sentenza 18 ottobre 1990; Pres. Sechi, Est. Ognibene; imp. MassimoSource: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1991), pp.235/236-243/244Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23186357 .
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PARTE SECONDA
plesso del sistema informativo in dotazione ad Albagiochi, enti
tà che è logico poter unitariamente valutare nella sua funzione
di componenti interagenti), quanto anche, come ben rileva la
pronuncia del pretore, l'alterazione fisico-chimica-magnetica del
supporto materiale su cui erano memorizzati.
In altri termini, e come indicato dal perito e ripreso dalla
motivata ed attenta decisione impugnata, la cancellazione —
come nel caso di specie — di un nastro si sostanzia nella modi
fica fisica del supporto magnetico, mediante la variazione
chimico-fisica delle tracce conseguenti alla memorizzazione del
l'informazione, allo stesso modo che integra certamente l'atto
di danneggiamento una cancellatura di uno scritto o, forse me
glio, l'esposizione ala luce di una pellicola fotografica (o la can
cellazione, come ha rilevato il p.g. all'odierna udienza, di un'in
cisione su nastro di un pezzo di musica).
Invero, secondo l'esatto rilievo del perito, non è oggetto della
decisione il programma informatico, quale opera dell'ingegno, ma la sua materializzazione, vale a dire le informazioni binarie
che lo costituiscono, quali tracce impresse su un supporto capa ci di restituire il dato memorizzato a seguito del comando codi
ficato. Come anche il più astratto teorema matematico cala nel
la realtà delle cose quando è rappresentato graficamente su una
pagina, cosi il sistema del computer trova la sua dimensione
fisica nelle tracce impresse sui floppy o sulle bobine apposite. La sentenza impugnata ha richiamato i due precedenti di me
rito (Trib. Firenze 27 gennaio 1986, Foro it., 1986, II, 359 e
Trib. Torino 12 dicembre 1983, id., Rep. 1986, voce Danneg
giamento, n. 5 e voce Esercizio arbitrario delle proprie ragioni, n. 10, di cui vi sono in atti le motivazioni, con note di dottri
na), per cui anche un software può essere oggetto di danneggia mento e sabotaggio, nelle accezioni penalistiche rilevanti.
Per altro verso appare indiscutibile che l'azione del Vincenti
rese inservibile il bene: «l'intervento ha anche cancellato tutte
le copie esistenti del programma originale, rendendo impossibi le il suo ripristino», secondo il responso del perito. Il program ma sostituito sul calcolatore non fu uguale a quello precedente ma una sua versione (condizionata dal marchingegno a tempo, immesso clandestinamente dal Vincenti, istigato — come da co
stui ammesso — dal Cortis) a funzionalità ridotte.,
Infondata risulta anche l'altra censura difensiva, che reclama
l'assenza di altruità del bene danneggiato. Il quesito non va posto, infatti, con riferimento al profilo
astratto, sviluppato dalla difesa nei motivi, quanto con esame
della situazione di fatto, la quale contempla — ricalcando gli indiscutibili rilievi della impugnata sentenza — anche la distru
zione di programmi su cui la società, a cui apparteneva il Vin
centi (Cortis & Lentini s.r.l.), non poteva vantare alcun diritto
(basi di dati e programmi applicativi). Il Vincenti ha confessa
to, invero, che — nel tentativo (dominato dalla fretta) di impe dire la paventata diffusione dei programmi di spettanza della
Cortis & Lentini — ha attuato una manovra ablativa non sol
tanto dei programmi 'sorgente', ma anche di ogni altra memo
rizzazione, che non poteva sicuramente essere rivendicata dalla
ditta di manutenzione.
Infatti, l'operazione danneggiatrice del Vincenti ha cancellato
dai nastri utilizzati dalla ditta Albagiochi non soltanto i sistemi
'sorgente', ma tutto il corredo informatico della parte lesa, cer
tamente estraneo alla sfera di proprietà della ditta di assistenza
e manutenzione, costituito dai programmi applicativi e dai dati
base, su cui si articolava il compendio della contabilità dell'a
zienda cliente.
Il pretore, d'altro canto, ha esaurientemente dimostrato che
non vi sono prove del dominio sui programmi oggetto dell'in
tervento del Vincenti da parte della ditta Cortis & Lentini s.r.l., mancando traccia contrattuale scritta e certa, e perché i testi
moni Pizzo e Berruto indicano, semmai, un acquisto in capo ad Albagiochi s.p.a. della proprietà dei programmi informatici,
negozio (e la concorde dichiarazione testimoniale supplisce ad
ogni documentazione convenzionale o fiscale) conclusosi in epoca antecedente al sopravvenire del Cortis alla detta società che, dal canto suo — oltretutto — mai richiese ad Albagiochi s.p.a. alcun canone per l'uso dei citati programmi.
Con il terzo motivo d'appello la difesa protesta la carenza
di prova circa l'esatta rappresentazione degli imputati sull'al
truità del bene: osservazione che si scredita, una volta:
Il Foro Italiano — 1991.
— dimostrata (per la confessione dei suoi protagonisti) la con
sapevole persecuzione degli intenti diretti a sottrarre l'utilizzo
pieno e funzionale del sistema in dotazione ad Albagiochi (si rammenti anche il dispositivo «a tempo», inserito clandestina
mente dal Vincenti e che rendeva grandemente diminuita la fun
zionalità dell'apparato informatico); — richiamata la certa rappresentazione che i dati-base ed i
programmi applicativi non potevano ascriversi al patrimonio della
ditta di assistenza e manutenzione; — rammentato che il Cortis (che forni consigli operativi al
Vincenti consapevole dei risultati alternativi da ottenere, secon
do la sostanza delle sue ammissioni) era l'amministratore unico
della società beneficiaria dell'operazione killer (come giustamente si esprime il pretore), a giorno, pertanto (salva una prova con
traria che non è stata data) della situazione giuridica e contrat
tuale che la legava ai suoi clienti.
Non sembrano proponibili le riserve espresse dal quarto mo
tivo d'appello, esposto in linea meramente eventuale, e proteso ad evitare un richiamo alla figura dell'esercizio arbitrario. È
fuori di luogo il richiamo all'art. 392 c.p.
Manca, infatti, il presupposto di un qualsiasi diritto o aspet tativa lesa per la quale, anche in via putativa, la Cortis & Lenti
ni avrebbe potuto rivolgersi al giudice. Non sì era verificata querelle di spese non pagate (o non tem
pestivamente saldate), ovvero una contestazione seria e conclu
dente di un inadempimento: la dichiarazione degli imputati è
nel senso che la loro operazione fu protesa ad evitare un futuro
e probabile (ma non dimostrato) pericolo di diffusione presso la concorrenza (a cui Albagiochi s.p.a. aveva minacciato di ri
volgersi in prosieguo) dei programmi 'sorgente' ritenuti di pro
prietà della ditta di manutenzione e di assistenza, dimostra che
a nessun titolo può essere invocata la fattispecie dell'esercizio
arbitrario delle proprie ragioni. Per queste ragioni si riscontra la sussistenza di un illecito pe
nalmente rilevante e conseguentemente di un danno ex delieto
in capo alla parte civile costituita. Pertanto, pur dichiarato estinto
il reato ascritto ai prevenuti, si conferma la condanna e le altre
statuizioni già assunte dal giudice di primo grado in punto inte
ressi civili, disponendo, per il presente grado, l'obbligo degli
imputati alla rifusione a favore della parte civile delle spese per la continuata assistenza, spese che si liquidano in lire 1.000.000, oltre ad Iva e Cpa.
CORTE D'ASSISE DI FIRENZE; sentenza 18 ottobre 1990; Pres. Sechi, Est. Ognibene; imp. Massimo.
CORTE D'ASSISE DI FIRENZE;
Omicidio e infanticidio — Omicidio preterintenzionale — Fatti
specie di intervento chirurgico arbitrario (Cod. pen., art. 50,
584).
Risponde di omicidio preterintenzionale il primario chirurgo ospe daliero il quale, nel sottoporre un'anziana paziente ad inter
vento operatorio, anziché realizzare la programmata asporta zione transanale di un adenoma villoso, abbia senza previo consenso e in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche pro ceduto all'asportazione totale addominoperineale del retto, pro vocando a due mesi di distanza il decesso della donna quale
conseguenza dell'intervento estremamente traumatico e
cruento. (1)
(1) Non constano precedenti. I. - La qualificazione giuridico-penale dell'intervento chirurgico arbi
trario in questione non è risultata pacifica: il giudice istruttore aveva
disposto il rinvio a giudizio in ordine al delitto di omicidio colposo commesso in violazione dei limiti del consenso scriminante (art. 55 c.p.); il Tribunale di Firenze, ravvisando nel corso del dibattimento invece
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GIURISPRUDENZA PENALE
(Omissis). Proseguendo nell'analisi della materia processuale e stabilito dunque che si era deciso di procedere a intervento
chirurgico, si pone un triplice problema:
1) accertare quale tipo di intervento chirurgico fosse stato
preventivato;
2) quale sia stato quello comunicato alla paziente ed ai con
giunti di questa;
3) quale infine quello consentito dagli aventi diritto. Orbene,
sul primo punto dovrebbe dirsi che l'intervento preventivato era
quello comunicato alla paziente, o meglio ai suoi congiunti che
sempre hanno fatto da tramite con costei, cioè l'asportazione dell'adenoma per via rettale: lo riferisce in denunzia la Rosanel
li Nausica per averlo appreso dal Moretti e dal Ponzalli (vedi
gli estremi dell'omicidio preterintenzionale, disponeva la trasmissione
degli atti alla Cassazione per la risoluzione dell'insorto conflitto di com
petenza; e la corte d'assise, dichiarata quindi competente, ha finito col
far propria la tesi del carattere preterintenzionale dell'illecito ascrivibile
al primario. Ed invero, una simile conclusione viene motivata sulla base
dei seguenti passaggi argomentativi: «l'imputato pose in essere consape volmente e volontariamente una condotta che sul piano giuridico inte
gra indubitabilmente ed oggettivamente la fattispecie criminosa della
lesione volontaria (art. 582), sussistendo con tutta evidenza gli estremi
dell'offesa all'integrità fisica della persona e dell'elemento intenzionale
richiesto, cioè il dolo generico. E poiché da tale delitto voluto ne è
conseguita, come effetto non voluto, la morte della paziente (...) ne
deriva la penale responsabilità del Massimo per il reato di omicidio
preterintenzionale». La corte, cosi argomentando, mostra di ritenere sufficiente, ai fini
dell'integrazione del dolo relativo al reato base (lesione personale), la
volontarietà in senso strettamente psicologico del fatto materiale: in al
tri termini, essa prescinde del tutto dal considerare se il dolo (pur sem
pre generico) del fatto-base debba inoltre comunque abbracciare la proie zione aggressiva della condotta, e cioè il c.d. animus laedendi. Invece, in quest'ultimo senso è orientata la dottrina la quale, nel fissare i criteri
per l'accertamento della preterintenzione nel delitto di cui all'art. 584
c.p., sottolinea che l'aggressione-base deve essere realizzata allo scopo di cagionare un danno alla persona (l'accertamento dell'elemento psico
logico deve, altresì', estendersi alla verifica dell'assenza dell'animus ne
fandi): cfr., per tutti, Patalano, I delitti contro la vita, Padova, 1984, 257 ss. e riferimenti ivi contenuti. Più in generale, per una rivisitazione
teorica e politico-criminale del modello delittuoso in questione, cfr. Ca
nestrari, L'illecito penale preterintenzionale, Padova, 1989.
Stante la controvertibile attribuibilità al primario chirurgo (peraltro — secondo la stessa ricostruzione della vicenda proposta in motivazio
ne — mai sfiorato, neppure di sfuggita, dal problema dei limiti del
consenso preventivamente ricevuto) di una vera e propria «volontà»
di danneggiare la paziente, si spiega l'originaria qualificazione del fatto
ad opera del giudice istruttore come omicidio colposo realizzato in vio
lazione dei limiti del consenso scriminante. Ma questo tipo di inquadra mento giuridico, proprio con riguardo ai casi di trattamento medico
arbitrario, non ha neppure in dottrina finora riscosso particolare favo
re: per accenni cfr. Ramacci, in Riv. it. medicina legale, 1983, 850;
più diffusamente, si veda Manna, Profili penalistici del trattamento
medico-chirurgico, Milano, 1984, 128 ss. (l'a. obietta che, anche a voler
ammettere l'estensibilità dell'eccesso alla sacriminante del consenso non
espressamente menzionata nell'art. 55 c.p., rsidua pur sempre un'in
compatibilità strutturale tra colpa professionale ed eccesso posto che
nella prima farebbe difetto la volizione dell'evento, la quale invece sa
rebbe presente nel secondo, essendo l'eccesso colposo una forma di col
pa c.d. impropria). Più in generale, per riferimenti ai criteri di valutazione della colpa
medica si veda la nota di Renda a Trib. Brindisi 5 ottobre 1989, in
Foro it., 1990, II, 273.
II. - La motivazione della sentenza dedica maggiore spazio al ruolo
del consenso del paziente, di cui viene con una certa enfasi sottolineata
l'importanza quale presupposto di liceità di un'attività medico-chirurgica esercitata nel rispetto di valori fondamentali della persona dotati di si
cura rilevanza costituzionale (con ogni probabilità, è questa accentuata
preoccupazione di «riaffermare» il valore del consenso che sta anche
alla base della scelta di privilegiare la fattispecie dell'omicidio preterin
tenzionale, quale paradigma criminoso che consente un trattamento pu nitivo comparativamente ben più rigoroso). E cioè, secondo la corte,
il consenso del paziente «è la condizione imprescindibile perché possa
legittimamente esercitarsi nei suoi confronti qualsiasi attività medico
chirurgica»; essendo espressione di un diritto personalissimo, esso (sal vo i casi dei minori e degli interdetti) «non può che spettare all'avente
diritto», e non può essere validamente sostituito da quello dei congiun
ti, essendo quello di congiunti concetto arbitrario anche a causa dei
suoi contorni sfuggenti e potendo, altresì, insorgere conflitti tra i pa
II Foro Italiano — 1991.
anche la conferma avanti al p.m.) ed ebbe a comunicarlo alla
sorella Elena la quale fa presente di aver interpellato quest'ulti mo per sapere se fosse possibile evitare l'intervento, ricevendo
ne risposta negativa. Lo dà per scontato il Moretti, pur negan do di aver parlato prima con i congiunti della Del Lago; lo
conferma il Ponzalli riferendo la decisione del prof. Massimo, al termine dell'esame rettoscopico, di voler praticare l'interven
to per via transanale.
Ma dato atto di ciò, la corte non può sottacere la presenza al riguardo di una vasta e profonda zona d'ombra che affaccia
inquietanti interrogativi che l'odierno dibattimento lungi dal chia
rire ha invece rafforzato ed ingigantito. (Omissis) Si noti, peraltro, che dalla nutrita serie di dichiarazioni fin
qui rese dall'imputato emerge in maniera inoppugnabile un da
to di fatto: che egli mai, in nessun momento della vicenda, an
che fin parecchio tempo dopo l'inizio del procedimento penale a suo carico, si pose, nemmeno di sfuggita, il problema del
consenso della paziente e, correlativamente, quello dei limiti en
tro cui egli era facoltizzato ad esercitare la propria attività. Lo si
renti stessi difficilmente resolubili in assenza di sicuri criteri di preva lenza (le predette affermazioni di principio trovano pieno riscontro, nel
l'ambito della dottrina penalistica, in quanto sostenuto da Mantovani, in Riv. it. medicina legale, 1980, 23; v. pure Manna, cit., 37).
Portando alle estreme conseguenze la ritenuta necessità di un consen
so reale e non fittizio, la corte giunge inoltre ad escludere la validità
di un consenso «presunto» anche rispetto ai casi in cui l'ammalato sia
nell'impossibilità (ad es. perché in stato di incoscienza da trauma o
perché sotto anestesia) di consentire: in questi casi l'attività medico
chirurgica rinvenirebbe la sua fonte di legittimazione nella diversa scri
minante dello stato di necessità. La valorizzazione del consenso del pa ziente nella molteplicità delle sue implicazioni induce, infine, l'organo
giudicante ad affermare il principio secondo cui il diritto di ciascuno
di disporre della propria salute non può non ricomprendere altresì' «il
diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il
suo corso anche fino alle estreme conseguenze». In quest'ultimo senso,
v., in dottrina, Mantovani, cit., 22 s.; Manna, cit., 69 ss.; in argo
mento, v., altresì, AA.VV., Trattamenti sanitari tra libertà e doverosi
tà, Napoli, 1983. Quanto invece all'ammissibilità di un consenso «pre
sunto», mentre la giurisprudenza esprime anche più in generale (fuori cioè dallo specifico settore sanitario) posizioni non univoche (in senso
affermativo, ad es., Cass. 16 giugno 1986, Di Vita, Foro it., 1987, II,
4, con nota di richiami; contra, Cass. 21 gennaio 1982, Maglione, id.,
Rep. 1983, voce Cause di non punibilità, n. 28), la dottrina è per lo
più orientata nel senso del suo riconoscimento: con specifico riguardo all'attività medico-chirurgica, cfr. Mantovani, cit., 23, limitatamente
ai casi in cui il paziente, a causa della malattia, sia incapace di prestare consenso e l'intervento del medico non potrebbe essere rinviato senza
esporre il soggetto a grave rischio; v. pure Bettiol-Pettoello Manto
vani, Diritto penale, Padova, 1986, 411; ma per la tesi che in questi casi sia preferibile il ricorso allo stato di necessità, v. Manna, cit.,
46; Riz, Medico, IV Responsabilità penale del medico, voce dz\VEnci
clopedia giuridica Treccani, Roma, 1990, 107. Nella letteratura penali
stica, in tema di consenso del paziente, v., altresì, Mazzacuva, in Riv.
it. medicina legale, 1984, 419 ss.; Del Corso, in Riv. it. dir. e proc.
pen., 1987, 536 ss.; per un quadro riepilogativo delle diverse posizioni,
v., da ultimo, Riz, cit., 8 ss. e letteratura ivi citata.
Nella giurisprudenza penale, cfr. di recente, con riferimento ad una
ipotesi di lesioni personali conseguenti a terapia odontoiatrica, Cass.
22 gennaio 1988, Zanardi, Riv. pen., 1989, 789 e massimata in Foro
it., Rep. 1989, voce cit., n. 22, secondo cui il conenso dell'avente dirit
to ha efficacia esimente solo se prestato volontariamente nella piena
consapevolezza delle conseguenze lesive, sempre che queste non si risol
vano in una menomazione permanente. In tema di consenso del paziente l'elaborazione giurisprudenziale è
comunque maggiore in ambito civilistico; per una casistica cronologica, cfr. Avecone, La responsabilità penale del medico, Firenze, 1981, 55
s. Nella dottrina civilistica, cfr., tra altri, Scalfì, Consenso e fiducia nel rapporto medico-paziente, in AA.VV., La responsabilità medica,
Milano, 1982, 135 ss.; Paradiso, Il dovere del medico di informare il paziente. Consenso contrattuale e diritti della persona, id., 139 ss.
In argomento, v., più di recente, e anche più in generale, AA.VV.,
La responsabilità medica in ambito civile, a cura di Fineschi, Milano,
1989. Sul problema di chi e sulla base di quali criteri debbano essere prese
le decisioni terapeutiche quando un paziente si trova in stato di inco
scienza irreversibile, va segnalato il recente intervento della Corte su
prema degli Stati uniti d'America, sentenza 25 giugno 1990, Foro it.,
1991, IV, 66, con note di Santosuosso e Ponzanelli.
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PARTE SECONDA
arguisce dal fatto che egli, prima dell'intervento chirurgico, non
ebbe alcun colloquio al riguardo né con la paziente né coi fami
liari di lei. Le contrarie asserzioni dell'imputato, che assume
di aver parlato con una delle figlie della Del Lago che gli aveva
chiesto il suo personale interessamento per l'ammalata, sono
state seccamente smentite dalle figlie della Del Lago, e non tro
vano conferma alcuna in nessuno dei medici del reparto, men
tre viene invece confermato che fu il Ponzalli durante la retto
scopia a chiamare il Massimo, che avrebbe dovuto eseguire l'in
tervento chirurgico, perché si potesse rendere conto dell'esatta
posizione dell'adenoma per meglio intervenire. Il Ponzalli rife
risce testualmente che, al termine dell'esame, il prof. Massimo
gli aveva detto che avrebbe praticato l'intervento chirurgico per via transanale, cioè senza aprire l'addome. Egli, pertanto, ave
va riferito tale circostanza ai parenti, ad una o ad entrambe
le figlie, sentendosi in dovere di rassicurarle e di far loro cono
scere le decisioni del primario che avrebbe operato. Tutto ciò
conferma appieno quanto riferito dalla Rosanelli Nausica e dal
la Rosanelli Elena e smentisce, ove mai ve ne fosse bisogno, le affermazioni del Massimo, a conferma di una prassi non cer
to inconsueta e a dir poco sconcertante, che vede l'ammalato,
in questo caso la povera Del Lago, confinato in un anonimo
letto di ospedale in attesa che vengano eseguite «decisioni», che
pur riguardano direttamente suoi beni primari quali la salute
e l'integrità fisica, decisioni alle quali egli è restato totalmente
estraneo e che spesso, come nel caso in esame, ha appreso solo
per interposta persona. A riprova di ciò sta il fatto che dell'esistenza dello scoglio
rappresentato dal mancato consenso del malato ad un interven
to di amputazione e della sua necessità, l'imputato se ne rese
concretamente conto solo dopo il primo interrogatorio, cosic
ché nel secondo si trovò costretto ad inventare la storia della
fantomatica emorragia, poi ribadita ed arricchita con nuovi par ticolari fino all'odierno processo.
Non spetta certo alla corte esprimere giudizi di carattere mo
rale su tale disinvolto tipo di comportamento, né è il caso di
indulgere in troppo facili generalizzazioni, pur essendo esperienza comune a tutti che troppo spesso nelle strutture sanitarie pub bliche le innumerevoli deficienze e storture portano ad uno stra
volgimento dei rapporti tra il personale curante e i pazienti, con tutto danno di questi ultimi. Ciò che invece in questa sede
deve essere nettamente riaffermato è che l'attività medico
chirurgica, sicuramente da considerare di altissimo valore socia
le, e dunque preziosa, insostituibile e meritoria, deve tuttavia
svolgersi col rispetto di alcuni fondamentali principi, al di là
dei quali essa sconfina nell'illecito che è poi, nella specie, lesio
ne di alcuni beni fondamentali dell'individuo, quali il diritto alla salute ed all'integrità fisica, trasformandosi cosi' in aberra
zione, sopruso, violenza.
Tali beni trovano proprio nella Carta costituzionale la massi
ma consacrazione e tutela là ove si stabilisce l'inviolabilità della
libertà personale (art. 13, 1° comma), il diritto alla salute e
il diritto di non subire trattamenti sanitari obbligatori al di fuo
ri dei casi previsti specificamente dalla legge (art. 32, 1° e 2°
comma). In quest'ambito deve poi anche inquadrarsi il disposto dell'art. 5 c.c., regolante gli atti di disposizione del proprio cor
po, che, pur se collocato in un contesto normativo privatistico, deve nondimeno considerarsi espressione di un principio gene rale dell'ordinamento ed avente dunque valore di norma impe rativa ed inderogabile.
Orbene la corte, ben consapevole delle numerose dispute giu
risprudenziali e soprattutto dottrinarie sorte e tuttora in atto
circa il fondamento della liceità dell'attività medico-chirurgica, ritiene che non si possa e non si debba, come ha invece fatto
ad es. il g.i. (vedi ordinanza di rinvio a giudizio 24 maggio 1989), prendere posizione per l'una o l'altra tesi, non solo per ché ciò non è strettamente necessario ai fini della presente deci
sione, che non ha e non può avere, neppure incidentalmente, intenti didascalici, ma anche perché in tal modo si verrebbero
a creare, sia pur indirettamente, per il medico e per il chirurgo in particolare, possibili condizionamenti e remore psicologiche all'esercizio della propria attività in dipendenza del variare dei
sempre opinabili indirizzi giurisprudenziali e dottrinari, con danno
in ultima analisi proprio di coloro che si vorrebbe tutelare, cioè
gli ammalati.
Il Foro Italiano — 1991.
È sufficiente dunque constatare che dal contesto delle norme
sopra richiamate, soprattutto da quelle di rango primario con
tenute nella Carta costituzionale, emerge in maniera evidente
un principio basilare al quale l'attività del medico deve ispirarsi
e, comunque, sottomettersi: il consenso del malato. Ciò che,
in parole assai semplici, significa poi che nulla il medico può fare senza il consenso del paziente o addirittura contro il volere
di lui, il che, anche, corrisponde ad un principio personalistico di rispetto della libertà individuale e ad una configurazione del
rapporto medico-paziente che bene la difesa di parte civile ha
individuato nella figura del paziente come portatore di propri diritti fondamentali, e dunque come uomo-persona, uomo-valore
e non come uomo-cosa, uomo-mezzo, soggetto a strumentaliz
zazioni anche odiose per fini che sono stati spesso ammantati
di false coperture di progresso scientifico o di utilità collettiva.
Giustamente, viene ricordato come i principi costituzionali in
materia abbiano trovato concreta applicazione in leggi ordina
rie quali la 1. 180/78 in materia di istituti psichiatrici e la 1. 833/78 istitutiva del servizio sanitario nazionale che hanno po sto il consenso del paziente quale elemento centrale del sistema.
Dunque, il consenso del paziente è la condizione imprescindi bile perché possa legittimamente esercitarsi nei suoi confronti
qualsiasi attività medico-chirurgica e ciò, ovviamente, con le do
vute eccezioni previste dalla legge (es. vaccinazioni obbligatorie) e richiamate anche dall'art. 32 Cost. Tale consenso non può che essere reale, cioè dato espressamente, e mai presunto per le ragioni che si diranno innanzi. Esso poi, essendo un diritto
personalissimo, non può che spettare all'avente diritto, ossia
all'ammalato, salvo i casi di rappresentanza legale tassativamente
stabiliti (minori e interdetti), non potendo essere validamente
sostituito da quello dei congiunti. Esattamente, infatti, si pone in luce l'arbitrarietà del concetto di congiunti e la difficoltà di
delimitazione di una categoria dai contorni cosi sfuggenti, senza
dire poi che, in caso di conflitto tra gli stessi, sarebbe difficile
per non dire impossibile stabilire criteri di prevalenza degli uni
o degli altri, mentre decisivo appare infine l'argomento del pos sibile interesse contrario alla salute del paziente che potrebbero avere taluni o tutti i congiunti in casi particolari.
Non può essere invece accolto, a parere della corte, il princi
pio della validità del consenso presunto tutte le volte che sia
materialmente impossibile per il paziente manifestare il consen
so reale e cosi', ad esempio, quando l'interessato si trovi in stato
di incoscienza da trauma ovvero, ed è il caso che interessa l'o
dierno processo, sotto anestesia durante un intervento operato
rio, quando si presenti inopinatamente l'ugenza di praticare un
intervento diverso. Pur apprezzando nella subiecta materia l'a
cutezza e la compiutezza dell'esposizione della difesa di parte
civile, che subordina la validità del consenso presunto alla sus
sistenza di precise condizioni (presumibilità sulla base della co
mune esperienza che il soggetto se avesse potuto avrebbe pre stato il consenso; mancanza di una pregressa volontà contraria
espressamente manifestata; urgenza ed indifferibilità dell'inter
vento se non con grave rischio della salute del paziente; utilità
terapeutica, cioè proporzione tra i benefici per il paziente e ri
schi, nel senso che i primi debbono essere a priori quanto meno
superiori ai secondi) la corte non può che esprimere un giudizio
negativo in ordine alla possibilità della configurazione del con
senso presunto quale possibile causa di legittimazione dell'atti
vità medico-chirurgica. Ciò non tanto per motivi di principio che hanno dato adito ad annose dispute, tuttora non sopite, tra giurisprudenza e dottrina, quanto per un motivo di ordine
eminentemente pratico in una materia in cui la semplicità e la
chiarezza delle regole devono essere anteposte alle dispute dia
lettiche. È evidente infatti che se, ad es. in una situazione di
pronto-soccorso, si dovesse costringere il medico il quale si tro
va davanti un traumatizzato grave, ovvero il chirurgo che, nel
corso di un intervento chirurgico su un tumore ritenuto inizial
mente benigno, constata la presenza di una metastasi diffusa, ad accertarsi anche della volontà presunta del paziente, nonché
dell'assenza di una sua pregressa volontà contraria, ne conse
guirebbero due inevitabili nefaste conseguenze: che, o si perde rebbe del tempo prezioso, ritardando e magari rendendo inutili
le necessarie terapie, ovvero si costringerebbe il medico, per ti
more di addossarsi gravi responsabilità, ad astenersi dall'inter
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GIURISPRUDENZA PENALE
venire, con i danni irreparabili per la salute e la vita stessa del
paziente che sono facili da immaginare. È evidente invece che nei casi ipotizzati di consenso presunto
opera un'altra scriminante, quella dello stato di necessità ipotiz zata dall'art. 54 c.p. che dunque facoltizza il medico ad interve
nire in presenza del pericolo attuale di un danno grave alla per
sona, e dunque alla salute ed all'integrità fisica del paziente, e sempre che il fatto, cioè l'intervento del medico, sia propor zionato al pericolo. Nessuno meglio del medico, infatti, può essere in grado di valutare con immediatezza i dati salienti di
una situazione clinica che si presenta con caratteristiche di ur
genza tali da porre a repentaglio la salute e la vita stessa del
paziente. Ed è ovvio che in tale valutazione il medico deve esse
re lasciato assolutamente libero con la propria coscienza per ciò che riguarda le cure da prestare e dunque, in particolare,
per la scelta dell'intervento da praticare e del modo di procede re. Ciò non vuol dire peraltro che il paziente sia lasciato al
totale arbitrio del sanitario, visto che l'attività di costui dovrà
sempre rispondere ai fondamentali criteri dell'osservanza dei prin
cipi della scienza medica e della proporzione tra benefici otteni
bili e rischi per il paziente, talché non potrà mai, evidentemen
te, sacrificarsi un bene maggiore di quello che si intende salva
guardare. Per fare un esempio concreto ed abbastanza consueto,
senza voler ricorrere ai soliti esempi eclatanti, il chirurgo che,
praticando un intervento di asportazione della cistifellea, si tro
vasse in presenza di un'appendice infiammata con pericolo di
peritonite, bene agirebbe asportandola, anche senza il consenso
del paziente, posto che la situazione imprevista in cui egli è
venuto a trovarsi lo pone davanti ad una situazione potenzial mente di grave e ravvicinato pericolo per il paziente e la resezio
ne. di un viscere di modesta importanza non rappresenta per
quest'ultimo una perdita invalidante. Diversamente, il chirurgo
che, praticando l'asportazione di nodulo benigno dal seno di
una paziente, arrivi ad asportare l'intera mammella per preveni re future ed ipotetiche recidive, non solo non può valersi della
scriminante dello stato di necessità, di cui difettano con tutta
evidenza i presupposti, ma viola anche i principi elementari del
la buona arte medica, provocando cosi alla paziente una lesione
invalidante che deve essere penalmente sanzionata.
Se si esamina il caso per cui è processo alla luce delle consi
derazioni sopra esposte è evidente che, se davvero si fosse veri
ficata la massiccia emorragia intraoperatoria descritta dall'im
putato nel secondo interrogatorio avanti al g.i., si sarebbe forse
potuto discutere, sulla base delle ulteriori ammissioni fatte dal
Massimo all'odierno processo, se causa della stessa fosse stata
o meno l'imperizia del chirurgo, in un quadro quindi in cui
poteva ipotizzarsi la fattispecie dell'omicidio colposo, ma ben
difficilmente si sarebbe potuta negare la necessità dell'interven
to di amputazione praticato dal prevenuto posto che, in quella
particolare ed imprevista situazione, esso era verosimilmente l'u
nico mezzo idoneo a salvaguardare la vita del paziente. Fatte queste necessarie premesse, deve, pertanto, concludersi
che sul piano processuale la ricostruzione della vicenda appare a questo punto completa e può essere riassunta nei termini se
guenti: il chirurgo aveva avuto, sia pure per interposta persona e cioè dalle figlie della Del Lago che avevano funzionato quali nuncii della volontà della madre, il consenso all'effettuazione
di un intervento chirurgico per via transanale che, per ciò che
risulta dal vaglio probatorio, era stato in effetti intrapreso: se
nonché l'esplorazione del retto e i verosimili (come si è visto), anche se non ammessi dall'imputato, tentativi di avvicinare la
sede dell'adenoma per poi passare alla sua resezione, erano ri
sultati infruttuosi. A tal punto il chirurgo avrebbe dovuto evi
dentemente abbandonare ogni tentativo di proseguire l'intervento,
astenendosi dall'eseguirne un altro non rischiesto né autorizzato
e macroscopicamente devastante, ponendo, successivamente, la
paziente a conoscenza della situazione clinica in cui versava,
prospettandole il tipo di intervento da eseguire e le sue conse
guenze e richiedendole il necessario consenso. Ciò tanto più per
ché, come si è già visto, la Del Lago, pur essendo in condizioni
generali precarie, non versava però affatto in immediato perico lo di vita, mentre per gli stessi motivi e per l'età avanzata, la
portata estremamente cruenta dell'intervento avrebbe potuto fa
cilmente avere, come in effetti ebbe, conseguenze letali. È infat
ti di tutta evidenza che nel diritto di ciascuno di disporre, lui
Il Foro Italiano — 1991.
e lui solo, della propria salute ed integrità personale, pur nei
limiti previsti dall'ordinamento, non può che essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia
segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze: il che, a ragione, non può essere considerato il riconoscimento di un
diritto positivo al suicidio, ma è invece la riaffermazione che
la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente
al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall'arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell'avente dirit
to, trattandosi di una scelta che, come bene ha detto la difesa
di parte civile, riguarda la qualità della vita e che, pertanto, lui e lui solo può legittimamente fare. Nella specie, doveva esse
re lasciato alla libera scelta della Del Lago se trascorrere i non
moltissimi giorni di una vita ormai non lontana dalla fine in
maniera fisicamente e psicologicamente dignitosa, ovvero subi
re il trauma di un intervento chirurgico cruento e devastante,
con scarsissime probabilità di riuscita quoad vitam, con degen za ospedaliera lunghissima, dolorose medicazioni, sconvolgimento delle funzioni naturali, con applicazione di un ano artificale,
in una situazione quindi fisicamente dolorosa e psicologicamen te umiliante.
È noto invece quel che accadde: il Massimo senza minima
mente curarsi dei limiti del consenso ricevuto, senza che si fosse
verificata alcuna situazione di emergenza, senza che la situazio
ne clinica della paziente lo rendesse in alcun modo necessario,
non solo non decise di sospendere e rimandare l'intervento, ma,
all'opposto, senza esitazione alcuna e senza consultarsi minima
mente con gli altri membri dell 'équipe, cosi come risulta dalle
già viste deposizioni di costoro, praticò alla paziente un inter
vento che non solo ella non aveva consentito ma che, per tutti
i motivi già detti, era chiaramente contro la volontà di lei: a
dimostrazione di ciò basterebbe la sua violenta reazione nel ve
dersi ridotta in quello stato («Processo, processo!»), riferita dalla
figlia Nausica in denunzia, che ha una forza espressiva migliore di qualsiasi argomento. Praticando dunque alla paziente un in
tervento da questa non autorizzato e non voluto, al di fuori
di qualsiasi situazione di necessità, con conseguenze per lei estre
mamente cruente ed invalidanti, tali da sconvolgere l'equilibrio
psicofisico e le naturali funzioni dell'ammalata, l'imputato pose in essere consapevolmente e volontariamente una condotta che
sul piano giuridico integra indubitabilmente ed oggettivamente la fattispecie criminosa della lesione volontaria (art. 582 c.p.), sussistendo con tutta evidenza gli estremi dell'offesa all'integri
tà fisica della persona e dell'elemento intenzionale richiesto, cioè
il dolo generico. E poiché da tale delitto voluto ne è conseguita,
come effetto non voluto, la morte della paziente, ed essendo
tale evento, per motivi già illustrati, legato con nesso causale
alla condotta integrativa delle lesioni, ne deriva la penale re
sponsabilità del Massimo per il reato di omicidio preterintenzio nale addebitatogli.
La corte non può, poi, neppur porsi il problema della conce
dibilità al prevenuto dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 1, c.p.
ed anzi resta sorpresa del fatto che il p.m., da nessuno sollecita
to, si sia posto da sé tale particolare problema: quanto si è
detto finora dimostra in maniera evidente che il Massimo ha
impostato il suo rapporto con la paziente su un piano di assolu
to disinteresse per l'incolumità e la salute di costei, che ha trat
tato la povera Del Lago non come persona, ma come cosa di
cui si abbia la piena e totale signoria e disponibilità, esercitando
nei suoi confronti un vero e proprio ius vitae necisque. Quali
siano poi i sottostanti motivi che hanno ispirato tale condotta,
se essi siano quelli più volte con forza ribaditi dalla difesa di
parte civile, e cioè di esibizione narcisistica delle proprie capaci
tà davanti ad uno stuolo di reverenti spettatori, medici, tiroci
nanti, studenti e simili, su un soggetto che aveva tutte le carat
teristiche per fungere da cavia, ovvero altri non confessati ma
che il «buco nero» già menzionato esistente nella difesa del pre
venuto lascia forse intuire, non è cosa che, in mancanza di pre
cise contestazioni sul punto, possa rientrare tra gli aspetti pro
cessuali che devono essere accertati dai giudici della corte, i quali,
peraltro, non possono esimersi dal constatare che, per le ragio
ni fin qui esposte, nulla lascia, neppur lontanamente, presume
re che l'agire dell'imputato sia stato ispirato da motivi di parti
colare valore morale o sociale.
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PARTE SECONDA
Tutto ciò riverbera poi gli effetti sulla possibilità di conces
sione delle attenuanti generiche di cui il prevenuto appare larga mente immeritevole, oltreché per le ragioni dette, anche per il
disivolto e sleale comportamento processuale culminato con la
chiamata a sostegno dei suoi falsi assunti di due testi delle cui
qualità si è già detto. Unico motivo dunque che possa giustifi care la concessione delle attenuanti generiche, al di là delle non
sempre chiare argomentazioni del p.m. sul punto, è la sostan
ziale incensuratezza dell'imputato, non potendo poi darsi il ben
ché minimo rilievo all'asserita pendenza a suo carico di altri
procedimenti penali per fatti presuntivamente legati ad ipoteti che colpe professionali del prevenuto.
Ciò posto ed equamente valutati gli elementi tutti di cui al
l'art. 133 c.p., giusta pena per l'imputato si stima quella di
anni sei mesi otto di reclusione (anni 10-62 bis = anni 6 mesi
8), con il carico delle spese processuali e di custodia cautelare
se dovute.
L'imputato va inoltre condannato al risarcimento danni ver
so le costituite parti civili nella misura che sarà liquidata in se
parata sede, oltre alla rifusione alle stesse parti civili delle spese di onorari di costituzione e difesa per questo grado del giudizio che si liquidano in lire 3.019.800 per la parte civile Rosanelli
Nausica e lire 2.509.900 per la parte civile Conti Leda.
Alla condanna segue la pena accessoria dell'interdizione per
petua dai pubblici uffici.
TRIBUNALE DI ROMA; ordinanza 12 ottobre 1990; Pres. Sa
raceni; imp. Martignetti.
TRIBUNALE DI ROMA;
Stupefacenti e sostanze psicotrope — Dose giornaliera media — Determinazione — Sanzione penale — Questione non ma
nifestamente infondata di costituzionalità (Cost., art. 3, 25; 1. 22 dicembre 1975 n. 685, disciplina degli stupefacenti e so
stanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei rela
tivi stati di tossicodipendenza, art. 71, 72, 72 quater, d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309, testo unico delle leggi in materia di
disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzio
ne, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, art. 73, 75, 78).
Non è manifestamente infondata la questione di legittimità co
stituzionale degli art. 71, 72 e 72 quater /. 685/75 fora art.
73, 75 e 78 d.p.r. 309/90), nella parte in cui prevedono la
sanzione penale per la detenzione di sostanze stupefacenti in
quantità superiore alla dose giornaliera media, attribuendo
di fatto all'autorità amministrativa l'individuazione della so
glia di punibilità, in riferimento agli art. 3 e 25 Cost. (1)
Tratto a giudizio direttissimo per rispondere del reato in epi
grafe, Martignetti Romeo, dopo la convalida dell'arresto, ri
chiedeva ai sensi dell'art. 444 c.p.p., tramite i suoi difensori,
l'applicazione della pena nella misura di anni uno mesi quattro
(1) L'ordinanza invoca, a sostegno della questione sollevata, i princi pi di ragionevolezza, di offensività del reato e di legalità, affermando in particolare, su tale ultimo punto, che la norma di legge primaria — in bianco — è priva dei necessari criteri di specificazione ai fini della determinazione dei quantitativi massimi, e quindi il decreto mini steriale di attuazione n. 186 del 12 luglio 1990 finisce in concreto, e contro la riserva di legge di cui all'art. 25 Cost., con lo stabilire i termi ni di punibilità in materia.
Specificamente in tal senso muove, sollevando questione analoga, Trib. Camerino 11 febbraio 1991, Antolini, inedita.
Sulla nuova normativa in materia di stupefacenti, e segnatamente sul l'attenuante del fatto di lieve entità, App. Genova 28 settembre 1990 e Trib. Genova 21 settembre 1990, Foro it., 1991, II, 31, con nota di richiami.
Il Foro Italiano — 1991.
di reclusione e lire duemilionitrecentomila di multa (pena base
anni tre e lire cinque milioni, ridotta come sopra per effetto
di attenuanti generiche e diminuente ex art. 444 cit.). In appli cazione della sentenza della Corte costituzionale 313/90 {Foro
it., 1990, I, 2385), la richiesta veniva rigettata per incongruità della pena. Si procedeva quindi nelle forme ordinarie.
A conclusione del dibattimento, il tribunale ritiene di dover
rimettere a codesta corte la questione di legittimità costituziona
le degli art. 71, 72 e 72 quater 1. 22 dicembre 1975 n. 685 sicco
me modificata dalla 1. 26 giugno 1990 n. 162 (corrispondenti,
rispettivamente, agli art. 73, 75 e 78 t.u. 9 ottobre 1990 n. 309), in relazione agli art. 3 e 25 Cost. Ad avviso del collegio, infatti, l'art. 71 viola le due citate norme costituzionali nei limiti in
cui sottopone a sanzione penale la detenzione, in quantità supe riori alla «dose media giornaliera» (dmg), di sostanze stupefa centi destinate al consumo.
Sul punto della punibilità del consumatore di sostanze stupe facenti la 1. 162/90 ha radicalmente modificato la disciplina pre
vigente. La 1. 685/75 configurava, infatti, rispetto alla detenzio
ne, un reato di pericolo presunto (art. 71) e un reato di pericolo concreto (art. 72). La detenzione di droga, cioè, era punita solo
in quanto comportava il pericolo (presunto nell'art. 71 e da
provare nell'art. 72) di una destinazione allo spaccio e costitui
va quindi una condotta potenzialmente lesiva del bene protetto dalle citate norme incriminatrici. Il consumo di stupefacenti,
invece, di per sé non era considerato reato.
Il principio sopra enunciato discendeva con evidenza non so
lo dalla non punibilità della detenzione attuale di «modica quan tità» di sostanza stupefacente destinata al consumo personale, ma anche, e soprattutto, dalla non punibilità del consumo pre
gresso quale che fosse la quantità di droga consumata. Infatti, la ratio della non punibilità della detenzione pregressa di quan tità anche non modiche di droga effettivamente consumata, san
cita nella seconda parte del 2° comma dell'art. 80 1. 685/75,
risiedeva nella concreta insussistenza del pericolo di spaccio ri
velata dall'effettivo consumo (cfr. Trib. Roma 27 novembre 1987,
id., 1988, II, 388; Cass., sez. I, 1° dicembre 1986, Rasulo, id.,
Rep. 1988, voce Stupefacenti, n. 109). E questo era anche il
pensiero di codesta corte che, nella sentenza n. 170/82 (id., 1982,
I, 2990), aveva affermato che «nel punire l'accumulazione di
quantità di stupefacenti, anche quando se ne possa ipotizzare la destinazione ad uso personale, il legislatore ha avuto di mira
l'oggettiva pericolosità della condotta... L'argomento tratto dal
l'art. 80 della legge secondo cui non vengono puniti coloro che
abbiano in passato detenuto quantità anche non modiche di so
stanze stupefacenti di cui sia stato accertato l'uso personale, convalida quanto appena detto. È infatti evidente che in questo
caso, già esauritasi l'azione, è cessata altresì' quella pericolosità insita invece nella detenzione attuale».
La 1. 162/90 rovescia questa impostazione e punisce con la
sanzione penale la detenzione di sostanze stupefacenti indipen dentemente da una situazione di pericolo — concreto o presun to — di destinazione allo spaccio. Sarebbe invero palesemente
irragionevole presumere — in maniera assoluta — che la deten
zione di una quantità superiore al fabbisogno quotidiano di un
consumatore «medio» — calcolato peraltro con i criteri arbitra
ri e restrittivi di cui si dirà — integri il pericolo di destinazione allo spaccio. L'esperienza giudiziaria dimostra al contrario che
di regola i consumatori, specie delle droghe c.d. leggere, si ri
forniscono di quantità superiori al fabbisogno giornaliero, an
che per evitare i rischi connessi ai quotidiani contatti con il mon
do del traffico.
A differenza di quanto accadeva nella 1. 685/75 con la «mo
dica quantità» — la cui nozione giurisprudenziale consolidata
(v., da ultimo, Cass. sez. VI, 23 novembre 1988, Felicarie, id.,
Rep. 1989, voce cit., n. 100) corrispondeva alla quantità che
consentiva «ad un medio assuntore di soddisfare le sue necessi
tà per due/tre giorni» — la «dose media giornaliera» non costi
tuisce un parametro ragionevole, corrispondente cioè all 'id quod
plerumque accidit, su cui possa attendibilmente fondarsi una
prognosi legale di pericolo di spaccio. Pertanto, ove il legislato re del 1990 avesse inteso configurare la fattispecie di cui all'art.
71 come reato di pericolo (di spaccio), sarebbe incorso in un
palese vizio di irragionevolezza, per evidente mancanza di quel la «oggettiva pericolosità della condotta» che, secondo la citata
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