuale e futura — obbligazione d'imposta, di cui agevola
la riscossione.
Essa, pertanto, si inquadra nell'ampia nozione di rapporto tri
butario, comprendente sia l'obbligazione d'imposta sia le obbli
gazioni ad esse strumentali e accessorie.
La controversia che la concerne ha, di conseguenza, natura tri
butaria e, come tale, è sottratta alla cognizione dell'a.g.o. e de
voluta alla competenza esclusiva del giudice speciale tributario.
Nel caso in esame, la lite fra datore e prestatore di lavoro sulla
legittimità della ritenuta d'acconto ha natura, appunto, tributa
ria, in quanto, per le ragioni esposte, il titolo della ritenuta ha
carattere meramente fiscale.
A questo proposito si definisce il soggetto attivo della ritenuta
«sostituto d'imposta»: forse impropriamente, perché la ritenuta
d'acconto — come si è detto — non riflette un'obbligazione d'im
posta in senso stretto. Tuttavia, chi la esegue è vincolato sia ver
so l'ente pubblico impositore, sia verso il soggetto percepiente
del reddito all'adempimento di un'obbligazione tributaria; onde
la controversia, fra chiunque sorta, presenta sempre la stessa na
tura tributaria e deve svolgersi nei confronti dell'amministrazione
finanziaria davanti al giudice competente. Le argomentazioni fin qui svolte dimostrano che la locuzione
«l'istanza . . . può essere presentata anche dal percepiente delle
somme assoggettate a ritenuta», nel citato art. 38 d.p.r. n. 602
del 1973, deve essere intesa — come correttamente ha sostenuto
l'avvocatura dello Stato — nel senso che al soggetto passivo della
ritenuta d'acconto è attribuito, non diversamente che al soggetto
attivo, il potere di agire soltanto davanti al giudice speciale tribu
tario, non, di certo, nel senso che gli sia riconosciuta una facoltà
di libera scelta fra la giurisdizione speciale e quella ordinaria.
Ne consegue ancora che nella lite sorta e nel processo instaura
to fra i due privati, soggetto attivo e soggetto passivo della rite
nuta d'acconto, non si può parlare di una possibile azione di
garanzia o di «manleva» del primo verso l'amifiinistrazione fi
nanziaria, e neppure di una causa comune o accessoria, nel cui
ambito l'integrazione del contraddittorio sia rimessa agli ordinari
strumenti della chiamata in giudizio su istanza di parte o iussu
iudicis, ma soltanto di «causa pregiudiziale» che richiede, previa
sospensione del giudizio, la devoluzione al giudice competente (sem
pre che non siano frattanto maturate decadenze legali) e sarà,
quindi, attivata per iniziativa del «sostituito» oppure del «sosti
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PARTE PRIMA 1116
tuto», con diverse, alterne vicende nei successivi sviluppi del giu dizio di merito.
Nella controversia in esame, si deve ritenere pertanto che, fer
ma restando la giurisdizione del giudice ordinario sull'opposizio ne all'esecuzione, spetti unicamente al giudice speciale tributario
la competenza giurisdizionale a conoscere della causa pregiudizia le concernente la legittimità della ritenuta d'acconto.
In questi termini e con queste precisazioni, il ricorso per rego lamento preventivo di giurisdizione preposto dalla Trans World
Airlines deve essere accolto.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 14 gennaio
1989, n. 152; Pres. Menichino, Est. Ponzetta, P.M. Benanti
(conci, conf.); Ventura (Avv. Gallusi, Guaiazzini, Maglia) c. Inps (Avv. Romoli, Procaccio). Cassa Trib. Cremona 12
maggio 1986.
Lavoro (rapporto) — Possesso di diploma di istituto professiona le — Inserimento al lavoro nei primi tre mesi — Rapporto di
apprendistato — Compatibilità (L. 19 gennaio 1955 n. 25, di
sciplina dell'apprendistato, art. 2, 3, 17; 1. 31 marzo 1966 n.
205, riconoscimento di qualifica ai licenziati dagli istituti pro
fessionali, art. unico; 1. 27 ottobre 1969 n. 754, sperimentazio ne negli istituti professionali, art. 5, 7).
Alla scadenza del periodo comunque non superiore a tre mesi
di cui all'art. 7 l. 754 del 1969, sussiste l'obbligo del datore
di lavoro di assegnare al lavoratore la qualifica propria del di
ploma di istituto professionale conseguito, purché sussista cor
rispondenza tra l'idoneità attestata dal titolo scolastico e la
concreta attività nella quale il dipendente è inserito, tenendo
conto, al riguardo, della maggiore valenza del diploma di ma
turità conseguito dopo il superamento dell'esame finale del corso
speciale triennale rispetto al diploma conseguito all'esito di corsi
di minore durata e con più limitato numero di materie. (1)
Motivi della decisione. — Con l'unico, complesso mezzo del
ricorso il rag. Angelo Ventura denuncia violazione e falsa appli cazione di norme di diritto (art. 360, n. 3, c.p.c. con riferimento, nella specie, all'art. 17, 1° comma, 1. 19 gennaio 1955 n. 25, alla 1. 31 marzo 1966 n. 205 e all'art. 7 1. 27 ottobre 1969 n.
754 nonché all'art. 6 ccnl 20 dicembre 1978 dei dipendenti degli studi professionali. Omessa e contraddittoria motivazione circa
un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o co
munque rilevabile di ufficio (art. 360, n. 5, c.p.c.).
(1) Contra, Pret. Bergamo 31 gennaio 1987, Foro it., Rep. 1987, voce Lavoro (rapporto), n. 728, che ha affermato che il periodo di tre mesi di cui all'art. 7 1. 754 del 1969 non può essere inteso sempre come perio do di apprendistato, dovendosi invece avere riguardo alla natura delle mansioni, e che allo spirare dei tre mesi al lavoratore diplomato non
può in nessun caso essere mantenuta la qualifica di apprendista; Trib. Cremona 19 gennaio 1985, id., Rep. 1985, voce cit., n. 658, secondo cui il diploma di segretaria d'azienda, conseguito a norma dell'art. 7 cit., esclude l'instaurazione del rapporto di apprendistato ed impone quindi l'assunzione al lavoro con la qualifica d'impiegato. Per Trib. Lodi 14
aprile 1986, id., Rep. 1987, voce cit., n. 726, il rapporto di apprendistato cessa e si trasforma in ordinario rapporto a tempo indeterminato, indi
pendentemente dalla durata del tirocinio prevista dai contratti collettivi o dall'art. 7 cit., nel momento in cui l'apprendista venga adibito all'atti vità lavorativa propria del lavoratore qualificato, e grava sul datore di lavoro che eccepisca la legittimità del rapporto di apprendistato il relativo onere probatorio.*Cass. 18 giugno 1975 n. 2449, id., 1976, I, 1317, con nota di richiami, citata in sentenza e Cass. 10 novembre 1979 n. 5817, id., Rep. 1979, voce cit., n. 494, hanno affermato che il periodo d'inseri mento di cui all'art, unico 1. 205 del 1966, poi sostituito dall'art. 7 1. 754 del 1969, non è un periodo d'apprendistato, dovendo la qualifica essere attribuita in ragione delle mansioni affidate al lavoratore e dell'uti lità che il datore ne ricava. In dottrina, in tema di formazione professio nale dei lavoratori e di rapporti speciali connessi ad essa, cfr., da ultimo, G. Loy, Formazione e diritto del lavoro, Angeli, Milano, 1988, passim.
Il Foro Italiano — 1989.
Argomenta il ricorrente, illustrando tale censura, che non è
valida la considerazione del tribunale, secondo la quale, preve dendosi l'insegnamento complementare nel rapporto di apprendi
stato, questo nella specie rimarrebbe escluso. Citasi quindi, dal
Ventura, l'art. 17, 1° comma, 1. 19 gennaio 1955 n. 25 in ordine
al quale: «la frequenza dei corsi di insegnamento complementare è obbligatoria e gratuita. La obbligatorietà non sussiste per colo
ro che abbiano già un titolo di studio adeguato». Quindi — si
argomenta — il rapporto di apprendistato è «possibile» anche
quando l'apprendista sia in possesso di un titolo di studio, il qua le già lo accrediti di nozioni tali da rendere inutile la frequenza dei corsi di insegnamento complementare. Il titolo di studio di
cui le due dipendenti erano in possesso — pure osservasi — si
palesava adeguato nel senso dell'escludere l'obbligo di insegna mento complementare, ma di per sé non era di ostacolo all'ap
prendistato, d'altronde l'art. 7 1. 27 ottobre 1969 n. 754 (il quale ha sostituito l'art, unico 1. 31 marzo 1966 n. 205) prevede (cosa che il tribunale ha omesso di considerare) una espressa riserva
a favore della contrattazione collettiva anche in merito alla dura
ta del periodo di inserimento nel lavoro per l'alunno che abbia
superato l'esame finale degli istituti professionali. La previsione della durata, dello stesso inserimento nel lavoro, «non superiore a tre mesi» costituisce esclusivamente un'ipotesi residuale da uti
lizzare in difetto di norme specifiche della contrattazione colletti
va e non un limite di valore assoluto e — notasi ancora dal
ricorrente — devesi al riguardo tener conto dell'art. 14 ccnl 20
dicembre 1978 (dove è previsto un apprendistato di dodici mesi
per il terzo livello dei dipendenti), come pure dell'art. 6 dello
stesso ccnl che ammette il periodo di apprendistato per i giovani in possesso del diploma di qualifica rilasciato dagli istituti profes sionali di Stato nel solo caso in cui gli stessi siano adibiti a man
sioni che non trovino corrispondenza nel diploma stesso (si intende
nell'oggetto per cui è rilasciato); corrispondenza che per la fatti
specie si afferma inesistente, come dovrebbesi rilevare dalle mate
rie di programma per il corso biennale, quale è stato il corso
seguito dalle due dipendenti per cui è causa, in quanto nessun
esame, il quale abbia attinenza con la materia fiscale o con quelle della legislazione del lavoro, è previsto, mentre conoscono queste materie coloro i quali abbiano seguito il corso triennale per «ad
detti alla segreteria di azienda» e quello, pure triennale, per «ad
detti alla contabilità di azienda».
Sull'oggetto del ricorso il rag. Ventura si diffonde poi anche
in un riferimento alle dichiarazioni rese dalle due dipendenti. La censura è fondata sotto l'aspetto che attiene ad una parziale
disapplicazione delle normative di legge cui si è riferito il giudice di appello e, soprattutto, sotto l'aspetto di una motivazione in
sufficiente per quanto concerne l'accertamento di fatto sul conte
nuto degli insegnamenti impartiti durante i corsi presso gli istituti
professionali seguiti dalle due «apprendiste» cui riferiscesi la pre tesa contributiva dell'Inps. Conseguentemente il ricorso deve es sere accolto «per quanto di ragione».
Dai disposti di cui all'art, unico 1. 31 marzo 1966 n. 205 ed
all'art. 7 1. 27 ottobre 1969 n. 754 (sostitutivo, questo, della pre
cedente), il tribunale ha immediatamente tratto, come già accen
nato in narrativa, che il diploma di qualifica conseguito dall'alunno di istituto professionale è valido ai fini contrattuali dopo un pe riodo di inserimento al lavoro che non può essere superiore a
tre mesi.
Ciò non si vuole ora negare aprioristicamente, come contenuto
letterale della norma; ma deve essere chiarito, al lume di una
logica che ne mette in evidenza la ratio ed i possibili effetti prati ci, quali si individuano anche attraverso il coordinamento con
le altre disposizioni del testo in esame e con quella che ha dato
origine alla norma attuale.
Con riferimento all'art, unico 1. n. 205 del 1966 («L'alunno che abbia superato o che superi l'esame finale degli istituti pro fessionali consegue un diploma di qualifica che varrà ai fini dei
rapporti contrattuali dopo un periodo di inserimento nel lavoro
da definirsi in sede di contrattazione collettiva, o comunque non
superiore ad un anno»...), questa corte avverti che «il periodo di inserimento nel lavoro previsto dal 1° comma dell'art, unico 1. 31 marzo 1966 n. 205, sul riconoscimento di qualifica ai diplo mati degli istituti professionali, non è un periodo di apprendista to; la qualifica del lavoratore, assunto con riferimento a detta
legge, deve essere determinata in funzione della natura delle man sioni affidategli e dell'utilità che il datore di lavoro ne ricava
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