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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sentenza 12 gennaio 1990; Giud. istr. Rando; imp. Zeno...

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sentenza 12 gennaio 1990; Giud. istr. Rando; imp. Zeno Zencovich e altro Source: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp. 409/410-411/412 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23183642 . Accessed: 28/06/2014 07:57 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 141.101.201.171 on Sat, 28 Jun 2014 07:57:23 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sentenza 12 gennaio 1990; Giud. istr. Rando; imp. Zeno Zencovich e altro

sentenza 12 gennaio 1990; Giud. istr. Rando; imp. Zeno Zencovich e altroSource: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp.409/410-411/412Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183642 .

Accessed: 28/06/2014 07:57

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GIURISPRUDENZA PENALE

ritenuto che gli obblighi in questione furono imposti all'impu tato ai sensi del 2° comma dell'art. 282 codice abrogato, e cioè in sostituzione del precedente regime di custodia cautelare in car

cere, mentre l'art. 251, 2° comma, norme trans, si riferisce espres samente alle misure imposte ai sensi del 1° comma dell'art. 282 vecchio codice, cioè a quelle originariamente sostitutive della cu stodia in carcere;

ritenuto che le disposizioni transitorie sono norme singolari in

quanto dirette a regolare situazioni pendenti nel passaggio da una normativa all'altra, e sono quindi di stretta interpretazione e non suscettibili di estensione analogica;

sto degli art. 307 e 308 c.p.p. si evince infatti che i termini di durata massi ma delle misure diverse dalla custodia cautelare, disposte dopo l'entrata in

vigore del nuovo codice, sono identici sia che la misura coercitiva sia stata ab origine disposta in luogo dell'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, sia che questa, ai sensi dell'art. 307 c.p.p., sia stata

disposta in seguito all'escarcerazione dell'imputato per decorrenza dei ter mini di custodia cautelare. Sicché, se può considerarsi giustificata la dispa rità di trattamento tra l'imputato sottoposto, prima dell'entrata in vigore del codice, alla misura coercitiva disposta in luogo dell'emissione del man dato di cattura e quello sottoposto, sempre prima dell'entrata in vigore del

codice, alla misura coercitiva dopo l'emissione del mandato, assai meno giu stificata appare la disparità tra gli imputati, ai quali sia già stata applicata la misura della custodia cautelare, poi sostituita da altra misura coercitiva, all'uno prima dell'entrata in vigore del codice ed all'altro in epoca successiva.

L'impressione è che il legislatore, nel caso di specie, abbia detto più di

quanto volesse. Il richiamo esplicito del solo 1° comma dell'art. 282 del co dice previgente potrebbe forse spiegarsi in modo diverso: è in questo com ma, invero, che vengono indicate quali sono le misure coercitive diverse ap plicabili in luogo della custodia cautelare. Non è affatto da escludere che il legislatore fosse ben poco consapevole delle conseguenze dell'infelice spe cificità del richiamo.

Ed allora, sollecitare un intervento della Corte costituzionale sul punto, al fine di eliminare la detta disparità di trattamento, stante l'impraticabilità della via interpretativa, non è forse fuori luogo. [A. Ingroia]

* * ♦

Per completezza d'informazione, si riporta il provvedimento del 16 gen naio 1990 con cui il procuratore della repubblica presso il Tribunale di Pa lermo aveva proposto appello contro l'ordinanza emessa dal giudice istrut tore di Palermo il 15 dicembre 1989:

«Il giudice istruttore ha ritenuto di dover applicare alla fattispecie presa in considerazione nel provvedimento impugnato la disposizione transitoria di cui all'art. 251, 2° comma, d.leg. 28 luglio 1989 n. 271 («norme di attua

zione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale») nella dichiarata premessa che siffatta disposizione si riferisca non solo 'alle mi sure di coercizione diverse dalla custodia cautelare applicate in luogo del l'emissione del provvedimento restrittivo della libertà personale dell'impu tato', ma anche a quelle applicate successivamente all'emissione di un man dato di cattura (nel caso di specie, a norma dell'art. 272, 10° comma, c.p.p. del 1930, in relazione all'art. 282 stesso codice, con le ordinanze che dispo sero l'escarcerazione di Ciancimino Vito per decorrenza dei termini di cu stodia cautelare).

La tesi seguita dal giudice non può essere condivisa. Invero, l'art. 251, 2° comma, cit. d.leg. 271/89 dispone testualmente che

'le misure previste dall'art. 282, 1° comma, del codice abrogato, imposte anteriormente alla data di entrata in vigore del codice, sono revocate quan do dalla loro esecuzione è decorso un periodo di tempo pari a quello indica to nell'art. 308, 1° comma, del codice'.

Orbene, 'le misure previste dall'art. 282, 1° comma, del codice abrogato' sono esclusivamente quelle disposte ab origine in luogo del mandato di cat tura, in deroga a quanto previsto nell'art. 253, in quanto ritenute dal giudi ce sufficienti a tutelare le esigenze cautelari indicate nello stesso art. 253 (cfr. art. 282 c.p.p. abrogato, nell'ultima formulazione testuale risultante dal l'art. 43 1. 5 agosto 1988 n. 330).

Di conseguenza, contrariamente all'opinione espressa nel provvedimen to impugnato, la disposizione dettata nell'art. 251 2° comma, d.leg. 271/89 non si riferisce, almeno testualmente, alle fattispecie (diverse) in cui, a nor ma dei successivi commi dell'art. 282 c.p.p. abrogato, misure coercitive di verse dalla custodia cautelare siano state disposte in epoca successiva all'e missione del mandato di cattura.

V'è da rilevare, poi, che la disposizione del cit. art. 251, 2° comma, per la sua natura di norma transitoria, e dunque di disposizione eccezionale volta a disciplinare situazioni contingenti verificabili nel passaggio dal vecchio al nuovo rito penale, non può ritenersi suscettibile né di interpretazione esten

siva, ne di applicazione analogica. Né può dirsi, infine, che l'interpretazione qui sostenuta, limitando la re

voca delle ricordate misure a quelle applicate ab initio in luogo della custo dia cautelare, 'non avrebbe alcun fondamento sul piano logico e giuridico e... tradirebbe lo spirito informatore del nuovo codice di procedura penale' (cfr. ordinanza impugnata, pag. 1).

Invero — a parte la considerazione già svolta, secondo cui le disposizioni transitorie, per loro natura, non sono suscettibili di interpretazione estensi va od analogica, né possono prestarsi alla formulazione di principi generali — giova ricordare che proprio sul piano logico-giuridico ben diverse sono le situazioni di fatto prese in considerazione dalle norme del codice abroga to che contemplavano l'applicazione originaria o successiva delle misure coer citive diverse dalla custodia cautelare.

Infatti, nel primo caso (applicazione «originaria» ex art. 282, 1° comma,

Il Foro Italiano — 1990.

ritenuto che nella specie non può applicarsi l'art. 251, 2° com

ma, perché, come bene nota il p.m., le fattispecie regolate rispetti vamente dal 1° e dal 2° comma del 282 codice abrogato sono netta mente diverse con riguardo alla diversa valutazione della pericolo sità sociale del destinatario degli obblighi, poiché nella prima ipotesi la personalità dell'imputato suggerisce fin dall'inizio l'esclusione del la misura cautelare in carcere, mentre nella seconda ipotesi vi è, al

contrario, la valutazione di una persistente pericolosità del sogget to anche al momento in cui cessa, per decorrenza del termine, il re

gime di custodia cautelare in carcere che suggerisce l'imposizione di obblighi processuali;

ritenuto, pertanto, che l'ordinanza impugnata ha applicato al caso di specie la disposizione transitoria in esame non solo in contrasto

con i limiti di interpretazione della norma di carattere eccezionale, ma trascurando anche la sostanziale diversità della situazione del Ciancimino rispetto a quella espressamente regolata dalla norma

applicata;

per questi motivi, in riforma dell'ordinanza del g.i. del 15 dicembre

1989, appellata dal p.m., rigetta l'istanza proposta da Ciancimino

Vito diretta ad ottenere la revoca degli obblighi impostigli con or

dinanza del g.i. del 21 settembre 1988 ed impone all'imputato l'ob

bligo di risiedere nel comune di Roteilo e sottoporsi ivi al visto gior naliero di controllo presso la stazione dei carabinieri.

codice abrogato) si è, istituzionalmente, in presenza di situazioni di fatto in cui le esigenze cautelari indicate nell'art. 253 codice abrogato appaiono cosi modeste, e quasi irrilevanti, da escludere l'opportunità del mandato di cattura.

Nel caso di applicazione 'successiva', e particolarmente nel caso di specie (di applicazione successiva in sede di escarcerazione dell'imputato per de correnza dei termini di custodia cautelare), si è invece in presenza di una diversa situazione di fatto, in cui le esigenze cautelari sono state ritenute talmente gravi da imporre l'originaria emissione di un mandato di cattura, e da consigliare ancora, nonostante l'intervenuta decorrenza dei termini mas simi di custodia cautelare, l'applicazione delle c.d. misure coercitive sosti tutive».

TRIBUNALE DI ROMA; sentenza 12 gennaio 1990; Giud. istr.

Rando; imp. Zeno Zencovich e altro.

TRIBUNALE DI ROMA;

Calunnia e autocalunnia — Calunnia — Reato — Esclusione —

Fattispecie (Cod. pen., art. 110, 368; cod. proc. pen. del 1930, art. 395).

Non rispondono di concorso in calunnia, per difetto dell'elemen

to soggettivo del reato, due difensori che, in un atto di citazio

ne per danni a favore del loro assistito vittima di un'ingiusta condanna penale, incolpano i magistrati incaricati dell'istrutto

ria del procedimento di primo grado dei reati di abuso e inte

resse privato, omissione di atti e violazione del segreto di uffi

cio, in parte recependo nell'atto predetto le argomentazioni as

solutorie della sentenza di secondo grado e sostanzialmente

ricalcando l'esposto inoltrato dallo stesso imputato al ministro

di grazia e giustizia al fine di sollecitare un'inchiesta ministeria le (nella specie, sono stati prosciolti in istruttoria i due difenso ri di Enzo Tortora che nell'atto di citazione per danni censura

vano gravemente l'operato di due pubblici ministeri e di un

giudice istruttore degli uffici giudiziari di Napoli). (1)

Le argomentazioni dell'ufficio requirente devono essere inte

gralmente recepite. Ed invero la questione processuale di fondo afferente ai limiti

entro i quali l'esercizio del diritto di difesa non risulti lesivo del

(1) La sentenza istruttoria su riprodotta si riferisce ad un episodio giudi ziario connesso al drammatico e inquietante «caso Tortora», una vicenda che ha notoriamente provocato effetti dirompenti a diversi livelli politico istituzionali (cfr. Magistratura democratica, Il «caso Napoli» e i giudi ci, in Questione giustizia, 1989, 459; Pepino, Consìglio superiore della ma

gistratura e «caso Napoli»: i fatti e alcune riflessioni, ibid., 763. Parti della sentenza assolutoria di secondo grado, App. Napoli 15 settembre 1986, so no riprodotte in Giust. pen., 1987, II, 470, con nota di Ceniccola e Critica del diritto, 1987, fase. 40,43, con nota di Bevere, con corrispondente mas simazione in Foro it., Rep. 1987, voce Ordine pubblico (reati), nn. 20, 30 e voce Prova penale, n. 86; Cass. 13 giugno 1987, Tortora, è invece riporta ta in Giust. pen., 1989, III, 199, con nota di G. Grosso).

Nell'escludere la rilevanza penale delle accuse contenute nell'atto di citazione per danni redatto dai due avvocati di Enzo Tortora, il giudice istruttore si limita a recepire le argomentazioni contenute nella requisito ria del p.m. (anch'essa riprodotta), le quali assumono a loro volta ad

esplicito punto di riferimento il principio espresso da Cass. 18 dicembre

1984, Canfora e Foglietta, Foro it., Rep. 1986, voce Calunnia e autoca

lunnia, n. 14 e Giust. pen., 1985, II, 641: principio, secondo cui il difen

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PARTE SECONDA

diritto altrui e possa, pertanto, legittimamente esternarsi, non è

questione risolvibile sulla scorta di un preciso dettato normativo, in quantoché, trattandosi di contenuto delicatissimo e complesso,

qualunque precetto, limite, divieto od obbligo si tradurrebbe nel

l'inevitabile compromissione di quel diritto di difesa che si vuole

ampiamente tutelato nella Costituzione. Anche la legge professio nale, peraltro, citata dall'ufficio requirente, che disciplina l'eser

cizio della professione di avvocato e procuratore non prescrive limiti, ma precisa piuttosto i criteri di deontologia cui devono

ispirarsi coloro che sono professionalmente preposti alla tutela

del diritto di difesa (cfr. art. 11 1. 22 gennaio 1934 n. 36 citati

nelle requisitorie del p.m. del 28 settembre 1989). L'inesistenza di limiti di diritto positivo impone, pertanto, una

valutazione per singole fattispecie che abbia riguardo agli elementi

«storici» del caso, restando parimenti affermato che la lesione

dell'altrui diritto non può trovare nell'esercizio indiscriminato del

diritto di difesa una sua esimente, ma deve necessariamente con

figurare gli estremi di un fatto-reato.

sore non risponde di calunnia (in concorso col cliente), per insussistenza dei fatti denunciati, soltanto quando la prestazione professionale si limiti ad

espletare il mandato consentito dalla legge (ad es. dare forma tecnica ad una denuncia), ma non invece quando, per le particolari circostanze del fatto, egli si lasci coinvolgere coscientemente e volontariamente nell'azione calun niosa del cliente. Prendendo le mosse da queste premesse, sia il p.m. sia il

giudice istruttore escludono nella specie la volontà di calunniare sulla base della duplice circostanza che le censure contenute nell'atto di citazione (an corché talora imprecise ed eccessive nella forma) riflettono, nella sostanza, le argomentazioni assolutorie della sentenza di secondo grado ed il conte nuto di un esposto inviato dallo stesso Tortora al ministro di grazia e giustizia.

Più in generale, circa il problema del carattere calunnioso della condotta difensiva dello stesso imputato, cfr. Nappi, Delitto di calunnia e diritto di

difesa, in Cass, pen., 1985, 1082 e ivi ampi riferimenti giurisprudenziali. Di recente, sul reato in questione, v. Pulitanò, Calunnia e autocalunnia, voce del Digesto pen., Torino, 1988, II, 9.

Sempre in tema di diritto di difesa è stato recentemente riconosciuto dal la Cassazione che il suo esercizio può scriminare ex art. 51 c.p. il reato di rivelazione di segreti di ufficio, essendo il diritto di difesa prevalente rispet to alle esigenze di segretezza e buon funzionamento della pubblica ammini strazione: cosi Cass. 24 gennaio 1989, Crincoli, Foro it., 1989, II, 666, con nota di richiami.

In dottrina, con riguardo ad alcuni possibili profili di rilevanza penale dell'attività del difensore, cfr. Calamanti, Il diritto di difesa tra favoreg giamento e patrocinio infedele, Milano, 1987.

* * *

Considerato che la sentenza di proscioglimento del giudice istruttore di Trib. Roma sopra riprodotta si limita a recepire le argomentazioni un po' più articolate dell'ufficio requirente, per completezza d'informazione si ri

porta anche il contenuto della requisitoria del procuratore della repubblica del 28 settembre 1989.

«Il 9 giugno 1988, a distanza di quasi due mesi dall'awenuta notifica di un atto di citazione per danni a firma dei dottori Giandomenico Caiazza e Vin cenzo Zeno-Zencovich, difensori e procuratori speciali del defunto Enzo Tor

tora, i magistrati Felice di Persia, Lucio Di Pietro e Giorgio Fontana — de

legati ad esercitare le funzioni i primi due di pubblico ministero e il terzo di

giudice istruttore nel procedimento penale avviato contro i membri della co siddetta «nuova camorra organizzata», celebrato a suo tempo a Napoli —

presentavano ciascuno un esposto-denuncia al procuratore della repubblica di Roma, accusando i due legali di averli calunniati, attribuendo loro una se rie di reati nella conduzione di quella istruttoria, che vanno dall'abuso all'in teresse privato in atti di ufficio, fino alla violazione del segreto di ufficio.

La doglianza dei magistrati napoletani adombrava un coinvolgimento dei due legali in un'azione dolosa preordinata ai loro danni, come ultimo atto di una lunga e pesante campagna denigratoria apertasi subito dopo l'assoluzio ne con formula ampia del Tortora nel giudizio di appello e che aveva assunto punte addirittura roventi all'indomani della pronuncia definitiva della Corte di cassazione, che aveva respinto il ricorso del procuratore generale di Napoli.

Durante l'istruzione sommaria espletata dal rappresentante di questo uf ficio si provvedeva ad acquisire, tra l'altro: A) la copia delle sentenze emes se dalla Corte d'appello di Napoli, quinta sezione penale, il 15 settembre 1986 (Foro it., Rep. 1987, voce Ordine pubblico, nn. 20, 30 e voce Prova

penale, n. 86) e dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, il 13 giu gno 1987; B) la copia della relazione relativa agli accertamenti disposti dal

l'ispettorato generale del ministero di grazia e giustizia, dopo la presenta zione di un dettagliato esposto dello stesso Tortora contro i magistrati che si erano occupati del suo caso e pervenuto al ministero l'8 gennaio 1988; C) la copia di tutti (o quasi tutti) gli atti relativi alla causa civile promossa dal Tortora e tuttora in corso di istruzione presso il Tribunale di Roma, prima sezione civile.

Restava invece senza riscontro la richiesta rivolta al Consiglio superiore della magistratura di far conoscere l'esito del giudizio disciplinare avviato nei confronti dei tre magistrati napoletani, perché, alla data del 13 aprile 1939, il procedimento figurava ancora in corso di istruzione presso la pro cura generale della Corte di cassazione.

Seguivano gli interrogatori dei due imputati e l'esame dei denuncianti Di Persia e Di Pietro, costituitisi col Fontana parte civile. Sia gli uni che gli altri producevano memorie, corredate da un'ampia e articolata documentazione.

Ciò premesso, si osserva. Il caso in esame offre l'occasione per rimedita re la materia dei limiti penali del diritto-dovere di difesa, in modo da trac

1l Foro Italiano — 1990.

Nel caso di specie acquisisce concreta rilevanza, ai fini del deci

dere, la sequenza dei fatti pregressi, nonché il contesto di situazio

ni, luoghi e circostanze nell'ambito dei quali tali fatti si sono svol

ti: in buona sostanza, cioè, il contesto nel quale si è svolta la vicen

da giudiziaria de qua agitur. In tale prospettiva il fatto che nell'atto

di citazione siano state in parte recepite le argomentazioni che la sentenza di secondo grado poneva a fondamento della statuizione

assolutoria, e che le censure mosse dallo stesso interessato, a vicen

da conclusa, nel proprio esposto al ministero del 9 gennaio 1988

siano trasfuse in toto nel predetto atto di citazione costituiscono

circostanze idonee ad escludere l'elemento psicologico del reato di

calunnia. Tali circostanze infatti, indipendentemente dal merito delle tesi in contraddittorio, mentre precludono ogni ragionevole fonda

mento alla sussistenza del reato in epigrafe ipotizzato, consentono

nel contempo di ritenere pienamente legittima l'esplicazione del di

ritto di difesa nella formulazione in atti rappresentata.

ciare una linea sicura di demarcazione che eviti di abusare delle esigenze di

giustizia per comprimere la funzione difensiva, e, nello stesso tempo, di fa vorire sconfinamenti di tale funzione nel campo dell'illecito penale.

È naturale che di una funzione (pubblica e privata) si possa usare ed abusa re. Il punto da stabilire dove finisca l'uso e cominci l'abuso, e quando in par ticolare un eventuale abuso della funzione di difesa integri gli estremi di un reato. La risposta è facile solo per quanto riguarda un aspetto: che è quello di un concorso (materiale o morale) del difensore nella commissione di un reato ancora in itinere o di un nuovo reato. Si tratta, a ben riflettere, di un limite esegetico che rientra nella logica della stessa funzione: l'attività di dife sa presuppone un reato già commesso da altri e non il concorso nella commis sione di esso. Il difensore di un imputato di associazione per delinquere che mantenesse i contatti tra il suo cliente e gli altri affiliati all'organizzazione, commetterebbe senza dubbio reato, e non svolgimento di attività difensiva.

Il problema si complica invece allorché l'attività del difensore viene eser citata dopo e al di fuori del reato di cui si fosse reso responsabile anche solo potenzialmente il cliente. Perché allora bisogna distinguere tra un post-factum punibile e uno invece che non lo è.

La prima ipotesi è quella prevista dalla sentenza della Cassazione richia mata dai tre denunciati (sez. VI 16 dicembre 1934, Canfora, id., Rep. 1986, voce Calunnia e autocalunnia, n. 14), che ravvisa una condotta calunniosa del difensore «quando la presentazione professionale non si limiti ad esple tare il mandato nei limiti consentiti dalla legge, ma si lasci coinvolgere vo lontariamente nell'azione criminosa posta in essere dal cliente». È il caso di un cliente e di un avvocato che, di comune accordo, decidono di incolpa re una persona, pur essendo assolutamente certi della sua innocenza. Un secondo (e forse più pertinente) profilo di post-factum punibile è quello del difensore che, consapevole della responsabilità penale del suo cliente, fa di tutto per deviare il cammino della giustizia, formando e producendo docu menti contraffatti, sollecitando l'audizione di testimoni falsi o accreditan do alibi non veritieri, con la coscienza e la volontà di aiutare il suo cliente a eludere le investigazioni dell'autorità (diverso è il caso del difensore che si fosse adoperato per aiutare il reo a sfuggire alla condanna, a costo di ne gare la funzione difensiva alla base).

L'ipotesi di post-factum non punibile rispecchia invece il contenuto tipi co della funzione difensiva, quale proiezione necessaria della posizione di un individuo, in relazione all'esercizio del suo diritto di difesa. Sotto que sta angolazione, l'avvocato ha senza dubbio il diritto-dovere di sostenere, in fatto e in diritto, tutte le tesi, anche infondate, che possono aiutare il cliente a tutelare i suoi interessi, tenuto conto, naturalmente, della sua co scienza e della sue scelte tecniche, l'idea che il diritto di difesa tutelato dal l'ordinamento sia solo quello che consiste in un aiuto entro l'ambito delle regole di giustizia (ut evadat per viam iustitiae) non è sempre vera: anche perché, in ogni caso, è bene intendersi su quelle che sono le regole di giustizia.

Nella vicenda in esame, l'atto di citazione firmato dai dottori Caiazza e Zeno-Zencovich ricalca nella sostanza l'esposto a firma di Enzo Tortora per venuto l'8 giugno 1988 al ministero di grazia e giustizia e che sollecitò un'in chiesta ministeriale. A parte il carico enfatico e retorico (o la possibile stru mentalizzazione ad altri fini) che caratterizza questo o quel passaggio dell'atto di citazione, il Caiazza e lo Zeno-Zencovich fanno costante riferimento a fatti e situazioni, condotte e attività di magistrati inquirenti che erano già state og getto della doglianza del Tortora, e ciò a prescindere dall'imprecisione di certi riferimenti (per es.: sull'autorità che emise l'ordine di cattura), o dal tenore degli apprezzamenti espressi, che investe il linguaggio e non la sostanza delle cose. Tanto più che il Tortora ebbe sicuramente modo di leggere l'atto pre disposto dai due legali e di approvarlo, sicché la citazione rispecchia anche sotto questo aspetto le tesi da lui sostenute o fatte proprie dalla difesa in al tra sede, come dimostrano tra l'altro il contenuto delle arringhe degli avvo cati Dall'Ora e Dalla Valle, l'esame dei motivi di impugnazione, il tono di certe interviste rilasciate alla stampa e le censure contenute nella stessa sen tenza dei giudici d'appello del processo alla nuova camorra organizzata.

L'esercizio della professione di avvocato e di procuratore, del resto, non incontra altro limite se non quello enunciato dall'art. 11 della c.d.legge pro fessionale (22 gennaio 1934 n. 36), che fa ad essi divieto di rifiutare il pro prio ufficio «senza questi motivi». E si capisce perché. Qualunque altro li mite finirebbe per mortificare l'assenza stessa del ministero difensivo, con siderato dalla Carta costituzionale come un 'diritto inviolabile' e non rinunciabile, che si inserisce nell'iter del processo con carattere di essenzialità.

È significativo, peraltro, che lo stesso giudice civile investito dell'atto di citazione in questione e richiesto espressamente dalla difesa dei denuncianti di sospendere il giudizio, non lo abbia fatto, motivando che 'le circostanze esposte in atto di citazione non appaiono tali da integrare la fattispecie di cui all'art. 3 c.p.p.' (cfr. verbale dell'udienza del 27 giugno 1988): che è un riconoscimento, per altro verso, della buona fede degli imputati.

Il carattere preliminare ed assorbente delle considerazioni svolte esime dal l'esame, di merito del contenuto della citazione, come documento di per sé potenzialmente o eventualmente calunnioso».

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