ordinanza 4 aprile 1990; Giud. VetroneSource: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp.515/516-517/518Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183667 .
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PARTE SECONDA
II
Sull'eccezione di nullità della relazione di analisi sulla sostanza
stupefacente eseguita presso la Usi 75/11, per mancato avviso
al difensore degli imputati, sentito il p.m.; rilevato che i difensori di entrambi i prevenuti hanno, ai sensi
dell'art. 247 disp. trans, c.p.p., richiesto preliminarmente il giu dizio abbreviato ed è stato dal tribunale disposto di procedersi con tale rito;
rilevato che la nullità dedotta dai difensori, ove si ritenesse
che effettivamente l'accertamento sulla sostanza stupefacente co
stituisca perizia che richiede necessariamente l'avviso al difenso
re, costituisce ai sensi dell'art. 185 c.p.p. del 1930 una c.d. nulli
tà rilevabile d'ufficio una comunque sanabile; rilevato che le norme transitorie del nuovo codice richiamano
in materia di prova solo la norma attinente alla valutazione della
stessa (art. 192) e non la disciplina, a carattere precessuale, della
nullità e, pertanto, in ordine a tale disciplina occorre tuttora fare
riferimento alla precedente normativa; ritenuto che la richiesta da parte dei difensori degli imputati
del rito abbreviato ha effetto sanatorio rispetto alle eventuali nul
lità verificatesi in fase istruttoria, dovendosi ritenere che la scelta
del rito abbreviato implica adesione alla normativa prevista per lo stesso, con la conseguenza dell'impossibilità, ad avviso del col
legio, di dedurre successivamente questioni di carattere proces suale che determinerebbero una inutilizzabilità di quegli stessi atti che, con la domanda della parte, sono stati ritenuti sufficienti
per la decisione; invero, la scelta del rito impedisce la proposizio ne di eccesioni di questo tipo, salva, naturalmente, la possibilità di eccepire nullità per le quali non è prevista sanatoria (electa una via non datur recursus ad altera via)',
ritenuto, pertanto, che l'eccezione proposta in questa fase pro cessuale è da considerare inammisisbile, per questi motivi, rigetta l'eccezione.
PRETURA DI MATERA; ordinanza 4 aprile 1990; Giud. Vetrone.
PRETURA DI MATERA;
Sequestro penale — Sequestro preventivo — Inammissibilità —
Fattispecie di prodotti alimentari (Cod. proc. pen. del 1988, art. 321; 1. 30 aprile 1962 n. 283, disciplina igienica della pro duzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevan
de, art. 5).
Non può essere accolta la richiesta di sequestro preventivo di pro dotti alimentari preconfezionati, detenuti in vendita oltre il ter
mine minimo di conservazione, senza che sia fornita la prova dell'alterazione dell'alimento che non è ricavabile automatica
mente dal superamento del detto termine. (1)
(1) Il giudice per le indagini preliminari della Pretura di Matera, ri chiesto di emettere un provvedimento di sequestro preventivo di alimenti detenuti in vendita oltre il termine minimo di conservazione, nel respinge re detta richiesta ha osservato che il reato previsto dalla 1. n. 283 del 1962 (art. 5, lett. ti) non è configurabile solo perché era superato il termi ne minimo di conservazione del prodotto in assenza delle analisi di labo ratorio che ne comprovassero l'alterazione intrinseca.
Come ricordato anche nell'ordinanza in rassegna, diverse sono le tesi avanzate al riguardo: da una parte chi ritiene che nel fatto sia ravvisabile
sempre l'art. 5, lett. ti), dall'altra parte chi invece ritiene che si debba contestare l'art. 5, lett. a) o lett. d). In tema, v. Cass. 1° aprile 1974, Locher (Foro it., Rep. 1975, voce Alimenti e bevande, n. 116), secondo cui ricorre la contravvenzione di cui all'art. 30 1. 580/67, sugli sfarinati, a carico di un rivenditore che deteneva per la vendita tortellini con il termine di durata scaduto; 15 novembre 1977, Di Grazia (id., Rep. 1980, voce cit., n. 19), in cui invece è stata ravvisata la contravvenzione di cui all'art. 5, lett. a), a carico di un rivenditore che aveva messo in vendi ta un prodotto dietetico contenente la vitamina C che era risultata scadu ta al momento del controllo; 12 novembre 1974, Falchetto (id., Rep. 1975, voce cit., n. Ili): non commette alcun reato il rivenditore che ponga
li Foro Italiano — 1990.
Esaminata la richiesta — in data 27/30 marzo 1990 — del pub blico ministero, nel procedimento a margine, per l'applicazione della misura del sequestro preventivo dei prodotti alimentari elen
cati nel verbale di polizia giudiziaria in atti, nei confronti di X, in relazione al reato di cui all'art. 5, lett. b), 1. 30 aprile 1962
n. 283, fatto accertato in Tricarico, 9 marzo 1990; ritenuto che
il contrasto giurisprudenziale esistente, anche in sede di legittimi
tà, in ordine alla stessa possibilità di individuare, o meno, ipotesi di reato a carico del commerciante che detenga per vendere pro dotti alimentari preconfezionati oltre il termine minimo di con
servazione apposto in etichetta (v., da una parte, Cass., sez. VI,
2 dicembre 1985, Domizi, e, contra, sez. VI 28 maggio 1985,
Moro, Foro it., 1987, II, 320), induce a ritenere non appagante
in vendita una pasta speciale oltre il termine di conservabilità; 20 novem
bre 1973, Pedini (id., Rep. 1974, voce cit., n. 100), per cui l'indicazione della data di scadenza non attiene alla qualificazione del prodotto e quin di la sua messa in vendita dopo quel termine non realizza né gli estremi
del delitto di cui all'art. 515 c.p. né della contravvenzione punita dall'art.
36 1. n. 580; 21 marzo 1973, Mancini (id., Rep. 1973, voce cit., n. 24), la quale ha ritenuto ravvisabile la violazione dell'art. 36 1. n. 580 se per effetto della scadenza il prodotto risulti adulterato o sofisticato.
In tempi più recenti, la Cassazione si è espressa con sentenza 2 dicem bre 1985, Domizi (id., 1987, II, 320) ed ha escluso che commetta il reato
di cui all'art. 516 c.p. il commerciante che ponga in vendita latte «uht» oltre il termine di scadenza indicato in etichetta allorché non risulti che
il prodotto stesso sia effettivamente alterato. Cass. 28 maggio 1985, Mo
ro (ibid., 322) al contrario ha ritenuto configurable la contravvenzione di cui all'art. 5, lett. b), rilevando che nel caso di prodotti alimentari
chiusi in confezioni sigillate sulle quali il produttore abbia indicato il
termine minimo di conservazione (tmc) la scadenza di quest'ultimo com
porta una presunzione vincolante per il venditore di cattiva conservazione
della merce. Su questa tematica, da ultimo, v. Paone, Tmc e legge 30 aprile 1962
n. 283, in Ross. dir. tecnica alimentai., 1989, 415 ss. Secondo l'a. «. . . lo
scadimento del prodotto alimentare collegato al superamento dell'indica
to termine minimo di conservazione configura l'ipotesi criminosa di cui alla lett. d) dell'art. 5 ovvero quella dello «stato di alterazione» dell'ali mento. Questa tesi è non solo logica, visto che parliamo di condizioni
irregolari intrinseche della sostanza alimentare, ma è anche coerente con
il significato che la dottrina assegna al termine alterazione».
Sulla scorta di quanto osservato da Cass. 2 dicembre 1985, Domizi,
cit., in cui si è puntualizzato che l'indicazione del termine minimo di
conservazione configura una presunzione di regolarità dell'alimento che
può essere superata dall'esame chimico del medesimo, l'a. ha inoltre so
stenuto «. . . che il Tmc scaduto dà luogo alla mera supposizione che
l'alimento abbia perduto o stia per perdere nel futuro più o meno prossi mo le caratteristiche garantite dal produttore «fino ad una certa data».
Potremmo dire quindi che siamo in presenza di un indizio di reato, ma
come tale . . . non ha ancora dignità di piena prova dell'esistenza di una condizione di irregolarità del prodotto: esso, quindi, va confortato con altri riscontri obiettivi ... sia esami visivi del prodotto sia soprattutto esami di laboratorio che permettano di acquisire la prova dello stato di
alterazione o di deterioramento. Per questo motivo siamo dell'avviso che occorra sempre provvedere all'analisi del prodotto al fine di poter conte stare l'inosservanza dell'art. 5 1. n. 283 ... Il Tmc insomma è un campa nello d'allarme sia per venditore che per consumatore, ma non rappre senta affatto la linea di discrimine tra salubrità, igienicità e sanità del
prodotto e il suo contrario . . . Quindi, per concludere, il reato di cui all'art. 5 potrà contestarsi solo quando l'alimento, posto in vendita con Tmc scaduto, sia risultato alterato o deteriorato o comunque privo dei
propri elementi nutritivi, da accertarsi mediante analisi».
Sulla nozione di cattivo stato di conservazione, v. Cass. 11 luglio 1985, De Martino, Foro it., 1987, II, 321; 12 luglio 1985, Pisapia, id., Rep. 1986, voce cit., n. 73; 29 marzo 1985, Pozzolini, ibid., n. 74; Pret. Gela 11 febbraio 1988, id., 1989, II, 218, con nota di richiami.
Sul sequestro di prodotti alimentari esteso a tutto il territorio naziona
le, v., tra le ultime, Cass. 7 maggio 1981, Trangoni, id., 1981, II, 505, con nota di Gironi e Giust. pen., 1981, III, 449, con nota di Piccinino,
Sequestri penali di prodotti alimentari (limiti territoriali e mezzi di impu gnazione).
Sul sequestro c.d. preventivo (prima dell'entrata in vigore del codice del 1988), v., in materia di costruzioni abusive, Cass., sez. un., 24 no vembre 1984, Messina, Foro it., 1985, II, 65; Trib. Roma 2 febbraio
1987, id., 1987, II, 456, con nota di A. Ferrara (in tema di esportazione di opere d'arte).
In dottrina, sull'argomento, v. Betocchi, Il sequestro penale preventi vo: delimitazione dell'ambito di operatività; presupposti; conseguenze pe culiari dell'autonomia funzionale; tutela dei soggetti passivi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983 , 970 ss.
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GIURISPRUDENZA PENALE
l'opinione dell'automatico parallelismo fra superamento di detto
termine ed alterazione dell'alimento (e, quindi, sussistenza della
contravvenzione in questione); rilevato che l'esame degli atti tras
messi dal p.m. a corredo della richiesta non consente di verificare
se, nella specie, si tratti di prodotti alimentari indicati come ap
partenenti al tipo altamente deperibile (art. 10 d.p.r. 18 maggio 1982 n. 322), circostanza il cui verificarsi potrebbe fondatamente
far sostenere la presunzione, sufficiente per l'adozione della ri
chiesta misura cautelare, dell'oggettiva sussistenza del reato in
esame, e cioè del presupposto cardine per poter provvedere ex
art. 321 c.p.p.; considerato che — allo stato — la richiesta del
p.m. non può, pertanto, trovare accoglimento; per questi motivi, visti gli art. 321 e 272 ss. c.p.p., non accoglie la richiesta di se
questro preventivo di cui sopra.
PRETURA DI ROVIGO; ordinanza 4 dicembre 1989; Giud.
Schiesaro; imp. Destefani ed altro.
PRETURA DI ROVIGO;
Ambiente (tutela dell') — Danno ambientale — Legittimazione attiva autonoma degli enti territoriali — Sussistenza (L. 8 lu
glio 1986 n. 349, istituzione del ministero dell'ambiente e nor
me in materia di danno ambientale, art. 18). Parte civile — Reati contro l'ambiente — Enti territoriali — Am
missibilità (Cod. pen., art. 185; cod. proc. pen. del 1930, art.
22, 91). Parte civile — Associazioni ambientalistiche — Ammissibilità —
Fattispecie (Cod. pen., art. 185, 328, 480; cod. proc. pen. del
1930, art. 22; 1. 8 luglio 1986 n. 349, art. 13, 14, 18).
Gli enti territoriali diversi dallo Stato possono costituirsi come
parti civili nel procedimento penale per reati d'inquinamento,
quali titolari iure proprio dell'azione di risarcimento, ex art.
18 l. 349/86, per il danno ambientale, verificatosi nell'ambito
del territorio di propria competenza. (1)
(1) I. - Non constano precedenti in termini. In senso contrario, Trib.
Vallo della Lucania 13 novembre 1986 (massimata parzialmente in Foro
it., Rep. 1987, voce Parte civile, n. 8 e per esteso in Riv. pen., 1987,
468), secondo cui «(. . .) poiché per il danno ambientale il risarcimento
compete solo allo Stato, deve ritenersi che gli enti territoriali di cui al n. 3 costituiscono solo dei sostituti processuali dello Stato (. . .)». Nello
stesso senso, sembra anche App. Messina 22 maggio 1989, Giust. civ., 1989, I, 2684, secondo cui «(. . .) il danno risarcibile — in caso di inqui namento da idrocarburi — comprende anche il danno ambientale (. . .), ancorché verificatosi nel mare territoriale. La legittimazione ad agire (. . .) non può che spettare allo Stato, come ente rappresentativo della colletti
vità nazionale (. . .)». Altri giudici di merito hanno riconosciuto (senza particolari approfon
dimenti) il diritto di vari enti locali territoriali al risarcimento del danno
ambientale, ex art. 18 1. 349/86: cosi Pret. Pietrasanta 23 febbraio 1987, Foro it., 1987, II, 714, con nota critica di Mazzia, ha ritenuto che i
comuni, interessati dalla costruzione di un elettrodotto (non conforme
alle norme urbanistiche) abbiano diritto al risarcimento del danno am
bientale (rimettendo poi le statuizioni riguardanti il quantum al giudice civile). Nel caso specifico, è stata, peraltro, ritenuta come necessaria la
partecipazione al giudizio de quo dell'amministrazione statale, in analo
gia al meccanismo processuale previsto dall'art. 60 1. 392/78. Secondo
altri, sussiste il diritto al risarcimento del danno ambientale sia in favore
dello Stato che della regione, promotrice dell'azione, in ipotesi di realiz
zazione abusiva di un'area di raccolta e stoccaggio provvisorio di rifiuti
solidi urbani e speciali (cosi Pret. Vigevano 13 maggio 1987, id., Rep. 1987, voce Ambiente (tutela dell'), n. 76 e Riv. giur. ambiente, 1987,
80, con nota adesiva di Lettera, Danno ambientale e danno civile da
illecito). Nella fattispecie concreta, è stato riconosciuto in favore della
regione Lombardia, costituitasi (in assenza dello Stato) come parte civile,
(anche) il diritto al risarcimento sia del danno patrimoniale, correlato alle spese di bonifica della zona interessata dalla presenza dei rifiuti, sia
del danno non patrimoniale, connesso alla «paura» ed alla «sofferen
II Foro Italiano — 1990.
Gli enti territoriali diversi dallo Stato possono costituirsi come
parti civili nel procedimento penale per reati d'inquinamento, al fine di ottenere il risarcimento del danno, diverso da quello
ambientale, costituito dalle spese sostenute per contene
za», ingenerate nella collettività lombarda dall'ammasso di rifiuti. Anche in tale ipotesi la quantificazione dei danni è stata rimessa al giudice civile. Più recentemente, è stato riconosciuto in favore degli enti territoriali (re gione e comune), costituitisi parti civili in un giudizio per inquinamento, «il diritto al risarcimento del danno ambientale subito per la lesione della sfera funzionale loro attribuita dall'ordinamento» (cosi Pret. Voltri 16 marzo 1987, Foro it., 1988, II, 266, con nota critica di Amandonico, che — tra l'altro — segnala come «piuttosto azzardata» l'identificazione
dell'oggetto di tutela dell'art 18 cit. con «il proficuo esercizio delle fun zioni pubbliche riconosciute agli enti»).
II. - La Suprema corte non ha affrontato ex professo le problematiche riguardanti la legittimazione attiva all'esercizio dell'azione per danno am bientale. Tuttavia, in sede civile, è stato genericamente affermato che «il comune è legittimato, ai sensi dell'art. 18 1. 8 luglio 1986 n. 349, all'esercizio dell'azione risarcitoria, davanti al giudice ordinario, per i danni ambientali riguardanti il suo territorio, anche attraveso istanza di accerta mento tecnico preventivo» (cosi Cass. 12 febbraio 1988, n. 1491, id.,
Rep. 1988, voce cit., n. 118). Più recentemente, è stato sostenuto che
«(. . .) se lo Stato accentra in sé, nella veste di massimo ente esponenziale della collettività nazionale, la titolarità del ristoro del danno all'ambien
te, ciò non priva certamente altri soggetti della legittimazione diretta a
rivolgersi al giudice per la tutela di altri diritti patrimoniali o personali, compromessi dal degrado ambientale, come, ad esempio, in caso di di struzione in dipendenza della stessa condotta illecita, che abbia compro messo l'ambiente di beni appartenenti al demanio ed al patrimonio di enti territoriali (. . .)» (Cass., sez. un., 25 gennaio 1989, n. 440, id., 1990, I, 232). In sede penale, è stato incidenter tantum affermato che le azioni di risarcimento ex art. 18 cit. possono essere promosse dallo Stato, non ché dagli enti territoriali, sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo
(cosi Cass. 1° marzo 1988, Hampe, Giur. it., 1989, II, 262; Cass. pen., 1989, 1067). In altra più recente pronuncia, è stato sostenuto che la regio ne «vanta una legittimazione propria nella difesa degli interessi correlati al suo territorio ed è perciò abilitata a far valere il danno ambientale in sede civile»; sicché «il giudice penale, ove ritenga sussistere il reato da cui sia derivato un danno ambientale nei confronti dell'ente territoria le costituitosi parte civile, può disporre direttamente la condanna in for ma specifica mediante riduzione in pristino dello stato dei luoghi a spese dell'imputato» (cosi, Cass. 24 gennaio 1989, Barbagallo, ibid., 1988).
Infine, è stato sottolineato che «la prova completa e minuziosa del danno dell'ambiente risulta obiettivamente impossibile, perché alcuni ef fetti pregiudizievoli, pur costituendo un pregiudizio certo, si evidenziano con il tempo e sono di difficilissima dimostrazione: si pensi, ad esempio, al pregiudizio all'immagine turistica del comune. Chi inquina, non può tuttavia avvantaggiarsi delle difficoltà di quantificazione del danno stesso
e, di conseguenza, eventuali incertezze probatorie, se obiettivamente giu stificabili, potranno essere considerate dal giudice nel suo prudente ap prezzamento» (Cass. 11 gennaio 1988, Mattuizzi, Sanità pubbl., 1989, 976, nonché Riv. pen., 1989, 521 e Cass. pen., 1989, 1094).
III. - Sulle questioni ermeneutiche relative alla legittimazione attiva al
l'esercizio dell'azione ex art. 18 cit. è stata chiamata in causa la Corte
costituzionale, che non ha però fornito un chiaro responso. Nella prima pronuncia (30 dicembre 1987, n. 641, Foro it., 1988, I, 694) è stato gene ricamente affermato che «la legittimazione ad agire, che è attribuita allo Stato ed agli enti minori, non trova fondamento nel fatto che essi hanno affrontato spese per riparare il danno o nel fatto che essi abbiano subito una perdita economica, ma nella loro funzione a tutela della collettività
e della comunità nel proprio ambito territoriale e degli interessi all'equili brio ecologico, biologico e sociologico del territorio che ad essi fanno
capo (. . .)». A proposito di tali affermazioni in dottrina è stato osservato che «la
corte non sembra abbia messo a fuoco la disciplina dell'art. 18 (. . .), in ispecie sui soggetti legittimati a promuovere il giudizio» (cosi F. Giam
pietro, Il danno all'ambiente innanzi alla Corte costituzionale, ibid., 695
ss., spec, sub § 3, 703-704); per altro autore, invece, la corte sembrerebbe
aderire alla tesi, secondo cui gli enti territoriali sarebbero titolari — ex
art. 18 cit. — di una situazione soggettiva sostanziale (e non meramente
processuale), coesistente con quella dello Stato (P. Giampietro, Il danno
ambientale tra giurisdizione contabile e giudice ordinario: l'intervento della
Corte costituzionale, in Sanità pubbl., 1989, 23 ss., spec. 37-38; Id., L'il
lecito ed il danno ambientale, in Giur. merito, 1989, 738 ss., spec. 741-743).
Inoltre, recentemente, l'assunto secondo cui l'art. 18, 1° e 3° comma, 1. 349/86 illegittimamente non attribuirebbe alle regioni il diritto al risar
cimento del «danno ambientale di contenuto paesaggistico» è stato di
chiarato manifestamente infondato, in quanto il risarcimento del danno
ambientale «(. . .) spetta allo Stato, ma (. . .) la relativa azione, anche
se esercitata in sede penale, è promossa non solo dallo Stato ma anche
dagli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo
e quindi anche dalla regione per i beni siti in essa (. . .)» (Corte cost., ord. 4 aprile 1990, n. 195, G.U., la s.s. 24 aprile 1990, n. 17).
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