sentenza 13 marzo 1990; Pres. Gaeta, Est. Sernia; imp. MurraSource: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp.677/678-683/684Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183675 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
Problema preliminare alla definizione della posizione proces suale dei prevenuti, è quello della qualificazione giuridica del con
tratto stipulato fra i medesimi, in qualità di titolari della Hinter
nordis s.n.c., e le diverse case editrici loro fornitrici della stampa
commercializzata, e ciò al fine di stabilire se l'attività svolta dagli
imputati possa essere sussunta sotto lo schema della «prestazione di servizio», cosi come specificato nel capo di imputazione.
Orbene, ritiene il collegio che dalle acquisizioni documentali
e segnatamente dalle dichiarazioni testimoniali rese da Pulitanò
Crescenzo e Flauto Fulvio, emerge la prova che la natura giuridi ca del rapporto in parola è quella di un contratto traslativo della
proprietà della merce sopra menzionata (stampa periodica).
Risulta, infatti, che le società editrici emettono fatture nei con
fronti della Hinternordis s.n.c. comprensive del margine di gua
dagno della stessa, rappresentato da uno sconto di circa il 25-30%
del prezzo di vendita al pubblico di ciascuna pubblicazione. É
prassi comune che la fatturazione a prezzo pieno del bene vendu
to, se pur scontato, implica il trasferimento della proprietà dello
stesso dal cedente al cessionario, a nulla rilevando la circostanza
che l'emissione della fattura avvenga in epoca successiva a quella dell'entrata del bene nella disponibilità del cessionario: difatti, è solo in quel momento che, determinato l'esatto ammontare del
la merce venduta, è possibile alla società distributrice saldare il
debito assunto nei confornti della casa editrice. In sostanza dal
succitato sistema di contabilizzazione si evince chiaramente che
il margine di guadagno del distributore, sia pure sotto forma di
sconto, viene comunque fatturato a monte dall'editore, salvo poi essere realizzato in concreto dal distributore mercé la vendita a
prezzo pieno del bene. Di conseguenza, il profitto della Hinter
nordis s.n.c., costituito dalla differenza tra il prezzo pagato all'e
ditore e quello corrisposto dal rivenditore, non può essere assimi
lato ad una provvigione intesa in senso tecnico, che presuppone invece la mancata traslazione della proprietà del bene tra il primo e il secondo, bensì il profitto derivante dall'esercizio autonomo
di una attività commerciale da parte del distributore stesso.
Inoltre, la fatturazione dei beni nei confronti del distributore
e non già nei confronti dei rivenditori (edicolanti, ecc.), esclude la sussistenza di un rapporto del tipo «agenzia, mediazione» in
tercorrente tra i primi due soggetti, circostanza questa che con
forta ulteriormente la tesi dell'effetto traslativo della proprietà dei beni in capo al distributore.
Definito riscontro alla prospettata natura giuridica dei rapporti tra casa editrice e società distributrice è costituita indubbiamente
dalla circostanza che il rischio del perimento dei beni è assunto
contrattualmente da quest'ultima sin da quando entra nella mate
riale disponibilità dei beni medesimi nonché dal fatto che il distri butore non ha alcun potere di rappresentanza dell'editore, agen do per nome e conto proprio.
Tributi in genere, n. 1152, fa riferimento al bene-interesse tutelato dalla
norma per giungere alle medesime conclusioni: mirando la norma ad evi
tare il pericolo dell'evasione fiscale, la contravvenzione di cui all'art. 1, ultimo comma, 1. 516/82 non sussiste se la constatata irregolarità risulti
in concreto, per la perfetta tenuta degli altri documenti e scritture conta
bili, «sicuramente e assolutamente inoffensiva». Identica ratio argomen tativa si rinviene in Trib. Torino 12 gennaio 1987, id., Rep. 1987, voce
cit., n. 1154, la quale ritiene non punibile un lieve ritardo nell'annotazio ne delle operazioni giornaliere sul registro Iva dei corrispettivi, trattando si di «fatto innocuo». In relazione ad un'ipotesi di «ravvedimento opero so», ma facendo leva, questa volta, sul principio del favor rei, si pronun cia in maniera analoga lo stesso tribunale, con sentenza 6 marzo 1987,
ibid., voce Valore aggiunto, n. 294; da ultimo, v. Trib. Larino 13 aprile 1988, id., 1989, II, 327, con nota di richiami.
In dottrina, Marcelli, La contravvenzione per irregolare tenuta e man
cata conservazione di scritture contabili obbligatorie (ult. comma, art.
I della legge 516/1982), in Comm. trib. centr., 1987, II, 473 e Debidda,
Appunti sulla contravvenzione di cui all'art. 1, 6° comma, della legge
515/1982, in Fisco, 1985, 4626. Più in generale, Caratozzolo, Scritture
contabili obbligatorie ai fini fiscali. Omessa o irregolare tenuta e conser
vazione. Considerazioni sull'elemento materiale del reato (art. 1, ultimo
comma della legge 516/1982), id., 1984, 1657 e Zoppis, Contravvenzioni e delitti nel nuovo contenzioso tributario penale: l'art. 1 legge 516/1982
pronto per l'uso, in Comm. trib. centr., 1983, II, 473. Tra i contributi
più recenti, v. Della Valle, L'art. 1, 6° comma, legge 516/1982 - l'o
messo «impianto» delle scritture contabili, in Fisco, 1988, 6384.
II Foro Italiano — 1990.
Sulle basi delle considerazioni sopra esposte vengono a manca
re gli elementi oggettivi della fattispecie penale in contestazione
sub a), e, pertanto, gli imputati debbono essere assolti dalla rela
tiva imputazione perché il fatto non sussiste.
Quanto al capo b) della rubrica, osserva il collegio che le irre
golarità nella tenuta delle scritture contabili e cioè la omessa in
terlineatura degli ultimi fogli di alcuni registri contabili — fatto ammesso nella sua materialità dall'imputato Pezzotta Renato nel
corso dell'istruttoria dibattimentale — non sono tali da compro mettere la generale funzione probatoria risconosciuta dalla legge alle scritture medesime; non essendosi, pertanto, realizzato l'e
vento di mero pericolo previsto dall'art. 1, 6° comma, 1. 516/82, entrambi i prevenuti devono essere assolti dalla predetta imputa zione perché il fatto non sussiste.
TRIBUNALE DI LECCE; sentenza 13 marzo 1990; Pres. Gae
ta, Est. Sernia; imp. Murra.
TRIBUNALE DI LECCE;
Tributi in genere — Reato tributario — Frode fiscale — Simula zione o dissimulazione di componenti del reddito — Fattispecie
(L. 10 luglio 1982 n. 429, norme per la repressione della eva
sione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributa
ria, art. 4; 1. 7 agosto 1982 n. 516, conversione in legge, con
modificazioni, del d.l. 10 luglio 1982 n. 429, art. 1).
La condotta di simulazione o di dissimulazione di componenti del reddito, di cui all'art. 4, n. 7, I. 516/82, è integrata con
la semplice esposizione, nella dichiarazione dei redditi, di dati fittizi o non veritieri circa la consistenza dei ricavi conseguiti o delle spese sostenute (in motivazione si afferma in particolare che l'alterazione del risultato della dichiarazione dei redditi rap
presenta l'evento costitutivo del delitto e non una mera condi
zione obiettiva di punibilità, e si esclude che le mendaci dichia razioni del soggetto agente debbano essere caratterizzate da un
particolare connotato di fraudolenza). (1)
(1) La pronuncia denota il permanere di una certa divergenza applica tiva rispetto alla fattispecie di frode fiscale prevista dall'art. 4, n. 7, 1. 516/82. La sentenza muove preliminarmente da una critica delle soluzioni
interpretative accolte dalla Corte costituzionale con sentenza 16 maggio 1989, n. 247 (Foro it., 1989, I, 1685, con nota di ulteriori riferimenti
e commento di G. Insolera e M. Zanottt, L'intervento interpretativo della Corte costituzionale sulle ipotesi di frode fiscale ex art. 4, n. 7, /. n. 516'del 1982), escludendo, in particolare, che l'alterazione in misura rilevante del risultato della dichiarazione dei redditi possa integrare una mera condizione obiettiva di punibilità del delitto de quo. Anche a pre scindere da un ulteriore approfondimento di tale aspetto (più direttamen
te, sul punto, v. la nota di commento innanzi citata), è tuttavia possibile rilevare una parziale contraddittorietà della sentenza in epigrafe: come
si riconosce in motivazione, la rinuncia a seguire siffatta soluzione inter
pretativa riapre inevitabilmente il problema relativo alla legittimità costi
tuzionale, sotto il profilo della tassatività, dell'elemento di fattispecie con
siderato; problema che però, ciò non ostante, il tribunale reputa nella
specie privo della necessaria rilevanza «atteso che le componenti di reddi to di cui all'imputato si contesta la dissimulazione sono tali da integrare sicuramente i requisiti dell'alterazione in misura rilevante del risultato della dichiarazione». L'assunto potrebbe tuttavia rivelarsi inconferente
rispetto alla portata della questione stessa, posto che, in quanto assunto
quale elemento costitutivo della fattispecie, il necessario grado di deter
minatezza del dato relativo alla «rilevanza dell'alterazione» dovrebbe poter essere apprezzato già in astratto, sul piano della stessa formulazione della
norma, e non invece con riferimento alla sola dimensione concreta del fatto
giudicato. Rispetto alla ricostruzione interpretativa operata in sentenza, privo di valore potrebbe del resto apparire lo stesso esplicito richiamo ai criteri
valutativi indicati dalla sentenza della Corte costituzionale: come è noto,
infatti, tali criteri vengono assunti da quest'ultima pronuncia per valutare
della tassatività del requisito della rilevanza dell'alterazione non rispetto al
l'art. 25 Cost, (riferimento necessario per quanto attiene ad eie
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PARTE SECONDA
Motivi della decisione. — Va preliminarmente risolta, in dirit
to, la questione attinente alla condotta sanzionata dalla norma
di cui all'art. 4, punto 7,1. 516/82, la cui violazione è contestata
all'imputato, e che il legislatore indica nella simulazione di com
ponenti negative o dissimulazione di componenti positive del red
dito, in modo da alterare in maniera rilevante il risultato della
dichiarazione. Il contrasto giurisprudenziale e dottrinario è, in particolare, in
centrato appunto sul significato dei termini «simulare» e «dissi
mulare», controvertendosi se — ad integrare le indicate condotte — sia sufficiente la mendace esposizione, nella dichiarazione dei
redditi, di componenti positive o negative, o se per contro non
sia necessario il ricorso a particolari artifici aventi capacità de
cettiva.
In tale ultimo senso si è pronunziata, con sentenza 16 maggio
1989, n. 247 (Foro it., 1989, I, 1685) la Corte costituzionale deci
dendo sul difetto o meno di tassatività della norma di cui all'art.
4, n. 7, 1. 516/82 nella parte in cui richiede che l'alterazione del
risultato della dichiarazione sia stata compiuta «in misura ri
levante».
Ritiene il tribunale di dovere motivatamente disattendere tale
autorevole pronunzia la quale, rientrando tra le decisioni definite
«interpretative di rigetto», non è vincolante per questo giudican
te, come diffusivamente è ritenuto in giurisprudenza e dottrina.
La corte ha ritenuto di poter superare la questione attinente
al difetto di determinatezza del concetto di «misura rilevante»
ritenendo lo stesso non già elemento costitutivo della fattispecie, ma condizione oggettiva di punibilità, atta a selezionare, tra fatti
tutti egualmente illeciti, i più gravi, meritevoli della sanzione
penale. Di conseguenza, l'elemento discretivo tra la fattispecie di cui
all'art. 4, n. 7, e quelle di cui all'art. 1, 2° comma, 1. 516/82
non può fondarsi sull'elemento dell'alterazione in misura rilevan
te — che non è elemento costitutivo della fattispecie, ma condi
zione ad essa esterna — andando invece ricercato nelle modalità
della condotta: genericamente omissive quelle di cui all'art. 1, 2° comma, «attivamente» decettive quelle di cui all'art. 4 — e
perciò maggiormente meritevoli di pena — consistendo le con
dotte si simulazione e dissimulazione in comportamenti «corri
spondenti a quelli già previsti dai n. da 1 a 6 del medesimo art.
4 1. 516/82. Ritiene il tribunale che la corte, nello sforzo di superare le sol
levate eccezioni di incostituzionalità e di procedere alla difficile interpretazione sistematica della 1. 516/82 — la quale indubbia
mente pecca di un'eccessiva casistica sanzionatoria a discapito di
una razionale tipologia di condotte aggressive di determinati beni
interessi — sia incorsa in alcuni errori logico-giuridici che merita
no rispettosa censura.
Preliminarmente, erronea si appalesa la qualificazione dell'al
terazione in «misura rilevante» quale condizione obiettiva di pu nibilità. Per costante giurisprudenza e dottrina, infatti, tale con
dizione si caratterizza quale evento non causalmente né psicologi camente collegato alla condotta dell'agente, mentre — nella
fattispecie di cui all'art. 4, n. 7, 1. 516/82 — l'alterazione in mi
sura rilevante ne è la diretta e necessaria conseguenza, a seguito della compiuta simulazione o dissimulazione.
menti costitutivi della fattispecie), ma solo in ragione di un'applicazione conforme alle esigenze di uguaglianza postulate dall'art. 3 Cost.
Rispetto all'interpretazione dei concetti di simulazione e dissimulazione delle componenti del reddito, v. comunque l'orientamento che ha caratte rizzato la stessa giurisprudenza della Corte suprema: in particolare, v. sent. 11 marzo 1987, Lapiccirella, id., 1987, II, 569, con note di com mento di M. Boschi, In tema di frode fiscale, e di G. Insolera e M.
Zanotti, La prima sentenza della Cassazione in tema di frode fiscale: deluse le aspettative di un chiarimento; 3 luglio 1989, Vangelisti, id., 1990, II, 91, con nota di G. Insolera e M. Zanotti, Dal reato di infedele dichiarazione dei redditi al reato di infedeltà fiscale; 14 dicembre 1989, Gilardi, ibid., 225, con nota di G. Insolera e M. Zanotti, Frode fiscale. Art. 4, n. 7, I. 516/82: una controversia in via di soluzione; in argomen to, da ultimo, App. Milano 11 aprile 1990, che in questo fascicolo, II, 670, nonché Cass., sez. un., 6 luglio 1990, P.m. c. De Candia, che sarà
riportata in uno dei prossimi fascicoli. [A. Melchionda].
Il Foro Italiano — 1990.
Inoltre, come la stessa corte ha avuto occasione di rilevare in
precedenti pronunzie, la condizione obiettiva di punibilità non
può concorrere alla definizione della giuridica offensività del fat
to, realizzandosi altrimenti un regime di responsabilità oggettiva, la cui legittimità costituzionale è stata incidentalmente esclusa,
per violazione dell'art. 27 Cost., dalla stessa corte (vedi sentenze
n. 364/88, id., 1988, I, 1385 e n. 1085/88, id., 1989, I, 1378). Indubbiamente, l'alterazione in misura rilevante attiene alla stes
sa offensività del fatto, se è vero che oggetto giuridico delle fatti
specie di cui all'art. 4 1. 516/82 è l'interesse patrimoniale-fiscale dello Stato (tant'è che tutte le condotte di cui alla citata norma
si caratterizzano per l'intento elusivo dell'imposizione); sicché ap
pare infondato ritenere il reato de quo un reato caratterizzato
dalla semplice modalità della condotta.
Infondato, ancora, si appalesa l'asserto della corte che i fatti
previsti e puniti dall'art. 4, n. 7, 1. 516/82 sarebbero già tutti
illeciti, sicché la misura dell'alterazione atterrebbe non già all'of
fensività, ma all'opportunità di selezionare, tra più fatti offensi
vi, quelli meritevoli di sanzione. Nel nostro ordinamento, infatti,
vige il principio di illegalità penale formale: è reato solo ciò che
la legge definisce tale, mentre non è reato ciò che manca degli elementi costitutivi indicati dalla legge. La dichiarazione dei red diti menzognera non è, di per sé, condotta sanzionata penalmen
te; il mendacio, per contro, acquista rilevanza penale solo quan do sia realmente offensivo: la necessità di una alterazione in mi
sura rilevante è, prima ancora che espressione di un criterio di
opportunità, il precipitato normativo concreto del principio di
offensività la cui operatività, spesso negletta dal legislatore, è on
nipresente nella fattispecie di cui alla 1. 516/82, la cui punibilità è normalmente subordinata al superamento di una determinata
voglia minima. A conferma della ritenuta natura di condizione obiettiva di pu
nibilità dell'alterazione «in misura rilevante», la corte ha addotto
che essa mai potrebbe essere considerata elemento costitutivo del
la fattispecie, essendo impensabile che la stessa possa essere og
getto del particolare dolo intenzionale caratterizzante la fattispe cie di cui all'art. 4 1. 516/82. Neanche tale obiezione appare con
divisibile. Infatti, oggetto del solo specifico è solamente lo scopo individuato nella premessa di cui all'art. 4: «al fine di evadere
le imposte sui redditi o l'imposta sul valore aggiunto, o di conse
guire un indebito rimborso ovvero di consentire un indebito rim
borso o l'evasione a terzi»: sicché, l'alterazione in misura rilevan
te, come tutti gli altri elementi della fattispecie, ben potrà essere
oggetto del normale e sufficiente dolo generico; nessuna difficol
tà, comunque, si scorge anche a voler ritenere che la misura del
l'alterazione sia oggetto di dolo specifico, atteso che l'agente nor
malmente vuole conseguire una determinata evasione, conscio della
sua entità, che non gli può non essere chiara nel momento in
cui presenta la mendace dichiarazione.
Pertanto, nulla opponendosi — a parere di questo tribunale — a ritenere elemento costitutivo del reato la misura dell'altera
zione, ne consegue la non necessarietà di valorizzare — quale elemento caratterizzante della fattispecie — la modalità della con
dotta, e quindi la necessità della sussistenza di peculiari artifici, valida prospettandosi, per contro, la tesi che, ad integrare la con
dotta di simulazione o dissimulazione, siano bastevoli le mendaci
dichiarazioni del soggetto d'imposta di cui all'art. 4, n. 7,1. 516/82.
Non sfugge a questo tribunale che, cosi impostata la soluzione
della controversia, risorgerebbe la questione della legittimità co
stituzionale della norma per indeterminatezza di quello che si è
ritenuto un suo elemento costitutivo. Ancor prima di pronunziar si sulla fondatezza della questione (e potendosi osservare che i
criteri indicati in sentenza dalla Corte costituzionale si appalesa no già di per sé sufficienti a garantire la certezza della norma) il tribunale ritiene la non rilevanza della questione, in concreto, ai fini del presente giudizio, atteso che le componenti di reddito di cui all'imputato si contesta la dissimulazione sono tali da inte
grare sicuramente i requisiti dell'alterazione, in misura rilevante, del risultato della dichiarazione. Comunque, anche ad accedere
all'autorevole opinione della corte circa la natura dell'alterazione
«in misura rilevante», egualmente il tribunale ritiene di doverne
disattendere le conseguenti conclusioni circa l'essenza delle con
dotte integranti i concetti di simulazione e dissimulazione.
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GIURISPRUDENZA PENALE
Tali condotte, a giudizio della corte, non possono essere ridot
te alla mera esposizione di dati non veritieri nella dichiarazione
dei redditi, conseguendone altrimenti un'illogica sovrapposizione tra le condotte di cui all'art. 1, 2° comma, e quelle di cui all'art.
4, n. 7, 1. 516/82, le prime contravvenzionali — e subordinate
al raggiungimento di un elevato tetto massimo — le seconde, in
vece, delittuose, e non subordinate al raggiungimento di alcun
tetto preordinato, ma solo alla rilevanza dell'alterazione del risul
tato della dichiarazione dei redditi. Il tribunale ritiene agevol mente superabile tale ultima obiezione, solo che si proceda ad
un attento esame delle diverse fattispecie di cui, rispettivamente,
agli art. 1 e 4 1. 516/82.
È quindi possibile rilevare immediatamente una prima impor tante distinzione: mentre il reato di cui all'art. 4, n. 7, 1. 516/82
si presenta come reato con dolo specifico di offesa (il fine di
eludere l'imposizione fiscale) e con evento, quanto meno, di peri colo (non potendo dubitarsi che la simulazione di componenti
negative o la dissimulazione di componenti positive costituisca
atto idoneo alla sottrazione di reddito al potere impositivo dello
Stato), i reati puniti ai nn. 1), 2) e 3) dell'art. 1, 2° comma, si presentano quali condotte meramente contravvenzionali, e quindi indifferentemente punibili a titolo di dolo (anche generico od even
tuale) o, addirittura, di colpa, giusto il generale disposto dell'art.
42, ultimo comma, c.p. Tale distinzione trova la propria giustificazione nella diversa
offensività dei fatti sanzionati: l'uno è delitto, in quanto la con
dotta incide sulla dichiarazione dei redditi e, quindi, direttamente
sulla pretesa tributaria dello Stato (evento di pericolo); gli altri
sono contravvenzioni, venendo sanzionate mere omissioni conta
bili che, di per sé, non pongono ancora in concreto pericolo la
pretesa fiscale dello Stato, essendo sempre possibile che il contri
buente esponga il vero nella propria dichiarazione dei redditi: ipo
tesi, quest'ultima, espressamente prevista dall'art. 1, 4° comma, 1. 516/82, che in tal caso prevede la non punibilità delle condotte
di cui al 2° comma medesimo articolo, che non siano già state
accertate.
Tutto ciò conferma che, mentre l'ipotesi delittuosa di cui al
l'art. 4, n. 7, 1. 516/82 è reato di offesa (almeno sotto il profilo della concreta messa in pericolo), le ipotesi di cui all'art. 1 mede
sima legge sono reati di mera condotta, senza evento (nemmeno in senso giuridico), appartenenti chiaramente alla categoria dei
reati-ostacolo, e cioè di quei fatti, di per sé inoffensivi, ma che
tuttavia vengono sanzionati in quanto idonea premessa al compi mento di fatti offensivi (come, nel caso de quo, proprio le men
daci dichiarazioni di cui all'art. 4, n. 7, 1. 516/82); categoria di reati la cui illegittimità costituzionale — per violazione del princi
pio di offensività — è per unanime dottrina esclusa ogni qualvol ta le condotte penalmente sanzionate costituiscano concretamente
idonea premessa alla consumazione di reati di offesa di beni
interessi non adeguatamente tutelabili se non anticipando, appunto, la soglia di tutela degli stessi attraverso la previsione di una san
zione penale per fatti che, al più, potrebbero rientrare — in base
ai principi generali del diritto penale — nella categoria degli atti
preparatori non punibili. Ne consegue, quindi, che esattamente la giurisprudenza di me
rito e di legittimità ha ritenuto che le ipotesi di cui al 2° comma
dell'art. 1 e quella di cui all'art. 4, n. 7, siano in rapporto di
progressione criminosa, con esclusione quindi dell'ipotizzabilità di un concorso tra le fattispecie di cui ai distinti menzionati arti
coli. Ed infatti, come già accennato, le condotte sanzionate dai
nn. 1) e 2) dell'art. 1, 2° comma, 1. 516/82 consistono nella omessa
o mendace annotazione nelle sole scritture contabili obbligatorie ai fini fiscali (imposte sui redditi Iva) — o nella omessa o menda
ce fatturazione — di corrispettivi di cessioni di beni o di presta
zione di servizi: fatti che normalmente si pongono quali atti pre
paratori rispetto all'evasione dell'imposta, che si realizza (art. 4,
n. 7) con il mendacio nella dichiarazione dei redditi (o nelle scrit ture contabili obbligatorie — non ai fini fiscali ma — ai sensi dell'art. 2214 c.c., che forniscono la base del bilancio la cui uni
cità, ai fini civilistici e tributari, si riflette alla fine nella mendaci tà della dichiarazione stessa: tant'è che la norma prevede come
evento proprio l'attuazione della menzionata dichiarazione). L'aver munito di sanzione penale condotte in sé non offensive,
Il Foro Italiano — 1990.
ma considerate premessa idonea — anche se non univoca — del
compimento di atti di evasione dell'imposizione, ha imposto al
legislatore di selezionare, tra le diverse irregolarità fiscali, quelle realmente e concretamente suscettibili di costituire una tappa nel
la consumazione dell'alterazione in misura rilevante del risultato
della dichiarazione dei redditi: ciò spiega perché sia stata fissata
una soglia di puniblità anche per le condotte previste punite nel
2° comma dell'art. 1 I. 516/82, apparendo altrimenti ingiustifica to sanzionare penalmente quelle che — in difetto di una suffi
ciente univocità della condotta — consistono in mere irregolarità
formali, che il contribuente potrebbe sempre sanare prima della
presentazione della dichiarazione dei redditi, la quale quindi po trebbe anche essere resa, alla fine, in maniera veritiera e tras
parente.
Riassumendo, l'art. 4 1. 516/82 ha ad oggetto condotte ben
distinte da quelle di cui ai nn. 1) e 2) dell'art. 1, 2° comma, medesima legge, ed altrettanto distinti sono, pertanto, i reati pre visti e puniti, rispettivamente, dai due articoli menzionati; per
tanto, non appare ipotizzabile alcuna irrisolvibile sovrapposizio ne tra le considerate condotte, le quali anzi, normalmente, non
potranno nemmeno concorrere tra di loro, ponendosi in un rap
porto di progressione criminosa. Viene meno, pertanto, la princi
pale ragione argomentativa portata dalla corte a sostegno della
tesi della necessaria ricorrenza di un quid pluris — rispetto alla
semplice omissione mendace — ad integrare la nozione di simula
zione o dissimulazione; né alcun altro argomento appare sostene
re con sufficiente saldezza tale tesi.
I termini «simulare» e «dissimulare» sicuramente indicano un
comportamento di alterazione o nascondimento del vero, ma si
connotano per una ontologica genericità nella descrizione delle
condotte occultatrici della verità; né a livello sistematico è possi bile rinvenire, nelle varie branche del diritto, una nozione di «si
mulazione» che deponga a sostegno della tesi sposata dalla corte:
va anzi rilevato che la condotta simulatrice per eccellenza è quella
disciplinata negli art. 1414 ss. c.c., e mai si è dubitato della ricor
renza della figura del contratto di simulazione anche in assenza
di specifiche condotte artificiose poste in essere dalle parti; per restare nell'ambito del diritto penale, può infine osservarsi che,
unanimi, dottrina e giurisprudenza, hanno ripetutamente affer
mato che, ad integrare il delitto di truffa — altra figura di simu
lazione (nel senso di alterazione del vero) per eccellenza — «an
che la semplice affermazione menzognera può costituire raggiro idoneo ad integrare l'elemento materiale del delitto in esame, quan do sia presentata in modo tale da assumere l'aspetto della verità
e sorprendere l'altrui buona fede» (Cass. 9 febbraio 1977, Rossi
gnolo, id., Rep. 1978, voce Truffa, n. 14). A tal proposito, va sottolineata l'idoneità decettiva di una di
chiarazione dei redditi compilata in aderenza a scritture contabili
regolarmente tenute, e quindi altamente affidabili, ma mendaci;
come è noto, le stesse norme disciplinanti la materia tributaria
riconoscono tale estrema affidabilità, ponendo gravi limiti ed osta
coli all'esperimento — da parte degli uffici finanziari — di accer
tamenti induttivi sulla consistenza del reddito quando il contri
buente possa esibire scritture contabili perfettamente tenute. Tale
osservazione, unitamente alla considerazione circa l'unicità della
nozione di bilancio ai fini tributari ed ai fini civilistici, consente
di comprendere la scelta dei termini «simulare» e «dissimulare»,
operata dal legislatore nella consapevolezza dell'efficace messa
in scena realizzabile tramite presentazione di una dichiarazione
dei redditi, mendace, ma perfettamente conforme a scritture con
tabili prefettamente tenute.
Per contro, la soluzione adottata dalla corte, e consistente nel
la richiesta del menzionato quid pluris, da ricercarsi in condotte
«corrispondenti» a quelle sanzionate nei n. 1-6 del medesimo art.
4, non appare praticabile e condurrebbe ad effetti vanificatori
della tutela del potere impositivo dello Stato.
Le norme di cui ai nn. 1 ss. dell'art. 4 1. 516/82 appaiono
infatti esaurire completamente la gamma delle condotte artificio
se — diverse dal semplice mendacio — praticabili dal contribuen
te intenzionato ad evadere le imposte o ad ottenere indebiti rim
borsi: infatti, non può ipotizzarsi simulazione o dissimulazione nella dichiarazione dei redditi se non tramite l'utilizzo di docu
menti o pezze d'appoggio falsi materialmente o ideologicamente:
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PARTE SECONDA
condotte tutte, queste, già sanzionate dai nn. 1, 3 e 5 dell'art.
4. Né può ritenersi che la corte possa aver inteso richiedere l'uti
lizzazione di espedienti corrispondenti (questa volta senza virgo
lettatura), e cioè coincidenti, con quelli di cui al medesimo art.
4: in tal caso, infatti, la norma di cui al n. 7 medesimo articolo
cesserebbe di avere qualsiasi autonomia e ragion d'essere, e non
troverebbe verosimilmente mai applicazione, limitandosi a san
zionare, e con la stessa pena, fatti già puniti dalle norme di cui
ai n. 1-6 dell'art. 4, pur avendo ad oggetto fatti maggiormente offensivi (alterazione del risultato della dichiarazione in misura
rilevante). In conclusione, questo tribunale ritiene, pertanto, sufficienti
ad integrare le nozioni di simulazione e dissimulazione — di cui all'art. 4, n. 7,1. 516/82 — la semplice esposizione, nella dichia razione dei redditi, di dati fittizi o non veritieri in relazione ai ricavi conseguiti ed alle spese sostenute. (Omissis)
TRIBUNALE DI MILANO; ordinanza 2 marzo 1990; Pres. Mar
ra, Rei. D'Isa; imp. Z. TRIBUNALE DI MILANO;
Misure cautelari personali — Procedimenti in corso alla data di
entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale — Eva
sione — Nuova decorrenza dei termini di custodia cautelare — Limiti (Cod. proc. pen. del 1988, art. 303; norme att., coord,
e trans, cod. proc. pen. del 1988, art. 251; cod. proc. pen. del 1930, art. 272).
Nel caso di evasione di imputato già sottoposto a custodia caute
lare al momento dell'entrata in vigore del nuovo codice di pro cedura penale i termini della custodia iniziano nuovamente a
decorrere dal momento del suo ripristino ai sensi dell'art. 303,
3° comma, c.p.p. del 1988 ma, per il disposto dell'art. 251
norme att., coord, e trans, del medesimo codice, la durata del
la custodia non può superare i termini previsti dalle norme del
codice abrogato. (1)
(1) Non constano precedenti. La novità, rispetto al codice abrogato, della disposizione che prevede
la decorrenza, ex novo, dei termini della custodia cautelare in caso di
evasione, è sottolineata da Dubolino - Baolione - Bartolini, Il nuovo codice di procedura penale illustrato per articolo, Piacenza, 1990, 566, sub art. 303, nonché da Ascione - De Biase, La libertà nel nuovo proces so penale, Milano, 1990, 300, i quali ne rilevano l'opportunità eviden ziandone l'analogia con quanto similmente previsto dall'art. 307 c.p.p. del 1988 nell'ipotesi di dolosa trasgressione alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare disposta nei confronti di imputato scarcerato per decorrenza dei termini o nel caso in cui, sopravvenuta sentenza di con danna in primo o secondo grado, l'imputato si dia alla fuga o si accerti concreto pericolo di fuga ex art. 274, 1° comma, lett. b).
Sulle disposizioni transitorie del nuovo codice di procedura penale, ve
di, in dottrina, Ciani, Le disposizioni transitorie deI nuovo codice di pro cedura penale, in Documenti giustizia, 1989, fase. 9, 79; Frigo, Linea menti del regime transitorio, in Commentario del nuovo codice di proce dura penale a cura di Amodio-Dominioni, Milano, 1989, I, LI.
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La decisione riportata si presta a radicali obiezioni: i giudici milanesi non hanno minimamente considerato che, per quanto rilevabile dai dati
testuali, l'evasione dell'imputato si verificò quando ancora non era spira to, in relazione alla fase processuale in corso, il termine massimo di cu stodia cautelare stabilito dal codice abrogato e, comunque, in epoca suc cessiva all'entrata in vigore del nuovo codice.
In siffatta situazione, una volta ritenuta applicabile, anche ai procedi menti in corso la citata disposizione di cui all'art. 303, 3° comma, c.p.p. del 1988 e trattandosi di decorrenza ex novo del termine di custodia cau telare in conseguenza di evento verificatosi sotto il vigore della nuova
disciplina, sarebbe parso corretto applicare senz'altro il termine, peraltro, più breve, da quest'ultima previsto in relazione alla fase in corso a far
Il Foro Italiano — 1990.
Rilevato: che l'impugnato provvedimento si basa sulla conside
razione di un nuovo decorso dei termini di custodia a far tempo dal 3 novembre 1989, data in cui allo Z (originariamente detenu
to dal 16 febbraio 1989) sono stati revocati gli arresti domiciliari concessigli con provvedimenti del 5 giugno e 5 luglio 1989;
che non si ritiene di condividere tale considerazione, in quanto l'ambito di applicazione dell'art. 272, 11° comma, c.p.p. abroga to non può essere esteso all'ipotesi di evasione dagli arresti domi
ciliari o comunque violazione degli obblighi connessi agli arresti domiciliari, non essendo consentita alcuna estensione analogica delle norme limitative della libertà personale, sul piano sostanzia
le e su quello processuale, e trovando, inoltre, l'evasione, già una
specifica sanzione nel diritto sostanziale;
che, del resto, l'art. 251 disp. trans, c.p.p., da un lato contiene
il rinvio all'osservanza delle «disposizioni del codice sui termini di durata della custodia» cautelare calcolati a decorrere dall'en
trata in vigore del nuovo codice di procedura penale, da cui può fondatamente desumersi — in via di mera interpretazione della
disciplina dettata dal legislatore per la fase transitoria — l'appli cabilità anche del 3° comma dell'art. 303 c.p.p. (relativo a nuovo
decorso dei termini di custodia cautelare in caso di evasione), in quanto facente parte delle disposizioni sui termini di custodia
contemplati dallo stesso art. 303 c.p.p.; d'altro lato, tuttavia, lo
stesso art. 251 citato, stabilisce che la durata della custodia caute
lare «non può superare i termini previsti dalle norme del codice
abrogato», cosi ponendo una sorta di durata invalicabile nel regi me transitorio;
che, alla data odierna, tenuto conto dell'imputazione ex art.
71 1. 685/75, deve constatarsi il decorso del termine di un anno
previsto dal codice di procedura penale abrogato, onde va dispo sta la scarcerazione dell'imputato;
per questi motivi, ordina l'immediata scarcerazione di Z. G.
se non detenuto per altra causa.
tempo dal ripristino della custodia, non creandosi alcuna interferenza tra le diverse discipline succedutesi nel tempo, salvo il rispetto, se più favore vole all'imputato, del termine massimo complessivo previsto dalla nor mativa precedente, essendo la custodia iniziata sotto il vigore della me desima.
Del tutto fuori luogo sembra, dunque, tanto il riferimento del giudice istruttore al disposto dell'art. 272, 11° comma, c.p.p. del 1930 (che, co me si argomenta nell'ordinanza riportata, non prevedeva la fattispecie in esame né poteva ritenersi suscettibile di applicazione analogica in mo larti partem) quanto l'applicazione, da parte del tribunale, del termine
previsto dalla disciplina pregressa a decorrere dalla data dell'originaria instaurazione della custodia cautelare, laddove la vicenda avrebbe dovuto essere integralmente regolata dalla previsione del nuovo art. 303, 3° com
ma, facendosi decorrere ex novo il termine di custodia cautelare dal ripri stino della stessa in conseguenza dell'intervenuta evasione, con piena ap plicazione della nuova disciplina e, come già precisato, con il solo even tuale limite della durata massima complessiva della custodia stabilita dal
regime processuale abrogato. Alla stregua delle considerazioni che precedono il termine massimo di
custodia cautelare non avrebbe potuto, neila specie, essere considerato ancora decorso, sia pure per ragioni diverse da quelle addotte dal primo giudice. [E. Gironi]
PRETURA DI AVEZZANO; sezione distaccata di Tagliacozzo; sentenza 20 gennaio 1990; Giud. Padalino; imp. Lupiani.
PRETURA DI AVEZZANO;
Bellezze naturali (protezione delle) — Vincolo paesaggistico —
Violazione — Reato — Fattispecie (D.l. 27 giugno 1985 n. 312, disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare inte
resse ambientale, art. 1 sexies; 1. 8 agosto 1985 n. 431, conver
sione in legge, con modificazioni, del d.l. 27 giugno 1985 n. 312, art. 1).
Ogni violazione alle disposizioni della I. 431/85 è punibile ai sensi dell'art. 20, lett. a), /. 47/85, richiamato, quoad poenam, dal
l'art. 1 sexies l. 431/85 (in motivazione, viene evidenziato che,
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