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PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sezioni unite civili; sentenza 11 dicembre...

Date post: 27-Jan-2017
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sezioni unite civili; sentenza 11 dicembre 1987, n. 9225; Pres. Brancaccio, Est. Panzarani, P.M. Caristo (concl. conf.); Candolfi (Avv. Grande) c. Siciliano. Cassa App. Caltanissetta 17 febbraio 1983 Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE (1988), pp. 71/72-77/78 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23181017 . Accessed: 24/06/2014 23:31 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.34.79.214 on Tue, 24 Jun 2014 23:31:23 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezioni unite civili; sentenza 11 dicembre 1987, n. 9225; Pres. Brancaccio, Est. Panzarani, P.M.Caristo (concl. conf.); Candolfi (Avv. Grande) c. Siciliano. Cassa App. Caltanissetta 17 febbraio1983Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE(1988), pp. 71/72-77/78Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23181017 .

Accessed: 24/06/2014 23:31

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PARTE PRIMA

lo idrogeologico l'autorizzazione di cui al citato art. 7 occorre

per qualisasi trasformazione del suolo (ivi comprese la edificazio

ne ed i lavori conseguenti all'attuazione delle concessioni minera

rie), dato che si tratta di lavori i quali per la loro natura sono

capaci di arrecare ai terreni danni analoghi o peggiori di quelli

conseguenti alle modifiche colturali alle quali le norme in esame

espressamente si riferiscono.

Nello spirito di questa giurisprudenza si muove ora l'art. 4 1.

reg. veneta n. 52 del 1978, la quale ha precisato che nell'ambito

del disposto dell'art. 7 r.d. n. 3267 rientrano non soltanto le tras

formazioni indicate nello stesso art. 7, ma più in generale «il

mutamento permanente di destinazione dei terreni vincolati». E

perciò nessun dubbio può sussistere, per il caso di specie, dopo l'intervento di detta legge regionale.

La stessa giurisprudenza ha altresì' precisato, per quel che attie

ne ai rapporti fra l'atto amministrativo che ha ad oggetto i lavori

che comportano trasformazione (licenza o concessione edilizia, concessione mineraria, ecc.) e l'autorizzazione delle autorità fore

stali, che questa seconda non incide sulla legittimità della conces

sione mineraria (la quale, quindi, è legittima anche se quella autorizzazione manchi), ma incide sulla liceità della utilizzazione

della miniera: nei territori soggetti a vincolo idrogeologico, cioè, i lavori conseguenti alla concessione mineraria non possono esse

re eseguiti ove manchi l'autorizzazione dell'autorità forestale, al

la quale, ovviamente, non può sostituirsi quella mineraria.

Questa giurisprudenza, ad avviso della corte, appare del tutto

rispondente alla finalità delle disposizioni legislative che sono sta

te ricordate, anche se merita osservare che sarebbe opportuno,

soprattutto dopo che le attribuzioni della materia forestale sono

state trasferite alle regioni (per cui si pongono in essere, oggi,

rapporti non più fra organi del medesimo soggetto ma fra lo Sta

to e le regioni) un intervento del legislatore atto a porre in essere

le norme occorrenti per raccordare le diverse competenze ed evi

tare inconvenienti del genere di quello verificatosi nel caso che

ha dato luogo al presente conflitto di attribuzioni e cioè nello

spirito delle sentenze di questa corte n. 223 del 1984 (.Foro it.,

1984, I, 2678) e n. 239 del 1982 (id., 1983, I, 2). Da queste premesse si è sicuramente discostato il capo del di

stretto minerario di Padova con il provvedimento impugnato, da

un lato dando preminente rilievo all'interesse minerario (mentre invece è preminente l'interesse connesso alla situazione dei luoghi

od in quanto inserito nell'ambito dei piani di sviluppo agricolo (22). Proprio la circostanza che il vincolo idrogeologico venga impiegato non

soltanto per la prevenzione degli eventi calamitosi, ma anche per il perse guimento di finalità ben diverse, ci induce a ritenere che non sia più possibile affermare una sua superiorità assoluta ed incondizionata rispet to ad ogni altro interesse, egualmente tutelato e protetto, che con esso

possa entrare in conflitto.

Bisogna però sottolineare che se è facile analizzare e criticare le solu zioni offerte dalla giurisprudenza per la soluzione dei conflitti tra ammi

nistrazioni, non è altrettanto agevole ricercare criteri sostitutivi più completi od inattaccabili. Le critiche non vanno perciò a tutti i costi contro una

giurisprudenza che si è mostrata tra l'altro abbastanza sensibile di fronte a queste problematiche; esse si muovono soprattutto nei confronti del

legislatore, unico in grado di intervenire in una materia che, per ampiezza e complessità, non richiede probabilmente un unico criterio a cui appi gliarsi nelle ipotesi di conflitto, ma dei provvedimenti specifici e diversificati.

Marisa Meli

(22) Il punto è ben sottolineato da Travi, // vincolo come mezzo di

governo del territorio nella legislazione regionale, in Uso del territorio, cit., 51; nello stesso testo A. Robecchi Majnardi, L'utilizzo del vincolo net sistema di tutela dei parchi, 62; v. inoltre Andreani, op. cit., 1315.

L'interpretazione estensiva dell'art. 7, prima ancora di esser recepita nel la legislazione regionale, ha formato oggetto di un orientamento giuris prudenziale consolidato. V., sentenze citate in Uso del territorio, cit., ed ancora: T.A.R. Lazio, sez. Latina, 11 aprile 1980, n. 64, Foro it., Rep. 1980, voce Foreste, n. 9; Cons. Stato, sez. VI, 5 febbraio 1982 n. 64, id., Rep. 1982, voce cit., nn. 8, 11; 4 ottobre 1983, n. 710, id., Rep. 1983, voce cit., n. 3. Sull'argomento in dottrina, v. A. Predieri, La regolazione giuridica degli insediamenti turistici e residenziali nelle zone alpine, in Foro amm., 1970, III, 375; M. Monteforte, Vincolo idrogeologico ed opera di sbancamento, in Giur. agr. it., 1982, 630; Mor

silo, Attività estrattiva e rispetto ambientale, id., 1979, II, 167; A. Àbrami, Edificabilità e vincolo idrogeologico, in Foro amm., 1972, II, 10; contra la interpretazione estensiva, v. A. D'Amico, Vincolo idrogeologico: pro blemi di competenza in caso di nuovi insediamenti abitativi, in Riv. giur. edilizia, 1977, II, 136.

Il Foro Italiano — 1988.

ed al mantenimento del loro assetto, che può essere anche grave mente turbato dai lavori che incidono profondamente sulla situa

zione stessa) e dall'altro — il che maggiormente conta ai fini del

presente giudizio — negando qualsiasi valore all'intervento del

l'autorità forestale regionale, da manifestarsi nella forma dell'au

torizzazione: in tal modo quell'organo ha disconosciuto i poteri

spettanti alla regione e questa in realtà esercita una vera vindica

tio potestatis. L'avvocatura dello Stato, nel tentativo di salvare la legittimità

del provvedimento impugnato, afferma che nel caso di specie, trattandosi di attività mineraria, non occorrerebbe l'autorizzazio

ne ex art. 7 r.d. n. 3267, ma solo osservanza delle prescrizioni di massima e di polizia forestale di cui è cenno negli art. 8, 9

e 10 dello stesso r.d. Ma l'affermazione della difesa erariale è

palesemente smentita dalla ricordata giurisprudenza amministra

tiva che, dinanzi alla lettera ed allo spirito delle norme statali

e regionali applicabili, ha ritenuto necessaria l'autorizzazione ex

art. 7, più volte citato, e ciò, ovviamente, in considerazione dei

gravi danni che, come pur si è detto, possono essere provocati da lavori di carattere minerario.

Per questi motivi, la Corte costituzionale 1) dichiara che spetta alla regione Veneto il potere di autorizzazione alla esecuzione dei

lavori per lo sfruttamento delle miniere esistenti nella regione lad

dove già sia stato imposto il vincolo idrogeologico; 2) annulla,

per l'effetto, il provvedimento dell'ingegnere capo del distretto

minerario di Padova, n. 381/382 del 22 gennaio 1983, avente ad

oggetto concessione mineraria «Malga Ofra» in comune di Re

coaro Terme (Vicenza) s.p.a. Valdol — dichiarazione 12 novem

bre 1982 per la tutela del vincolo idrogeologico.

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 11 di

cembre 1987, n. 9225; Pres. Brancaccio, Est. Panzarani, P.M.

Caristo (conci, conf.); Candolfi (Avv. Grande) c. Siciliano.

Cassa App. Caltanissetta 17 febbraio 1983.

CORTE DI CASSAZIONE;

Lavoro e previdenza (controversie in materia di) — Giudice colle

giale — Prova — Assunzione — Delega a componente del col

legio — Nullità assoluta (Cod. proc. civ., art. 158, 203, 409,

437).

Nelle controversie, soggette al rito del lavoro, devolute alla co

gnizione del collegio, la prova assunta non da quest'ultimo ma

da un componente a ciò delegato è affetta da nullità assoluta

e insanabile perché espletata in una situazione di irregolare co

stituzione del giudice. (1)

Svolgimento del processo. — Con ricorso depositato il 24 set

tembre 1981 i fratelli Calogero e Nicola Candolfi chiedevano alla

sezione specializzata agraria presso il Tribunale di Enna di con

dannare Giuseppe Siciliano a rilasciare un fondo agricolo situato

in contrada Caprara-Finocchiara di Pietraperzia di loro proprietà che il predetto deteneva senza titolo, non sussistendo invero un

preteso rapporto di mezzadria, rilevando in subordine che — non

(1) Le sezioni unite compongono, nel senso della massima, il contrasto manifestatosi all'interno della corte a proposito delle conseguenze, nel rito del lavoro, dell'assunzione della prova (testimoniale) da parte di un

componente del collegio delegato dal medesimo e non ad opera di que st'ultimo.

La pronuncia, che si segnala per la completezza dell'informazione e l'articolazione dell'/te/- argomentativo, dandosi carico del problema solle vato nelle osservazioni di C.M. Cea a Cass. 16 luglio 1986, n. 4596, Foro it., 1987, I, 1208, ravvisa (sulla falsariga della opinione di recente

espressa da Garbagnati, in nota alla stessa sentenza, in Riv. dir. proc., 1987, 696, spec. 701), nell'art. 158 c.p.c. «la chiave di soluzione» della

questione controversa, ritenendo che nel «suddetto caso si versa piuttosto in un'ipotesi in cui una parte dell'attività giurisdizionale (assunzione delle

prove) è stata espletata in una condizione di difettosa costituzione del

giudice collegiale secondo la previsione dell'art. 158 c.p.c., e cioè nella mancanza della maggior parte dei suoi componenti».

Il «vizio procedurale» — proseguono le stesse sezioni unite — «è per ciò in radice e, dal punto di vista logico, anteriore rispetto a quello dell'i nidoneità dell'atto a conseguire il suo scopo: si tratta piuttosto di un atto (assunzione delle prove per delega) non atribuibile al giudice e per tanto estraneo al processo e in esso non utilizzabile».

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

essendo il convenuto coltivatore diretto ed espletando egli l'atti

vità di trattorista per conto di terzi — lo stesso non aveva diritto

alla proroga del supposto rapporto, peraltro nullo (in base al

l'art. 3 1. 15 settembre 1964 n. 756 e successiva modificazione).

L'adita sezione specializzata con ordinanza del 27 novembre 1981

ammetteva le prove richieste dalle parti delegando per l'assunzio

ne uno dei suoi componenti, e cioè il giudice relatore, e quindi,

con sentenza del 28 maggio-16 luglio 1982, rigettava la domanda

considerando che il padre e dante causa degli attori, nella qualità

di usufruttuario del suddetto fondo, aveva instaurato con il Sici

liano, molti anni prima del giudizio, un contratto agrario di tipo

mezzadrile e che, in base a quanto emerso dalla prova svolta —

e ciò nonostante l'eccezione degli attori — circa l'esistenza del

rapporto e la condizione di coltivatore diretto del Siciliano, que

st'ultimo aveva diritto a proseguire nella contestata detenzione.

Avverso tale pronuncia i Candolfi interponevano gravame avanti

alla sezione specializzata agraria presso la Corte d'appello di Cal

tanissetta che lo rigettava con sentenza del 26 gennaio-17 feb

braio 1983.

La sezione anzitutto riteneva la non fondatezza del rilievo degli

attori basato sull'art. 999 c.c. (sulle locazioni concluse dall'usu

fruttuario e relativa prova) osservando che, trattandosi nella fat

tispecie di mezzadria e non già di affitto, l'art. 18 1. 11 febbraio

1971 n. 11 aveva assoggettato alle norme sull'affitto a coltivatore

diretto soltanto i contratti di affitto misto a colonia parziaria

o mezzadria, la quale forma non ricorreva però in quella contro

versia. Con riguardo poi all'art. 25 I. n. 11 del 1971 il giudice

d'appello osservava che il caso in esame esulava dalle ipotesi in

esso previste, e cioè di trasformazione in affitto di determinati

contratti, il che avveniva peraltro a richiesta del coltivatore e non

in via automatica. Rilevava ancora che le norme degli art. 2158

e 2160 c.c. prevalevano su quella dell'art. 999 e che colui che,

a qualsiasi titolo, subentrava nel godimento del fondo succedeva

nella posizione giuridica del concedente e doveva pertanto rispet

tare la mezzadria. Considerava ulteriormente la sezione di appel

lo che — essendo emerso dalla prova testimoniale che il Siciliano

aveva condotto in mezzadria il fondo dal 1965 e che il padre

degli attori era deceduto nel novembre 1972 e cioè quasi nove

anni prima dell'inizio di quel giudizio — per parecchie annate

gli attori medesimi (e prima ancora la loro madre usufruttuaria

al pari del marito) avevano fatto permanere con il Siciliano l'ori

ginario rapporto di mezzadria finché avevano deciso di avvalersi

dell'art. 999 c.c. In relazione a ciò considerava pertanto la sezio

ne che gli attori con il loro comportamento avevano dato vita

a un rapporto di mezzadria comunque autonomo e distinto ri

spetto a quello creato dall'usufruttuario per cui, anche in base

a ciò, non era invocabile il principio di cui alla suddetta norma

dell'art. 999 c.c. ove anche la si fosse ritenuta applicabile, oltre

ché alle locazioni, anche alle concessioni a mezzadria.

Quanto poi alle deduzioni dei Candolfi circa la nullità e la con

seguente inutilizzabilità della prova testimoniale raccolta da un

giudice della sezione di primo grado (e non dal collegio) la sezio

ne d'appello richiamava la sentenza 7 maggio 1979, n. 2608 (Fo

ro it., 1980, I, 786) di questa Suprema corte che aveva escluso

una siffatta nullità in quanto non comminata dalla legge, non

impedendo peraltro la lamentata violazione il raggiungimento dello

scopo dell'acquisizione degli elementi probatori (col che era da

ritenere superato il principio desumibile invece dall'altra sentenza

di questa corte 21 luglio 1979, n. 4359, id., Rep. 1979, voce Con

tratti agrari, n. 241). Con riguardo quindi alla sussistenza del vantato rapporto di

mezzadria e alla condizione di coltivatore diretto del Siciliano,

la sezione d'appello osservava che i testi (Vasapolli e Lo Giudice)

avevano confermato l'assunto del convenuto e cioè che egli risul

tava essere fin dal 1965 mezzadro del fondo, peraltro da lui per

sonalmente coltivato insieme ai figli, abitando nella casa rurale

annessa. Quanto poi alla circostanza che la condizione di coltiva

tore diretto non era stata oggetto di specifico capitolo di prova,

osservava la sezione che ciò era irrilevante potendo invero il giu

dice attingere a tutto il materiale probatorio comunque acquisito

con le garanzie della difesa, laddove nel procedimento di primo

grado era stato d'ufficio sollecitato un teste a specificare l'esten

sione del fondo, e da un certificato era emersa la sufficiente ca

pacità lavorativa della famiglia del coltivatore.

Contro tale decisione i fratelli Candolfi hanno proposto ricor

so a questa Suprema corte formulato in quattro motivi. Il Sicilia

no non si è costituito.

Il Foro Italiano — 1988.

Motivi della decisione. — (Omissis). Con detto motivo i ricor

renti medesimi addebitano alla sentenza impugnata violazione de

gli art. 157, 437 e 409, n. 3, c.p.c. in relazione all'art. 360, n.

3, dello stesso codice.

Con riferimento all'esclusione della nullità (tempestivamente ec

cepita) della prova assunta (in primo grado) da un giudice appar

tenente al collegio, i ricorrenti deducono che, essendo applicabile

avanti alla sezione specializzata agraria il rito del lavoro, il «giu

dice» va identificato con il collegio dal che consegue che, in ap

plicazione analogica degli art. 435 e 437 del codice di rito, non

è possibile alcuna delega per l'assunzione delle prove ammesse,

trattandosi di adempimento demandato esclusivamente al giudi

cante e cioè, per l'appunto, al collegio. Ciò — aggiungono i ri

correnti — è stato affermato da questa Suprema corte (nella

sentenza 21 luglio 1979, n. 4359) con il limite della sanatoria per

mancato rilievo ad opera della parte interessata, rilievo che inve

ce nella fattispecie vi è stato.

Come già rilevato, la suddetta questione ha trovato soluzioni

contrastanti nella giurisprudenza delle sezioni semplici le quali

hanno avuto occasione di pronunciarsi in ordine alla delega istrut

toria sia in controversie agrarie trattate nelle fasi di merito delle

sezioni specializzate sia in cause di lavoro nelle quali tale delega

era stata conferita da parte del collegio in sede di procedimento

d'appello (il che involge pertanto problemi d'interpretazione del

l'art. 437 c.p.c. sub art. 1 1. n. 533 del 1973).

Dev'essere in proposito, anzitutto, osservato che le decisioni

emesse dalle sezioni semplici si rivelano tutte concordi nel ritene

re che le prove debbano essere assunte direttamente dal collegio

e che pertanto è irregolare l'espletamento non avvenuto con tale

modalità, ma da ciò sono state fatte scaturire conseguenze giuri

diche differenti. Ed invero due sentenze, e cioè quelle della sezio

ne lavoro 7 maggio 1979, n. 2608 e 13 giugno 1984, n. 3521 (id.,

Rep. 1984, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 468) han

no ritenuto che siffatta irregolarità non integra gli estremi di nul

lità alcuna; altre e più numerose decisioni, e cioè quelle 22

novembre 1978, n. 5474 (id., Rep. 1978, voce cit., n. 350), 21

luglio 1979, n. 4359, 19 marzo 1983, n. 1948 (id., Rep. 1983,

voce Cassazione civile, n. 42), 1° febbraio 1985, n. 671 (id., Rep.

1985, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 458) e 16 luglio

1986, n. 4596 (id., 1987, I, 1208), hanno invece ravvisato in detta

irregolarità gli estremi della nullità, ritenendola tuttavia di carat

tere relativo e perciò sanabile.

Posizione a sé rivestono poi la sentenza della sezione lavoro

17 marzo 1982, n. 1752 (id., Rep. 1982, voce cit., n. 543) e 22

marzo 1986, n. 2040, (id., Rep. 1986, voce cit., n. 266) le quali

hanno ritenuto la legittimità dell'utilizzazione da parte del giudi

ce del lavoro, nelle prove assunte fuori dell'ambito territoriale

di sua competenza a norma dell'art. 203 c.p.c., particolare profi

lo, questo, che però — tenuto conto dell'oggetto del presente

dibattito — non deve essere qui specificamente esaminato.

Peraltro il problema di cui trattasi è stato più volte affrontato

dalla dottrina (in particolare, attraverso il commento di alcune

delle decisioni sopra richiamate) ed essa ha unanimemente ritenu

to che la delega istruttoria integra in ogni caso un'ipotesi di nulli

tà. Tale vizio è stato tuttavia ritenuto da alcuni autori di natura

sanabile, cosi come valutato dalla prevalente giurisprudenza di

questa corte, mentre per altri autori l'assunzione delegata della

prova sarebbe assolutamente insanabile con conseguente sua rile

vabilità anche d'ufficio in qualsiasi momento del giudizio.

In particolare nella sentenza n. 2608 del 1979, cit., l'esclusione

di qualsiasi nullità è stata basata sui seguenti rilievi: 1) che la

delega istruttoria non integra vizi afferenti alla costituzione del

giudice (art. 158 c.p.c.) essendo poi il collegio l'organo che valu

ta il risultato dell'attività istruttoria espletata da un suo compo

nente; 2) che la violazione dei principi di concentrazione e

immediatezza che governano il rito del lavoro non è assoggettata

ad alcuna comminatoria; 3) che tale irregolarità non impedisce

all'attività processuale di conseguire il suo scopo.

Per converso, nelle sentenze che hanno ritenuto la ricorrenza

di nullità ancorché sanabile si è, da un lato, parimenti ritenuto

che non sussista vizio di costituzione del giudice e, dall'altro, si

è sostanzialmente ravvisato che tuttavia il sistema della delega

può soltanto violare l'interesse di una parte, alla quale incombe

pertanto l'onere di opporsi. Peraltro, in particolare nella decisio

ne n. 4596 del 1986, si è considerato che, pur difettando al ri

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PARTE PRIMA

guardo un'esplicita sanzione di legge, tuttavia la prova testimo

niale assunta non dal collegio, bensì da uno dei suoi componenti a ciò delegato, è affetta da nullità «mancando tale atto proces suale dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello

scopo, consistente nell'immediata percezione dei risultati della pro va da parte del collegio che deve decidere», nullità che però è

stata ritenuta sanabile se non fatta tempestivamente valere.

Il requisito della idoneità oppur no dell'atto istruttorio al con

seguimento dello scopo cui è destinato appare perciò essere l'ar

gomento utilizzato a sostegno di entrambe le opposte tesi seguite. Ritiene tuttavia la corte che il problema di cui trattasi trovi piut tosto la sua chiave di soluzione nella fondamentale norma di cui

all'art. 158 c.p.c. sulle nullità derivanti dalla costituzione del giu

dice, riguardo al che debbono essere svolte le seguenti conside

razioni.

Il sistema processuale introdotto dalla 1. 11 agosto 1973 n. 533

per la trattazione delle cause di lavoro — che, in base al novella

to art. 409, n. 2, c.p.c. concerne anche quelle di competenza del

le sezioni specializzate agrarie (cfr., in particolare, la sentenza

di queste sezioni unite 10 novembre 1982, n. 5919, id., 1983,. I,

63) — si rivela caratterizzato dall'accentuata affermazione dei prin

cipi di oralità, concentrazione ed immediatezza che pur sono pre senti — ma in misura chiaramente più attenuata sia nella

formulazione che nella concreta attuazione — nelle regole gene rali del codice di rito del 1940.

Peraltro una delle misure che il legislatore del 1973 ha ritenuto

di adottare, al fine di garantire la più stretta osservanza dei sud

detti principi, è stata — in riferimento alle controversie attribuite

ad organo collegiale (cfr., in modo specifico, l'art. 437 c.p.c.) — l'abolizione del giudice istruttore. Quest'ultimo — com'è noto — costituisce tuttora l'organo cardine del sistema processuale ci

vile ordinario, con specifiche attribuzioni e con poteri suoi propri

(art. 175 ss. c.p.c.) le cui modalità di esercizio sono soltanto ex

post valutabili dal collegio a seguito dell'esperimento di reclami

ad hoc ovvero mediante riproposizione delle relative questioni (art. 178 c.p.c.). Tutto ciò non sussiste affatto nel nuovo rito del lavo

ro nel quale è prevista (per le cause trattate da organo collegiale)

semplicemente la nomina di un giudice relatore (art. 435, 1° com

ma) il cui compito è limitato, per l'appunto, allo svolgimento della relazione orale della causa (art. 437, 1° comma), adempi mento che, per sua propria natura, non è di per sé destinato

a produrre alcun specifico effetto giuridico. Il sistema della legge n. 533 del 1973 — proprio in osservanza

dei surrichiamati principi e, in particolare, di quello di immedia

tezza — è stato pertanto strutturato in modo tale che, ove sia

collegiale, l'unico giudice è, per l'appunto, il collegio, il quale

prima della decisione (ove lo ritenga e ne sussistano i presuppo

sti) ammette le prove e fissa l'udienza per la loro assunzione non

ché per la (immediata) pronuncia della sentenza (art. 437, 2° e

3° comma, prima parte). È perciò del tutto estranea a tale siste ma la scissione tra il momento di espletamento delle prove e quello della decisione della causa ed è ancor più estraneo ad esso che l'assunzione delle prove sia dal giudice — e cioè, quanto alle cau

se agrarie e di appello, dal collegio che solo nella propria interez

za tale giudice costituisce — demandata ad un suo componente che, come tale, non è dalla legge investito di alcuna specifica, individuale attribuzione.

I principi di oralità, concentrazione e immediatezza non sono

costituzionalmente imposti, dato invero che essi non scaturiscono

direttamente dall'art. 24 della legge fondamentale, ma ben può il legislatore ordinario — nella sua discrezionalità e nell'evidente

intento di assicurare, nelle materie di maggior rilevanza sociale, un processo rapido, adeguato ed efficiente — stabilire che solo

il giudice competente ad emettere la decisione governi diretta

mente l'assunzione delle prove e ciò proprio per poter addivenire

alla decisione immediatamente e nel modo più compiutamente informato.

L'identità del giudice decidente con quello che assume le prove si rivela perciò quale requisito indispensabile perché i suddetti

principi di oralità, concentrazione e immediatezza possano trova

re piena attuazione, laddove consentire — attraverso l'uso della

delega istruttoria conferita a un componente del collegio — l'in

troduzione di prassi derogatorie al preciso sistema processuale de

lineato dalla legge n. 533, significherebbe infrangere irrimediabilmente detti principi e vanificare l'intento di tale leg

ge, il che è inammissibile. Né la considerazione di ordine pratico del maggior impegno che la diretta assunzione delle prove da par

li. Foro Italiano — 1988.

te dell'intero collegio potrebbe comportare per i suoi componenti

(rispetto all'espletamento effettuato ad opera di uno solo di essi)

può far indulgere a una diversa soluzione, che questa corte —

nell'adempimento della sua istituzionale funzione di assicurare l'e

satta osservanza della legge (art. 65 dell'ordinamento giudiziario) — deve in ogni caso decisamente respingere.

Dal sistema della legge n. 533 del 1973 scaturisce'invero un

univoco precetto imperativo secondo il quale la prova non può essere assunta da un soggetto diverso (processualmente parlando) dal giudice della decisione, dato che altrimenti verrebbe ad essere

impedito a quest'ultimo di applicare le norme giuridiche attraver

so la diretta e immediata cognizione dei fatti, requisito che dalla

stessa legge è stato ritenuto di carattere indispensabile. E proprio con riguardo alle controversie di competenza delle

sezioni specializzate agrarie va peraltro considerato l'apporto che

può essere dato anche dagli esperti perché siano rivolte alle parti e ai testimoni domande di specifica portata tecnica. Del resto

la rilevanza della preparazione professionale degli esperti è alla

base dell'istituzione stessa delle sezioni specializzate agrarie alle

quali è financo attribuita — nella loro integrale composizione

collegiale — la decisione sulle istanze di sequestro da adottare

«dopo aver sentito le parti» (art. 26 1. 11 febbraio 1971 n. 11). Entra perciò in gioco in subiecta materia, non già il solo interesse

delle parti, bensì l'esigenza di ordine pubblico processuale a che

i fatti, in un giudizio non frammentato, siano accertati nell'unico

modo idoneo a garantire una più immediata e più esatta decisione.

Dal complesso delle considerazioni sopra svolte è dato pertan to concludere che soltanto l'assunzione delle prove da parte dello

stesso giudice decidente può consentire il raggiungimento dello

scopo che è quello di mettere in grado detto giudice di definire

la causa immediatamente e con piena cognizione, co'si come la

legge prescrive. Tale proposizione indurrebbe (cosi come in alcu

ne delle richiamate sentenze e nelle affermazioni della dottrina) a richiamare lo Schema legale dell'art. 156 c.p.c. in base al quale

(2° e 3° comma) nullità significa ormai sostanzialmente (e soltan

to) inidoneità dell'atto processuale a raggiungere lo scopo a cui

è destinato (il che comporta l'individuazione, di volta in volta, della funzione che ciascun atto è chiamato a svolgere nel proces

so, cosi come ancora sottolineato dalla dottrina).

Tuttavia, secondo quanto si è già accennato e come appare confermato proprio dalle enunciate considerazioni, l'assunzione

delle prove da parte di un solo componente del colleggio si risol

ve, in definitiva, in un atto compiuto da un soggetto diverso dal

giudice, tale essendo soltanto quello collegiale e soltanto quello che deve emettere la decisione. Conseguentemente — dovendo

la funzione giudicante essere unitariamente considerata in tutte

le fasi del suo svolgimento e non solo con riguardo a quello della

decisione finale — nel suddetto caso si versa piuttosto in un'ipo tesi in cui una parte dell'attività giurisdizionale (assunzione delle

prove) è stata espletata in una condizione di difettosa costituzio

ne del giudice collegiale secondo la previsione dell'art. 158 c.p.c., e cioè nella mancanza della maggior parte dei suoi componenti.

Il vizio procedurale è perciò in radice e, dal punto di vista

logico, anteriore rispetto a quello dell'inidoneità dell'atto a con

seguire il suo scopo: si tratta piuttosto di un atto (assunzione delle prove per delega) non attribuibile al giudice e pertanto estra

neo al processo e in esso non utilizzabile.

Va infine precisato che, pur nell'interpretazione più contenuti

stica che questa Suprema corte ha seguito in riferimento all'art.

161, 2° comma, c.p.c. sulla nullità assoluta (inesistenza) della

sentenza in quanto mancante della sottoscrizione del giudice, tale

disposizione non è del tutto sovrapponibile a quella del richiama

to art. 158 sui vizi relativi alla costituzione del giudice. Siffatti

vizi possono invero concernere anche un momento del processo diverso e anteriore rispetto a quello della decisione finale e, in

particolare, quello dell'assunzione delle prove ove la legge (come nel rito del lavoro) esiga la presenza del giudice collegiale nella

sua completa composizione. Gli atti processuali posti in essere

in difetto di tale composizione sono pertanto a loro volta affetti

da nullità insanabile, vizio che — stante il rapporto d'imprescin dibile dipendenza — viene loro trasmesso da quello afferente alla

costituzione del giudice (cfr. l'art. 159 c.p.c.). Tale nullità, tutta

via, non determina — come detto — l'inesistenza della decisione

a norma dell'art. 161, 3° comma, c.p.c. e pertanto non ricorre

neppure l'ipotesi prevista dal successivo art. 354, 1° comma, ulti

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Page 5: PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE || sezioni unite civili; sentenza 11 dicembre 1987, n. 9225; Pres. Brancaccio, Est. Panzarani, P.M. Caristo (concl. conf.); Candolfi

GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

ma parte, sulla remissione della causa al primo giudice, ma si

versa in quella di cui al 4° comma dello stesso.

Componendosi perciò il contrasto giurisprudenziale con l'af

fermazione della nullità, peraltro non meramente relativa ma as

soluta della prova assunta — nelle cause trattate con il rito del

lavoro — da un componente del collegio a ciò delegato, l'esami

nato motivo si rivela fondato e deve essere accolto, il che com

porta l'assorbimento delle censure svolte nel terzo e nel quarto motivo. Con esse i ricorrenti hanno addebitato alla sentenza im

pugnata, rispettivamente, erronea valutazione delle prove e insuf

ficiente e contraddittoria motivazione circa la ritenuta esistenza

e prosecuzione del rapporto di mezzadria, nonché violazione e

falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. e ancora insufficiente e con

traddittoria motivazione in relazione alla riconosciuta qualità di

coltivatore diretto del Siciliano. Si tratta di censure — attinenti

a risultanze di fatto — collegate in parte a dati documentali e

in parte all'espletata prova testimoniale, che sono state valutate

dal giudice d'appello nell'esercizio dell'istituzionale potere a lui

attribuito. Tuttavia, proprio il collegamento anche con la prova testimoniale — che, per quanto detto, è stata irregolarmente as

sunta — impedisce l'autonoma disamina di dette censure.

In base a tali ragioni il primo motivo del ricorso dev'essere

rigettato, mentre dev'essere accolto il secondo, con assorbimento

del terzo e del quarto motivo. In relazione al motivo accolto la

sentenza impugnata dev'essere pertanto cassata con rinvio della

causa alla stessa sezione specializzata agraria presso la Corte d'ap

pello di Caltanissetta, la quale dovrà procedere agli incombenti

consequenziali alla presente pronuncia.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 10 dicem

bre 1987, n. 9118; Pres. Scanzano, Est. Catamo, P.M. Visal

li (conci, diff.); Soc. Riva del Crati (Avv. Di Gravio) c. Fall,

soc. Riva del Crati. Cassa Trib. Roma 1° ottobre 1985.

Fallimento — Concordato fallimentare — Risoluzione — Riferi

mento alla data di pronuncia della sentenza di risoluzione —

Data della relazione del curatore o della domanda di risoluzio

ne — Irrilevanza (R.d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del

fallimento, art. 137).

Il termine di decadenza, previsto dall'art. 137, 3° comma, l. fall., deve essere riferito alla data in cui è emessa la sentenza di riso

luzione del concordato fallimentare, sicché tale pronuncia resta

preclusa dopo il decorso di un anno dalla scadenza dell'ultimo

pagamento stabilito nel concordato, anche se la relazione del

curatore (o la domanda di uno o più creditori) sia stata presen tata entro il suddetto termine. (1)

(1) La sentenza riportata si è posta in consapevole contrasto con l'indi rizzo che, ai fini dell'osservanza del termine fissato dall'art. 137, 3° com

ma, 1. fall., ritiene sufficiente la presentazione della relazione del curatore o del ricorso di uno o più creditori e, in presenza di una iniziativa tempe stiva, considera ammissibile la pronuncia della sentenza di risoluzione del concordato anche dopo il decorso di un anno dalla scadenza dell'ulti mo pagamento stabilito nel concordato stesso. In questi termini, v., cita ta in motivazione, Cass. 18 luglio 1973, n. 2103, Foro it., 1973, I, 3314, con nota di richiami, che ha giustificato la possibilità della pronuncia di risoluzione anche dopo la scadenza dell'anno, purché entro lo stesso termine sia proposta la relativa domanda, sul rilievo che la sentenza di

accoglimento retroagisce alla data della domanda di risoluzione: su que sta linea, v. altresì' Cass. 21 maggio 1955, n. 1485, id., 1956, I, 13, e,

per la giurisprudenza di merito, App. Milano 21 aprile 1961, id., Rep. 1961, voce Fallimento, n. 562, e Trib. Roma 1° ottobre 1985, id., Rep. 1986, voce cit., n. 577, cassata dalla sentenza in epigrafe. Per l'interpre tazione restrittiva del 3° comma dell'art. 137 1. fall., che — conforme mente a Cass. n. 9118/87 — richiede che nel termine prescritto sia emessa la sentenza di risoluzione e considera irrilevante l'attivazione del procedi mento entro l'anno, cfr. Cass. 15 ottobre 1957, n. 3845, id., Rep. 1957, voce cit., n. 485; App. Bologna 1° ottobre 1965, id., Rep. 1965, voce

cit., n. 585; Trib. Vasto 16 aprile 1985, id., Rep. 1986, voce cit., n. 578. La dottrina è schierata su posizioni conformi a quelle della sentenza

riportata e ha criticato le tesi precedentemente seguite dalla Cassazione con le citate sentenze nn. 2103/73 e 1485/55: v. Bianchi d'Espinosa, La sentenza di risoluzione del concordato, in Giust. civ., 1958, I, 275; Azzolina, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1961, II, 1024; Vaselli, Il termine per la risoluzione del concordato omologato,

Il Foro Italiano — 1988.

Svolgimento del processo. — Con sentenza del 19 dicembre

1983 il Tribunale di Roma omologò la proposta di concordato

presentata da Antonio Giordano, quale amministratore unico della

fallita società Riva del Crati s.r.L, con la garanzia personale di

Ezio Coppola, il quale depositò una cauzione di lire 20.000.000.

Il 21 febbraio 1985 il curatore informò il tribunale che gli ob

blighi derivanti dal concordato erano rimasti inadempiuti sia da

parte del proponente che da parte del garante. Iniziatosi procedimento ex art. 137 1. fall., in camera di consi

glio comparvero il curatore ed il proponente. Non si presentò, invece, il garante, cui non era stato possibile comunicare l'avviso

di comparizione, per essersi trasferito dalla residenza dichiarata

nella proposta di concordato. Il tribunale, con sentenza 26

settembre-1° ottobre 1985, pronunciò la risoluzione del concor

dato, ritenendo irrilevante la mancata comparizione del garante, in quanto determinata dall'inadempimento del suo onere di di

chiarare in cancelleria il trasferimento di residenza, e giudicando

pienamente tempestiva la risoluzione, anche se pronunciata oltre

l'anno della scadenza dall'ultimo pagamento stabilito nel concor

dato, essendo stata presentata entro tale termine l'informazione

del curatore, ciò che era sufficiente, secondo la giurisprudenza della Cassazione, ad evitare la decadenza in questione.

Contro la sentenza del tribunale hanno presentato separati ri

corsi sia il proponente che il garante, lamentando, entrambi, vio

lazione e falsa applicazione dell'art. 137, 1° comma, 1. fall., nonché

difetto di motivazione, in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., e ancora, violazione a falsa applicazione dell'art. 137, 3° comma, 1. fall., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.

Motivi della decisione. — I ricorsi vanno riuniti (art. 335 c.p.p.). Il procedimento di risoluzione del concordato fallimentare è

informato agli stessi principi di speditezza, che caratterizzano il

procedimento per dichiarazione di fallimento, ed assolve, al pari di questo, ad esigenze anche conservative, tali da non consentire

remore che possano pregiudicare l'interesse pubblico connesso al

l'esecuzione concorsuale. Vanno applicati quindi, per quanto ri

guarda la convocazione del debitore o del garante, gli stessi principi che la giurisprudenza ha elaborato a proposito della convocazio

ne del debitore in applicazione dell'art. 15 1. fall, a seguito della

sentenza n. 141/70 della Corte costituzionale (Foro it., 1970, I,

2038). Anzi, a più forte ragione, data — come si dirà nell'esame

del secondo motivo — la perentorietà del termine entro il quale la risoluzione del concordato può essere dichiarata. L'obbligo di

convocazione del garante quindi deve ritenersi nella specie osser

vato con l'invio del relativo avviso al domicilio risultante dagli atti.

Il fatto che ivi egli non sia stato rinvenuto perché trasferitosi

altrove (senza avere reso noto agli organi della procedura il nuo

vo recapito) non imponeva al tribunale ulteriori adempi menti.

II primo motivo di ricorso, con cui entrambi i ricorrenti lamen

tano la mancata notificazione al garante presso la nuova residen

za non dichiarata dell'invito a comparire in camera di consiglio, è quindi infondato.

Pienamente fondato è, invece, il secondo motivo, con cui i ri

correnti denunciano l'illegittimità del provvedimento impugnato, in quanto adottato dopo il termine di decadenza di un anno di

cui all'art. 137, 3° comma, 1. fall.

Per l'art. 137 1. fall., infatti, «se le garanzie promesse non ven

gono costituite in conformità del concordato e se il fallito non

adempie regolarmente gli obblighi derivanti dal concordato e dal

la sentenza di omologazione, il curatore deve riferirne al tribuna

le. Questo ordina la comparizione del fallito e dei fideiussori, se ve ne sono, e con sentenza emessa in camera di consiglio e

in Dir. fallirti., 1965, II, 881; Caputo, Il termine per la pronuncia di

risoluzione nel concordato, id., 1974, II, 615; Satta, Diritto fallimenta re, Padova, 1974, 327; Di Gravio, La risoluzione del concordato falli mentare: c'è chi dice prima, c'è chi dice dopo la scadenza dell'anno dall'ultimo pagamento (art. 137 l. fall.), in Temi romana, 1985, 957;

Bonsignori, Della cessazione della procedura fallimentare, in Commen

tario, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1977, 494, cui si

rinvia per una completa ed esauriente trattazione dei vari problemi relati vi al termine stabilito dall'art. 137, 3° comma, 1. fall. Per una parziale differenziazione, v. Ferrara, Jl fallimento, Milano, 1974, 557, che con divide la posizione della dottrina dominante nell'ipotesi di risoluzione pro nunciata d'ufficio, ritenendo che, in caso di risoluzione dichiarata ad istanza di uno o più creditori, basti, invece, che il ricorso sia presentato entro il termine annuale.

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