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sentenza 11 aprile 1987; Pres. Del Forno, Est. Marrone; imp. Murgia e altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1988), pp.187/188-201/202Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23179646 .
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PARTE SECONDA
con altri quaranta grammi di polvere costituita da lattosio e da
caffeina.
In primo luogo il Notarianni deteneva lo stupefacente per pro
prio uso personale non terapeutico. Lo ha dichiarato egli stesso
e vi sono due ragioni per credergli: la sua tossicodipendenza, ri
salente a più di un anno addietro, era nota al maresciallo Di
Michele, estensore del rapporto (verb, dibatt.); inoltre l'imputato verosimilmente intercalava eroina e coca assunta per via endona
sale poiché egli venne sorpreso con una quantità di cocaina «ta
gliata» insufficiente a formare una dose, preciso indizio di
assunzione personale mediante aspirazione nasale.
Quindi è corretto presumere che circa metà delle dosi di eroina
possedute dall'imputato (almeno sedici dosi misurate secondo il
criterio standard usato dal medico legale, ma probabilmente me
no di sedici se teniamo conto che il bisogno di coca per ridurre
il consumo di eroina è indizio di uno stato di tossicodipendenza
medio-alto) fossero destinate al suo uso personale non terapeuti co. Ciò equivale a presumere correttamente che (almeno) gr. 1,26 di eroina non fossero detenuti dal Notarianni per lo spaccio.
In un secondo luogo, l'imputato era un piccolo spacciatore «da
diverso tempo controllato» dai carabinieri. Anche in assenza di
questa indicazione da parte della polizia giudiziaria, la corte do
vrebbe indurre la qualifica di piccolo spacciatore aderendo alla
massima di esperienza secondo cui un muratore giovane e disoc
cupato, mantenuto dalla moglie lavoratrice dipendente, è costret
to a procurarsi il denaro occorrente per acquistare eroina e cocaina
per uso personale, spacciando piccole quantità di droga a terzi.
La Corte suprema, sez. I, nella sentenza 10 ottobre 1985 sopra
citata, ha messo in evidenza «che la figura del piccolo spacciatore il quale utilizzi al contempo per uso personale la droga di cui
sia stato trovato in possesso, deve trovare una risposta adeguata all'entità del fatto da parte dell'ordinamento. La fattispecie di
cui all'art. 72 1. 685/75 concerne, infatti, attività illecite finalizza
te all'uso personale non terapeutico di terzi, si che esulano dal
suo campo di applicazione quei tentativi di droga di cui sia stata
accertata la destinazione all'uso personale del detentore». In altri
termini, ove il detentore alleghi la sussistenza di una delle predet te due cause speciali di guistificazione (uso esclusivamente perso
nale, terapeutico o no) e la causa di giustificazione sia stata ritenuta
provata dal giudice del merito sulla base del criterio soggettivo indicato dall'art. 98 1. cit. (analisi delle proprietà tossiche della
sostanza detenuta dal soggetto, in relazione alla personalità fi
siopsichica del detentore), «l'accertamento del principium indivi
duationis delle attività illecite ex art. 71 e 72 1. 685/75 va effettuato
con esclusivo riferimento al quantitativo eccedente l'uso persona le e sulla base del criterio oggettivo» dettato dalla medesima Cor
te di cassazione in termini opportunamente elastici: «quantitativo necessario per non più di qualche giorno, per un paio di soggetti in stato di tossicomania di medio grado».
Ebbene, questa corte ritiene che sedici dosi di eroina (ma pro babilmente meno, per le ragioni sopra accennate) costituiscano
modica quantità ai sensi dell'art. 72 1. 685/75 interpretata dalla
Corte suprema nei termini suddetti.
Inoltre, sembra sanzione adeguata alla fattispecie quella risul
tante dalla diminuzione di un terzo (per effetto delle circostanze
generiche ritenute in primo grado) rispetto al minimo edittale:
due anni e lire 200.000 vengono pertanto ridotti a un anno, quat tro mesi di reclusione e lire 150.000 di multa.
Quando il Notarianni avrà documentato adeguatamente di aver
trovato un lavoro stabile e regolare potrà essere presa in conside
razione anche l'istanza di libertà provvisoria.
It Foro Italiano — 1988.
I
CORTE D'APPELLO DI ROMA; sentenza 11 aprile 1987; Pres.
Del Forno, Est. Marrone; imp. Murgia e altri.
CORTE D'APPELLO DI ROMA;
Abuso di poteri e violazione dei doveri di ufficio — Interesse
privato in atti d'ufficio — Reato — Insussistenza — Abuso
di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge —
Reato — Sussistenza — Fattispecie di usi civici (Cod. pen., art. 323, 324).
Deviazione di acque e modificazione dello stato dei luoghi —
Danneggiamento — Reato — Sussistenza — Fattispecie di usi
civici (Cod. pen., art. 632, 635, 639 bis).
Non è configurabile il delitto di interesse privato in atti d'ufficio, bensì il meno grave delitto di abuso di ufficio in casi non pre veduti specificamente dalla legge, di cui all'art. 323 c.p., in
relazione al fatto di alcuni amministratori dell'università agra ria di Riano i quali, in carenza dell'autorizzazione regionale al mutamento di destinazione e dell'utilizzazione del procedi mento dell'asta pubblica per le singole concessioni, abbiano con
cesso in affitto a privati, per l'esercizio di attività estrattive, terreni gravati da uso civico amministrati dall'ente. (1)
Nel caso di terreni gravati da uso civico il reato di cui all'art.
632 c.p. è perseguibile d'ufficio ai sensi dell'art. 639 bis, trat
tandosi di terreni destinati ad uso pubblico e cioè alla collettivi
tà dei residenti; sono, pertanto, responsabili dell'immutazione
dei terreni, nonché, ai sensi dell'art. 635, ri. 5, c.p., del reato
di danneggiamento aggravato, anch 'esso perseguibile d'ufficio, coloro i quali, mediante l'esercizio di attività estrattiva, abbia
no danneggiato, distruggendone la relativa copertura boschiva, i terreni gravati da uso civico amministrati dall'università agra ria di Riano. (2)
II
TRIBUNALE DI ROMA; sentenza 25 giugno 1986; Pres. Stipo, Est. Bursese; imp. Murgia e altri.
Abuso di poteri e violazione dei doveri d'ufficio — Interesse pri vato in atti d'ufficio — Reato — Esclusione — Fattispecie di
usi civici (Cod. pen., art. 323, 324). Deviazione di acque e modificazione dello stato dei luoghi —
Procedibilità d'ufficio — Esclusione — Fattispecie di usi civici
(Cod. pen., art. 632, 639 bis).
Danneggiamento — Procedibilità d'ufficio — Esclusione — Fat
tispecie di usi civici (Cod. pen., art. 635).
Per la sussistenza del reato di cui all'art. 324 c.p. si richiede la
«presa d'interesse» nell'atto della pubblica amministrazione, cioè, una condotta positiva che integri una reale ingerenza profitta
trice, non essendo sufficiente la mera coincidenza dell'interesse
pubblico con quello privato ed a nulla rilevando la legittimità o meno degli atti amministrativi posti in essere dal pubblico
ufficiale; pertanto, non costituisce interesse privato in atti d'uf ficio, per carenza dell'elemento soggettivo, il fatto di alcuni
amministratori dell'università agraria di Riano i quali, senza
esperire asta pubblica, abbiano concesso in affitto a privati,
per l'esercizio di attività estrattive, terreni gravati da uso civico
amministrati dall'ente, in assenza dell'autorizzazione al muta
mento di destinazione d'uso prevista dall'art. 12 I. 16 giugno 1927 n. 1766. (3)
In forza dell'art. 639 bis c.p., introdotto dall'art. 97 l. 689/81, non sono più perseguibili penalmente ai sensi dell'art. 632 c.p., per carenza di querela, coloro che abbiano immutato lo stato dei luoghi in territori gravati da uso civico, a seguito dell'attivi tà estrattiva esercitata su di essi. (4)
Posto che i terreni non sono cose mobili ex art. 625, n. 7, c.p. e che, pertanto, non sussiste l'aggravante di cui all'art. 635, n. 3, c.p., in mancanza di querela, non possono essere perse guiti penalmente, per il reato di danneggiamento, coloro che, mediante l'esercizio di attività estrattiva, abbiano danneggiato, distruggendone la relativa copertura boschiva, terreni gravati da uso civico. (5)
(1-5) I. - Le sentenze che si riportano segnano l'iter di merito di una vicenda giudiziaria che offre, tra l'altro, spunti di riflessione su temi lar
gamente e da tempo dibattuti in dottrina, ma le cui reciproche inter
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GIURISPRUDENZA PENALE
I
Motivi della decisione. — Preliminarmente, vanno affrontate
le questioni procedurali sollevate dai difensori, alcuni dei quali hanno chiesto la sospensione del presente procedimento, in attesa
della definizione del giudizio civile avente ad oggetto la questione
riguardante la necessità della autorizzazione al cambio di destina
zione dei terreni di uso civico dell'università agraria di Riano da
utilizzare per lo sfruttamento di cave da tufo.
connessioni non sono state oggetto, a tutt'oggi, di approfondite indagini: sindacato del giudice penale sull'attività della p.a. e tutela dell'ambiente.
La questione è, oggi, di estrema attualità, oltre che per l'aggravarsi dei fenomeni di «deturpamento» del territorio provocati o consentiti dalla
p.a., anche in conseguenza della recente entrata in vigore di una serie
di disposizioni legislative in materia ambientale (v., da ultimo, il c.d.
decreto Galasso del 21 settembre 1984, la 1. 8 agosto 1985 n. 431 che ha convertito con modificazioni il d.l. 27 giugno 1985 n. 312, disposizioni
urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale e, so
prattutto, la 1. 8 luglio 1986 n. 349, istituzione del ministero dell'ambien
te e norme in materia di danno ambientale), le quali, se hanno riconosciuto
formalmente la risarcibilità del danno arrecato all'ambiente ed hanno de
finito ruoli e compiti della p.a. in materia (cfr. Fuzio, Il sistema sanzio natone) delle alterazioni del paesaggio: validità e potenzialità dopo le recenti
modifiche, in Foro it., 1987, II, 172), non hanno affrontato esplicitamen te il problema del controllo giurisdizionale, in special modo penale, sul
l'attività di gestione del territorio posta in essere dalle pubbliche autorità.
Problema, questo, già avvertito dalla dottrina più sensibile (cfr. Fiandaca
Tessitore, Diritto penale e tutela dell'ambiente, in Materiali per una ri
forma del sistema penale, F. Angeli, Milano, 1984, 58 ss., i quali si pon
gono il problema di accertare se gli strumenti codicistici di controllo siano
sufficienti a penalizzare il comportamento dei p.u. che vengano meno
all'obbligo di reprimere le attività inquinanti), la cui risoluzione contri
buirebbe non solo a dare corpo ed incisività ad una organica azione di
tutela del territorio, ma anche a delimitare con rigore — specie di fronte
ad alcuni interventi giurisprudenziali «d'assalto» — i limiti di applicabili
tà, in materia di ambiente, delle attuali norme penali poste a tutela del
funzionamento della p.a. Nelle leggi citate, il ricorso alla sanzione penale, in ossequio ad una
linea di politica legislativa che privilegia una concezione della tutela am
bientale quale «momento di un programma unitario ed articolato di ge stione del territorio, in quanto tale di competenza precipua della p.a.»
(Fiandaca-Tessitore, cit., 34 ss.), continua ad essere considerato quale forma estrema ed accessoria di sanzionamento, sintomo questo, probabil
mente, del fatto che non vi è ancora una decisa volontà sociale e politica di tutelare con coerente determinazione il bene «ambiente» (cfr. Febbra
ro, Tutela penale e civile, in Danno ambientale e tutela giuridica, Ce
dam, Padova, 1987, 50). A ciò si deve aggiungere la considerazione che il legislatore, accordan
do allo Stato uno status privilegiato rispetto agli altri soggetti contitolari
di situazioni soggettive sostanziali e processuali in tema di ambiente —
l'art. 18, n. 3, 1. 349/86 prevede che l'azione di risarcimento, anche se
esercitata in sede penale, può essere promossa solo dallo Stato e dagli enti territoriali ai quali appartengono i beni oggetto del fatto lesivo —,
ha configurato un sistema che lascia scoperte tutte quelle situazioni in
cui risulta problematico riconoscere allo Stato e/o agli altri enti pubblici un interesse al risarcimento di un danno, come nei casi in cui accanto
agli «inquinatori» siano chiamati in causa, per concorso nei fatti oggetto del processo, gli organi della p.a., responsabili di un comportamento il
più delle volte omissivo, ma, spesso, anche commissivo di un illecito pe nalmente sanzionato (cfr. Febbraro, cit., 51). Vigente tale quadro nor
mativo, gli strumenti che si offrono al giudice penale per sindacare l'operato della p.a. in materia di gestione del territorio, rimangono circoscritti, prin
cipalmente — al di là di quelli previsti nelle leggi speciali — a singole
figure criminose, quali quelle contemplate nel codice penale agli art. 439
(avvelenamento di acque o sostanze alimentari), 440 (adulterazione e con
traffazione di sostanze alimentari), 632 (deviazione di acque e modifica
zione dello stato dei luoghi), 635 (danneggiamento), 639 (deturpamento e imbrattamento di cose altrui), 650 (inosservanza dei provvedimenti del
l'autorità), 674 (getto pericoloso di cose), 734 (distruzione o deturpamen
to di bellezze naturali), norme queste, di cui solo l'art. 734 è stato
predisposto esplicitamente in funzione di tutela di beni «ambientali» (pe
raltro, con l'entrata in vigore delle nuove sanzioni previste dalla 1. 431/85,
si pongono gravi problemi di coordinamento: cfr. Fuzio, cit., 172) e che
la giurisprudenza ha interpretato estensivamente per ricomprendervi, prin
cipalmente, i fatti di inquinamento. Vi è poi l'insieme delle figure di reato dei pubblici ufficiali contro la
p.a., che sono state utilizzate in prospettiva di tutela ambientale da un
filone giurisprudenziale di stampo rigoroso, tendente a reprimere gli abu
si, purtroppo frequenti, che si verificano nell'attività amministrativa. Tali
norme si rivelano, però, comunque inadeguate a penalizzare efficacemen
te gli interventi della p.a. lesivi dell'integrità del territorio, essendo la
Il Foro Italiano — 1988.
La difesa pone a fondamento della richiesta quanto osservato,
a tale proposito, dal commissario aggiunto per la liquidazione
degli usi civili del Lazio nella sentenza 28 luglio 1985 emessa nel
la causa dell'università agraria di Riano contro la regione Lazio:
«A mente del combinato disposto dei commi 2° e 4° dell'art.
3 c.p.p. il giudice civile deve sospendere il processo quando è
già in corso l'azione penale, solo se la cognizione del reato ingeri sca sulla decisione della controversia civile, mentre nel caso in
esame la cognizione sul supposto reato non ingerisce minimamente
sulla decisione della controversia civile, anzi è esattamente il con
loro oggettività giuridica imperniata, in generale, sulla tutela del buon
andamento e dell'imparzialità della p.a., valori nei cui confronti l'am
biente può rilevare esclusivamente — pena la violazione dei fondamentali
principi di tassatività e specificità della fattispecie — quale bene strumen
tale o di tutela indiretta. Come se non bastasse, il frequente ed ingiustifi cato ricorso del legislatore ai provvedimenti di clemenza — il caso di
specie è emblematico in tal senso — ha vanificato molto spesso il risulta
to e gli sforzi della già di per sé lenta attività giudiziaria, creando vuoti
di tutela proprio in quei settori dove maggiore è l'allarme sociale ed il
bisogno d'intervento (cfr. Manera, Precisazioni sul concetto di interesse
privato in atti d'ufficio, in Giur. merito, 1981, 1050 ss.). II. - Fatta questa premessa, passiamo all'esame del caso di specie, in
cui è stato sottoposto a censura, ipotizzando la sussistenza del delitto
di interesse privato in atti d'ufficio, l'operato degli amministratori di un'u
niversità agraria del Lazio. I giudici sono stati concordi nell'escludere la sussistenza del delitto in
questione sulla base del rilievo che, sia dalla contestazione che dagli inter
rogatori dei prevenuti, non è emersa una «presa d'interesse» dei pubblici ufficiali nell'atto della p.a., ovverosia è mancata una condotta positiva che integrasse «una reale ingerenza profittatrice», rifacendosi, pertanto, al dominante orientamento giurisprudenziale che richiede, ai fini della
configurabilità del delitto di cui all'art. 324 c.p., «una effettiva e concre
ta ingerenza profittatoria» del pubblico ufficiale nell'atto della p.a. (cfr. da ultimo: Cass. 20 giugno 1984, Costa, Foro it., Rep. 1985, voce Abuso
di poteri, n. 33; 8 maggio 1984, Santarcangelo, ibid., n. 34; 15 febbraio
1984, Rosati, ibid., n. 35; 8 giugno 1983, Magarelli, id., Rep. 1984, voce
cit., n. 32; 5 luglio 1983, Mandelli ibid., n. 58; 3 giugno 1983, Annovaz
zi, ibid., n. 59; 14 ottobre 1982, Zani, id., Rep. 1983, voce cit., n. 13; 23 aprile 1982, Rossato, ibid., n. 14; 2 dicembre 1981, Brogliato, id.,
Rep. 1982, voce cit., n. 31; 3 luglio 1981, Milazzo, ibid., n. 37; 20 marzo
1981, Barzé, ibid., n. 38; 29 novembre 1979, Lelli, id., Rep. 1981, voce
cit., n. 31; 7 giugno 1979, Alfonso, id., Rep. 1980, voce cit., n. 14; 3 novembre 1979, Duo, id., Rep. 1981, voce cit., n. 44; 25 maggio 1978,
Fasano, id., Rep. 1979, voce cit., n. 24). Accanto a questo orientamento dominante è presente, però, in giuris
prudenza, un filone di segno più rigoroso che, interpretando estensiva
mente il termine «interesse privato», ritiene configurabile il delitto in que
stione, oltre che nei casi in cui il p.u. profitti dell'ufficio pubblico nel
proprio personale interesse, anche nell'ipotesi in cui egli si serva della
sua carica per avvantaggiare altre persone — amici, compagni di partito, ecc. — od organizzazioni a lui vicine (Cass. 13 marzo 1984, Pepe, id.,
Rep. 1985, voce cit., n. 43; 15 giugno 1982, Bigi, id., Rep. 1984, voce
cit., nn. 47, 50, 55; 18 dicembre 1981, Picciotto, id., Rep. 1983, voce
cit., n. 24; 25 gennaio 1982, Albertini, id., Rep. 1984, voce cit., n. 45; 15 gennaio 1980, Verzotto, id., 1980, II, 81; 24 maggio 1977, Coluccia,
id., Rep. 1978, voce cit., n. 26; 15 dicembre 1976, Di Maura, id., Rep.
1977, voce cit., n. 21; Trib. Rimini 30 giugno 1983, id., Rep. 1984, voce
cit., n. 46; Trib. Torino 13 novembre 1978, id., 1979, II, 207), ovvero
agisca consapevolmente per un fine non esclusivo della p.a., anche se
di per se stesso non illecito (Cass. 17 dicembre 1982, Liscai, id., Rep.
1984, voce cit., n. 33) o semplicemente inserisca una prospettiva di priva to interesse nel procedimento di formazione dell'atto pubblico (Cass. 25
gennaio 1982, Albertini, id., Rep. 1984, voce cit., n. 41; 20 aprile 1983, Di Giacomo ibid., n. 51; l°dicembre 1980, Minore, id., Rep. 1981, voce
cit., n. 24; 15 dicembre 1978, Viti, id., Rep. 1980, voce cit., n. 11). Rifa
cendosi a tali ultime pronunce il p.m. aveva chiesto, in appello, la con
danna dei prevenuti per il reato in questione, motivando la richiesta in
base al rilievo che, se anche dagli atti processuali non risultava che gli amministratori pubblici avessero ottenuto un qualche vantaggio personale diretto o indiretto dalla loro condotta delittuosa, era altresì incontestato
che essi avessero agito nell'intento di avvantaggiare, a scapito della citta
dinanza ed in disprezzo di ogni preoccupazione circa l'integrità dèi terri
torio da loro amministrato, una ben precisa categoria economico-sociale,
quella dei coltivatori di cave.
Aderendo a tale tesi si finisce con l'ipotizzare un ampliamento oltre
misura della fattispecie che urta contro le conclusioni acquisite in materia
dalla dottrina dominante, la quale ritiene non sia legittimo estendere la
fattispecie al di là dei casi in cui il pubblico ufficiale, direttamente o
indirettamente, assuma una «interessenza personale» in un affare del
l'amministrazione (Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale,
Giuffrè, Milano, 1986, II, 799). Come si è fatto notare (cfr. gli autori
richiamati da Rampioni, Brevi note in tema di «privato interesse» net
delitto di cui all'art. 324 c.p., in Giur. it., 1980, II, 263 ss.), infatti,
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PARTE SECONDA
trario (art. 20 c.p.p.) spettando alla speciale giurisdizione com
missariale (e mai a quella del giudice penale se non in via mera
mente accindentale) di stabilire se esisteva o meno il potere autorizzatorio controverso».
Poiché l'art 20 del codice di rito non impone l'obbligo, ma
dà facoltà al giudice penale di sospendere il procedimento in atte
sa della risoluzione della controversia civile, non ritiene la corte
nel caso in esame di avvalersi di tale facoltà. I più ampi poteri conferiti dalla legge al giudice penale hanno consentito, infatti, l'accertamento della esistenza del provvedimento commissariale
già sul piano dell'interpretazione letterale, in base all'argumentum a con
trariis, si deve escludere che la nozione di interesse privato comprenda interessi estranei alla sfera giuridica del pubblico ufficiale: il legislatore quando ha inteso punire una condotta del pubblico ufficiale che faccia
propri interessi di terzi lo ha fatto sempre expressis verbis, usando la locuzione «per sé o per altri» (cosi negli art. 314, 315, 316, 317, 318, 319 c.p.); d'altra parte l'art. 324, dando rilievo alla posizione del terzo solo quando questi agisca per l'interposta persona del pubblico ufficiale, pare escludere testualmente un'interpretazione nel senso di quella pro spettata. Ma vi è anche un altro ed ancor più decisivo rilievo: aderendo alla tesi secondo la quale il delitto di interesse privato in atti d'ufficio è configurabile anche nelle ipotesi in cui il pubblico ufficiale agisca ad esclusivo favore di terzi si giungerebbe, in sostanza, ad una vera e pro pria interpretatio abrogans, quanto meno parziale dell'art. 323 c.p. (Ram pioni, cit., 267), norma che prende in considerazione, espressamente, l'ipotesi in cui il pubblico ufficiale, abusando del suo ufficio, procuri a sé o ad altri un ingiusto profitto. Coerentemente con l'adesione all'indi rizzo meno rigoristico, oggi prevalente, la corte d'appello ha ravvisato nella fattispecie portata alla sua cognizione un caso di abuso innominato d'ufficio e non già d'interesse privato in atti d'ufficio. Tale soluzione trova conferma, peraltro, in un orientamento giurisprudenziale consoli dato il quale afferma che l'elemento discriminatore tra la fattispecie di interesse privato e quella di abuso innominato in atti d'ufficio è dato dalla finalità perseguita dall'autore dell'atto che, nel delitto di abuso d'uf
ficio, consiste nel recare vantaggio o danno a terzi e, nel delitto di inte resse privato, nel soddisfare un interesse proprio del pubblico ufficiale
(Cass. 27 giugno 1985, Morgera, Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 13; 28 settembre 1984, Sciotti, id., Rep. 1985, voce cit., n. 21; 23 luglio 1984, A.A., ibid., n. 17; 10 maggio 1983, Colicchio, id., Rep. 1984, voce cit., n. 28; 1° dicembre 1982, Rosetti, id., Rep. 1983, voce cit., n. 9; 18 giu gno 1982, Murzi, ibid., n. 10; App. Napoli 26 marzo 1979, id., Rep. 1981, voce cit. n. 14; Cass. 19 marzo 1980, Preziosi, ibid., n. 21; 3 mag gio 1974, Nerilli, id., Rep. 1976, voce cit., n. 12). Stesse affermazioni si ritrovano nella dottrina più autorevole: per la sussistenza del delitto di abuso innominato d'ufficio essa richiede la prova che il fatto non sia stato commesso per un interesse personale e, tantomeno, per un interesse
patrimoniale del pubblico ufficiale che, se anche agisce — ed è normale — per un motivo proprio lo fa, comunque, al fine di arrecare un danno o un vantaggio ad altre persone (Antolisei, cit., 796 ss.).
De iure condendo, va segnalato che, nel quadro di una più generale riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a., è stata auspicata una ristrutturazione delle fattispecie degli art. 323 e 324, nel senso dell'u nificazione delle due ipotesi in una sola fattispecie criminosa che sanzioni le condotte di sfruttamento dell'ufficio sia per interessi propri del pubbli co ufficiale che per interessi privati altrui: ciò al fine di evitare oscillazio ni nell'applicazione delle norme e garantire l'imparzialità dell'azione
pubblica (Grosso, Intervento penale e discrezionalità amministrativa, in Materiali per una riforma del sistema penale, cit., 33 ss.). E, probabil mente, la via da percorrere per perseguire penalmente i pubblici ammini stratori che si rendano colpevoli di azioni od omissioni pregiudizievoli dell'integrità del territorio rimane proprio quella di una sollecita riforma dei reati contro la p.a.: come è stato osservato, infatti, «la situazione di emergenza ambientale nazionale» richiede non più messaggi ma con crete ed efficaci sanzioni che siano in grado di esplicare una effettiva funzione di prevenzione generale, nel pieno rispetto dei precisi compiti, doveri e limiti di ciascun potere (Fuzio, cit., 179; in generale, sulle pro spettive di riforma dei reati contro la p.a., si veda il volume AA.VV., La riforma dei delitti contro la p.a., a cura di A. Stile, Jovene, Napoli, 1987).
III. - Il testo dell'art. 632 c.p. che prevede il reato di deviazione di
acque e modificazione dello stato dei luoghi, è stato riformulato a seguito della 1. 24 novembre 1981 n. 689 (modifiche al sistema penale), con la quale il legislatore, introducendo il regime della procedibilità a querela (in precedenza il reato era perseguibile d'ufficio) ha voluto condizionare la punibilità alla valutazione della persona offesa, ciò evidentemente in
seguito al venir meno dei valori economico-sociali legati alla società con tadina ed all'affermarsi dei valori propri della società industrializzata (Muc ciarelli, Modifiche al sistema penale, Ipsoa, Milano, 439 ss.). Tuttavia, ai sensi dell'art. 639 bis, il reato di cui all'art. 632 c.p. è tuttora procedi bile d'ufficio nell'ipotesi in cui le azioni tipiche si rivolgano contro beni immobili «pubblici o destinati ad uso pubblico». Nel caso di specie si
pone, pertanto, l'esigenza di verificare se i territori gravati da uso civico
Il Foro Italiano — 1988.
di assegnazione a categoria dei terreni del demanio civico della
popolazione di Riano (di cui si tratterà in seguito) documento
del quale il commissario agli usi civici aveva escluso l'esistenza
sulla base dei suoi accertamenti e perché il fatto era «incontro
verso tra le parti».
Parimenti, va rigettata la richiesta di rinnovazione del dibatti
mento per espletare una perizia tecnica sullo stato dei luoghi, in quanto le dichiarazioni rese dal Ranucci e dal Genevois (redat tori in altra sede delle perizie in atti) in istruttoria e al dibatti
mento paiono alla corte sufficienti ai fini della conoscenza delle
notizie storiche e dello stato dei luoghi sui quali si controverte.
possano essere considerati beni immobili «pubblici o destinati ad uso pub blico»: qualificazione, peraltro, oggetto di divergenza tra i due diversi
organi giudicanti. In proposito — in giurisprudenza non risultano prece denti specifici — va rilevato che la dottrina penalistica dominante indivi dua genericamente il requisito dell'essere «pubblico o destinato ad uso
pubblico» nell'appartenenza dell'immobile allo Stato o ad altro ente pub blico (territoriale o meno) ovvero, in assenza di tale condizione, nella destinazione dell'immobile a qualsiasi attività con finalità pubbliche (v. per tutti Mucciarelli, cit., 443).
Decisiva diventa, pertanto, la connotazione giuridica da attribuire ai territori gravati da uso civico.
Secondo autorevole dottrina gli usi civici costituiscono una categoria di diritti che presenta una certa affinità coi diritti di uso pubblico, carat terizzati da una perpetuità del vincolo — il quale è un diritto reale di
natura civica: i componenti della collettività ne fruiscono uti cìves —
che rende tali diritti indisponibili sia da parte della collettività che da
parte dei singoli (A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo,
Jovene, Napoli, 1984, II, 793 ss.); in sintesi essi costituiscono un fenome no di proprietà collettiva, distinto sia dalla proprietà privata che dalla
proprietà pubblica individuale (Ramelli Di Celle, Diritti civici e terre collettive in recenti sentenze, in Riv. dir. agr., 1984, II, 62 ss.).
Gli usi civici generalmente si hanno su terreni di proprietà del comune o di terzi, di massima aventi titolo dagli antichi signori o, come nel caso delle università agrarie, su terreni appartenenti alle stesse comunità dei beneficiari. In tal caso essi presentano notevoli analogie con l'uso genera le dei beni demaniali (Sandulli, cit., 794), per cui si può senz'altro consi derare plausibile l'assimilazione a tali beni e la conseguente qualificazione come «beni pubblici o destinati ad uso pubblico».
Tale conclusione trova conferma anche in precedenti decisioni giuris
prudenziali: la Cassazione, anche a sezioni unite, ha infatti affermato
esplicitamente la «demanialità» dei beni gravati da uso civico appartenen ti alla collettività (terre possedute dai comuni, frazioni di comune, comu
nanze, partecipanze, università ed altre associazioni agrarie): Cass. 24
luglio 1986, n. 4749, Foro it., Rep. 1986, voce Usi civici, n. 5; sez. un. 11 giugno 1973, n. 1671, id., Rep. 1973, voce cit., n. 10; 12 giugno 1969, n. 2073, id., Rep. 1970, voce Espropriazione per p.i., n. 21).
Da segnalare, infine, che, proprio con riferimento ai terreni oggetto del giudizio in questione, il commissariato agli usi civici del Lazio (sent. 4 giugno 1981, id., Rep. 1983, voce Usi civici, n. 15) ha affermato che «il regime giuridico dei beni di uso civico ha i caratteri propri della dema
nialità, in quanto i detti beni sono inalienabili, incommerciabili, impre scrittibili, non suscettibili di usucapione, pignoramento, espropriazione forzata, . . .».
IV. - In relazione al reato di danneggiamento va rilevato che un ormai consolidato ed univoco indirizzo giurisprudenziale afferma che il delitto
può avere per oggetto cose mobili o immobili anche nell'ipotesi aggravata di cui all'art. 635, 2° comma, n. 3, c.p., con riferimento all'art. 625, n. 7, c.p.: tale richiamo ha infatti solo lo scopo di individuare l'oggetto del reato e non di far coincidere l'ambito di applicazione dell'art. 635
c.p. con quello del reato di furto, che non può avere per oggetto se non cose mobili (Cass. 28 marzo 1985, Iurilli, id., Rep. 1986, voce Danneg giamento,, n. 4; 16 gennaio 1984, Corsini, id., Rep. 1985, voce cit., n.
10; 19 febbraio 1981, Sagona, id., Rep. 1982, voce cit., n. 4; 13 aprile 1978, Montagner, id., Rep. 1979, voce cit., n. 4; 21 marzo 1978, Italiano, ibid., n. 5, che ha ritenuto che il danneggiamento della spiaggia del mare, che fa parte del demanio marittimo ed è un bene immobile destinato a pubblica utilità, integra l'ipotesi delittuosa di cui all'art. 635, cpv. n.
3, c.p.; 3 febbraio 1978, Cicchetti, id., Rep. 1978, voce cit., n. 5; 28
aprile 1975, Fratini, id., Rep. 1977, voce cit., n. 2: fattispecie in tema di inquinamento del fiume Arno; 27 settembre 1974, Pedretti, ibid., n.
7; 19 gennaio 1977, Adinolfi, ibid., n. 8). In relazione all'aggravante prevista dall'art. 635, n. 5, c.p., si è preci
sato in giurisprudenza che — per la sua sussistenza — occorre che le piante oggetto del danneggiamento siano state poste in opera dall'uomo e siano fruttifere, escludendosi le vegetazioni spontanee, a meno che le stesse non siano parte integrante di un bosco, di una selva o di una fore sta (Cass. 15 febbraio 1981, D'Onofrio, id., Rep. 1982, voce cit., n. 9).
V. - Da ultimo, in tema di attività estrattiva in zone sottoposte a vinco lo idrogeologico, v. T.A.R. Emilia-Romagna 19 dicembre 1986, n. 640, id., 1988, III, 52, con nota di richiami, nonché Corte cost. 15 luglio 1985, n. 201, ibid., I, 64, con nota di M. Meli. [D. Carota]
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GIURISPRUDENZA PENALE
Passando all'esame del merito, ritiene la corte che, cosi come
sostenuto anche dal procuratore generale nell'attuale dibattimen
to, il fatto contestato al capo A) agli imputati non è tale da con
figurare il delitto di interesse privato in atti di ufficio. Infatti, non è indicato nella contestazione, né è desumibile dagli interro
gatori dei prevenuti quale interesse personale privato (diretto o
indiretto) abbiano ricavato gli odierni appellanti, amministratori
della università agraria dalle concessioni delle cave, requisito questo essenziale ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 324 c.p.
La motivazione dei giudici di primo grado sul punto è convin
cente, onde non appare necessario diffondersi ulteriormente su
tale argomento. Il fatto, come contestato, contiene invece tutti i requisiti per
la configurabilità del meno grave delitto di abuso di ufficio in
casi non preveduti specificamente dalla legge, previsto dall'art.
323 c.p. Sulla natura di enti pubblici delle università agrarie si è già
pronunciata la Corte di cassazione che con sentenza in data 13
maggio 1980, n. 3135 (Foro it., 1981, I, 473) ha stabilito che
«le università o associazioni agrarie (ivi comprese le università
agrarie delle province dell'ex Stato pontificio) hanno natura di
enti pubblici esponenziali di collettività di utenza civica, i quali hanno come base associativa le stesse popolazioni stanziate nei
vari territori o alcune categorie (classi) di esse e quale fine la
regolamentazione degli usi civici per il soddisfacimento di bisogni elementari della vita delle dette popolazioni e classi di popolazio ni (e in ciò si intende lo stretto collegamento fra tali organizza zioni e le strutture pubbliche municipali).
Ne consegue, ai sensi dell'art. 357, n. 2, c.p., che gli organi delle università agrarie, in quanto esercenti sia pure temporanea mente una pubblica funzione amministrativa sono da qualificarsi
pubblici ufficiali. Quanto all'ulteriore requisito dell'abuso dei poteri inerenti alle
loro funzioni, va prima chiarito il quadro normativo, nel quale si sono inserite le delibere di concessione o di rinnovo delle cave,
specificate nell'impugnazione. Con la 1. 16 giugno 1927 n. 1766 veniva stabilito: 1) che i terre
ni posseduti dalle università ed altre associazioni agrarie, doveva
no essere distinti in due categorie: A) terreni convenientemente
utilizzabili come bosco o come pascolo permanente; B) terreni
convenientemente utilizzabili per la coltura agraria (art. 11); 2) che per i terreni di cui alla lettera A), i comuni e le associazioni
non potranno, senza l'autorizzazione del ministero dell'economia
nazionale (oggi la regione), alienarli o mutarne la destinazione
(art. 12, 2° comma); 3) che i diritti delle popolazioni su detti
terreni non potranno eccedere i limiti stabiliti dall'art. 521 c.c.
(art. 12, 3° comma). L'art. 521 del codice del 1865, vigente all'epoca, recitava espres
samente: chi ha l'uso di un fondo non può raccoglierne i frutti
se non per quanto sia necessario ai suoi bisogni e a quelli della
sua famiglia. Tale norma è stata riprodotta quasi testualmente
nell'art. 1021 c.c. del 1942, oggi vigente. Il principio risulta poi ribadito nell'art. 41 del regolamento approvato con r.d. 26 feb
braio 1928 n. 332, nel quale si richiede che boschi e pascoli pos sano rendere «senza eccessivo sfruttamento».
In ossequio a tale normativa, con provvedimento in data 7 gen naio 1927 il commissario regionale per la liquidazione degli usi
civici dell'Italia centrale, visto il piano di massima per la sistema
zione dei beni appartenenti alla università agraria di Riano redat
to dal geom. Verolini Francesco, determinò la destinazione delle
terre appartenenti all'università agraria di Riano, assegnando alla
categoria A) 153 ettari di bosco ceduo e 97 ettari a pascolo per manente per i bisogni del bestiame locale; e, alla categoria B),
ettari 259 circa di terreno suscettibile di coltura agraria (di cui
128 circa già quotizzati nel 1920 e 130 circa a nuova coltura).
Emerge con tutta evidenza da tale documento che un uso civi
co di cava non esisteva affatto all'epoca.
Conseguentemente, essendo state le terre assegnate alla catego
ria B), ripartite tra gli utenti o comunque essendo esse destinate
alla ripartizione, i residui terreni assegnati alla categoria A), non
potevano essere concessi ad uso di cava, se non previa autorizza
zione al mutamento di destinazione, ai sensi dell'art. 12, 2° com
ma, già citato. Né può affermarsi che l'uso, di fatto, dei terreni
a cava possa legittimare da solo il mutamento di destinazione.
Il problema è già stato affrontato dalla giurisprudenza che lo
ha risolto negativamente affermando che per i beni di uso civico
Il Foro Italiano — 1988.
resta vietato una tacita classificazione, sia nel senso di una tacita
classificazione degli usi, sia di un tacito mutamento di destinazio
ne (v. Cass. 12 dicembre 1953, n. 3690 id., Rep. 1953, voce Dirit
ti promiscui, n. 66). D'altra parte che l'autorizzazione fosse necessaria è stato rico
nosciuto sia pure tardivamente dagli stessi organi dell'università
agraria che nel 1982 hanno richiesto l'autorizzazione al cambio
di destinazione di terreni di uso civico da utilizzare per lo sfrutta
mento di cave di tufo (autorizzazione deliberata dalla giunta re
gionale del Lazio in data 12 novembre 1985, ma poi sospesa dal
comitato regionale di controllo in data 5 dicembre 1985). Vero è che la Corte di cassazione con sentenza in data 26 feb
braio 1986 ha annullato i provvedimenti di sequestro delle cave
emanati dal p.m. nel corso della presente istruttoria «perché non
era stata ancora imposta una destinazione vincolante» dei terre
ni, onde non era possibile configurare un potere autorizzatorio
regionale per il mutamento di destinazione dei terreni, ma tale
decisione non ha potuto tenere conto del provvedimento di classi
ficazione del commissario agli usi civili dell'Italia centrale rinve
nuto successivamente e «agevolmente» dall'assessore agli uci civici
del Lazio dott. Pietro Federico.
La difesa ha sostenuto invece che un uso civico di cava in real
tà esisteva, fondandolo sull'art. 5 dello statuto dell'università agra ria di Riano nel quale si fa cenno ad un piano di utilizzazione
dei terreni e cave: «Il consiglio ordinariamente, deve riunirsi due
volte all'anno e precisamente nel mese di giugno per deliberare
il piano di utilizzazione dei terreni e cave per l'annata agraria successiva».
Ma che l'indicazione delle cave sia frutto di un tardivo inseri
mento nel regolare operato al fine di legittimare in qualche modo
le irregolarità che si andavano consumando, è provato senza om
bra di dubbio dal dato pacifico e comunque non contestato da
alcuna delle parti che l'attività estrattiva nei terreni dell'universi
tà agraria ebbe inizio nel 1957, secondo quanto risulta dalla peri zia Genevois (avallata sul punto da quella del Ranucci). Scrive
11 perito che «l'attività estrattiva inizia nel 1957 quando l'univer
sità agraria destinò parte del proprio territorio per lo sfruttamen
to di cave».
Ne consegue che tutte le delibere di concessione ex novo o di
rinnovo di concessioni preesistenti da parte degli amministratori
dell'università agraria son frutto di un abuso dei loro poteri per
petrato al fine di avvantaggiare i cavatori. Abuso che a decorrere
dal 1957, data di inizio dell'attività estrattiva, secondo il perito Genevois (la data più remota delle concessioni di cui vi sono trac
ce negli atti, è, invece, quella del 13 giugno 1960 quando fu sti
pulato il contratto col sig. Pasquale Spiridigliozzi) è andato via
via crescendo sotto la pressione dei singoli cavatori e delle società
concessionarie, interessati ai loro guadagni (secondo il dott. D'Ur
so, come già notato, il canone di locazione pagato all'università
agraria dai cavatori era inferiore del 25 "lo o forse del 30% rispet to a quello pagato ai proprietari privati) e del tutto indifferenti
agli enormi danni che con la loro attività provocavano alla collet
tività devastando il paesaggio e ai singoli allevatori di bestiame
ai quali venivano sottratte le terre per il pascolo. Il perito Ranucci ha sinteticamente ma incisivamente ricostrui
to la situazione quando ha spiegato che il lavoro estrattivo in
origine (effettuato in modo artigianale) era un fenomeno margi
nale, ma che successivamente, con il progredire della tecnica di
estrazione e con l'aumento delle concessioni, ha provocato un
vero e proprio dissesto idrogeologico che è arrivato ad interessare
circa 50 ettari del territorio. La volontà che ha mosso commissari
e amministratori dell'università non è stata perciò quella di sod
disfare i bisogni della popolazione residente in Riano secondo
quanto imposto dalla legge (senza eccessivo sfruttamento dei ter
reni), bensì quella di incrementare gli utili economici dei cavato
ri. E ciò vale anche per quegli amministratori che, presa coscienza
della gravità del disastro, curarono la redazione del piano di risa
namento dell'architetto Grossi (approvato nel 1976), i quali non
affrontarono gli ormai cristallizzati interessi dei cavatori, ristabi
lendo l'autorità della legge, ma si limitarono (peraltro operando
anche alcune deroghe) a rinnovare le concessioni preesistenti, co
si favorendo coloro che già risultavano favoriti dai precedenti
amministratori.
È sintomatico a tale proposito quanto si legge nel verbale del
consiglio universitario che approvò il 7 marzo 1979 il piano di
completamento e risanamento dell'arch. Antonio Grossi: «le for
ze politiche democratiche di Riano stanno tentando una positiva so
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PARTE SECONDA
luzione a salvaguardia delle aspettative degli imprenditori inte
ressati».
L'attenzione degli amministratori perciò era rivolta a salvaguar dare le aspettative degli imprenditori, il che comportava necessa
riamente il perdurare e l'aggravarsi della sempre più rovinosa
situazione ambientale.
Ha osservato la difesa, però, che nessun reato è configurabile nei confronti degli imputati, in quanto gli stessi non erano a co
noscenza dell'atto di classificazione e quindi della necessità di
ottenere l'autorizzazione regionale per mutare la destinazione dei
terreni.
Ma tale tesi è contraddetta dalle dichiarazioni di buona parte
degli stessi imputati. Ha dichiarato infatti Zuliani Gabriele nell'interrogatorio al p.m.
del 12 giugno 1985: «ero a conoscenza della necessità che ai sensi
dell'art. 12 1. 12 giugno 1927 n. 1766 venisse autorizzata la modi
fica della destinazione di uso». A tali dichiarazioni si sono ripor tati i coimputati Galiena, Cantoni Aldo, Rossi Adriano, Famiani
Mario e Gasparini Peppino. Se ne deve desumere che presso gli utenti dell'università di Riano fosse cognizione comune la classi
ficazione dei terreni e la loro destinazione agli usi civici di bosco
ceduo e pascolo e che pertanto tutti gli imputati ne fossero a
conoscenza. Ciò trova conferma nell'allegato alla deliberazione
n. 62 del 25 giugno 1982. Lo Zuliani ed altri due consiglieri affer
marono che l'amministrazione precedente aveva adottato un pia no di risanamento dei terreni interessati all'attività estrattiva in
località Cannetaccio basato prima di tutto sul principio del «re
cupero all'uso del pascolo di suoli deturpati da decenni di caotica
attività estrattiva». E non risulta che alcuno dei presenti ebbe
a contrastare la esistenza dell'uso civico di pascolo. D'altra parte, la situazione di fatto dei terreni destinati a bosco
o a pascolo non poteva lasciare dubbi sulla loro destinazione.
Né può esimere da responsabilità per il reato in esame, la clauso
la inserita dagli amministratori nei contratti di concessione di ca
ve, a decorrere dal 6 luglio 1982, che condizionava l'efficacia
del contratto alla autorizzazzione regionale. L'università agraria sarebbe stata legittimata a stipulare contratti di concessione su
quei terreni solo dopo il mutamento di destinazione; una volta
cioè che ne avesse avuto la disponibilità. Non va dimenticato che gli usi civici sono diritti primari, ne
cessari ai bisogni primari ed essenziali ad una determinata comu
nità e sono perciò inalienabili (v. Cass. 19 ottobre 1967, n. 2553,
id., Rep. 1968, voce cit., n. 34). Ma che la clausola ora indicata avesse funzione meramente ap
parente è provato dal fatto che, anche dopo la delibera del 6
luglio 1982 buona parte dei cavatori (Napoleone Mancini ha indi
cato nominativamente Faraoni, Mecocci, Ovidi, Assogna e Spiri
digliozzi), pur non essendo stata concessa l'autorizzazione alla
modifica della destinazione d'uso, procedettero all'attività
estrattiva.
Cantoni Renato ha ammesso che nel 1984 quando gli venne
concesso d'ampliare una cava, avviò subito l'attività estrattiva, ed ha persino affermato di ignorare la clausola che subordinava
tale attività all'autorizzazione in quanto «non aveva letto il con
tratto». Ha precisato comunque che l'università agraria aveva sem
pre riscosso il canone.
Marronaro Fernando, invece, avendo letto il contratto non si
era accorto della clausola. Anche Assogna Giovanni e Manetta
Arcangelo, presidente della cooperativa Belvedere, hanno ammesso
l'attività estrattiva in carenza della modifica di destinazione d'u
so e ciò con la consapevolezza degli amministratori dell'universi
tà agraria.
Pertanto, non di erronea interpretazione di leggi amminsitrati
ve, scusabili ai sensi dell'art. 47 c.p., si tratta (come ritenuto dal
tribunale), ma di deliberata e consapevole violazione di norme
ben conosciute, e addirittura ribadite (a decorrere dal 6 luglio
1982) nei contratti di concessione delle cave.
Frutto di abuso degli amministratori col concorso dei singoli
imprenditori e della società è stata però non solo la concessione
delle cave senza la prescritta autorizzazione, ma anche, come ri
sulta dal capo di imputazione, le modalità delle concessioni che
venivano effettuate a trattativa privata e non ad asta pubblica. Come ha giustamente rilevato il dott. D'Urso nella sua relazio
ne «a prescindere dall'irregolarità derivante dalla omessa autoriz
zazione le procedure seguite per l'affidamento per lo sfruttamento
delle cave presentano aspetti discutibili dal punto di vista giuridi co sia riguardo alla attuazione della 1. reg. n. 1 del 16 gennaio
li Foro Italiano — 1988.
1980 sia riguardo alla regolamentazione generale contenuta nella
legge di contabilità di Stato (trattativa privata, attività conciliativa).
Infatti, l'art. 41 r.d. 23 maggio 1924 n. 827 stabilisce che si
proceda a trattativa privata solo nei casi espressamente ivi previ sti nei nn. da 1 a 5 e, in genere, in ogni altro caso in cui ricorra
no speciali ed eccezionali circostanze per le quali non possano essere utilmente seguite le forme degli art. da 37 a 40 del presente
regolamento, ma che, comunque, la ragione per la quale si ricor
re a trattativa privata deve essere espressamente indicata.
Nelle concessioni in esame tale ragione non è stata indicata
e, in ogni caso, certamente non esistevano circostanze speciali ed eccezionali tant'è che, proprio a seguito delle critiche mosse
in proposito, l'università agraria emanò la delibera n. 68 in data
6 luglio 1982 con la quale stabili che per l'affitto dei terreni e
per l'apertura di cave i terreni avrebbero dovuto essere dati in
affitto mediante asta pubblica. Senonché neppure dopo quella data fu fatto mai ricorso all'asta pubblica, nonostante che vi fos
se gran numero di aspiranti alla proficua attività di estrazione
e nonostante la mole dei ricorsi avverso le concessioni, evidenzia
ta del perito Ranucci.
A tale proposito l'imputato Cantoni Saturno (seguito da Mar
ruca, Ratari, Bocci Giorgio, Toccalozzi, Chicca, Mancini Adol
fo, Pancetta, Di Giallombardo, Urbani e Tasca) ha dichiarato:
«abbiamo proceduto a trattativa privata in ordine alla concessio
ne di nuove cave (ampliamento di cave preesistenti) in quanto la precedente amministrazione aveva proceduto a trattativa priva ta per cui si ritenne di non dovere esporre l'ente a contestazione
giudiziaria; 2) in quanto, sulla base della 1. 1/80 della regione Lazio che non consente l'apertura di nuove cave, potevano con
cedere l'ampliamento solo ai vecchi concessionari.
Per quanto riguarda la legge regionale va subito chiarito che
l'art. 23 1. reg. 16 gennaio 1980 n. 1 prevede che l'esaurimento
di un giacimento possa consentire l'estensione dell'autorizzazione
alla coltivazione di altre superfici attenenti alla medesima attività
estrattiva, ma solo quando si tratti di attività legittimamente in
corso; il che non può certo affermarsi nel caso in esame. Quanto,
poi, alla giustificazione desunta dal comportamento della prece dente amministrazione, essa appare pretestuosa ove si consideri
che dovere degli organi di un ente pubblico è quello di correggere eventuali irregolarità preesistenti e non certo quello di perpetuarle.
Ancora una volta, in verità, bisogna constatare come gli inte
ressi estrattivi avevano preso totale sopravvento sui diritti degli utenti dell'università agraria.
Un esame particolare merita, in relazione alle modalità di con
cessione delle cave a trattativa privata, la posizione del rag. Mur
gia che aveva esercitato le funzioni di commissario dell'università
agraria di Riano (su nomina della regione Lazio) dal marzo 1975
all'aprile 1976.
Nell'imputazione si addebita al Murgia di avere concesso cave
a Luigi Cicinelli e Cantoni Renato con deliberazioni nn. 52 e
53 del 12 settembre 1975.
L'imputato si è difeso adducendo che aveva adottato le delibe
re sulla base della richiesta verbale fatta dai due cavatori; che
in buona fede aveva ritenuto che l'autorizzazione di cui all'art.
12 1. usi civici fosse stata già concessa; che non aveva esperito asta pubblica in quanto inizialmente aveva individuato due sole
domande; che, successivamente, resosi conto che esistevano altre
domande, aveva revocato le due delibere; che aveva stipulato una
serie di contratti di rinnovo di cave già concesse in affitto a privati. Da tali dichiarazioni emerge con chiarezza il comportamento
abusivo del Murgia. A parte l'inattendibilità della sua protesta di buona fede in
ordine all'autorizzazione di cui all'art. 12 (agevole da controllare
e comunque da controllare per un funzionario regionale prima di emanare le delibere), va notata la sua totale indifferenza al
l'osservanza delle norme che gli imponevano di ricorrere all'asta
pubblica, di tal che fu poi costretto dagli altri cavatori aspiranti a revocare le delibere con grave danno per l'università agraria la quale dovette iniziare un giudizio nei confronti del Cantoni
che aveva già iniziato i lavori di apertura della cava.
Né giova al Murgia, come agli altri imputati, il richiamo a prov vedimenti di altri organi pubblici, in particolare l'ispettorato fo
restale, che hanno sostanzialmente avallato gli atti di concessione, nonostante le violazioni di legge sopra indicate.
Non compete a questa corte valutare quei provvedimenti. Essi, in ogni caso, non escludono né attenuano in alcun modo la re
sponsabilità degli attuali imputati.
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GIURISPRUDENZA PENALE
È utile però notare che quando la giunta regionale del Lazio, il 12 novembre 1985, concesse l'autorizzazione al cambio di desti
nazione dei terreni di uso civico da utilizzare per lo sfruttamento
delle cave di tufo (autorizzazione sospesa e poi annullata), si è
trovata di fronte all'alternativa che o autorizzava la continuazio
ne dell'attività estrattiva per un periodo determinato, oppure do
veva accollare alla collettività un costo di risanamento pari a
quattro miliardi. Alternativa che era palesemente frutto degli abusi
già esaminati.
Abusi ribaditi a tutte lettere dall'assessore alla sanità e ambien
te della provincia di Roma (dott. Giorgio Fregosi) che in una
nota in data 6 febbraio 1984 inviata a vari uffici pubblici, tra
i quali il Pretore di Castel Nuovo di Porto, riferiva che in località
«Cannetaccio Grottagrifa» erano stati iniziati dei lavori di sterro
dalle ditte Mecocci e Faraoni, Ovidi e Assegna, per aprire una
nuova cava di tufo, lavori che avevano portato all'abbattimento
di oltre venti esemplari di cerro, molti dei quali di dimensioni
«monumentali» su ventisei censiti precedentemente e alla distru
zione di circa 5.000 mq. di bosco giovane.
Rilevava, naturalmente, l'assessore che i lavori erano illegittimi
perché la regione non aveva approvato la variante della destina
zione di uso da pascolo ad attività estrattiva.
Pertanto, concludendo sulla responsabilità degli imputati, in
ordine al delitto di cui al capo A), va rilevato che la concessione
delle cave da parte degli amministratori dell'università agraria, in carenza dell'autorizzazione regionale al mutamento di destina
zione e dell'utilizzazione del procedimento dell'asta pubblica per le singole concessioni, ha causato un enorme danno alla colletti
vità dei residenti di Riano (e, indirettamente, alla collettività na
zionale) per la devastazione del paesaggio (il costo economico
del risanamento è stato quantificato dal prof. Genevois in quat tro miliardi di lire) e agli allevatori residenti ai quali sono state
sottratte notevoli estensioni di terreno per il pascolo degli animali
ed ha, invece, avvantaggiato gli imprenditori anche se in misura
non proporzionata all'entità del danno. Di tali abusi, ai sensi
dell'art. 323 c.p. devono pertanto essere ritenuti responsabili non
solo gli amministratori, ma anche gli imprenditori (singolarmente indicati nell'imputazione) che quegli abusi avevano provocato e
di cui si sono avvantaggiati. Va esclusa la responsabilità solo per Spiridigliozzi Roberto, Be
nito ed Ugo in quanto gli stessi ebbero a succedere al padre Spiri
digliozzi Pasquale, deceduto il 3 aprile 1984.
Pertanto, gli stessi, non avendo partecipato alle stipulazioni dei
contratti di concessione delle cave, che sono di data antecedente, vanno assolti dai reati loro ascritti per non aver commesso il fatto.
Quanto ai reati di cui al capo B) dell'imputazione (art. 81,
112, 632, 639 bis, 635, 2° comma, nn. 3 e 5, c.p.), va rilevato
che dalla accertata responsabilità per il reato di abuso innomina
to, deriva anche quella della immutazione dei terreni dell'univer
sità agraria al fine di trarne profitto (art. 632 c.p.) e quello del
danneggiamento su cose immobili destinate a pubblica utilità.
Il reato di cui all'art. 632 c.p. è perseguibile, nel caso in esame,
di ufficio ai sensi dell'art. 639 bis, trattandosi di terreni destinati
ad uso pubblico, e cioè alla collettività dei residenti in Riano.
A tale proposito va ricordato che si tratta di terreni gravati da uso civico e quindi non alienabili e non usucapibili.
Come ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza 2 feb
braio 1962, n. 210 (id., Rep. 1962, voce cit., n. 12) l'uso civico
importa un godimento a favore della generalità, consistente nel
trarre alcune utilità di carattere primario dalle terre gravate dal
l'uso: godimento a favore della generalità della popolazione e
dei singoli componenti della generalità in quanto tali e non a
favore diretto dell'ente pubblico che quella generalità organizza e rappresenta.
Da tale ultima constatazione consegue che il consenso dell'ente
pubblico alla immutazione dei terreni e al loro danneggiamento non può essere considerato scriminante non solo perché frutto
di un patto illecito tra amministratori dell'ente ed imprenditori
cavatori (come dimostrato in relazione al reato sub A), ma anche
perché l'ente pubblico difetta di legittimazione a disporre dei ter
reni gravati dall'uso civico.
D'altra parte, essendo incontestabile che i singoli residenti tito
lari dell'uso civico non possono essere considerati proprietari dei
terreni, sussiste l'ulteriore requisito della altruità della cosa ri
chiesto dagli art. 632 e 635 c.p. per la configurabilità di tali fatti
specie. Pienamente configurabile è anche l'aggravante contestata per
Il Foro Italiano — 1988.
il delitto di danneggiamento, prevista dal n. 5 dell'art. 635 c.p., essendo stato tale reato commesso su boschi.
Si è già riferito sull'abbattimento di venti cerri «monumenta
li»; va aggiunto che, secondo il perito prof. Genevois, «la carto
grafia ufficiale in alcuni punti dove ci sono le cave riporta un
terreno boschivo» e che, secondo l'assessore all'ambiente della
provincia di Roma i soli Mecocci, Faraoni, Ovidi e Assogna ave
vano distrutto 5.000 mq. di bosco giovane. Resta da considerare che ciascuno dei cavatori, procedendo il
legittimamente, e nella piena consapevolezza di tale illegittimità, alla escavazione nei terreni gravati da uso civico, in concorso con
gli amministratori dell'università agraria, ha partecipato alla im
mutazione dei terreni e al loro danneggiamento. Accertato il con
tributo causale di ognuno alla «devastazione», non rileva, ai fini
del presente procedimento, stabilire il quantum del danno da cia
scuno provocato.
Infatti, ai sensi dell'art. 1 d.p.r. 16 dicembre 1986 n. 865 tutti
i reati addebitati agli attuali imputati nei capi A) e B) sono ormai
estinti per amnistia, non essendo ostativi i precedenti penali dei
prevenuti e non ricorrendo, per quanto sopra esposto, alcuna delle
ipotesi di cui al cpv. dell'art. 152 c.p.p. (Omissis)
II
(Omissis). 2. - Le risultanze processuali, ad avviso di questo
collegio, consentono di escludere la penale responsabilità dei pre venuti in ordine ai reati di cui ai capi a) e b) della rubrica.
Si osserva infatti, quanto al reato di cui all'art. 324 c.p., che, mancando nelle carte processuali un dato preciso che individui
e determini il privato interesse preso dagli amministratori dell'u
niversità agraria di Riano negli atti del loro ufficio, questo è sta
to desunto dalla pubblica accusa sulla base delle seguenti considerazioni: a) l'illegittimità delle delibere concernenti la con
cessione dei terreni dell'università agraria ai cavatori, siccome in
totale carenza dell'autorizzazione di cui all'art. 12 1. 1766/27;
b) la stipulazione o il rinnovo di tali contratti, a trattativa privata anziché ad asta pubblica; c) il consenso tacitamente dato ad alcu
ni cavatori circa lo sfruttamento di giacimenti tufacei, nonostan
te fosse stata inserita nei relativi contratti una speciale clausola
che ne subordinava l'efficacia al rilascio della ricordata autoriz
zazione regionale; d) la violazione, per alcuni contratti, delle pre scrizioni del piano di risanamento adottato dallo stesso ente; e) la sottrazione di vaste zone di territorio gravato da uso civico
alla collettività degli utenti (i cittadini di Riano) allo scopo di
consentire la coltivazione di cave e favorendo quindi gli operatori di detto settore. In buona sostanza, secondo l'accusa, i pubblici
amministratori, attraverso una serie di atti formalmente e sostan
zialmente illegittimi, hanno deliberatamente preposto agli interes
si della collettività quelli non tanto di questo o di quel cavatore,
quanto dell'intera categoria economica operante nel settore delle
cave di tufo. Sotto tale precipuo profilo, della virtuale identifica
zione e confusione di interessi pubblici e privati conseguente ad
una collusione tra imprenditori e pubblici amministratori, vanno
dunque esaminati ed analizzati i comportamenti di questi ultimi, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 324 c.p. Co
storo, si dice, sono rimasti del tutto passivi di fronte allo «scem
pio» del territorio, e quando si sono mossi contro i cavatori
sollecitando l'intervento degli organi preposti agli usi civici, Io
hanno fatto solo per salvare le apparenze, al fine di precostituirsi una sorta di alibi di fronte alla pubblica opinione. Invero, le nu
merose denunce e segnalazioni della guardia campestre e le stesse
azioni giudiziarie intentate, avrebbero avuto sostanziale natura
di meri atti formali in sintonia con i perversi accordi sottostanti,
ipotizzati dall'accusa. L'ipotesi, peraltro non suffragata da alcu
na prova, si appalesa del tutto priva di fondamento. Numerosi
e documentati sono infatti gli interventi della università agraria a fronte dei denunciati abusi dei cavatori, a danno e non a favore
dei quali l'ente chiese ed ottenne dal commissario agli usi civici,
ad esempio, il sequestro giudiziario di alcune cave (come quella
detta «ex-Pesce»), sequestro poi revocato da tale ufficio; che ha
poi respinto il reclamo dell'università agraria avverso lo stesso
provvedimento di revoca.
Quando poi si è trattato di precisare l'interesse privato in con
creto preso dai pubblici amministratori, non è stato indicato e
determinato alcunché di definito, posto che nessuno di essi risul
ta che avesse un interesse economico preciso nella gestione delle
cave o in attività connesse, o che fosse cointeressato con i cavato
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PARTE SECONDA
ri o loro parenti, o comunque avesse tratto un vantaggio econo
mico o di altra natura, che non fosse quello generico e indetermi
nato di favorire l'attività estrattiva eventualmente anche a scapito del tradizionale uso civico gravante sui predetti terreni.
L'esigenza di meglio concretizzare l'interesse in parola è stata
evidentemente avvertita dalla stessa pubblica accusa, sia pure sol
tanto nei confronti del sindaco di Riano, allorché ha adombrato
il sospetto che le autorizzazioni da lui rilasciate ai cavatori fosse
ro finalizzate ad incrementare le vendite di carburante di una azien
da gestita da un suo parente, più o meno prossimo, ma che
comunque neppure opera nel settore estrattivo. Tale circostanza, che non ha formato oggetto di precedente contestazione, nemme
no in fatto (nulla infatti è stato chiesto in proposito, all'interessa
to, nel suo interrogatorio reso in istruttoria), non merita
evidentemente considerazione alcuna, data la sua palese irrilevan
za ai fini penali. In definitiva, dunque, non è rinvenibile nelle
carte processuali alcun elemento concreto da cui possa logica mente desumersi — come pure è stato acriticamente sostenuto — una privata cointeressenza tra gli operatori del settore estratti
vo e gli amministratori dell'ente via via succedutisi nel tempo. Non è inutile sottolineare al riguardo che lo stesso denunciante
Gabriele Zuliani in dibattimento ha ammesso senza difficoltà che
non erano stati fatti favoritismi relativamente alle nuove con
cessioni.
A nulla rileva ovviamente il vantaggio economico derivante ai
cavatori per effetto dei contratti stipulati con l'ente, trattandosi
di un effetto immanente e naturale di ogni contratto sinallagma tico. È bene a questo proposito sottolineare che l'oggetto giuridi co del reato di cui all'art. 324 c.p. è costituito, com'è noto,
dall'esigenza di assicurare il regolare svolgimento dell'attività am
ministrativa, contro l'eventuale «affarismo» del pubblico ufficia
le, che abbia strumentalizzato e sfruttato il proprio ufficio per
conseguire finalità personali e private. A tal fine, a nulla rileva
la legittimità o meno dell'atto cosi come è parimenti irrilevante
il contrasto o la coincidenza tra l'interesse privato preso di mira
dal p.u. e l'interesse pubblico della p.a. (Cass. 17 novembre 1970,
Palmieri, Foro it., Rep. 1972, voce Abuso di poteri, n. 37). È
stato giustamente sottolineato che la dizione della norma incrimi
natrice è quella di «prendere» non di «avere» un interesse priva
to, per cui tale reato non è realizzato dalla semplice coincidenza
di un interesse pubblico e privato, richiedendosi invece la concre
ta dimostrazione che la partecipazione all'atto da parte del p.u. sia stata espressione della strumentalizzazione del suo ufficio ai
fini privati, quanto meno in situazione parallela a quella di pub blico interesse, e lo scopo privato assuma una reale autonomia
non confondibile con un effetto indiretto della pubblica utilità
(Cass., sez. VI, 19 maggio 1983, imp. Sisimi). È richiesta, in altre
parole, «la presa d'interesse» nell'atto della p.a., una condotta
cioè positiva che integri una reale ingerenza profittatrice, non es
sendo sufficiente la mera coincidenza dell'interesse pubblico con
quello privato (Cass., sez. VI, 8 maggio 1984, Santarcangelo, id.,
Rep. 1985, voce cit., n. 34; 15 febbraio 1984, Rosati, ibid., n. 35). Nel caso di specie può al più notarsi una coesistenza tra i due
tipi di interesse, ma ciò sembra solo la naturale conseguenza di
tutti i contratti sinallagmatici che possono essere stipulati anche
tra i privati e la p.a. Potrebbe desumersi che vi è stato un tratta
mento di favore rispetto all'attività estrattiva, anche a scapito di altre forme di utilizzazione dei terreni (come ad es. il pascolo), ma non sono ravvisabili elementi obiettivi per ritenere che si è
inteso favorire questo o quel singolo operatore economico cointe
ressato con i pubblici amministratori nell'esercizio della coltiva
zione di questa o quella cava. Detta attività, al contrario, era
stata ritenuta da questi ultimi (a ragione o a torto) più utile per la collettività della semplice utilizzazione dei terreni a pascolo, in conformità del tradizionale vincolo di uso civico, dato che da
essa principalmente l'ente traeva (e tuttora trae) le proprie entra
te, le quali non vi è prova che finissero nelle tasche dei singoli amministratori ma erano devolute alla gestione dell'ente stesso.
Peraltro non v'è dubbio che l'attività estrattiva non ha natura
meramente privata, ma è da ritenersi di pubblico interesse ed è in ogni caso esercitata su terreni demaniali da lunga data (si è
parlato anche di trenta o quaranta anni), evidentemente con il
consenso della collettività degli utenti e con il benestare delle va
rie autorità tutorie. Osserva a questo proposito il commissario
agli usi civili, nella sua «contestata» sentenza del 25 luglio 1985, che «(. . .) un terreno che prima era adibito a pascolo o a bosco
può ben essere adibito alla semina o viceversa se ciò corrisponda
Il Foro Italiano — 1988.
alle mutate esigenze ed all'utilità della popolazione proprietaria o può essere destinato a cava o a miniera se ne ha la idoneità
economica», «Vietare ogni forma di godimento di quei terreni — la maggior parte dei demani civici — sui quali, a cagione delle
mutate condizioni economico-sociali delle popolazioni, da tempo o volte da secoli, non si praticano affatto gli antichi usi (. . .) o si praticano in misura ridottissima su piccole parti di esse, si
gnificherebbe legittimare gli abusi che sul demanio si sono venuti
praticando o si intendono praticare da parte di un piccolo nume
ro di utenti, che esorbitando i limiti del loro diritto, sempre stori
camente rapportato alle esigenze di economia familiare, si servono
del demanio civico per esplicare una vera attività imprenditoriale
(di solito allevamento di bestiame) monopolizzando in poche ma
ni il godimento di beni che appartengono invece a tutti e vanno
gestiti nell'interesse della collettività». Ciò appare significativa mente condiviso dalla stessa regione Lazio, oggi costituita parte
civile, come può desumersi dalla nota del suo presidente conte
nente osservazioni dirette al Coreco circa l'approvazione della de
libera 12 novembre 1985, n. 6624, con la quale la giunta regionale ha autorizzato il cambio di destinazione dei terreni di cui trattasi.
Si legge infatti, in tale documento che «(. . .) l'art. 41 r.d. 26
febbraio 1928 secondo la costante interpretazione del ministero
dell'agricoltura e foreste seguita dalla regione Lazio nei numerosi
provvedimenti già assentiti dalla commissione regionale di con
trollo, non è riferibile soltanto alle attività connesse all'agricoltu
ra, ma anche a diverse attività di interesse pubblico, ivi comprese le cave, che siano compatibili con il mutamento temporaneo di
destinazione».
Pertanto, non sembra affatto azzardato ritenere che l'attività
estrattiva in questione possa in un certo qual senso ricomprender si tra i fini istituzionali dell'università agraria di Riano, essendo
la stessa esplicitamente richiamata nelle norme del suo statuto
(art. 15, art. 19, lett. c). 3. - Al fine di accertare se l'interesse privato abbia o meno
una sua autonomia e non sia quindi confondibile con un effetto
indiretto destinato alla generalità, può, secondo la giurispruden
za, utilmente procedersi all'esame dell'elemento psicologico del
reato, inteso come consapevolezza del compimento di un atto della
p.a. con la volontà di associarvi un interesse privato. Ci sembra
doveroso sottolineare a tal riguardo che il perno su cui si muove
la pubblica accusa è costituito dall'asserita illegittimità degli atti
dell'università agraria, con particolare riferimento alla mancata
concessione della autorizzazione al mutamento di destinazione d'u
so dei terreni, ritenuta necessaria in vista della loro utilizzazione
a cave di tufo. Osserva invece il collegio, in conformità con la
consolidata giurisprudenza e con la dominante dottrina, che la
legittimità o meno di tali atti non ha rilievo ai fini del reato in
esame, che anzi il più delle volte si manifesta con atti giuridica mente ineccepibili ed immuni da vizi di sorte. Oggetto della tutela
penale del reato non è infatti la legittimità o meno degli atti am
ministrativi, ma il prestigio e la credibilità della p.a. che li deve
realizzare attraverso un'attività imparziale, obiettiva e disinteres
sata (Cass., sez. VI, 22 febbraio 1984, Zucchini, id., Rep. 1985, voce cit., n. 28; 12 dicembre 1984, Pichler, id., Rep. 1986, voce
cit., n. 16; 20 giugno 1984, Costa, id., Rep. 1985, voce cit., n.
33). L'illegittimità dell'atto ed il danno della p.a. sono dunque elementi estranei alla fattispecie criminosa in esame, e non ha
come tale alcun rilievo penale ed è altrimenti ed in altra sede
censurabile dal cittadino che se ne reputi leso (cfr. Cass., sez.
VI, 20 giugno 1984, D'Amico, ibid., n. 24). Diversamente opi
nando, si arriverebbe all'assurdo di ritenere il giudice ammini
strativo obbligato a far rapporto al procuratore della repubblica, ai sensi dell'art. 3 c.p.p., per ogni atto di cui venga accertata
e dichiarata l'illegittimità. Nel caso di specie, poi, potrebbe ben escludersi l'esistenza del
l'elemento soggettivo del reato de quo, anche solo in considera
zione al fatto che la necessità o meno della più volte ricordata
autorizzazione regionale del mutamento di destinazione d'uso, non
solo non è pacifica, ma è oggetto di vivi contrasti, sorti anche
nell'ambito dello stesso commissariato agli usi civici. L'assessore
dott. Federico, ad esempio, ha dichiarato in dibattimento che in
questi ultimi anni, nonostate la sua opposizione, si era continua
to ad assentire concessioni per cave in base a provvedimenti emessi
in sede di conciliazione, dal commissario, che non riteneva neces
sario il mutamento di uso. Questi, poi, non sempre ha provvedu to a concedere i sequestri giudiziari da lui sollecitati. (Omissis)
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GIURISPRUDENZA PENALE
In definitiva ed in sintesi può dunque affermarsi che l'erronea
interpretazione o anche l'ignoranza della normativa in esame è
circostanza che esclude la punibilità, trattandosi di norma tipica mente extra-penale, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 47, ultimo comma, c.p. (Omissis)
4 . - Passando all'esame dell'ulteriore elemento di accusa e cioè
il ricorso alla trattativa privata anziché all'asta pubblica, sembra
al collegio che detta circostanza sia parimenti irrilevante sotto
il profilo penale, non essendo neppure sintomatica del favoriti
smo accordato a singoli imprenditori, dato che, come si è più volte precisato, era favorita piuttosto l'attività estrattiva nel suo
complesso, rispetto a quella agricola, silvo pastorale, ecc.
Peraltro, è ben.noto che la trattativa privata non sia un mezzo
vietato dalla legge per la scelta del privato contraente, ed è anzi
l'unico strumento consentito qualora quest'ultimo sia in certo qual modo necessariamente predeterminato, come è appunto avvenuto
per i rinnovi dei vecchi contratti di affitto in riferimento al dispo sto di cui agli art. 23 e 23 bis 1. reg. n. 1 del 1980.
Comunque sia, l'eventuale erronea interpretazione di una legge
amministrativa, quale quella presa in esame, esclude pur sempre la punibilità ex art. 47 c.p. Sembra quindi pacifico concludersi
per la non configurabilità dell'ipotizzato reato di cui all'art. 324
c.p., per evidente carenza dell'elemento soggettivo dello stesso,
per cui si ritiene di dover assolvere tutti i prevenuti perché il fatto
non costituisce reato.
Non ci sembra ancora che sia obiettivamente diversa la posi zione dei vecchi e quella dei nuovi amministratori dell'università
agraria. È vero che solo relativamente a quest'ultimi era stato
posto il problema della necessità dell'autorizzazione de qua, ma
è anche vero che costoro si sono cautelati inserendo nei contratti
la ricordata clausola che ne subordinava l'efficacia al rilascio del
l'autorizzazione stessa, adendo l'autorità competente allorché i
cavatori iniziarono l'estrazione e segnalando a chi di dovere i
vari abusi via via rilevati dalla guardia campestre. Tale conclusione è assorbente rispetto ad ogni altra sollevata
dalla difesa ad eccezione ovviamente di Spiridigliozzi Renato de
ceduto nelle more del processo. Qualche considerazione ulteriore
merita la posizione di Bocci Elvezio sindaco del comune di Ria
no, che secondo l'accusa avrebbe rilasciato quattro autorizzazio
ni alla prosecuzione dell'attività estrattiva ritenute illegittime. Il
sindaco, nella materia in esame, ha agito come delegato della
regione ex art. 9 1. n. 1 del 1980 cit., e si è limitato pertanto al rinnovo di precedenti autorizzazioni, provvedimenti che costi
tuivano per lui atti dovuti, avuto riguardo al preciso disposto di cui, all'art. 23, 4° comma, 1. cit., per il quale, come è noto, detti atti non possono essere negati se non in presenza di ipotesi
determinate, ivi indicate. Quanto al vincolo di uso civico rinno
vabile attraverso la necessità della più volte ricordata autorizza
zione regionale il sindaco ha dichiarato — e non vi è motivo
per non credergli — che ignorava la norma relativa, precisando altresì' che il rilascio delle concessioni era comunque finalizzato
al piano di risanamento. È vero che l'accusa ha sostenuto che
quelle rilasciate dal prevenuto fossero in realtà nuove autorizza
zioni, come tali illegittime, ma ciò sulla base di una interpretazio ne della normativa regionale tutt'altro che pacifica ed univoca.
Anche in questo caso dunque vale quanto sopra esposto in tema
di non rilevanza penale dell'atto amministrativo eventualmente
illegittimo. 5. - Passando all'esame dei reati contestati al capo b), giova
precisare che il reato di cui all'art. 632 c.p. è divenuto perseguibi le a querela a seguito dell'art. 639 bis c.p. introdotto dalla 1.
24 novembre 1981 n. 689 (art. 97). Ora, ai sensi dell'art. 2, 3°
comma, c.p., tale ultima norma va qualificata come più favore
vole al reo, per cui essa si applica anche ai fatti anteriori alla
legge stessa, con la rilevante conseguenza che, in carenza di que
rela diverrebbe improcedibile l'azione penale.
Quanto al reato di cui all'art. 635 c.p. è perseguibile d'ufficio
solo nella forma aggravata; nella specie, va esclusa l'aggravante di cui al n. 3 (i terreni non sono infatti cose mobili ex art, 625,
n. 7), mentre è dubbia quella di cui al n. 5, controvertendosi
circa l'esistenza di boschi sui terreni in questione (alcune cave,
pare infatti pacifico che siano ubicate in zone brulle o con scarsa
vegetazione, da molti anni). A parte tali considerazioni di ordine
processuale, giova rilevare che le modificazioni ed immutazioni
subite dai terreni sono senz'altro riportabili all'attività delle cave
di tufo, di cui anzi solo il più delle volte conseguenza inelimina
bile. Detta attività è stata però posta in essere con il pieno con
II Foro Italiano — 1988.
senso dell'ente proprietario, che ha formalmente autorizzato l'a
pertura di dette cave. Da ciò la duplice esimente di cui agli art.
50 e 51 c.p. e la non punibilità dei prevenuti per avere agito nell'esercizio di un diritto e con il consenso dell'avente diritto.
L'argomento decisivo per escludere la penale responsabilità dei
medesimi è però di altro genere. Non è infatti possibile risalire — come ha confermato in dibattimento lo stesso prof. Genevois — alle responsabilità dei singoli imputati ed al contributo dato
da ciascuno di essi alla produzione dell'evento dannoso subito
dal territoio, e ciò paradossalmente in ragione del suo profondo
degrado riportabile a decenni e decenni di attività estrattiva. A
tal fine non impropriamente si è parlato di «devastazione» e «scem
pio», come diretta conseguenza delle cave di tufo succedutesi di
sordinatamente per un arco di tempo cosi ampio. Richiamato qui il noto principio costituzionale secondo cui la responsabilità pe nale è personale, è appena il caso di ribadire che l'indiscriminata
condanna di tutti gli imputati si tradurrebbe fatalmente in una
sorta di «giustizia sommaria», che finirebbe per accomunare tutti
coloro che solo ipoteticamente possono avere in qualche modo
contribuito alla produzione dell'evento. Ma ciò evidentemente con
trasta con i principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico
penale, che non consente in proposito deroghe di alcun genere, sia pure in vista di fini indubbiamente nobili e di alto valore
sociale, quali quelle che muovono tutti coloro che lottano per la difesa dell'ambiente. (Omissis)
I
TRIBUNALE DI AVEZZANO; sentenza 22 gennaio 1987; Pres.
Panaccione, Est. Capozza; imp. Fracassi.
TRIBUNALE DI AVEZZANO; :
Peculato — Reato — Sussistenza — Fattispecie di direttore di
cassa di risparmio (Cod. pen., art. 314).
Commette il delitto di peculato per distrazione il direttore di una
succursale di cassa di risparmio (istituto di credito di diritto
pubblico), il quale, tramite operazioni bancarie irregolari, di
stragga fondi a beneficio di un cliente, cosi ledendo l'interesse
dell'istituto bancario alla integrità del proprio patrimonio. (1)
II
TRIBUNALE DI BOLOGNA; sentenza 24 ottobre 1986; Pres.
Angeli, Est. Lupacchini; imp. Abbate e altri.
Ordine pubblico (reati contro 1') — Associazione di tipo mafioso — Reato — Sussistenza — Fattispecie (Cod. pen., art. 416 bis).
Esercizio arbitrario delle proprie ragioni — Reato — Insussisten
za — Estorsione — Reato — Differenze — Fattispecie (Cod.
pen., art. 392, 393, 610, 629). Pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio — Banche —
Dipendenti — Qualificazione — Attività bancaria privata —
Pubblico servizio — Esclusione — Malversazione — Reato —
Insussistenza — Appropriazione indebita — Reato — Fattispe cie (Cod. pen., art. 315, 357, 358, 359, 646).
È integrato il delitto di associazione di tipo mafioso ex art. 416
bis c.p. nel caso di un gruppo criminoso che, anche al di fuori del contesto territoriale ove tradizionalmente si sono sviluppate
forme di delinquenza associativa mafiosa, si avvalga dell'inti
midazione suscitata mediante l'uso delta violenza fisica e mora
le al fine di acquisire il controllo, anche indiretto, di attività
economiche e commerciali (nella specie, è stata ritenuta di tipo
mafioso una associazione formatasi a Bologna e dedita ad estor
sioni, truffe, falsi nummari, nonché all'esecizio di c.d. attività
paralecite attraverso il ricorso sistematico a metodi intimi
datori). (2)
(1,4) I dipendenti bancari rivestono la qualità di incaricati di pubblico servizio? Se la prevalente giurisprudenza risponde affermativamente con
riguardo ai funzionari degli istituti di credito di diritto pubblico (cosi anche Trib. Avezzano sub I), per quel che attiene invece agli impiegati delle banche private non si registra un orientamento uniforme, e la quali fica è stata ora riconosciuta ora negata, a seconda che si sia fatto riferi mento a una nozione di pubblico servizio intesa in senso oggettivo ovvero
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