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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sentenza 10 dicembre 1993; Pres. Bianchini, Est. Paladini;...

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sentenza 10 dicembre 1993; Pres. Bianchini, Est. Paladini; imp. Francesconi Source: Il Foro Italiano, Vol. 117, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1994), pp. 261/262-265/266 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23188463 . Accessed: 24/06/2014 20:12 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.78.108.81 on Tue, 24 Jun 2014 20:12:12 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sentenza 10 dicembre 1993; Pres. Bianchini, Est. Paladini; imp. FrancesconiSource: Il Foro Italiano, Vol. 117, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1994), pp.261/262-265/266Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23188463 .

Accessed: 24/06/2014 20:12

Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp

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GIURISPRUDENZA PENALE

407, 2° comma, lett. a), c.p.p. e di un dibattimento che si pre senti dallo svolgimento particolarmente complesso.

È agevole rilevare che, se per un verso, l'indagine circa la

sussistenza del primo requisito viene a risolversi in un atto di

mera ricognizione tecnica, orientato soltanto a verificare che

alcuno degli indicati reati sia ascritto agli imputati oggetto della richiesta e che esso costituisca titolo della custodia in atto, l'e

same relativo al secondo presupposto richiede, invece, una va

lutazione che, in difetto di parametri espliciti di tipo normati vo, risente del dato di specificità — di volta in volta necessaria

mente distinto — del dibattimento in corso di celebrazione, con

la necessitata conseguenza che il giudice dovrà darne contezza

in termini di adeguata motivazione. A tal riguardo, seguendo l'ordine sistematico che precede, può

intanto affermarsi che tutti gli imputati in vinculis nei confronti

dei quali il p.m. ha avanzato la richiesta in oggetto — con l'u

nica eccezione di Muscarella Salvatore di cui si dirà appresso — rispondono singolarmente di reati ricompresi nella categoria enucleata dalla norma. (Omissis)

Quanto al secondo requisito richiesto dalla norma ed invoca

to dal p.m., reputa il tribunale che esso vada senz'altro ravvisa

to presente nel caso di specie. Ora, se per un verso può riconoscersi che il mero svolgersi

di un dibattimento per fatti di criminalità associata non possa

integrare quel dato di complessità del rito — diversamente opi

nando, acquisterebbe solo valore pleonastico e ripetitivo l'indi

cazione normativa in discorso — è per vero, di contro, che pro cessi di tal tipo, specie se afferenti ad organizzazioni crimimose

notevolmente estese ed articolate, non possono sovente prescin dere da conduzioni processuali caratterizzate da molteplici e com

posite assunzioni probatorie. Ed è proprio al fine precipuo di far fronte, nella gestione

e conduzione dei processi, ai problemi connessi al fenomeno

del crimine organizzato che si è dato un concreto riferimento

normativo alla categoria della «particolare complessità» dibatti

mentale (espressa nella direttiva 61 della legge-delega), evitando

che, in funzione ed a cagione della medesima, il processo venis

se autopenalizzato in termini di pura oggettività, determinando

inopportune scarcerazioni di massa.

Ma è anche profondamente convincente che l'inclusione, ai

fini della sospensione, dei tempi «vivi e morti» del dibattimento — ossia anche dei giorni in cui si articolano gli intervalli tra

un'udienza e l'altra — debba richiedere che la naturale com

plessità dei processi per reati di tipo associativo si presenti con

aspetto di peculiarità. (Omissis)

TRIBUNALE DI VENEZIA; ordinanza 24 gennaio 1994; Pres.

ed est. Dodero; Pagliani ed altro. TRIBUNALE DI VENEZIA;

Udienza preliminare — Decreto che dispone il giudizio — Nullità

— Fattispecie (Cod. civ., art. 2621; cod. proc. pen., art. 429).

È nullo, per insufficiente indicazione dell'enunciazione del fat to, il decreto che nel disporre il giudizio si lìmiti a riprodurre testualmente la disposizione normativa del reato contestato

senza alcun riferimento alla concreta condotta addebitata al

l'imputato (nella specie, il giudice dell'udienza preliminare, nel disporre il giudizio in ordine al reato di cui all'art. 2621,

lett. a, c.c., aveva omesso ogni indicazione, sia pure sintetica, delle voci di bilancio ritenute non veritiere; il tribunale, rile

vato che la contestazione formulata nel decreto che dispone il giudizio è integrabile solo con gli atti legittimamente inseriti

nel fascicolo per il dibattimento, e che tra tali atti non posso no essere ricomprese le relazioni del curatore a norma della

legge fallimentare, ha dichiarato la nullità del decreto che di spone il giudizio enunciando il principio di cui in massima). (1)

(1) Nello stesso senso, per una analoga fattispecie, cfr. Trib. Roma

14 gennaio 1992, Foro it., 1993, II, 108, con nota di richiami.

Nel senso che la relazione del curatore non può essere considerata

atto irripetibile e, dunque, non può essere inserita ab origine nel fasci

colo per il dibattimento, cfr. Trib. Cassino 7 marzo 1991, id., Rep.

1991, voce Udienza preliminare, n. 65; contra, Trib. Milano 4 maggio

1990, ibid., voce Prova penale in genere, n. 128. Sull'utilizzabilità della

relazione del curatore sub specie di prova documentale, cfr. Cass. 21

settembre 1992, Bolamperti, id., 1993, II, 1, con nota di richiami.

Il Foro Italiano — 1994.

Sull'eccezione di nullità del decreto che dispone il giudizio per insufficiente enunciazione del fatto relativamente all'ipotesi indi cata alla lett. A) del capo d'imputazione; gli imputati Pagliani e

Bombassei di aver redatto i bilanci della società Vepla s.r.l., per

gli anni 1986,1987 e 1988, «esponendo fraudolentemente fatti non

corrispondenti al vero sulle condizioni economiche . . .»; che tale dizione si limita a riprodurre testualmente la formu

lazione normativa di cui all'art. 2621, lett. a), c.c., senza alcun

riferimento al caso concreto, ossia senza alcuna indicazione, sia

pure sintetica, della voce dei predetti bilanci che si assumono

non veritieri; che la contestazione, contenuta nel decreto che dispone il giu

dizio, è integrabile unicamente con gli atti legittimamente inse

riti nel fascicolo del dibattimento, a norma dell'art. 431 c.p.p.; che fra tali atti non possono essere comprese le relazioni del

curatore ai sensi della legge fallimentare, indebitamente inserite

nel fascicolo del dibattimento, non trattandosi di verbali di atti

non ripetibili o assunti nel corso dell'incidente probatorio; che pertanto risulta violato il disposto dell'art. 429, 1° com

ma, lett. c), c.p.p., sanzionato espressamente da nullità dal ca

poverso dello stesso articolo; che tale nullità non risulta sanata, come asserito dalla parte ci

vile, per il fatto che gli imputati all'udienza preliminare non avreb

bero sollevato alcuna eccezione circa la richiesta di rinvio a giudi

zio, nella quale l'imputazione era formulata negli stessi termini

del decreto ex art. 429 c.p.p., in quanto nessuna nullità della pre detta richiesta è prevista per la violazione dell'art. 417 c.p.p.;

che in ogni caso l'eventuale sanatoria, per effetto della su

indicata acquiescenza, potrebbe riguardare unicamente la richiesta

di citazione a giudizio e non certo un atto successivo alla prete sa condotta sanante, quale il decreto ex art. 429 c.p.p., la cui

nullità è eccepibile unicamente in sede di atti preliminari al di battimento.

Circa le questioni relative al contenuto del fascicolo del di

battimento:

rilevato che le relazioni del curatore, ai sensi della legge falli

mentare e la sentenza dichiarativa di fallimento, non rientrano

in alcuna delle categorie di atti, tassativamente elencate nell'art.

431 c.p.p.;

per questi motivi, dichiara la nullità del decreto che dispone il giudizio nei confronti di Pagliani Stefano e Bombassei Fran

co, relativamente al fatto contestato alla lett. A) del capo d'im

putazione; dispone eliminarsi dal fascicolo del dibattimento le

relazioni del curatore ai sensi della legge fallimentare; rigetta l'istanza di acquisizione della sentenza dichiarativa di fallimen

to della Vepla s.r.l.

TRIBUNALE DI PIACENZA; sentenza 10 dicembre 1993; Pres.

Bianchini, Est. Paladini; imp. Francesconi.

TRIBUNALE DI PIACENZA;

Abuso di poteri e violazione dei doveri d'ufficio — Omissione

di atti d'ufficio — Sindaco — Mancato rilascio di documenti — Esclusione — Fattispecie (Cod. pen., art. 51, 328; 1. 7

agosto 1990 n. 241, nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti ammini

strativi, art. 2, 25).

Non integra gli estremi del delitto preveduto dall'art. 328 c.p.

la condotta omissiva di un sindaco, il quale non rilasci, entro

il termine di trenta giorni dalla richiesta scritta da parte del

l'interessato, copia di atti relativi a procedimenti amministra

tivi, in quanto col non consentire l'accesso ai richiesti docu

menti e col non rispondere per esporre le ragioni del ritardo

egli si avvale dell'art. 25 l. 241/90, norma che — al diverso

fine di garantire l'immediata sindacabilità dell'atto ammini strativo negativo — autorizza il pubblico ufficiale (come eser cizio di un potere o di una facoltà riconosciuta da altra nor

ma di legge, con funzione scriminante ex art. 51 c.p.) a rima

nere inerte per il termine di trenta giorni senza imputare al

medesimo la sanzione generalmente comminata dalla norma

penale. (1)

(1) I. - La sentenza affronta il complesso problema del coordinamen

to tra il nuovo testo dell'art. 328 c.p., con specifico riguardo alla

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PARTE SECONDA

Fatto e diritto. — Con decreto del 14 maggio 1992, il g.i.p.

presso il Tribunale di Piacenza disponeva il giudizio nei con

fronti di Francesconi Luigi per il reato di cui in epigrafe. All'odierna udienza, preliminarmente il p.m. rettificava il ca

po d'imputazione nel senso che il reato doveva intendersi con

sumato nel giugno 1991, e non già nell'agosto dello stesso an

no. Venivano quindi ammesse tutte le prove documentali e te

stimoniali richieste dalle parti; sentiti i testi Piazza Michela (consigliere comunale autrice dell'istanza di cui all'imputazio

ne), Franzini Giuseppe (tecnico comunale presso il comune di

Gazzola all'epoca dei fatti), Corti Enrico (segretario comunale

presso il comune di Gazzola); si procedeva, altresì, al confronto tra i testi Piazza e Corti, e quindi, dopo aver pronunciato ordi

nanza di rigetto della richiesta del p.m. di acquisizione della

documentazione elencata nell'istanza di cui all'imputazione, si

dichiarava l'utilizzabilità degli atti allegati al fascicolo per il di battimento e, sentite le conclusioni delle parti, cosi come in epi

grafe trascritte, il tribunale si ritirava per la decisione.

L'imputato deve essere assolto dal reato a lui ascritto perché il fatto non costituisce reato.

L'istruttoria dibattimentale ha consentito di pervenire all'e

satta ricostruzione in fatto della vicenda.

Come riferito dalla teste Piazza, quest'ultima, in data 21 mag

gio 1991, inviava al sindaco dello stesso comune (consegnando la nelle mani di un'impiegata) una richiesta scritta, con la quale domandava il rilascio di una serie di documenti, tra i quali due

delibere consiliari ed altri atti relativi a procedimenti ammini strativi riguardanti la coltivazione della cava Boccenti. Mentre

le copie delle delibere consiliari venivano consegnate alla Piazza

dal segretario comunale poco tempo dopo la presentazione del

l'istanza, nessun seguito aveva, invece, la richiesta con riferi

mento agli altri atti richiesti e, pertanto, la Piazza sporgeva de

nuncia alla stazione dei carabinieri di Agazzano in data 10 otto

bre 1991.

Il teste Franzini — dopo aver precisato che, secondo prassi,

egli era stato autorizzato dal sindaco a rilasciare le copie di tutti gli atti esistenti presso il comune, dei quali non si ravvisas sero particolari ragioni di riservatezza, senza la necessità di al

fattispecie di cosiddetta «messa in mora» preveduta dal 2° comma, e le norme di cui alla 1. 241/90 in materia di procedimento amministrati vo e di accesso ai documenti amministrativi.

Più in particolare, il problema riguarda l'individuazione del termine

temporale, rispettivamente, entro il quale ciascun provvedimento am ministrativo deve concludersi in omaggio a esigenze di «certezza», e a partire dal quale il pubblico ufficiale assume un rischio penale in

conseguenza di un contegno omissivo ingiustificato. Ed infatti, mentre l'art. 328, 2° comma, c.p. prevede un unico termine di «trenta giorni» quale spazio temporale entro il quale il p.u. è tenuto ad adempiere a partire dalla richiesta dell'interessato (per una critica alla fissazione di questo termine unico, che può non adattarsi a tutte le situazioni concrete che fanno da presupposto all'obbligo di attivarsi, cfr., tra al

tri, Fiandaca, in Foro it., 1991, V, 421; Pagliaro, Principi di diritto penale, parte speciale, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1994, 287), la legge sul procedimento ammi nistrativo (emanata quasi contemporaneamente ma senza sufficiente coor dinamento con la 1. 86/90 modificativa della disciplina dei delitti contro la pubblica amministrazione), ha stabilito che le pubbliche amministra zioni determinano per ciascun tipo di procedimento di loro competenza — salvo che non sia già disposto per legge o regolamento — il termine entro cui esso deve concludersi (art. 2, 2° comma, 1. 241/90); soltanto nel caso in cui le amministrazioni non provvedano nel senso predetto, vige il termine unico di trenta giorni (art. 2, 3° comma, 1. 241/90).

Orbene, dal sovrapporsi poco coordinato delle disposizioni che prece dono derivano una serie di interrogativi. E cioè: nel caso in cui sia

previsto per il compimento dell'atto un termine maggiore dei trenta giorni, quale sarà il termine da assumere a punto di riferimento ai fini della configurabilità di una condotta omissiva pensilmente rilevante? Men tre, nell'ipotesi in cui viga anche per il compimento dell'atto il termine generale di trenta giorni, questo stesso termine coinciderà con quello previsto dall'art. 328, 2° comma, c.p.? Nel rispondere a siffatti interro

gativi, tende in dottrina a prevalere l'orientamento secondo cui, in pre senza di termini espressi diversificati ed adeguati alla peculiarità dei

singoli atti, l'inosservanza di questi ultimi non costituirà reato finché non intervenga la messa in mora da parte dell'interessato e non decorra inutilmente il termine di trenta giorni preveduto dall'art. 328 c.p., che va di conseguenza inteso quale limite temporale ulteriore rispetto a quello previsto in sede amministrativa per il compimento dello specifico atto (cfr. Palazzo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, 833; Segreto e De Luca, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazio ne, Milano, 1991, 665; Balbi, in Nuova rass., 1992, 332).

Un simile orientamento, al quale sembra implicitamente aderire in mo tivazione anche la pronuncia su riprodotta, corrisponde del resto al punto

Il Foro Italiano — 1994.

cuno specifico visto o autorizzazione del sindaco — riferiva, a sua volta, che molti degli atti richiesti dalla Piazza non erano

stati consegnati a costei, in quanto non ancora formati dal com

petente ufficio comunale; mentre, con riferimento all'ordinanza

Sedeco, il teste Corti dichiarava che il mancato rilascio era di

peso da una certa interpretazione della 1. 241/90 (art. 24, 4°

comma), secondo cui il diritto di accesso si sarebbe potuto espli care soltanto nei confronti di atti formati dalla stessa pubblica amministrazione destinataria della richiesta (circostanza quest'ul tima non esclusa neppure dalla Piazza in sede di confronto). Il teste Corti riferiva ancora che l'istanza era stata da lui conse

gnata all'impiegata dell'ufficio protocollo, che — a suo avviso — avrebbe dovuto in seguito consegnarla al sindaco.

L'odierna imputazione si riferisce alla fattispecie normativa

di cui all'art. 328, 2° comma, c.p. (cosi come sostituito dall'art.

16 1. 26 aprile 1990 n. 86), secondo cui «fuori dai casi previsti dal 1° comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubbli co servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia

interesse non compie l'atto del suo ufficio o non risponde per

esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino

a un anno o con la multa fino a lire due milioni. Tale richiesta

deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa».

Quanto all'interesse tutelato dalla norma, si può ritenere che

esso non si differenzi da quello già alla base della precedente

fattispecie dell'omissione o rifiuto di atti di ufficio, ed indivi duato dalla giurisprudenza nell'esigenza di assicurare il regolare funzionamento della pubblica amministrazione, imponendo al

pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio di as

solvere scrupolosamente e tempestivamente i doveri inerenti al

l'ufficio o servizio (cfr. Cass. n. 144065/79). In seguito all'ema

nazione della nuova 1. 86/90, peraltro, la dottrina non ha man

cato di precisare come — con particolare riferimento alla norma

dell'art. 328, 2° comma (che, da un lato, presuppone la richie

sta dell'interessato, e, dall'altro, non ritiene necessaria la con

creta emanazione dell'atto richiesto, potendo il pubblico uffi

ciale limitarsi a motivare le ragioni del proprio ritardo) — l'of

di vista contenuto nella «circolare del ministero per la funzione pubbli ca del 4 dicembre 1990, n. 58245/7. 464 - art. 16 1. 26 aprile 1990 n. 86, concernente i reati di rifiuto di atti di ufficio e di omissione»

(Le leggi, 1990, II, 495), dove testualmente si afferma: «Il fatto che il 2° comma dell'art. 328 c.p. dispone nel senso che il reato si consuma

dopo l'inutile decorso del termine di trenta giorni dalla richiesta non

equivale a superamento delle norme relative ai singoli procedimenti am

ministrativi, la durata dei quali dipende anche dalle esigenze istruttorie, che non possono essere disattese o compresse entro termini insufficienti».

II. - Più in particolare, il caso venuto al vaglio del tribunale coinvol

ge un aspetto ancora più specifico della problematica, e cioè la materia relativa alle richieste dei privati di accesso ai documenti amministrativi, rispetto alla quale l'art. 25, 4° comma, 1. 241/90 stabilisce che, trascor si inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende rifiutata. Con riferimento a questa specifica ipotesi, ma anche più in generale riguardo a tutti i casi in cui il termine di trenta giorni dalla richiesta coincida con quello stabilito per il maturarsi del «silenzio-rifiuto», si è altresì escluso in dottrina che l'infruttuoso spirare di detto termine

implichi automaticamente l'integrazione del reato previsto dall'art. 328, 2° comma, c.p.: ciò «perché con il silenzio-rifiuto sia pure per una

presunzione, si ha il compimento dell'atto» (cfr. Segreto e De Luca, cit., 666. Più in generale, in una prospettiva di riconsiderazione critica della materia, non si è mancato peraltro di dubitare della «compatibili tà» tra la tutela penale azionabile ex art. 328 cit. e la persistenza del tradizionale istituto del silenzio-rifiuto: cfr., tra gli amministrativisti, Nicosia, Il procedimento amministrativo. Prìncipi e materiali, Napoli, 1992, 57; e, tra i penalisti, Manna, La riforma del delitto di omissione di atti di ufficio: alla ricerca della «offensività» perduta?, in AA.VV., Reati contro la pubblica amministrazione a cura di F. Coppi, 1993, 316. Sul punto, la ricordata circolare ministeriale ha affermato che la norma penale non importa la sostituzione dei principi in tema di forma zione del silenzio-rifiuto o del silenzio-rigetto).

Ad avviso del Tribunale di Piacenza, proprio nelle ipotesi in cui la stessa legge fa coincidere la scadenza dei trenta giorni col silenzio-rifiuto sarebbe errato ritenere che l'art. 328, cpv., c.p. risulti applicabile sol tanto in seguito al successivo invio di un ulteriore atto di diffida e alla scadenza di un ulteriore periodo di trenta giorni: piuttosto, già allo scadere dei primi trenta giorni si perfezionerebbe una condotta omis siva penalmente tipica; ma — ed è qui che il tribunale propone una soluzione ardita — il fatto sarebbe «scriminato» ex art. 51 c.p., dal momento che l'art. 25 1. 241/90 attribuirebbe al p.u. il potere di non

rispondere all'istanza rivoltagli, cosi da consentire al richiedente di sod disfare il «prevalente» interesse a ottenere l'immediata sindacabilità del l'atto amministrativo negativo.

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GIURISPRUDENZA PENALE

fensività del fatto si incentri particolarmente su un interesse di

natura conoscitiva riguardo alla sussistenza delle ragioni del ri

tardo e non tanto sulla tempestività degli adempimenti dell'uffi

cio. Proprio tale ratio della norma incriminatrice — per il fatto

di poter essere ricompresa nella più ampia problematica dell'in

teresse diffuso alla trasparenza e correttezza dell'azione ammi

nistrativa — consente di cogliere le affinità con la pressoché contestuale disciplina legislativa sul procedimento amministrati

vo e sul diritto di accesso ai documenti amministrativi (1. 7 ago sto 1990 n. 241). Peraltro, il caso oggi sottoposto al giudizio di questo tribunale impone di meglio analizzare, sul piano er

meneutico ed applicativo, i rapporti tra la predetta noma incri

minatrice e le norme della 1. 241/90.

All'uopo, occorre, anzitutto, premettere che l'art. 2 1. 241/90

stabilisce che «ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba iniziare d'ufficio, la pubblica am

ministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l'adozione

di un provvedimento espresso» (1° comma), ed inoltre, qualora le pubbliche amministrazioni non determinino il termine entro

il quale ciascun procedimento amministrativo debba concluder

si (2° comma), il termine è di trenta giorni (3° comma). Nell'esaminare le relazioni esistenti tra la citata disposizione

e quella di cui all'art. 328, 2° comma, c.p., mentre una parte minoritaria della dottrina ha ritenuto che l'istanza idonea a far

decorrere il termine per il compimento del procedimento ammi

nistrativo fosse altresì idonea a determinare l'obbligo del pub blico ufficiale di provvedere ai sensi e con gli effetti di cui al l'art. 328, cpv., c.p., la maggior parte degli autori ha, vicever

sa, ritenuto che la richiesta, come tale qualificabile agli effetti

della norma penale in esame, sia costituita da un atto di messa

in mora della pubblica amministrazione, successivo all'inutile

decorso del termine stabilito per il perfezionamento del procedi mento amministrativo. In tale ultima ipotesi interpretativa, per

tanto, non potrebbe neppure qualificarsi come tipica, in rela

zione alla norma sull'omissione o ritardo dell'atto d'ufficio, la

condotta del pubblico ufficiale che, in seguito all'istanza intro

duttiva del procedimento amministrativo, ometta di compiere

l'atto del suo ufficio nel termine di trenta giorni (o nel diverso

termine stabilito dalla legge o dal regolamento o, ai sensi del

l'art. 2, 2° comma, 1. 241/90, dalla pubblica amministrazione

competente), posto che tale termine decorrerebbe, agli effetti

penali, soltanto da un successivo atto scritto di sollecitazione

rivolto dall'istante al pubblico ufficiale, e sempre che la legge

stessa non attribuisca al silenzio del pubblico ufficiale un signi

ficato giuridico equipollente all'emanazione di un atto ammini

strativo a contenuto negativo. Per quel che, in particolare, concerne le richieste dei privati

rivolte all'accesso ai documenti amministrativi, la materia è spe

cificamente disciplinata dal capo V della 1. 241/90 (art. 22-28), che, all'art. 25, stabilisce che la richiesta di accesso ai documen

ti deve essere motivata e rivolta all'amministrazione che ha for

mato il documento o che lo detiene stabilmente (2° comma),

e prevede, inoltre, che trascorsi inutilmente trenta giorni dalla

richiesta questa si intende rifiutata (4° comma). Anche a tale riguardo, la dottrina che ha esaminato la pro

blematica ha concluso che, nel caso di richiesta di accesso a

documenti amministrativi, la richiesta non evasa dal pubblico

ufficiale nel termine di trenta giorni non rende applicabile il precetto penale dell'art. 328, cpv., c.p., in quanto con il silenzio

rifiuto (contro il quale è possibile il ricorso al Tar), sia pure

per una presunzione legale, dovrebbe intendersi l'effettivo com

pimento dell'atto.

Ad avviso di questo tribunale, tuttavia, nelle ipotesi in cui

la legge qualifica il mancato compimento dell'atto entro un ter

mine determinato come silenzio-rifiuto (ad ogni effetto equipa

rabile ad un atto amministrativo a contenuto negativo), non

è possibile ritenere che l'art. 328, cpv., c.p. risulti applicabile

soltanto in seguito al successivo invio da parte dell'istante di

ulteriore atto di diffida al compimento dell'atto, posto che que

st'ultimo — per le ragioni esposte — deve, in realtà, intendersi

compiuto nel senso del rigetto dell'istanza stessa. Appare, dun

que, più corretto, sul piano interpretativo, ritenere che, allorché

il termine di trenta gioni coincida col maturare del silenzio-rifiuto, la legge attribuisca prevalenza

— anche rispetto all'evidenziato

interesse sottostante alla norma penale di cui all'art. 328 c.p.

(consistente nella sanzione del dovere del pubblico ufficiale di

adempiere tempestivamente ai doveri del suo ufficio) — all'in

teresse dell'automatica formazione di atti amministrativi, con

tro i quali il privato, che ritenga di essere stato leso in una

propria situazione giuridica soggettiva, possa direttamente adire

la sede giurisdizionale onde farne sindacare la loro legittimità.

Il Foro Italiano — 1994.

Da questo punto di vista, il tribunale ritiene che la norma

dell'art. 25 1. 241/90, configuri una vera e propria norma scri

minante della condotta descritta nell'art. 328, cpv., c.p., atteso

che, col non consentir l'accesso ai richiesti documenti ammini

strativi e col non rispondere per esporre le ragioni del ritardo, il pubblico ufficiale si vale della norma della legge amministra

tiva, che — al diverso fine di garantire l'immediata sindacabili tà dell'atto amministrativo negativo — autorizza il pubblico uf

ficiale a rimanere inerte per il termine di trenta giorni senza

imputare al medesimo la sanzione generalmente comminata dal

la norma penale. Contrariamente all'assunto dottrinale, dun

que, il tribunale non ritiene — a fronte del tenore letterale della

norma — che la richiesta indicata nell'art. 328, cpv., c.p. debba

necessariamente consistere in un atto di diffida posteriore ad

una precedente istanza introduttiva del procedimento ammini

strativo, ma afferma, al contrario, che, mentre la norma pena

le, con disposizione generale, incrimina la condotta del pubbli co ufficiale che, richiesto del compimento di un atto del pro

prio ufficio, nel termine di trenta giorni non compie l'atto e

non risponde per esporre le ragioni del ritardo, le specifiche

disposizioni di legge, che contemplano fattispecie di silenzio

ritardo, autorizzano il pubblico ufficiale, ai sensi dell'art. 51

c.p. (inteso l'esercizio del diritto come esercizio di un potere o di una facoltà riconosciuta da altra norma di legge), a non

rispondere all'istanza rivoltagli, cosi da consentire al richieden

te di promuovere l'azione amministrativa per stabilire la legitti mità del silenzio-rifiuto.

La vicenda sottoposta al giudizio di questo tribunale si in

quadra perfettamente nell'esaminato quadro normativo e con

sente di ritenere che, col non rilasciare gli atti richiesti dal con

sigliere Piazza e col non rispondere per esporre le ragioni del

proprio ritardo, l'imputato sindaco del comune di Gazzola ten

ne una condotta pienamente legittima in relazione alle specifi che norme sul diritto di accesso ai documenti amministrativi,

cosi come poste dalla 1. 241/90.

A nulla varrebbe, infine, obiettare che — in virtù dell'art.

31 1. 241/90 — la citata norma dell'art. 25 della stessa legge non fosse in vigore all'epoca del fatto contestato all'imputato,

posto che, a seguito dell'emanazione (nel giugno 1992) dei de

creti richiamati dal predetto art. 31, la disposizione scriminante

sul silenzio-rifiuto indubbiamente retroagisce, ai sensi dell'art.

2, 2° comma, c.p., avuto riguardo ad un fatto che — se fosse

commesso attualmente — per quanto detto, non costituirebbe

reato.

Per tali ragioni, l'imputato deve essere assolto dal reato a

lui ascritto perché il fatto non costituisce reato.

TRIBUNALE PER I MINORENNI DE L'AQUILA; sentenza

5 maggio 1993; Pres. Di Stefano, Est. Eramo; B. TRIBUNALE PER I MINORENNI DE L'AQUILA;

Prova penale in genere — Sentenza di patteggiamento — Valo

re probatorio (Cod. proc. pen., art. 445).

La sentenza che applica una pena su richiesta delle parti non

può prescindere dall'accertamento dell'effettiva situazione so

stanziale e, dunque, da un accertamento della responsabilità

penale dell'imputato; ne consegue che essa ben può essere

utilizzata, nel diverso processo celebrato nei confronti di un

coimputato, quale indizio di riscontro utile ai fini della prova

della colpevolezza. (1)

(1) La pronuncia, nell'affrontare ancora una volta il controverso te

ma della natura giuridica dell'accertamento sotteso alla sentenza di 'pat

teggiamento' ex art. 444 c.p.p. (sul punto, cfr. Cass., sez. un., 27 mar

zo 1992, Di Benedetto, Foro it., 1993, II, 9, con nota di ulteriori richia

mi, nonché i rinvìi contenuti in Di Chiara, osservazioni a Cass. 14

maggio 1993, Pietti e sez. un. 11 maggio 1993, Iovine ed altri, ibid.,

546), perviene ad una conclusione inedita. Nel caso di specie, la separa zione tra i due processi, celebrati, per il medesimo fatto, nei confronti

di tre correi, era imposta dalla minore età di uno degli imputati (cfr. art. 14 c.p.p.). Il fenomeno circolatorio di atti e documenti da un pro

cesso all'altro (art. 238 c.p.p., recentemente modificato dall'art.

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