ordinanza 12 dicembre 1989; Pres. ed est. Canzio; imp. RinchiSource: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp.245/246-249/250Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183609 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
ricorrente è visto in rapporto allo strumento urbanistico e la com
missione edilizia comunale esprime parere favorevole alla sanato
ria; vi è la fase costitutiva, caratterizzata, allo stato, dall'emana
zione di un atto semplice, con cui si sospende l'esecutività del
l'ordine di demolizione a suo tempo dato e si invita l'interessato
a pagare, a titolo di oblazione, il contributo di concessione in
misura doppia. Ma questa fase, all'evidenza, è incompleta, non essendo anco
ra culminata nell'atto finale di concessione in sanatoria, bensì'
pervenuta a un momento interlocutorio, in attesa di altri atti e
operazioni necessari: l'adesione del richiedente, il versamento del
l'oblazione, la verifica della congruità del versato, tutti elementi
ben presenti nell'iter previsto nell'art. 13 1. 28 febbraio 1985 n. 47.
Il procedimento amministrativo, dunque, mancava di quegli ele
menti che occorrono perché divenisse operante l'effetto giuridico
collegato a quelli costitutivi già enucleati; elementi che nel caso
dovrebbero precedere l'atto formale conclusivo, ma che in teoria
potrebbero completarlo anche dopo l'emanazione, dando vita a
quella successiva fase procedimentale, detta di integrazione del
l'efficacia del provvedimento. Intervenuta a questo punto l'impugnativa, diretta a contestare
l'entità dell'onere patrimoniale stabilito — impugnativa ammissi
bile, investendo un atto amministrativo perfetto ancorché inter
medio —, all'incompletezza strutturale del procedimento si è ag
giunta un'ulteriore ragione, che impedisce al procedimento di esau
rirsi: l'interruzione necessaria, essendo innegabile che si dovesse
attendere la decisione del giudice amministrativo per conoscere
della giustezza dell'atto impugnato, per poi consentire, eventual
mente, all'interessato di aderirvi al fine di ottenere la concessione
in sanatoria.
Che i tempi della giustizia amministrativa siano più o meno
lunghi, questo non incide sulla vita del procedimento, che rimane
in stato di quiescenza per tutto il tempo occorrente; e vi rimane
anche se quello impugnato dovesse intendersi atto di diniego del
la concessione in sanatoria, posto che il rilascio di quest'ultima
potrebbe essere imposto, invece, iussu iudicis; cosi come non in
cide sulla conseguente sospensione dell'azione penale, poiché que
sta, se non fosse già prevista dalla legge con riguardo ali 'iter am
ministrativo, in simili frangenti dovrebbe essere disposta ugual mente dal giudice, a norma dell'art. 20 c.p.p., per l'ovvia
pregiudizialità del processo giurisdizionale amministrativo.
È vero che recentemente la Corte costituzionale (sent. n. 370
del 31 marzo 1988, Foro it., 1989, I, 2424) ha ritenuto che il
ricorso giurisdizionale avverso la negatoria non causa la sospen sione dell'azione penale, perché l'obbligatorietà costituzionale di
quest'ultima non potrebbe tollerare l'indefinito di una situazione
del genere; ma tale opinione non impegna, non tanto perché la
Corte costituzionale non «dice» il diritto, quanto perché l'istituto
della sospensione processuale non può mai indebolire il valore
costituzionale indicato, riguardando piuttosto l'azione penale una
volta concretamente esercitata, la cui sorte, però, su questo ver
sante è ben protetta dalla corrispondente sospensione del corso
prescrizionale di cui all'art. 159 c.p.; e quanto perché, poi, viene
immaginata quasi una gara tra processo giurisdizionale ammini
strativo e processo penale — nel senso che l'esito del primo possa influire sull'esistenza del reato solo se si concluda in tempo utile — con un'alea inammissibile in campo penale per ingiustificabile
disparità di trattamento.
Per concludere: il procedimento amministrativo nell'occasione
esiste e non è esaurito, mentre il ricorso giurisdizionale vi si inse
risce solo come accidente eventuale, ma non eludibile; sicché —
assorbita ogni altra questione — non si può fare a meno di an
nullare in proposito la decisione dei giudici d'appello e di rinviare
ad altro giudice per i necessari adempimenti.
Il Foro Italiano — 1990.
TRIBUNALE DI RIETI; ordinanza 12 dicembre 1989; Pres. ed
est. Canzio; imp. Rinchi.
TRIBUNALE DI RIETI;
Giudizio direttissimo — Reati concernenti le armi — Disciplina
(Cod. proc. pen. del 1988, art. 449; norme att. coord, e trans,
cod. proc. pen. del 1988, art. 233; 1. 2 ottobre 1967 n. 895,
disposizioni per il controllo delle armi, art. 9; 1. 14 ottobre
1974 n. 497, nuove norme contro la criminalità, art. 2, 16).
Posto che il giudizio direttissimo obbligatorio e atipico in materia di armi previsto dall'art. 2 l. 497/74 deve ritenersi caducato
con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, anche al giudizio direttissimo per reati concernenti le armi si
applicano le regole generali prescritte dall'art. 449 c.p.p. del
1988 in ordine alle forme del giudizio ed ai termini entro i
quali esso va instaurato. (1)
(1) Nella prima fase applicativa del nuovo codice di rito non poche sono le controversie sorte intorno alle disposizioni di coordinamento e
transitorie, previste dal d.leg. 28 luglio 1989 n. 271. Ciò è probabilmente dovuto, in parte, alla genericità di talune formulazioni normative, spesso condizionate da contrapposte esigenze non facilmente conciliabili, e, in
parte, alla carenza di un adeguato approfondimento dottrinale, essendo la dottrina rimasta per lo più impegnata dalla riflessione sulle disposizio ni codicistiche.
Ne è una riprova la vicenda in oggetto, non priva di riflessi in ordine a talune questioni cruciali della struttura del nuovo processo.
Venendo al merito della controversia, essa si incentra sull'interpreta zione dell'art. 233 norme att., coord, e trans, c.p.p. del 1988, la cui for
mulazione, ispirata dall'intento di armonizzare la nuova normativa in ma
teria di giudizio direttissimo con quella contenuta nella legislazione spe ciale, non appare però in grado di fugare ogni dubbio in sede applicativa.
Come è noto, nel sistema processuale previgente, alla figura «tipica» del giudizio direttissimo facoltativo si contrapponevano svariate forme
«atipiche» di giudizio direttissimo obbligatorio (cfr., in generale, Nosen
go, Le varie ipotesi di giudizio direttissimo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1976, 823; Pansini, I giudizi direttissimi atipici, Milano, 1980).
Tra queste ultime v'era appunto il giudizio direttissimo in materia di armi ed esplosivi, previsto prima dall'art. 9 1. 895/67, poi dall'art. 2 1.
497/74, ed infine dall'art. 35 1. 110/75, secondo una linea di tendenza indirizzata verso la progressiva estensione del novero dei reati soggetti all'adozione obbligatoria di tale forma di giudizio (cfr., in argomento, Rovelli, In tema di giudizio direttissimo ex art. 2 l. 14 ottobre 1974 n. 497, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1974, 364; Cinquina, Il giudizio direttissimo previsto dall'art. 2 l. 14 ottobre 1974 n. 497, in Giusi, pen., 1975, III, 425).
Ebbene, il citato art. 233 norme coord, nuovo c.p.p., nel 1° comma, ha espressamente abrogato tutte le disposizioni che prevedevano il giudi zio direttissimo in casi, con forme e termini diversi da quelli indicati nel
codice, mentre, nel 2° comma, ha esteso l'adottabilità del rito direttissi
mo, per i reati concernenti le armi, anche fuori dei casi previsti dal codice.
La formulazione normativa lascia però, almeno in apparenza, impre
giudicata una questione fondamentale, e cioè se sia o meno applicabile al giudizio direttissimo obbligatorio in materia di armi la disciplina previ sta dal nuovo codice in ordine ai termini e alle forme del rito direttissimo.
L'interrogativo, relativo alla possibilità di applicare anche ai procedi menti direttissimi atipici la disciplina prevista per il giudizio direttissimo
tipico, si era invero già posto durante la vigenza del codice Rocco, so
prattutto in relazione ai casi in cui difettasse nella legge speciale una spe cifica regolamentazione (cfr., tra gli altri, in senso favorevole all'estensio
ne della normativa generale, Bellavista, Il procedimento direttissimo, in Scritti giurìdici in onore di V. Manzini, 1954, 101. Contra: Sabatini, Giudizio direttissimo (dir. proc. pen. comune), voce del Novissimo dige sto, Torino, 1961, VII, 910).
Per la verità, il giudizio direttissimo atipico, previsto dall'art. 2 1. 497/74, non appare, a prima vista, investito da tale problematica, dato che nella
norma citata si specifica che l'adozione del rito direttissimo in materia
di armi non è vincolata all'osservanza dell'art. 502 del codice previgente. Vero è che, secondo taluni autori, essendo la deroga di cui all'art.
2 esplicitamente riferita solo al 1° comma dell'art. 502, il limite cronolo
gico, previsto nel 2° comma dello stesso articolo, avebbe dovuto conside
rarsi comunque operante in relazione alle ipotesi ivi contemplate e che
tale speciale modello processuale sarebbe stato, in ogni modo, vincolato
alla sussistenza delle condizioni previste dal codice, differenziandosi dalla
matrice soltanto per la sua obbligatorietà (cfr. Diaz, Armi e munizioni, voce del Novissimo digesto, appendice, Torino, 1980, 421). Ma a questo
indirizzo, già minoritario in dottrina, si contrapponeva una giurisprudenza costante secondo la quale il giudizio direttissimo, imposto dall'art. 2 1.
497/74, proprio perché atipico, sarebbe stato svincolato da tutte le condi
zioni legittimanti il giudizio direttissimo tipico previste dal 1° e 2° com
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PARTE SECONDA
Rilevato che l'imputato libero Rinchi Massimo è stato citato
a comparire all'odierna udienza 12 dicembre 1989, successiva quin di al quindicesimo giorno dall'iscrizione nel registro delle notizie
di reato, 23 novembre 1989; rilevato che l'imputazione riguarda un reato concernente le armi (art. 12 e 14 1. 497/74), per il quale l'art. 9 1. 895/67, tuttora vigente, prescrive che «si procede a
giudizio direttissimo», senza nulla disporre in ordine ai termini
ed alle forme, mentre il giudizio direttissimo obbligatorio e atipi co in materia di armi ed altro previsto dall'art. 2 1. 497/74 deve
ritenersi ormai caducato con l'entrata in vigore del nuovo codice
di procedura penale in data 24 ottobre 1989, in virtù dell'art.
16 legge citata che limitava la vigenza delle «norme processuali della presente legge fino all'entrata in vigore del nuovo codice
di procedura»; considerato altresì' che l'art. 233, punto 1, disp. coord, ha espressamente abrogato tutte le disposizioni normative
ma dell'art. 502 c.p.p. (v. Cass. 22 maggio 1984, Lo Bianco, Foro it., Rep. 1985, voce Giudizio direttissimo, n. 26; 9 aprile 1984, Grimaldi, ibid., n. 27; 30 giugno 1982, Pellegrini, id., Rep. 1983, voce cit., n. 21). In ordine, poi, ai termini per l'instaurazione del giudizio, secondo il pre detto orientamento, non vigendo alcun termine specifico si sarebbero do vute applicare le regole generali, e cioè quaranta giorni, ai sensi dell'art.
272, cpv., c.p.p., in caso di imputato detenuto, mentre la presentazione in dibattimento dell'imputato a piede libero si sarebbe potuta effettuare
•senza alcun limite temporale (v. Cass. 30 settembre 1986, Ruocco, id., Rep. 1987, voce cit., n. 23; 14 marzo 1986, Cavallaro, ibid., n. 22; 24 febbraio 1984, Bonetta, id., Rep. 1985, voce cit., nn. 31-33).
In linea con tale indirizzo maturato nella vigenza del codice Rocco, taluni tra i primi commentatori del nuovo codice di rito, hanno sostenuto che la deroga, in origine riferita espressamente all'art. 502 del vecchio
codice, dovrebbe considerarsi operante anche nei confronti dell'art. 449 del nuovo codice, sicché, non potendosi ritenere vincolanti i termini ordi nari ivi previsti e non sussistendo più un termine analogo a quello di
quaranta giorni, di cui all'art. 272, cpv., del codice previgente, il termine ultimo per l'instaurazione del giudizio direttissimo obbligatorio, ai sensi dell'art. 2 1. 497/74, coinciderebbe con quello di durata massima della custodia cautelare, nella fase delle indagini preliminari, per gli imputati detenuti ed invece con quello della chiusura delle predette indagini per gli imputati in libertà (cosi Dubouno-Baglione-Bartolini, Il nuovo co dice di procedura penale, Piacenza, 1989, 766 s.).
Siffatta impostazione contrasterebbe però, secondo il provvedimento in epigrafe, con il tenore letterale dell'art. 233 e disp. coord, del nuovo codice di rito, ove si prevede, al 1° comma, l'abrogazione di tutte le
disposizioni che prevedono il giudizio direttissimo in casi, con forme o termini diversi da quelli indicati nel codice, mentre, al 2° comma, si pre scrive che il pubblico ministero proceda al giudizio direttissimo, anche fuori dei casi previsti dagli art. 449 e 566 del codice, per i reati concer nenti le armi e gli esplosivi. Pertanto, secondo il Tribunale di Rieti, la
deroga alle regole generali sarebbe limitata soltanto all'individuazione dei casi in cui è adottabile il rito, mentre in ordine ai termini ed alle forme dovrebbe comunque applicarsi l'art. 449 c.p.p., sicché il termine ultimo
per l'instaurazione del giudizio coinciderebbe con il quindicesimo giorno dall'iscrizione della notizia di reato nell'apposito registro.
Peraltro, anche a voler superare il tenore letterale della detta norma, secondo il collegio, non potrebbe esser trascurato il disposto dell'art. 16 1. 497/74, ove si limitava la vigenza delle norme processuali ivi contem
plate fino all'entrata in vigore del nuovo codice di rito. Caducato, per tanto, l'art. 2 1. 497/74, la norma applicabile in materia sarebbe l'art. 9 1. 865/67 che, limitandosi a prescrivere l'obbligatorietà del rito direttis simo per i reati previsti dalla legge medesima, senza nulla disporre in ordine ai termini ed alle forme e senza nemmeno prevedere esplicitamen te, al contrario del citato art. 2, alcuna deroga alle norme generali, impli citamente rinvierebbe a queste ultime.
Tale ricostruzione, sorretta dall'apprezzabile intento di uniformare le varie forme di giudizio direttissimo e di scongiurare il rischio di differi menti sine die del giudizio, in contrasto con la ratio e gli scopi del giudi zio direttissimo, va incontro però a più di un inconveniente. Si noti, ad
esempio, che la pretesa abrogazione dell'art. 2 1. 497/74 avrebbe come
conseguenza che, mentre i reati previsti dalla 1. 895/67, come modificata dalla predetta legge del 1974, sarebbero assoggettati comunque, giusto il disposto dell'art. 9 1. 895/67, al rito direttissimo, per quelli previsti dalla 1. n. 110 del 1975 si procederebbe con il giudizio direttissimo salvo che non siano necessarie speciali indagini. Venuto meno l'art. 2 1. 497/74, che, abrogando il citato art. 9 1. 895/67, garantiva l'omogeità del model
lo, giacché l'obbligatorietà del rito veniva attenuata dalla contestuale pre visione analoga a quella contenuta nell'art. 35 1. 110 cit., dell'instaurazio ne del giudizio direttissimo soltanto qualora non fossero necessarie «spe ciali indagini» (sulla nozione, cfr. Nosengo, op. cit., 836), il risultato della reviviscenza dell'art. 9 1. 895/67 sarebbe il sorgere di una discrasia di normativa sulla stessa materia, che appare ancor meno giusti
II Foro Italiano — 1990.
discipinanti il giudizio direttissimo «in casi con forme o termini
diversi da quelli indicati nel codice», mentre, col 2° comma, ha
esteso l'utilizzabilità del giudizio speciale, oltre i «casi» già previ
ficata qualora si consideri che i reati previsti nella 1. 895/67 sono ben
più gravi di quelli contemplati nella 1. 110/75. A prescindere, poi, da tale osservazione, va rilevato come lo stesso
tenore letterale dell'art. 233 norme coord, del codice vigente appaia di
significato tutt'altro che univoco. Ed invero, il 2° comma potrebbe anche essere inteso quale mero rinvio alla normativa speciale in materia, sicché il disposto dell'art. 16 1. 497/74 potrebbe ritenersi abrogato, con conse
guente riaffermazione dell'attuale operatività dell'art. 2 della stessa legge. Appare, insomma, non facile trovare una soluzione veramente appa
gante alla problematica in oggetto sicché non può non suscitare particola re aspettativa la pronuncia della Cassazione sollecitata dal p.m., il quale ha sollevato conflitto di competenza col provvedimento che si riporta di seguito.
Senonché, un siffatto conflitto di competenza non può non far sorgere qualche perplessità, posto che nella relazione ministeriale al progetto pre liminare del nuovo codice si sottolinea che nell'art. 28 «si è evitato qual siasi riferimento a casi di contrasto tra pubblico ministero e giudice, pro prio per sottolineare che eventuali casi di contrasto non sono riconducibi li alla categoria dei conflitti, e ciò anche in considerazione della qualità di parte — sia pure pubblica — che il pubblico ministero ha nel contesto del nuovo sistema processuale».
Vero è che i conflitti tra organi giudicanti e organi del p.m. venivano ammessi dalla giurisprudenza formatasi sull'art. 51 del codice previgente, benché la configurabilità di siffatti conflitti non fosse ivi esplicitamente prevista, cosi come nel «nuovo» art. 28 (cfr. Dubolino-Baglione
Bartolini, op. cit., 97 s., ove si ravvisa nell'ipotesi di specie un caso di proponibilità di conflitto di competenza; cfr., altresì, tra le pronunce sull'art. 51 del vecchio codice, Cass. 23 ottobre 1976, Lucatelli, Foro
it., Rep. 1977, voce Competenza penale, n. 77), ma nel contempo non
possono sottacersi i riflessi che comporterebbe l'eventuale affermazione di un indirizzo interpretativo analogo a quello maturato durante la vigen za del codice Rocco, in quanto ne verrebbe non poco intaccata la figura di' p.m. che il legislatore ha inteso designare. Né, sul piano interpretativo, può essere sottovalutata l'esplicita previsione, nel 2° comma dell'art. 28, dell'inconfigurabilità dei conflitti di competenza tra giudice dell'udienza
preliminare e giudice del dibattimento. Ed ancora, che l'art. 28 sia riferito esclusivamente ai contrasti insorti
tra organi dotati di potestà giurisdizionale sembra possa desumersi sia dalla circostanza che nell'art. 29 si prevede la cessazione del conflitto, allorché uno dei giudici dichiari la propria competenza o incompetenza, laddove nel corrispondente art. 52 del codice previgente si utilizzava la dizione «magistrati», sia dal fatto che, nel nuovo diversamente che nel vecchio codice, vi sia un'esplicita previsione normativa, l'art. 54, che re
gola i contrasti tra i diversi uffici del p.m., laddove nel passato la giuris prudenza applicava il previgente art. 52 anche per la risoluzione di tali contrasti (cfr., ad es., Cass. 9 aprile 1984, Grimaldi, cit.). In dottrina, nel senso dell'inconfigurabilità, nel nuovo codice di procedura penale, di conflitti tra p.m. ed organi giudicanti, cfr. Bonetto, Conflitti di giuris dizione e di competenza, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Torino, 1989, I, 163 s. e 167 s.
[A. Ingroia]
* * *
Per completezza d'informazione, si riporta il provvedimento del 19 di cembre 1989 con cui il procuratore della repubblica presso il Tribunale di Rieti, G. La Sala, ha sollevato conflitto di competenza avverso l'ordi nanza in epigrafe:
«Ritenuto che con ordinanza in data 12 dicembre 1989 resa nel proce dimento contro Rinchi Massimo, imputato del delitto di porto illegale in luogo pubblico di un fucile da caccia ai sensi degli art. 12 e 14 1.
497/74, il Tribunale di Rieti ha disposto la restituzione degli atti al p.m. ai sensi dell'art. 452 c.p.p., ritenendo essere stato il giudizio direttissimo instaurato oltre il termine di giorni quindici dall'iscrizione nel registro delle notizie di reato; considerato che la decisione del tribunale non può essere condivisa perché, essendo stato il procedimento direttissimo instau rato ai sensi del 2° comma dell'art. 233 d.leg. 271/89 in quanto relativo a reati concernenti le armi, lo stesso è svincolato da qualsiasi termine; che tale tesi si fonda sia sul tenore letterale del citato 2° comma dell'art. 233 che sulla considerazione che, essendo il giudizio direttissimo per reati concernenti le armi-obbligatorio per legge, lo stesso è svincolato per sua stessa natura dai presupposti e dalle condizioni che legittimano la proce dura direttissima tipica;
per questi motivi, visti gli art. 28 ss. c.p.p., solleva conflitto di compe tenza e dispone rimettersi gli atti alla Suprema corte di cassazione per la decisione».
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GIURISPRUDENZA PENALE
sti dall'art. 449 c.p.p., anche ai reati concernenti le armi e gli
esplosivi e la stampa; ritenuto in definitiva che, non essendo or
mai più operante l'art. 2 1. 497/74 e nulla disponendo l'art. 233
disp. coord, circa le forme ed i termini del giudizio direttissimo
in materia di armi, per questi ultimi si applicano le regole genera li prescritte per i «modi» di instaurazione del giudizio direttissi
mo dall'art. 449 c.p.p., e cioè, nel caso concreto, trattandosi di
imputato libero entro il termine di giorni quindici dall'iscrizione
della notizia di reato.
Per questi motivi, visto l'art. 452.1. c.p.p. dispone la restitu
zione degli atti al p.m.
TRIBUNALE DI VITERBO; ordinanza 30 novembre 1989; Pres.
Leonasi, Rei. Cartoni; imp. Capriulo.
TRIBUNALE DI VITERBO;
Impugnazioni penali in genere — Ordinanze emesse nel dibatti
mento in materia di libertà personale — Impugnazione — Com
petenza (Cod. proc. pen. del 1988, art. 309, 310, 586; norme
att., coord, e trans, cod. proc. pen. del 1988, art. 245).
L'ordinanza di revoca del mandato di cattura pronunziata dal
tribunale nella fase degli atti preliminari al dibattimento è im
mediatamente impugnabile dal pubblico ministero a norma del
l'art. 586, 3° comma, c.p.p. del 1988 e dell'art. 245, 2° com
ma, norme att., coord, e trans, c.p.p. del 1988, disgiuntamente dalla sentenza, davanti alla corte d'appello e non davanti al
tribunale di cui all'art. 309, 7° comma, c.p.p. del 1988. (1)
(1) Il caso di specie riguarda un processo che segue la disciplina del
codice di procedura penale abrogato, nel corso del quale, in sede di atti
preliminari al dibattimento di primo grado, veniva revocato, a norma
dell'art. 250, 2° comma, norme att., coord, e trans, c.p.p. del 1988, un
mandato di cattura emesso anteriormente alla data di entrata in vigore del nuovo codice.
Avverso tale provvedimento di revoca veniva proposto appello da parte del procuratore della repubblica davanti al tribunale cosiddetto della li
bertà, il quale, con l'ordinanza in epigrafe, ha disposto, a norma dell'art.
568, 3° comma (rectius 5° comma), c.p.p. del 1988, la trasmissione degli atti alla corte d'appello che sarebbe stata competente a pronunciarsi sul
l'eventuale impugnazione avverso la sentenza emessa a seguito del dibat
timento. Il Tribunale di Viterbo ha innanzitutto applicato, in forza del richiamo
contenuto nell'art. 245, 2° comma, norme att., coord, e trans, c.p.p. del 1988, l'art. 586, 3° comma, c.p.p. del 1988, secondo cui contro le
ordinanze in materia di libertà personale emesse nel corso degli atti preli minari ovvero nel dibattimento «è ammessa l'impugnazione immediata,
indipendentemente dall'impugnazione contro la sentenza».
Senonché, il Tribunale di Viterbo ha ritenuto che quest'ultima disposi zione non si limita a sancire unicamente il principio dell'immediata impu
gnabilità dell'ordinanza in materia di libertà personale, ma individua al
tresì' il mezzo di impugnazione e l'organo competente a giudicare su di
esso, laddove nel 1° comma fa coincidere il gravame esperibile avverso
la sentenza dibattimentale con quello avverso le ordinanze emesse nel di
battimento ovvero nel corso degli atti preliminari ad esso. Da qui la de
dotta inapplicabilità dell'art. 310 c.p.p. del 1988, il quale disciplinerebbe «eclusivamente le ordinanze in materia di libertà personale emesse al di
fuori della sede contemplata dall'art. 586 c.p.p.». Tale tesi non sembra condivisibile, se è vero che il nuovo codice di
procedura penale, nel dedicare un intero libro alle misure cautelari in
contrasto con il codice Rocco che collocava all'interno del libro relativo
all'istruzione quasi tutte le disposizioni in materia, ha voluto sottolineare
l'autonomia sistematica del settore e l'applicabilità della relativa discipli na a tutti i provvedimenti in materia di libertà personale adottati sia nella
fase procedimentale che in quella processuale (v. Relazione al progetto
preliminare del c.p.p., in Le leggi, 1988, 2481; e, in dottrina, Chiavario, La riforma del processo penale, 2a ed., Torino, 1990, 140; Grevi, Il
sistema delle misure cautelari personali nel nuovo codice di procedura
penale, in AA.VV., La libertà personale dell'imputato verso il nuovo pro cesso penale, Padova, 1989, 270).
Il Foro Italiano — 1990.
Visto l'appello proposto dal procuratore della repubblica di Vi
terbo avverso l'ordinanza di questo tribunale, sezione prima, in
data 24 novembre 1989 con la quale, nella fase degli atti prelimi nari al dibattimento, veniva revocato il mandato di cattura emes
so nei confronti di Capriulo Francesco nato a S. San Giovanni
il 17 maggio 1963 (n. 3/88 del 10 agosto 1988) ed eseguito in
data 8 novembre 1989; ritenuta l'applicabilità dell'art. 586 c.p.p.
(nuovo testo) in forza dell'espresso richiamo contenuto nell'art.
245 disp. trans.; osservato che la norma sopra indicata — ribadi
to il principio già affermato dal vecchio codice di procedura pe nale (art. 200) secondo cui, in linea di principio, l'impugnazione dell'ordinanza emessa in dibattimento, o nella relativa fase degli atti preliminari, è ammessa soltanto unitamente a quella della
sentenza — fa salva l'ipotesi di ordinanze in materia di libertà
personale avverso le quali l'impugnazione è ammessa «immedia
tamente, indipendentemente dall'impugnazione contro la senten
za» (art. 586/3 nuovo c.p.p.); che tale espressa previsione, non
riscontrabile nell'art. 200 vecchio c.p.p., valutata in relazione al
disposto di cui al 1° comma dell'art. 586 c.p.p. e al caratere
meramente residuale del ricorso per cassazione di cui al 2° com
ma dell'art. 568 nuovo c.p.p., induce a ravvisare coincidenza tra
l'organo giudiziario competente a decidere l'appello nel merito
e quello competente a decidere sull'impugnazione di quelle ordi
nanze che per il loro peculiare contenuto, attinente alla libertà
personale, possono essere immediatamente impugnate, in deroga al principio generale di cui al 1° comma dell'art. 586 citato; che,
pertanto, competente a pronunciarsi sull'appello in esame deve
ritenersi la Corte d'appello di Roma, non sembrando applicabile — anche alla luce dei principi generali dell'ordinamento proces suale — l'art. 310 nuovo c.p.p. il quale disciplina esclusivamente
l'impugnazione avverso le ordinanze in materia di libertà perso nale emesse al di fuori della sede contemplata dall'art. 586 nuovo
c.p.p.; letto l'art. 568/3 nuovo c.p.p., ordina trasmettersi gli atti
alla Corte d'appello di Roma.
Ne consegue che deve farsi riferimento agli art. 309 e 310 c.p.p. del
1988, norme di carattere generale, per individuare il mezzo di impugna zione e l'organo competente a giudicare in tema di libertà personale. Or
gano competente è, pertanto, il tribunale della libertà, qualunque sia sta
to l'organo giurisdizionale che abbia emesso il provvedimento in materia
di libertà personale. È stato al riguardo già puntualmente osservato che
si potranno verificare delle «figure singolari»: qualora un provvedimento in tema di libertà personale sia stato emesso da un giudice di impugnazio
ne, proprio perché tale atto è immediatamente impugnabile a norma del
l'art. 586, 3° comma, c.p.p. del 1988, il caso «con un'alquanto atipica
regressione, rispetto alle consuete sequele ascendenti, ...declina al tribu
nale della libertà» (Cordero, Codice di procedura penale commentato,
Torino, 1990, 354; v. pure Dubolino-Baglione-Bartolini, Il nuovo co
dice di procedura penale, 2a ed., Piacenza, 1990, 575 s.). Va però rilevato che, con riferimento ai processi penali che come quel
lo di specie proseguono con l'applicazione delle norme anteriormente vi
genti, la soluzione prospettata, cosi come quella del Tribunale di Viterbo,
presuppone che il richiamo alla nuova disciplina delle misure cautelari
personali, nei limiti in cui è contenuto nell'art. 250 norme att., coord,
e trans, c.p.p. del 1988, sia anche comprensivo del regime di impugnazio ne avverso tali provvedimenti di cui agli art. 309, 310, 311 c.p.p. del
1988. In caso contrario, le ordinanze in tema di libertà personale emesse
nel dibattimento o negli atti preliminari ad esso risulteranno immediata
mente impugnabili a norma dell'art. 586, 3° comma, c.p.p. del 1988,
ma esclusivamente mediante ricorso per cassazione ai sensi degli art. 272
bis, 5° e 6° comma, e 281, 3° comma, c.p.p. del 1930. [A. Scaglione]
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