sentenza 10 dicembre 1993; Pres. Bianchini, Est. Paladini; imp. FrancesconiSource: Il Foro Italiano, Vol. 117, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1994), pp.261/262-265/266Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23188463 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
407, 2° comma, lett. a), c.p.p. e di un dibattimento che si pre senti dallo svolgimento particolarmente complesso.
È agevole rilevare che, se per un verso, l'indagine circa la
sussistenza del primo requisito viene a risolversi in un atto di
mera ricognizione tecnica, orientato soltanto a verificare che
alcuno degli indicati reati sia ascritto agli imputati oggetto della richiesta e che esso costituisca titolo della custodia in atto, l'e
same relativo al secondo presupposto richiede, invece, una va
lutazione che, in difetto di parametri espliciti di tipo normati vo, risente del dato di specificità — di volta in volta necessaria
mente distinto — del dibattimento in corso di celebrazione, con
la necessitata conseguenza che il giudice dovrà darne contezza
in termini di adeguata motivazione. A tal riguardo, seguendo l'ordine sistematico che precede, può
intanto affermarsi che tutti gli imputati in vinculis nei confronti
dei quali il p.m. ha avanzato la richiesta in oggetto — con l'u
nica eccezione di Muscarella Salvatore di cui si dirà appresso — rispondono singolarmente di reati ricompresi nella categoria enucleata dalla norma. (Omissis)
Quanto al secondo requisito richiesto dalla norma ed invoca
to dal p.m., reputa il tribunale che esso vada senz'altro ravvisa
to presente nel caso di specie. Ora, se per un verso può riconoscersi che il mero svolgersi
di un dibattimento per fatti di criminalità associata non possa
integrare quel dato di complessità del rito — diversamente opi
nando, acquisterebbe solo valore pleonastico e ripetitivo l'indi
cazione normativa in discorso — è per vero, di contro, che pro cessi di tal tipo, specie se afferenti ad organizzazioni crimimose
notevolmente estese ed articolate, non possono sovente prescin dere da conduzioni processuali caratterizzate da molteplici e com
posite assunzioni probatorie. Ed è proprio al fine precipuo di far fronte, nella gestione
e conduzione dei processi, ai problemi connessi al fenomeno
del crimine organizzato che si è dato un concreto riferimento
normativo alla categoria della «particolare complessità» dibatti
mentale (espressa nella direttiva 61 della legge-delega), evitando
che, in funzione ed a cagione della medesima, il processo venis
se autopenalizzato in termini di pura oggettività, determinando
inopportune scarcerazioni di massa.
Ma è anche profondamente convincente che l'inclusione, ai
fini della sospensione, dei tempi «vivi e morti» del dibattimento — ossia anche dei giorni in cui si articolano gli intervalli tra
un'udienza e l'altra — debba richiedere che la naturale com
plessità dei processi per reati di tipo associativo si presenti con
aspetto di peculiarità. (Omissis)
TRIBUNALE DI VENEZIA; ordinanza 24 gennaio 1994; Pres.
ed est. Dodero; Pagliani ed altro. TRIBUNALE DI VENEZIA;
Udienza preliminare — Decreto che dispone il giudizio — Nullità
— Fattispecie (Cod. civ., art. 2621; cod. proc. pen., art. 429).
È nullo, per insufficiente indicazione dell'enunciazione del fat to, il decreto che nel disporre il giudizio si lìmiti a riprodurre testualmente la disposizione normativa del reato contestato
senza alcun riferimento alla concreta condotta addebitata al
l'imputato (nella specie, il giudice dell'udienza preliminare, nel disporre il giudizio in ordine al reato di cui all'art. 2621,
lett. a, c.c., aveva omesso ogni indicazione, sia pure sintetica, delle voci di bilancio ritenute non veritiere; il tribunale, rile
vato che la contestazione formulata nel decreto che dispone il giudizio è integrabile solo con gli atti legittimamente inseriti
nel fascicolo per il dibattimento, e che tra tali atti non posso no essere ricomprese le relazioni del curatore a norma della
legge fallimentare, ha dichiarato la nullità del decreto che di spone il giudizio enunciando il principio di cui in massima). (1)
(1) Nello stesso senso, per una analoga fattispecie, cfr. Trib. Roma
14 gennaio 1992, Foro it., 1993, II, 108, con nota di richiami.
Nel senso che la relazione del curatore non può essere considerata
atto irripetibile e, dunque, non può essere inserita ab origine nel fasci
colo per il dibattimento, cfr. Trib. Cassino 7 marzo 1991, id., Rep.
1991, voce Udienza preliminare, n. 65; contra, Trib. Milano 4 maggio
1990, ibid., voce Prova penale in genere, n. 128. Sull'utilizzabilità della
relazione del curatore sub specie di prova documentale, cfr. Cass. 21
settembre 1992, Bolamperti, id., 1993, II, 1, con nota di richiami.
Il Foro Italiano — 1994.
Sull'eccezione di nullità del decreto che dispone il giudizio per insufficiente enunciazione del fatto relativamente all'ipotesi indi cata alla lett. A) del capo d'imputazione; gli imputati Pagliani e
Bombassei di aver redatto i bilanci della società Vepla s.r.l., per
gli anni 1986,1987 e 1988, «esponendo fraudolentemente fatti non
corrispondenti al vero sulle condizioni economiche . . .»; che tale dizione si limita a riprodurre testualmente la formu
lazione normativa di cui all'art. 2621, lett. a), c.c., senza alcun
riferimento al caso concreto, ossia senza alcuna indicazione, sia
pure sintetica, della voce dei predetti bilanci che si assumono
non veritieri; che la contestazione, contenuta nel decreto che dispone il giu
dizio, è integrabile unicamente con gli atti legittimamente inse
riti nel fascicolo del dibattimento, a norma dell'art. 431 c.p.p.; che fra tali atti non possono essere comprese le relazioni del
curatore ai sensi della legge fallimentare, indebitamente inserite
nel fascicolo del dibattimento, non trattandosi di verbali di atti
non ripetibili o assunti nel corso dell'incidente probatorio; che pertanto risulta violato il disposto dell'art. 429, 1° com
ma, lett. c), c.p.p., sanzionato espressamente da nullità dal ca
poverso dello stesso articolo; che tale nullità non risulta sanata, come asserito dalla parte ci
vile, per il fatto che gli imputati all'udienza preliminare non avreb
bero sollevato alcuna eccezione circa la richiesta di rinvio a giudi
zio, nella quale l'imputazione era formulata negli stessi termini
del decreto ex art. 429 c.p.p., in quanto nessuna nullità della pre detta richiesta è prevista per la violazione dell'art. 417 c.p.p.;
che in ogni caso l'eventuale sanatoria, per effetto della su
indicata acquiescenza, potrebbe riguardare unicamente la richiesta
di citazione a giudizio e non certo un atto successivo alla prete sa condotta sanante, quale il decreto ex art. 429 c.p.p., la cui
nullità è eccepibile unicamente in sede di atti preliminari al di battimento.
Circa le questioni relative al contenuto del fascicolo del di
battimento:
rilevato che le relazioni del curatore, ai sensi della legge falli
mentare e la sentenza dichiarativa di fallimento, non rientrano
in alcuna delle categorie di atti, tassativamente elencate nell'art.
431 c.p.p.;
per questi motivi, dichiara la nullità del decreto che dispone il giudizio nei confronti di Pagliani Stefano e Bombassei Fran
co, relativamente al fatto contestato alla lett. A) del capo d'im
putazione; dispone eliminarsi dal fascicolo del dibattimento le
relazioni del curatore ai sensi della legge fallimentare; rigetta l'istanza di acquisizione della sentenza dichiarativa di fallimen
to della Vepla s.r.l.
TRIBUNALE DI PIACENZA; sentenza 10 dicembre 1993; Pres.
Bianchini, Est. Paladini; imp. Francesconi.
TRIBUNALE DI PIACENZA;
Abuso di poteri e violazione dei doveri d'ufficio — Omissione
di atti d'ufficio — Sindaco — Mancato rilascio di documenti — Esclusione — Fattispecie (Cod. pen., art. 51, 328; 1. 7
agosto 1990 n. 241, nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti ammini
strativi, art. 2, 25).
Non integra gli estremi del delitto preveduto dall'art. 328 c.p.
la condotta omissiva di un sindaco, il quale non rilasci, entro
il termine di trenta giorni dalla richiesta scritta da parte del
l'interessato, copia di atti relativi a procedimenti amministra
tivi, in quanto col non consentire l'accesso ai richiesti docu
menti e col non rispondere per esporre le ragioni del ritardo
egli si avvale dell'art. 25 l. 241/90, norma che — al diverso
fine di garantire l'immediata sindacabilità dell'atto ammini strativo negativo — autorizza il pubblico ufficiale (come eser cizio di un potere o di una facoltà riconosciuta da altra nor
ma di legge, con funzione scriminante ex art. 51 c.p.) a rima
nere inerte per il termine di trenta giorni senza imputare al
medesimo la sanzione generalmente comminata dalla norma
penale. (1)
(1) I. - La sentenza affronta il complesso problema del coordinamen
to tra il nuovo testo dell'art. 328 c.p., con specifico riguardo alla
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PARTE SECONDA
Fatto e diritto. — Con decreto del 14 maggio 1992, il g.i.p.
presso il Tribunale di Piacenza disponeva il giudizio nei con
fronti di Francesconi Luigi per il reato di cui in epigrafe. All'odierna udienza, preliminarmente il p.m. rettificava il ca
po d'imputazione nel senso che il reato doveva intendersi con
sumato nel giugno 1991, e non già nell'agosto dello stesso an
no. Venivano quindi ammesse tutte le prove documentali e te
stimoniali richieste dalle parti; sentiti i testi Piazza Michela (consigliere comunale autrice dell'istanza di cui all'imputazio
ne), Franzini Giuseppe (tecnico comunale presso il comune di
Gazzola all'epoca dei fatti), Corti Enrico (segretario comunale
presso il comune di Gazzola); si procedeva, altresì, al confronto tra i testi Piazza e Corti, e quindi, dopo aver pronunciato ordi
nanza di rigetto della richiesta del p.m. di acquisizione della
documentazione elencata nell'istanza di cui all'imputazione, si
dichiarava l'utilizzabilità degli atti allegati al fascicolo per il di battimento e, sentite le conclusioni delle parti, cosi come in epi
grafe trascritte, il tribunale si ritirava per la decisione.
L'imputato deve essere assolto dal reato a lui ascritto perché il fatto non costituisce reato.
L'istruttoria dibattimentale ha consentito di pervenire all'e
satta ricostruzione in fatto della vicenda.
Come riferito dalla teste Piazza, quest'ultima, in data 21 mag
gio 1991, inviava al sindaco dello stesso comune (consegnando la nelle mani di un'impiegata) una richiesta scritta, con la quale domandava il rilascio di una serie di documenti, tra i quali due
delibere consiliari ed altri atti relativi a procedimenti ammini strativi riguardanti la coltivazione della cava Boccenti. Mentre
le copie delle delibere consiliari venivano consegnate alla Piazza
dal segretario comunale poco tempo dopo la presentazione del
l'istanza, nessun seguito aveva, invece, la richiesta con riferi
mento agli altri atti richiesti e, pertanto, la Piazza sporgeva de
nuncia alla stazione dei carabinieri di Agazzano in data 10 otto
bre 1991.
Il teste Franzini — dopo aver precisato che, secondo prassi,
egli era stato autorizzato dal sindaco a rilasciare le copie di tutti gli atti esistenti presso il comune, dei quali non si ravvisas sero particolari ragioni di riservatezza, senza la necessità di al
fattispecie di cosiddetta «messa in mora» preveduta dal 2° comma, e le norme di cui alla 1. 241/90 in materia di procedimento amministrati vo e di accesso ai documenti amministrativi.
Più in particolare, il problema riguarda l'individuazione del termine
temporale, rispettivamente, entro il quale ciascun provvedimento am ministrativo deve concludersi in omaggio a esigenze di «certezza», e a partire dal quale il pubblico ufficiale assume un rischio penale in
conseguenza di un contegno omissivo ingiustificato. Ed infatti, mentre l'art. 328, 2° comma, c.p. prevede un unico termine di «trenta giorni» quale spazio temporale entro il quale il p.u. è tenuto ad adempiere a partire dalla richiesta dell'interessato (per una critica alla fissazione di questo termine unico, che può non adattarsi a tutte le situazioni concrete che fanno da presupposto all'obbligo di attivarsi, cfr., tra al
tri, Fiandaca, in Foro it., 1991, V, 421; Pagliaro, Principi di diritto penale, parte speciale, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1994, 287), la legge sul procedimento ammi nistrativo (emanata quasi contemporaneamente ma senza sufficiente coor dinamento con la 1. 86/90 modificativa della disciplina dei delitti contro la pubblica amministrazione), ha stabilito che le pubbliche amministra zioni determinano per ciascun tipo di procedimento di loro competenza — salvo che non sia già disposto per legge o regolamento — il termine entro cui esso deve concludersi (art. 2, 2° comma, 1. 241/90); soltanto nel caso in cui le amministrazioni non provvedano nel senso predetto, vige il termine unico di trenta giorni (art. 2, 3° comma, 1. 241/90).
Orbene, dal sovrapporsi poco coordinato delle disposizioni che prece dono derivano una serie di interrogativi. E cioè: nel caso in cui sia
previsto per il compimento dell'atto un termine maggiore dei trenta giorni, quale sarà il termine da assumere a punto di riferimento ai fini della configurabilità di una condotta omissiva pensilmente rilevante? Men tre, nell'ipotesi in cui viga anche per il compimento dell'atto il termine generale di trenta giorni, questo stesso termine coinciderà con quello previsto dall'art. 328, 2° comma, c.p.? Nel rispondere a siffatti interro
gativi, tende in dottrina a prevalere l'orientamento secondo cui, in pre senza di termini espressi diversificati ed adeguati alla peculiarità dei
singoli atti, l'inosservanza di questi ultimi non costituirà reato finché non intervenga la messa in mora da parte dell'interessato e non decorra inutilmente il termine di trenta giorni preveduto dall'art. 328 c.p., che va di conseguenza inteso quale limite temporale ulteriore rispetto a quello previsto in sede amministrativa per il compimento dello specifico atto (cfr. Palazzo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, 833; Segreto e De Luca, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazio ne, Milano, 1991, 665; Balbi, in Nuova rass., 1992, 332).
Un simile orientamento, al quale sembra implicitamente aderire in mo tivazione anche la pronuncia su riprodotta, corrisponde del resto al punto
Il Foro Italiano — 1994.
cuno specifico visto o autorizzazione del sindaco — riferiva, a sua volta, che molti degli atti richiesti dalla Piazza non erano
stati consegnati a costei, in quanto non ancora formati dal com
petente ufficio comunale; mentre, con riferimento all'ordinanza
Sedeco, il teste Corti dichiarava che il mancato rilascio era di
peso da una certa interpretazione della 1. 241/90 (art. 24, 4°
comma), secondo cui il diritto di accesso si sarebbe potuto espli care soltanto nei confronti di atti formati dalla stessa pubblica amministrazione destinataria della richiesta (circostanza quest'ul tima non esclusa neppure dalla Piazza in sede di confronto). Il teste Corti riferiva ancora che l'istanza era stata da lui conse
gnata all'impiegata dell'ufficio protocollo, che — a suo avviso — avrebbe dovuto in seguito consegnarla al sindaco.
L'odierna imputazione si riferisce alla fattispecie normativa
di cui all'art. 328, 2° comma, c.p. (cosi come sostituito dall'art.
16 1. 26 aprile 1990 n. 86), secondo cui «fuori dai casi previsti dal 1° comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubbli co servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia
interesse non compie l'atto del suo ufficio o non risponde per
esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino
a un anno o con la multa fino a lire due milioni. Tale richiesta
deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa».
Quanto all'interesse tutelato dalla norma, si può ritenere che
esso non si differenzi da quello già alla base della precedente
fattispecie dell'omissione o rifiuto di atti di ufficio, ed indivi duato dalla giurisprudenza nell'esigenza di assicurare il regolare funzionamento della pubblica amministrazione, imponendo al
pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio di as
solvere scrupolosamente e tempestivamente i doveri inerenti al
l'ufficio o servizio (cfr. Cass. n. 144065/79). In seguito all'ema
nazione della nuova 1. 86/90, peraltro, la dottrina non ha man
cato di precisare come — con particolare riferimento alla norma
dell'art. 328, 2° comma (che, da un lato, presuppone la richie
sta dell'interessato, e, dall'altro, non ritiene necessaria la con
creta emanazione dell'atto richiesto, potendo il pubblico uffi
ciale limitarsi a motivare le ragioni del proprio ritardo) — l'of
di vista contenuto nella «circolare del ministero per la funzione pubbli ca del 4 dicembre 1990, n. 58245/7. 464 - art. 16 1. 26 aprile 1990 n. 86, concernente i reati di rifiuto di atti di ufficio e di omissione»
(Le leggi, 1990, II, 495), dove testualmente si afferma: «Il fatto che il 2° comma dell'art. 328 c.p. dispone nel senso che il reato si consuma
dopo l'inutile decorso del termine di trenta giorni dalla richiesta non
equivale a superamento delle norme relative ai singoli procedimenti am
ministrativi, la durata dei quali dipende anche dalle esigenze istruttorie, che non possono essere disattese o compresse entro termini insufficienti».
II. - Più in particolare, il caso venuto al vaglio del tribunale coinvol
ge un aspetto ancora più specifico della problematica, e cioè la materia relativa alle richieste dei privati di accesso ai documenti amministrativi, rispetto alla quale l'art. 25, 4° comma, 1. 241/90 stabilisce che, trascor si inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende rifiutata. Con riferimento a questa specifica ipotesi, ma anche più in generale riguardo a tutti i casi in cui il termine di trenta giorni dalla richiesta coincida con quello stabilito per il maturarsi del «silenzio-rifiuto», si è altresì escluso in dottrina che l'infruttuoso spirare di detto termine
implichi automaticamente l'integrazione del reato previsto dall'art. 328, 2° comma, c.p.: ciò «perché con il silenzio-rifiuto sia pure per una
presunzione, si ha il compimento dell'atto» (cfr. Segreto e De Luca, cit., 666. Più in generale, in una prospettiva di riconsiderazione critica della materia, non si è mancato peraltro di dubitare della «compatibili tà» tra la tutela penale azionabile ex art. 328 cit. e la persistenza del tradizionale istituto del silenzio-rifiuto: cfr., tra gli amministrativisti, Nicosia, Il procedimento amministrativo. Prìncipi e materiali, Napoli, 1992, 57; e, tra i penalisti, Manna, La riforma del delitto di omissione di atti di ufficio: alla ricerca della «offensività» perduta?, in AA.VV., Reati contro la pubblica amministrazione a cura di F. Coppi, 1993, 316. Sul punto, la ricordata circolare ministeriale ha affermato che la norma penale non importa la sostituzione dei principi in tema di forma zione del silenzio-rifiuto o del silenzio-rigetto).
Ad avviso del Tribunale di Piacenza, proprio nelle ipotesi in cui la stessa legge fa coincidere la scadenza dei trenta giorni col silenzio-rifiuto sarebbe errato ritenere che l'art. 328, cpv., c.p. risulti applicabile sol tanto in seguito al successivo invio di un ulteriore atto di diffida e alla scadenza di un ulteriore periodo di trenta giorni: piuttosto, già allo scadere dei primi trenta giorni si perfezionerebbe una condotta omis siva penalmente tipica; ma — ed è qui che il tribunale propone una soluzione ardita — il fatto sarebbe «scriminato» ex art. 51 c.p., dal momento che l'art. 25 1. 241/90 attribuirebbe al p.u. il potere di non
rispondere all'istanza rivoltagli, cosi da consentire al richiedente di sod disfare il «prevalente» interesse a ottenere l'immediata sindacabilità del l'atto amministrativo negativo.
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GIURISPRUDENZA PENALE
fensività del fatto si incentri particolarmente su un interesse di
natura conoscitiva riguardo alla sussistenza delle ragioni del ri
tardo e non tanto sulla tempestività degli adempimenti dell'uffi
cio. Proprio tale ratio della norma incriminatrice — per il fatto
di poter essere ricompresa nella più ampia problematica dell'in
teresse diffuso alla trasparenza e correttezza dell'azione ammi
nistrativa — consente di cogliere le affinità con la pressoché contestuale disciplina legislativa sul procedimento amministrati
vo e sul diritto di accesso ai documenti amministrativi (1. 7 ago sto 1990 n. 241). Peraltro, il caso oggi sottoposto al giudizio di questo tribunale impone di meglio analizzare, sul piano er
meneutico ed applicativo, i rapporti tra la predetta noma incri
minatrice e le norme della 1. 241/90.
All'uopo, occorre, anzitutto, premettere che l'art. 2 1. 241/90
stabilisce che «ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba iniziare d'ufficio, la pubblica am
ministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l'adozione
di un provvedimento espresso» (1° comma), ed inoltre, qualora le pubbliche amministrazioni non determinino il termine entro
il quale ciascun procedimento amministrativo debba concluder
si (2° comma), il termine è di trenta giorni (3° comma). Nell'esaminare le relazioni esistenti tra la citata disposizione
e quella di cui all'art. 328, 2° comma, c.p., mentre una parte minoritaria della dottrina ha ritenuto che l'istanza idonea a far
decorrere il termine per il compimento del procedimento ammi
nistrativo fosse altresì idonea a determinare l'obbligo del pub blico ufficiale di provvedere ai sensi e con gli effetti di cui al l'art. 328, cpv., c.p., la maggior parte degli autori ha, vicever
sa, ritenuto che la richiesta, come tale qualificabile agli effetti
della norma penale in esame, sia costituita da un atto di messa
in mora della pubblica amministrazione, successivo all'inutile
decorso del termine stabilito per il perfezionamento del procedi mento amministrativo. In tale ultima ipotesi interpretativa, per
tanto, non potrebbe neppure qualificarsi come tipica, in rela
zione alla norma sull'omissione o ritardo dell'atto d'ufficio, la
condotta del pubblico ufficiale che, in seguito all'istanza intro
duttiva del procedimento amministrativo, ometta di compiere
l'atto del suo ufficio nel termine di trenta giorni (o nel diverso
termine stabilito dalla legge o dal regolamento o, ai sensi del
l'art. 2, 2° comma, 1. 241/90, dalla pubblica amministrazione
competente), posto che tale termine decorrerebbe, agli effetti
penali, soltanto da un successivo atto scritto di sollecitazione
rivolto dall'istante al pubblico ufficiale, e sempre che la legge
stessa non attribuisca al silenzio del pubblico ufficiale un signi
ficato giuridico equipollente all'emanazione di un atto ammini
strativo a contenuto negativo. Per quel che, in particolare, concerne le richieste dei privati
rivolte all'accesso ai documenti amministrativi, la materia è spe
cificamente disciplinata dal capo V della 1. 241/90 (art. 22-28), che, all'art. 25, stabilisce che la richiesta di accesso ai documen
ti deve essere motivata e rivolta all'amministrazione che ha for
mato il documento o che lo detiene stabilmente (2° comma),
e prevede, inoltre, che trascorsi inutilmente trenta giorni dalla
richiesta questa si intende rifiutata (4° comma). Anche a tale riguardo, la dottrina che ha esaminato la pro
blematica ha concluso che, nel caso di richiesta di accesso a
documenti amministrativi, la richiesta non evasa dal pubblico
ufficiale nel termine di trenta giorni non rende applicabile il precetto penale dell'art. 328, cpv., c.p., in quanto con il silenzio
rifiuto (contro il quale è possibile il ricorso al Tar), sia pure
per una presunzione legale, dovrebbe intendersi l'effettivo com
pimento dell'atto.
Ad avviso di questo tribunale, tuttavia, nelle ipotesi in cui
la legge qualifica il mancato compimento dell'atto entro un ter
mine determinato come silenzio-rifiuto (ad ogni effetto equipa
rabile ad un atto amministrativo a contenuto negativo), non
è possibile ritenere che l'art. 328, cpv., c.p. risulti applicabile
soltanto in seguito al successivo invio da parte dell'istante di
ulteriore atto di diffida al compimento dell'atto, posto che que
st'ultimo — per le ragioni esposte — deve, in realtà, intendersi
compiuto nel senso del rigetto dell'istanza stessa. Appare, dun
que, più corretto, sul piano interpretativo, ritenere che, allorché
il termine di trenta gioni coincida col maturare del silenzio-rifiuto, la legge attribuisca prevalenza
— anche rispetto all'evidenziato
interesse sottostante alla norma penale di cui all'art. 328 c.p.
(consistente nella sanzione del dovere del pubblico ufficiale di
adempiere tempestivamente ai doveri del suo ufficio) — all'in
teresse dell'automatica formazione di atti amministrativi, con
tro i quali il privato, che ritenga di essere stato leso in una
propria situazione giuridica soggettiva, possa direttamente adire
la sede giurisdizionale onde farne sindacare la loro legittimità.
Il Foro Italiano — 1994.
Da questo punto di vista, il tribunale ritiene che la norma
dell'art. 25 1. 241/90, configuri una vera e propria norma scri
minante della condotta descritta nell'art. 328, cpv., c.p., atteso
che, col non consentir l'accesso ai richiesti documenti ammini
strativi e col non rispondere per esporre le ragioni del ritardo, il pubblico ufficiale si vale della norma della legge amministra
tiva, che — al diverso fine di garantire l'immediata sindacabili tà dell'atto amministrativo negativo — autorizza il pubblico uf
ficiale a rimanere inerte per il termine di trenta giorni senza
imputare al medesimo la sanzione generalmente comminata dal
la norma penale. Contrariamente all'assunto dottrinale, dun
que, il tribunale non ritiene — a fronte del tenore letterale della
norma — che la richiesta indicata nell'art. 328, cpv., c.p. debba
necessariamente consistere in un atto di diffida posteriore ad
una precedente istanza introduttiva del procedimento ammini
strativo, ma afferma, al contrario, che, mentre la norma pena
le, con disposizione generale, incrimina la condotta del pubbli co ufficiale che, richiesto del compimento di un atto del pro
prio ufficio, nel termine di trenta giorni non compie l'atto e
non risponde per esporre le ragioni del ritardo, le specifiche
disposizioni di legge, che contemplano fattispecie di silenzio
ritardo, autorizzano il pubblico ufficiale, ai sensi dell'art. 51
c.p. (inteso l'esercizio del diritto come esercizio di un potere o di una facoltà riconosciuta da altra norma di legge), a non
rispondere all'istanza rivoltagli, cosi da consentire al richieden
te di promuovere l'azione amministrativa per stabilire la legitti mità del silenzio-rifiuto.
La vicenda sottoposta al giudizio di questo tribunale si in
quadra perfettamente nell'esaminato quadro normativo e con
sente di ritenere che, col non rilasciare gli atti richiesti dal con
sigliere Piazza e col non rispondere per esporre le ragioni del
proprio ritardo, l'imputato sindaco del comune di Gazzola ten
ne una condotta pienamente legittima in relazione alle specifi che norme sul diritto di accesso ai documenti amministrativi,
cosi come poste dalla 1. 241/90.
A nulla varrebbe, infine, obiettare che — in virtù dell'art.
31 1. 241/90 — la citata norma dell'art. 25 della stessa legge non fosse in vigore all'epoca del fatto contestato all'imputato,
posto che, a seguito dell'emanazione (nel giugno 1992) dei de
creti richiamati dal predetto art. 31, la disposizione scriminante
sul silenzio-rifiuto indubbiamente retroagisce, ai sensi dell'art.
2, 2° comma, c.p., avuto riguardo ad un fatto che — se fosse
commesso attualmente — per quanto detto, non costituirebbe
reato.
Per tali ragioni, l'imputato deve essere assolto dal reato a
lui ascritto perché il fatto non costituisce reato.
TRIBUNALE PER I MINORENNI DE L'AQUILA; sentenza
5 maggio 1993; Pres. Di Stefano, Est. Eramo; B. TRIBUNALE PER I MINORENNI DE L'AQUILA;
Prova penale in genere — Sentenza di patteggiamento — Valo
re probatorio (Cod. proc. pen., art. 445).
La sentenza che applica una pena su richiesta delle parti non
può prescindere dall'accertamento dell'effettiva situazione so
stanziale e, dunque, da un accertamento della responsabilità
penale dell'imputato; ne consegue che essa ben può essere
utilizzata, nel diverso processo celebrato nei confronti di un
coimputato, quale indizio di riscontro utile ai fini della prova
della colpevolezza. (1)
(1) La pronuncia, nell'affrontare ancora una volta il controverso te
ma della natura giuridica dell'accertamento sotteso alla sentenza di 'pat
teggiamento' ex art. 444 c.p.p. (sul punto, cfr. Cass., sez. un., 27 mar
zo 1992, Di Benedetto, Foro it., 1993, II, 9, con nota di ulteriori richia
mi, nonché i rinvìi contenuti in Di Chiara, osservazioni a Cass. 14
maggio 1993, Pietti e sez. un. 11 maggio 1993, Iovine ed altri, ibid.,
546), perviene ad una conclusione inedita. Nel caso di specie, la separa zione tra i due processi, celebrati, per il medesimo fatto, nei confronti
di tre correi, era imposta dalla minore età di uno degli imputati (cfr. art. 14 c.p.p.). Il fenomeno circolatorio di atti e documenti da un pro
cesso all'altro (art. 238 c.p.p., recentemente modificato dall'art.
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