sentenza 11 aprile 1991; Pres. Urbano, Est. M. Capurso; imp. SalvatoreSource: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1991), pp.467/468-471/472Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23186396 .
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PARTE SECONDA
presidente della latteria sociale Molinazza di Casalgrande, soc.
coop, r.l., responsabile della contravvenzione all'art. 21 1. 319/76,
per aver effettuato scarichi nel canale Secchia, e cioè in acque
pubbliche, senza autorizzazione.
Negava il pretore che detto scarico di stabilimento caseario
fosse assimilabile a quelli delle abitazioni civili (insediamenti ci vili) ma che invece fosse da considerare produttivo, poiché la
delibera del comitato interministeriale 8 maggio 1980 e la 1. reg.
Emilia-Romagna 7/83 (art. 6) si riferiscono alle imprese agrico le tout court o alle imprese agricole che trasformano parte del
loro prodotto come attività accessoria, mentre il caseificio in
questione costituisce autonoma attività imprenditoriale, distinta
dall'attività agricola dei singoli soci. Il presidente, secondo la
prima sentenza, non aveva presentato domanda di autorizzazione.
In realtà, esaminando attentamente gli allegati al rapporto dei carabinieri si evincono dati diversi:
— il 7 novembre 1983 il Compagni denunciava al sindaco
10 scarico in atto, che avveniva dopo la sosta in fossa di decan
tazione; — il 3 agosto 1983 aveva già inoltrato domanda di autorizza
zione allo scarico, ma nel questionario regionale allegato quali ficava (con una crocetta) lo stabilimento come . . . insediamen
to produttivo; — l'Azienda gas acqua consorziale, nelle sue fatture-bollette,
qualifica, peraltro, l'utenza come . . . civile.
Appellava il difensore, incentrando le doglianze sulla qualifi cazione dell'attività della cooperativa e sulla previsione speciale del citato art. 6 1. reg. 29 gennaio 1983 n. 7, modificata dalla
1. reg. 21 marzo 1984 n. 13, secondo il quale articolo nella clas
se C sono inserite le imprese agricole ivi comprese le cooperati ve .. . che abbiano date caratteristiche.
Poiché viene devoluto soltanto tale punto di diritto, e il p.m. non ha impugnato, nonostante i difformi dati rilevati nella do
cumentazione, come già spiegato, questa corte deve soltanto pren dere in esame la questione se la latteria presieduta dal Compa
gni realizzi ai sensi di legge un insediamento civile per il quale non occorreva l'autorizzazione (pacifico risultando che si con
troverte soltanto sullo scarico di acque di lavaggio di attività
casearia e cioè della trasformazione del solo latte conferito dai
soci). Invero, non risulta prospettata ovvero emergente dagli atti
alcuna questione di parametri di scarico, poiché l'equiparazione tra classifica agricola e civile potrebbe consentirsi solo a parità di natura quantitativa e qualitativa dello scarico (sul punto, cfr.
Cass. 10 ottobre 2987, Gardi, Foro it., 1988, II, 363). Cosi delimitata la materia del decidere si deve rilevare: — questa corte con ripetute pronunzie ha ritenuto che il rea
to in rubrica sia reato proprio di titolare di insediamento pro duttivo che non si può estendere al titolare di insediamento civi
le, secondo quanto affermato da Cass. 23 maggio 1983, Ca
priotti (id., Rep. 1984, voce Acque pubbliche, n. 179) trattandosi
di materia riservata alle regioni (cfr. App. Bologna 14 novem
bre 1988, n. 3601, Artidi), che dunque possono compiere, nei
limiti della loro potestà normativa, anche scelte classificatorie
delle varie attività produttive (cfr. App. Bologna 16 maggio 1990, n. 1834, Fontanelli ed altri), ed in effetti le norme citate tengo no presente il rilievo della cooperazione agricola emiliano
romagnola; — non può essere estesa la previsione sanzionatoria della 1.
319/76, dettata per gli insediamenti produttivi a quelli civili,
poiché è la stessa legge che all'art. 14 ha demandato alle regioni ordinarie tale competenza legislativa autonoma (cfr. App. Bo
logna 12 giugno 1990, n. 2434, Ferrari); — la Corte costituzionale, con sentenza 14 giugno 1990, n.
285, risolvendo il conflitto di attribuzioni tra lo Stato e la regio ne Emilia-Romagna, ha dichiarato che non spetta al giudice pe nale ordinario di disapplicare le leggi regionali 7/83, 13/84 e
42/86 dell'Emilia-Romagna e quindi ha annullato la sentenza
Cass. 12 dicembre 1989, n. 2734, che aveva disapplicato dette
norme regionali per aver interferito nella materia penale riser
vata allo Stato.
Nella parte motiva della sentenza costituzionale, che riscon
tra un errore in iudicando nella pronuncia della Cassazione,
per aver disapplicato direttamente la legge regionale senza solle
vare conflitto di attribuzioni, si richiama l'orientamento della
Cassazione contrario a riconoscere natura civile all'insediamen
to delle cooperative agricole, in forza della citata legge regiona le, mentre il difensore appellante assai opportunamente fa nota
re che tutta la legislazione societaria e tributaria equipara le
11 Foro Italiano — 1991.
cooperative agricole alle imprese agricole, e che la diversa veste
di persona giuridica non fa cambiare la natura agricola dell'at
tività, che i soci avrebbero potuto svolgere singolarmente come
persone, pur con maggiori oneri e minori risorse organizzative
(contra: Cass. 25 novembre 1987, n. 11860, Gatti, che esclude
l'analogia tra norme civilistiche, amministrative e fiscali e nor
me anti-inquinamento per la definizione di impresa agricola). Da che si illumina la ratio delle scelte della regione Emilia
Romagna nell'emanare le disposizioni ricordate, che il giudice
penale deve applicare, salvo sollevare conflitto di attribuzioni, ove ne ravvisi gli estremi, il che non si ritiene.
Nel caso di specie, infine, poiché il competente sindaco di
Casalgrande fin dal 1983 fu ritualmente informato con la de
nuncia dello scarico, non ricorrono ulteriori adempimenti e il
caso può definirsi con la piena assoluzione dell'imputato, poi ché il fatto non è previsto come reato.
TRIBUNALE DI CASSINO; sentenza 11 aprile 1991; Pres. Ur
bano, Est. M. Capurso; imp. Salvatore.
TRIBUNALE DI CASSINO;
Giudizio penale (atti preliminari del) — Liste testimoniali —
Deposito — Termini (Cod. proc. pen., art. 468). Giudizio penale (atti preliminari del) — Liste testimoniali —
Estremi (Cod. proc. pen., art. 468).
I sette giorni liberi rilevanti ai fini del deposito, a pena di inam
missibilità, delle liste testimoniali, devono essere computati con riguardo alla data fissata per il dibattimento dal decreto
che dispone il giudizio, a nulla rilevando un eventuale rinvio
disposto dal giudice dibattimentale in sede di atti intro
duttivi. (1) Le «circostanze su cui deve vertere l'esame», che le parti hanno
l'onere di indicare nelle liste testimoniali, devono presentare un minimo di specificità, e non possono consistere in formule del tutto generiche, avulse da qualsiasi riferimento ai fatti storici relativi alla vicenda processuale. (2)
Fatto e diritto. — Con decreto in data 21 febbraio 1990 il
g.i.p. disponeva procedersi al giudizio immediato nei confronti
di Luciano Salvatore, opponente avverso il decreto penale del
9 gennaio 1990, con il quale era stato condannato alla pena di lire 400.000 di ammenda per i reati di cui in epigrafe.
All'odierno dibattimento il p.m. procedeva all'esposizione dei
fatti posti a base della contestazione e, all'esito, chiedeva l'am
missione di prova testimoniale.
La difesa indicava i fatti che intendeva provare, chiedendo, a propria volta, l'ammissione di prova documentale.
(1) Non constano precedenti editi. La decisione si fonda sul rilievo che il rinvio del processo — essenzialmente limitato, nell'attuale siste
ma, alle ipotesi di cui agli art. 486 e 487 c.p.p. — si appalesa, come sottolineato in motivazione, quale «circostanza imprevedibile» che non
può surrettiziamente dar luogo ad una sorta di restituzione nel termine
per il deposito della lista testimoniale: la funzione di discovery cui ob bedisce tale onere delle parti risulterebbe, infatti, turbata ove si consen tisse uno «straripamento» dei termini in esito a modificazioni acciden tali e non preventivabili delle dinamiche del rapporto. Esigenze di cer tezza e, in ultima analisi, di ossequio ai principi di lealtà e probità delle parti in un sistema a ispirazione accusatoria inducono, dunque, a considerare non valicabile — salvo, ovviamente, il peculiare meccani smo dell'art. 175 c.p.p. — il termine dei sette giorni liberi anteriori alla data dell'udienza dibattimentale quale risulta dal decreto che dispo ne il giudizio.
(2) Il principio per il quale l'indicazione delle circostanze deve essere
specifica, che scaturisce dalla funzione di discovery assegnata al deposi to delle liste, è stato già adeguatamente sottolineato dalla giurispruden za di merito: cfr. Trib. Salerno, ord. 9 marzo 1990, Arch, nuova proc. peri., 1990, 266; Pret. S. Angelo di Brolo 7 giugno 1990, ibid., 594; Trib. Venezia, ord. 11 ottobre 1990, ibid., 577; Assise Cassino, ord. 18 giugno 1990, id., 1991, 93. In dottrina, cfr., tra gli altri, Bonetto, in Commento aI nuovo codice di procedura penale coordinato da Chia
vario, Torino, 1991, V, sub art. 468, 43; Kostoris, in Codice di proce dura penale. Commentario coordinato da Giarda, Milano, 1990, III, sub art. 468, 1050.
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GIURISPRUDENZA PENALE
Sentita ciascuna parte sulle richieste probatorie formulate ex
adverso, il tribunale ammetteva, poi, la sola prova documentale
prodotta dalla difesa e dichiarava, invece, inammissibile la pro va testimoniale del p.m. per tardivo deposito della lista di cui all'art. 468 c.p.p.
Infine, il p.m. e la difesa formulavano ed illustravano le pro spettate conclusioni, quali si leggono in epigrafe.
Preliminarmente, va ribadita l'inammissibilità della prova te
stimoniale dedotta dalla pubblica accusa, in quanto la lista do veva essere depositata, secondo la previsione di cui al 1° com
ma dell'art. 468 c.p.p., «almeno sette giorni prima della data
fissata per il dibattimento», mentre nella specie per l'udienza del 3 aprile 1990 stabilita dal g.i.p. nel decreto del 21 febbraio
1990 nessuna citazione di testimoni era stata richiesta: soltanto,
infatti, a seguito del rinvio del processo disposto la mattina stessa
dell'udienza (per lo sciopero della classe, forense), subito dopo l'accertamento della costituzione delle parti, il p.m. ha successi
vamente depositato (in data 11 aprile 1990) la lista testimoniale.
Ora, non può essere posto in dubbio che il legislatore con
l'espressione «data fissata per il dibattimento» ha inteso riferir
si esclusivamente all'udienza fissata dal g.i.p. nel decreto che
dispone il giudizio (art. 429 c.p.p.); né, in proposito, potrebbe darsi rilevanza alcuna — ai fini di una pretesa tempestività di
liste testimoniali depositate oltre il termine anzidetto — ad even
tuali rinvìi del processo, sia pure disposti, come è avvenuto nel
caso di specie, nella fase degli «atti introduttivi» e comunque
prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.
Invero, il termine di cui al 1° comma dell'art. 468 c.p.p., stabilito «a pena di inammissibilità», risponde all'esigenza di
salvaguardia del pieno e libero contraddittorio tra le parti, esi
genza fortemente sentita dal legislatore del 1988 e cui risulta
improntato l'intero sistema processuale regolato dal nuovo co
dice di rito. Il nuovo processo penale è permeato con tutta evidenza —
quale aspetto qualificante del passaggio dal sistema misto
inquisitorio-accusatorio ad un sistema eminentemente accusato
rio — dal principio della c.d. «centralità» del dibattimento, il
cui primo corollario è costituito dall'esigenza — pienamente at
tuata dal nuovo codice di rito — che la prova si formi, essen
zialmente e progressivamente, nel pubblico dibattimento, che
rappresenta il momento centrale del processo, in quanto sede
naturale e più consona alla piena esplicazione dei fondamentali
canoni processuali dell'«oralità, immediatezza e concentrazio
ne» e del «contraddittorio» (si parla, in proposito, di un'istru
zione dibattimentale volta ad attuare il contraddittorio per la
prova», nel momento nevralgico della sua progressiva forma
zione, e non più «su una prova», già registrata altrove). Ben si inserisce, dunque, in tale ottica un sistema probatorio
scandito da rigorosi termini, quale quello previsto dal 1° com
ma dell'art. 468 c.p.p., ma d'altro canto non insensibile al prin
cipio della «disponibilità della prova»: per cui è necessario che
il principio del libero e pieno contraddittorio tra le parti sia
salvaguardato compiutamente sotto ogni forma, in particolar modo quando si tratti, allo stesso tempo, di tutelare gli inviola bili diritti della difesa, costituzionalmente garantiti.
Ne consegue, per tornare al caso di specie, che la lista testi
moniale deve essere depositata nel termine di cui si è detto e
che lo stesso va riferito all'udienza fissata dal g.i.p., secondo
l'interpretazione più corretta e logica della norma in esame, an
che per non ingenerare equivoci e per non trarre in inganno la controparte.
Infatti, l'unica data certa cui le parti possono e debbono fare — reciprocamente — riferimento nella cura dell'assolvimento
dell'onere probatorio di cui trattasi è quella stabilita nel decreto
che dispone il giudizio (cosi come — mutuando esemplificativa mente dal rito del lavoro, con il quale non poche attinenze mo
stra di avere il nuovo processo penale — la data fissata dal
giudice del decreto in calce al ricorso costituisce l'unico riferi
mento per determinati e rilevanti oneri previsti, a pena di deca
denza, nel processo del lavoro, quali quello del convenuto di
costituirsi «almeno dieci giorni prima dell'udienza» ove intenda
proporre domanda riconvenzionale o eccezioni non rilevabili d'uf
ficio ovvero, in particolare e per quel che più importa, quando debba chiedere l'ammissione di mezzi di prova, è quello previ sto dall'art. 436, 3° comma, c.p.c., secondo cui l'appello inci
dentale va notificato alla controparte «almeno dieci giorni pri
II Foro Italiano — 1991.
ma dell'udienza fissata a norma dell'articolo precedente», cioè dell'udienza indicata nel decreto presidenziale).
Ciascuna parte, in definitiva, deve sapere che quella è la data
rispetto alla quale, almeno sette giorni prima, si devono deposi tare in cancelleria le liste testimoniali, e deve quindi potersi re
golare di conseguenza, ad esempio aspettando l'ultimo momen to per il deposito della propria lista (onde evitare l'anticipazio ne della c.d. discovery, ovverosia una prematura e non conveniente scoperta delle proprie carte) o anche limitandosi ad attendere la richiesta di prova testimoniale della parte avver sa al fine di decidere se depositare la propria lista ovvero pro pendere per una mera prova contraria, per la quale ultima, pe raltro, non sono previsti termini specifici, potendosi anzi pre sentare anche direttamente i testi in dibattimento (art. 468, 4°
comma, c.p.p.). Allo stesso tempo, deve perciò poter contare sul fatto che la controparte, se intende chiedere prova per testi, 10 farà entro quel ben preciso termine, e che se ciò non accade essa ne potrà trarre le dovute conseguenze, senza temere che
per una circostanza imprevedibile — quale il rinvio del processo — si possano ritenere riaperti i termini per la presentazione di liste testimoniali (e ciò, quindi, a prescindere dall'eventuale be neficio che la stessa parte possa trarre da ciò), anche perché, non essendo prevista alcuna comunicazione alle altre parti del l'avvenuto deposito di liste testimoniali, non sarebbe mai possi bile garantire sufficientemente il principio del contraddittorio in una situazione indotta di incertezza interpretativa della nor ma in esame.
Agli stessi criteri, del resto, risponde l'esigenza — già affer mata da questo tribunale in un precedente processo (confr. sen tenza 7 marzo 1991, imp. D'Orazio Vinicio) — che le «circo stanze» che ciascuna parte deve indicare nella propria lista testi
moniale, da depositare tempestivamente nella cancelleria del
giudice del dibattimento ai sensi dell'art. 468 c.p.p., devono
presentare «un minimo di specificità» e non possono, invece, consistere in formule del tutto generiche, avulse da qualsiasi riferimento ai fatti storici relativi alla vicenda processuale, quali devono ritenersi senza alcun dubbio tutte quelle espressioni del
tipo «a conferma del rapporto giudiziario», «a conferma della
denuncia», «a conferma di quanto visto o constatato, ecc.», senza alcuna indicazione — quantomeno per sommi capi — ai fatti accertati dall'ufficiale o dall'agente di polizia giudiziaria, ovvero a quelli esposti dal denunciante o comunque conosciuti dal generico testimone, e sui quali dovrà vertere l'esame degli stessi.
La previsione di cui al 1° comma dell'art. 468 c.p.p., in con
clusione, discende essenzialmente dalla fondamentale necessità di garantire alla controparte la possibilità di conoscere tempe stivamente la linea — accusatoria o difensiva, a seconda dei casi — sulla quale si svolgerà l'istruzione dibattimentale, al fine di scegliere ed approntare per tempo la propria linea di com
portamento processuale, da adottare — anche e soprattutto —
in dipendenza della condotta probatoria dell'altra parte: è que sto, invero, il momento della c.d. discovery, il momento nel
quale, cioè, ciascuna parte — e in particolar modo la pubblica accusa — scopre le proprie carte, i propri «assi nella manica», sino a quel momento tenuti gelosamente nascosti in attesa del
dibattimento, cui — come si è visto — il nuovo codice affida 11 ruolo di centro nevraglico di tutte le vicende processuali non destinate ad esaurirsi nella fase — prettamente filtrante — del l'udienza preliminare.
Ed infatti, oltre la possibilità di richiedere la «prova diretta», il nuovo codice prevede, al 4° comma del citato art. 468, che «in relazione alle circostanze indicate nelle liste», ciascuna parte possa chiedere la citazione «a prova contraria» di testimoni non
compresi nella propria lista, ovvero presentarli direttamente in
dibattimento: è chiaro, quindi, che la parte interessata non po trà assolvere adeguatamente al proprio onere probatorio tutte
le volte che la controparte — non importa se per superficialità o volutamente (nel tentativo di porre in essere una scorretta
astuzia processuale) — abbia richiesto tardivamente la citazione di testimoni o abbia indicato circostanze assolutamente generi
che, dinanzi alle quali non sia possibile contrapporre una valida
e tempestiva linea probatoria a supporto della propria posizione. D'altro canto, il 3° comma dell'art. 415 c.p.p. del 1930 già
imponeva alla parte, che intendeva far assumere in dibattimen
to testimoni non esaminati nel corso della fase istruttoria, sia il deposito della lista entro il termine di decadenza di cui al
1° comma che la «specifica» indicazione nella stessa, «a pena d'inammissibilità», dei fatti e delle circostanze sui quali era chie
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PARTE SECONDA
sto l'esame: situazione, quella relativa ai testimoni non esami
nati nell'istruzione prevista dal vecchio codice di rito, parago nabile certamente alla richiesta di prova testimoniale nel nuovo
processo, dal quale è scomparsa la fase dell'istruttoria, non es
sendo comunque oggi utilizzabili — in via di regola generale — le dichiarazioni testimoniali rese nel corso delle indagini pre liminari o nell'udienza preliminare (art. 514, 1° comma, c.p.p.).
Ovviamente, corollario di quanto sopra si è detto circa tem
pi, forme e modi di deduzione della prova testimoniale nel nuo
vo processo penale, è che l'inammissibilità della relativa richie
sta potrà essere dichiarata dal giudice non solo su eccezione
di parte, ma anche d'ufficio, cosi come in ogni altro caso
d '«inammissibilità». Da ultimo, va ricordato che, ai sensi dell'art. 526 c.p.p., il
giudice può utilizzare ai fini della decisione esclusivamente pro ve «legittimamente acquisite nel dibattimento».
Per completezza di esposizione e ad ulteriore conferma dell'e
sattezza della tesi interpretativa qui sostenuta, può osservarsi
come l'unico caso di riapertura o, se si vuole, di spostamento dei termini per depositare liste testimoniali debba ritenersi quel lo del «differimento» dell'udienza previsto dall'art. 465 c.p.p.: tale norma prevede che il presidente del tribunale, ricevuto il
decreto che dispone il giudizio, può differire (o anticipare) —
peraltro «non più di una volta» — l'udienza fissata in detto
decreto quando ricorrano giustificati motivi.
L'art. 465 c.p.p. — va detto subito — si colloca, nel libro
VII del nuovo codice («giudizio»), quale prima disposizione del
titolo I, che concerne gli «atti preliminari al dibattimento» e
di cui fa parte, peraltro, lo stesso art. 468 c.p.p.: detto titolo
contiene disposizioni relative alla vera e propria fase prelimina re al dibattimento (v. anche l'art. 466, che prevede la facoltà
delle parti, «durante il termine per comparire», di prendere vi
sione delle cose sequestrate e degli atti contenuti nel fascicolo
per il dibattimento nonché di estrarne copia; e l'art. 467, in
base al quale è possibile, su richiesta di parte, anticipare l'as
sunzione di prove non rinviabili sino alla data fissata per il di
battimento, secondo il crisma dell'incidente probatorio di cui
all'art. 392); fase da non confondere con quella degli «atti in
troduttivi» al dibattimento, regolata nel capo II del titolo II
(«Dibattimento») e che inizia con l'accertamento della costitu
zione delle parti (art. 484 ss.). Si tratta — come è evidente — di due momenti processuali
ben distinti, l'uno concernente il periodo tra l'emissione dal de
creto che dispone il giudizio ed il giorno dell'udienza in esso
fissato, l'altro relativo proprio a tale udienza e strettamente li
mitato alle necessarie operazioni di controllo della regolare cita
zione e costituzione delle parti e dei difensori.
È ovvio, pertanto, che un rinvio del processo disposto nel
corso o subito dopo le anzidette operazioni di controllo non
può essere assimilato — né temporalmente né sul piano delle
conseguenze — allo spostamento dell'udienza previsto per la
fase degli atti preliminari dall'art. 465 c.p.p.: ciò trova, peral tro, puntuale conferma nella diversa terminologia adoperata dal
legislatore che si è servito dell'espressione «differimento dell'u dienza» nel citato art. 465, mentre ha parlato di «sospensione o rinvio del dibattimento» per i casi in cui non è possibile ini
ziare il dibattimento stesso per legittimo impedimento a compa rire dell'imputato o del difensore (art. 486) ovvero per la nullità
dell'atto di citazione o della sua notificazione (art. 487). Né quanto sin qui sostenuto potrebbe essere inficiato dal ri
lievo che nel codice non è prevista espressamente la possibilità di rinvio del dibattimento nella fase degli atti introduttivi per
ragioni diverse da quelle contemplate dagli art. 486 e 487: inve
ro, una molteplicità di ipotesi, dovute ad esigenze dell'ufficio
(si pensi alla necessità di dare la precedenza alla trattazione di
procedimenti con il rito direttissimo o comunque con detenuti
ovvero complessi o di più vecchia data, nell'impossibiltà della
totale trattazione di tutte le cause fissate per una certa udienza) o di singole parti e dei loro difensori (diverse da quelle previste dall'art. 486: ad esempio, un rinvio chiesto, con il consenso delle altre parti, dal p.m. o dalla parte civile per motivi plausi
bili) ovvero ad altre circostanze imprevedibili (uno sciopero im
provviso della classe forense), possono nella pratica presentarsi,
imponendo e giustificando il rinvio del processo in limine litis.
Non per questo si vorrà sostenere che un tale rinvio, disposto
comunque «in udienza» e nel giorno della stessa, quale stabilito
nel decreto che dispone il giudizio, alla presenza, peraltro, delle
parti e dopo l'accertamento della regolare costituzione delle stesse,
possa essere paragonato al «differimento dell'udienza» che il
Il Foro Italiano — 1991.
presidente del tribunale può disporre dopo aver ricevuto l'anzi
detto decreto e sicuramente «prima» del giorno dell'udienza in
esso fissato, con decreto e senza sentire le parti, ma soltanto
comunicando loro la nuova udienza (art. 465, 2° comma). Ciò chiarito, non può che rilevarsi l'assoluta mancanza di
qualsiasi prova circa i fatti posti dall'accusa a base delle conte
stazioni mosse all'imputato, il quale ultimo deve, pertanto, es
sere assolto dai reati ascrittigli perché il fatto non sussiste.
TRIBUNALE DI CATANIA; sentenza-ordinanza 28 marzo 1991; Giud. istr. Russo; imp. Amato + 64.
TRIBUNALE DI CATANIA;
Ordine pubblico (reati contro 1') — Associazione per delinquere — Associazione di tipo mafioso — Partecipazione esterna a
titolo di concorso — Ammissibilità — Contiguità tra impren ditori e sodalizi mafiosi — Irrilevanza penale (Cod. pen., art.
110, 416, 416 bis).
Ancorché sia sotto il profilo dogmatico configurabile il concor
so eventuale di persone nel reato associativo, è da escludere
che la «contiguità» tra imprenditori e sodalizi mafiosi integri
un'ipotesi di partecipazione esterna al reato di associazione
per delinquere o di associazione di tipo mafioso, ove tale con
tiguità sia imposta dall'esigenza di trovare soluzioni di «non
conflittualità» con la mafia, posto che nello scontro frontale risulterebbe perdente sia il più modesto degli esercenti sia il
più ricco titolare di grandi complessi aziendali. (1)
(1) La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e
stereotipo criminale.
1. - La sentenza istruttoria su riprodotta, relativa ai «cavalieri del lavoro» catanesi, ha suscitato nella stampa quotidiana reazioni vivaci e contrastanti. Com'era prevedibile, alcuni l'hanno accolta con profon da delusione, scorgendovi un ulteriore segnale di preoccupante cedi mento dell'azione giudiziaria antimafia (cfr., ad es., Gallino, Tangen ti. Lo Stato s'arrende, ne La Stampa del 6 aprile 1991; Pansa, E lo Stato disse: comanda la mafia, ne La Repubblica del 6 aprile 1991). Altri l'hanno, invece, commentata con favore, quale encomiabile esem
pio di approccio giudiziario libero da condizionamenti extragiuridici ed
extraprocessuali (ad es. Ciuni, Mafia costo d'impresa, ne II Giornale di Sicilia del 6 aprile 1991; e in precedenza, sullo stesso quotidiano, in data 4 aprile 1991, Vitale, Quei cavalieri costretti a convivere con la mafia).
Invero, la tematica di fondo sottesa alla sentenza non si limita al
problema dell'ammissibilità di un utilizzo in chiave promozionale della
legge penale, come strumento di trasformazione sociale o di migliora mento del costume (in proposito, di recente, Paliero, Il principio di
effettività nel diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, 512
ss.). A parte questa controvertibile questione, suscettiva di essere risolta in modo non univoco in funzione della diversità delle assunzioni teori che e ideologiche di partenza, non sembra in verità esente da giudizi di valore — come vedremo — neppure la soluzione dello specifico pro blema tecnico-giuridico affrontato dal magistrato: se, e in quali limiti, la c.d. contiguità degli imprenditori possa assumere rilevanza alla stre
gua delle tradizionali categorie penalistiche (sul punto, v. già Flandaca e Albeggiami, Struttura della mafia e riflessi penal-processuali, in Foro
it., 1989, II, 77).
2. - La complessa polivalenza d'un tale nodo problematico induce il giudice istruttore a tracciare, in premessa, un sintetico quadro storico evolutivo del contesto criminale catanese, che risulterebbe caratterizza to — a differenza della realtà palermitana dove la mafia controlla tutto il territorio — da una forma di convivenza dell'organizzazione mafiosa «Cosa Nostra» con altri gruppi criminali locali.
Tale premessa fa da sfondo alla successiva descrizione del tipo di
rapporto che in generale intercorre tra le organizzazioni mafiose ed il settore imprenditoriale. Secondo il giudice, almeno riguardo alle zone rientranti sotto il controllo di «Cosa Nostra», il tratto caratteristico di detto rapporto sarebbe riconducibile ad un modello di estorsione assimilabile — a sua volta — al «contratto di protezione o assicurati vo»: cioè si tratta, come si legge nella motivazione, dell'«imposizione di una prestazione economica all'azienda in cambio della promessa di assicurare 'protezione' da ogni inconveniente che dovesse provenire dal l'ambiente malavitoso (furti, rapine, altre estorsioni, ecc.) sia esterno, sìa intemo alla stessa organizzazione». È evidente che la sentenza in questa
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