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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sentenza 18 ottobre 1990; Pres. Sechi, Est. Ognibene; imp....

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sentenza 18 ottobre 1990; Pres. Sechi, Est. Ognibene; imp. Massimo Source: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1991), pp. 235/236-243/244 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23186357 . Accessed: 28/06/2014 14:05 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.220.202.45 on Sat, 28 Jun 2014 14:05:06 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sentenza 18 ottobre 1990; Pres. Sechi, Est. Ognibene; imp. Massimo

sentenza 18 ottobre 1990; Pres. Sechi, Est. Ognibene; imp. MassimoSource: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1991), pp.235/236-243/244Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23186357 .

Accessed: 28/06/2014 14:05

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PARTE SECONDA

plesso del sistema informativo in dotazione ad Albagiochi, enti

tà che è logico poter unitariamente valutare nella sua funzione

di componenti interagenti), quanto anche, come ben rileva la

pronuncia del pretore, l'alterazione fisico-chimica-magnetica del

supporto materiale su cui erano memorizzati.

In altri termini, e come indicato dal perito e ripreso dalla

motivata ed attenta decisione impugnata, la cancellazione —

come nel caso di specie — di un nastro si sostanzia nella modi

fica fisica del supporto magnetico, mediante la variazione

chimico-fisica delle tracce conseguenti alla memorizzazione del

l'informazione, allo stesso modo che integra certamente l'atto

di danneggiamento una cancellatura di uno scritto o, forse me

glio, l'esposizione ala luce di una pellicola fotografica (o la can

cellazione, come ha rilevato il p.g. all'odierna udienza, di un'in

cisione su nastro di un pezzo di musica).

Invero, secondo l'esatto rilievo del perito, non è oggetto della

decisione il programma informatico, quale opera dell'ingegno, ma la sua materializzazione, vale a dire le informazioni binarie

che lo costituiscono, quali tracce impresse su un supporto capa ci di restituire il dato memorizzato a seguito del comando codi

ficato. Come anche il più astratto teorema matematico cala nel

la realtà delle cose quando è rappresentato graficamente su una

pagina, cosi il sistema del computer trova la sua dimensione

fisica nelle tracce impresse sui floppy o sulle bobine apposite. La sentenza impugnata ha richiamato i due precedenti di me

rito (Trib. Firenze 27 gennaio 1986, Foro it., 1986, II, 359 e

Trib. Torino 12 dicembre 1983, id., Rep. 1986, voce Danneg

giamento, n. 5 e voce Esercizio arbitrario delle proprie ragioni, n. 10, di cui vi sono in atti le motivazioni, con note di dottri

na), per cui anche un software può essere oggetto di danneggia mento e sabotaggio, nelle accezioni penalistiche rilevanti.

Per altro verso appare indiscutibile che l'azione del Vincenti

rese inservibile il bene: «l'intervento ha anche cancellato tutte

le copie esistenti del programma originale, rendendo impossibi le il suo ripristino», secondo il responso del perito. Il program ma sostituito sul calcolatore non fu uguale a quello precedente ma una sua versione (condizionata dal marchingegno a tempo, immesso clandestinamente dal Vincenti, istigato — come da co

stui ammesso — dal Cortis) a funzionalità ridotte.,

Infondata risulta anche l'altra censura difensiva, che reclama

l'assenza di altruità del bene danneggiato. Il quesito non va posto, infatti, con riferimento al profilo

astratto, sviluppato dalla difesa nei motivi, quanto con esame

della situazione di fatto, la quale contempla — ricalcando gli indiscutibili rilievi della impugnata sentenza — anche la distru

zione di programmi su cui la società, a cui apparteneva il Vin

centi (Cortis & Lentini s.r.l.), non poteva vantare alcun diritto

(basi di dati e programmi applicativi). Il Vincenti ha confessa

to, invero, che — nel tentativo (dominato dalla fretta) di impe dire la paventata diffusione dei programmi di spettanza della

Cortis & Lentini — ha attuato una manovra ablativa non sol

tanto dei programmi 'sorgente', ma anche di ogni altra memo

rizzazione, che non poteva sicuramente essere rivendicata dalla

ditta di manutenzione.

Infatti, l'operazione danneggiatrice del Vincenti ha cancellato

dai nastri utilizzati dalla ditta Albagiochi non soltanto i sistemi

'sorgente', ma tutto il corredo informatico della parte lesa, cer

tamente estraneo alla sfera di proprietà della ditta di assistenza

e manutenzione, costituito dai programmi applicativi e dai dati

base, su cui si articolava il compendio della contabilità dell'a

zienda cliente.

Il pretore, d'altro canto, ha esaurientemente dimostrato che

non vi sono prove del dominio sui programmi oggetto dell'in

tervento del Vincenti da parte della ditta Cortis & Lentini s.r.l., mancando traccia contrattuale scritta e certa, e perché i testi

moni Pizzo e Berruto indicano, semmai, un acquisto in capo ad Albagiochi s.p.a. della proprietà dei programmi informatici,

negozio (e la concorde dichiarazione testimoniale supplisce ad

ogni documentazione convenzionale o fiscale) conclusosi in epoca antecedente al sopravvenire del Cortis alla detta società che, dal canto suo — oltretutto — mai richiese ad Albagiochi s.p.a. alcun canone per l'uso dei citati programmi.

Con il terzo motivo d'appello la difesa protesta la carenza

di prova circa l'esatta rappresentazione degli imputati sull'al

truità del bene: osservazione che si scredita, una volta:

Il Foro Italiano — 1991.

— dimostrata (per la confessione dei suoi protagonisti) la con

sapevole persecuzione degli intenti diretti a sottrarre l'utilizzo

pieno e funzionale del sistema in dotazione ad Albagiochi (si rammenti anche il dispositivo «a tempo», inserito clandestina

mente dal Vincenti e che rendeva grandemente diminuita la fun

zionalità dell'apparato informatico); — richiamata la certa rappresentazione che i dati-base ed i

programmi applicativi non potevano ascriversi al patrimonio della

ditta di assistenza e manutenzione; — rammentato che il Cortis (che forni consigli operativi al

Vincenti consapevole dei risultati alternativi da ottenere, secon

do la sostanza delle sue ammissioni) era l'amministratore unico

della società beneficiaria dell'operazione killer (come giustamente si esprime il pretore), a giorno, pertanto (salva una prova con

traria che non è stata data) della situazione giuridica e contrat

tuale che la legava ai suoi clienti.

Non sembrano proponibili le riserve espresse dal quarto mo

tivo d'appello, esposto in linea meramente eventuale, e proteso ad evitare un richiamo alla figura dell'esercizio arbitrario. È

fuori di luogo il richiamo all'art. 392 c.p.

Manca, infatti, il presupposto di un qualsiasi diritto o aspet tativa lesa per la quale, anche in via putativa, la Cortis & Lenti

ni avrebbe potuto rivolgersi al giudice. Non sì era verificata querelle di spese non pagate (o non tem

pestivamente saldate), ovvero una contestazione seria e conclu

dente di un inadempimento: la dichiarazione degli imputati è

nel senso che la loro operazione fu protesa ad evitare un futuro

e probabile (ma non dimostrato) pericolo di diffusione presso la concorrenza (a cui Albagiochi s.p.a. aveva minacciato di ri

volgersi in prosieguo) dei programmi 'sorgente' ritenuti di pro

prietà della ditta di manutenzione e di assistenza, dimostra che

a nessun titolo può essere invocata la fattispecie dell'esercizio

arbitrario delle proprie ragioni. Per queste ragioni si riscontra la sussistenza di un illecito pe

nalmente rilevante e conseguentemente di un danno ex delieto

in capo alla parte civile costituita. Pertanto, pur dichiarato estinto

il reato ascritto ai prevenuti, si conferma la condanna e le altre

statuizioni già assunte dal giudice di primo grado in punto inte

ressi civili, disponendo, per il presente grado, l'obbligo degli

imputati alla rifusione a favore della parte civile delle spese per la continuata assistenza, spese che si liquidano in lire 1.000.000, oltre ad Iva e Cpa.

CORTE D'ASSISE DI FIRENZE; sentenza 18 ottobre 1990; Pres. Sechi, Est. Ognibene; imp. Massimo.

CORTE D'ASSISE DI FIRENZE;

Omicidio e infanticidio — Omicidio preterintenzionale — Fatti

specie di intervento chirurgico arbitrario (Cod. pen., art. 50,

584).

Risponde di omicidio preterintenzionale il primario chirurgo ospe daliero il quale, nel sottoporre un'anziana paziente ad inter

vento operatorio, anziché realizzare la programmata asporta zione transanale di un adenoma villoso, abbia senza previo consenso e in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche pro ceduto all'asportazione totale addominoperineale del retto, pro vocando a due mesi di distanza il decesso della donna quale

conseguenza dell'intervento estremamente traumatico e

cruento. (1)

(1) Non constano precedenti. I. - La qualificazione giuridico-penale dell'intervento chirurgico arbi

trario in questione non è risultata pacifica: il giudice istruttore aveva

disposto il rinvio a giudizio in ordine al delitto di omicidio colposo commesso in violazione dei limiti del consenso scriminante (art. 55 c.p.); il Tribunale di Firenze, ravvisando nel corso del dibattimento invece

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GIURISPRUDENZA PENALE

(Omissis). Proseguendo nell'analisi della materia processuale e stabilito dunque che si era deciso di procedere a intervento

chirurgico, si pone un triplice problema:

1) accertare quale tipo di intervento chirurgico fosse stato

preventivato;

2) quale sia stato quello comunicato alla paziente ed ai con

giunti di questa;

3) quale infine quello consentito dagli aventi diritto. Orbene,

sul primo punto dovrebbe dirsi che l'intervento preventivato era

quello comunicato alla paziente, o meglio ai suoi congiunti che

sempre hanno fatto da tramite con costei, cioè l'asportazione dell'adenoma per via rettale: lo riferisce in denunzia la Rosanel

li Nausica per averlo appreso dal Moretti e dal Ponzalli (vedi

gli estremi dell'omicidio preterintenzionale, disponeva la trasmissione

degli atti alla Cassazione per la risoluzione dell'insorto conflitto di com

petenza; e la corte d'assise, dichiarata quindi competente, ha finito col

far propria la tesi del carattere preterintenzionale dell'illecito ascrivibile

al primario. Ed invero, una simile conclusione viene motivata sulla base

dei seguenti passaggi argomentativi: «l'imputato pose in essere consape volmente e volontariamente una condotta che sul piano giuridico inte

gra indubitabilmente ed oggettivamente la fattispecie criminosa della

lesione volontaria (art. 582), sussistendo con tutta evidenza gli estremi

dell'offesa all'integrità fisica della persona e dell'elemento intenzionale

richiesto, cioè il dolo generico. E poiché da tale delitto voluto ne è

conseguita, come effetto non voluto, la morte della paziente (...) ne

deriva la penale responsabilità del Massimo per il reato di omicidio

preterintenzionale». La corte, cosi argomentando, mostra di ritenere sufficiente, ai fini

dell'integrazione del dolo relativo al reato base (lesione personale), la

volontarietà in senso strettamente psicologico del fatto materiale: in al

tri termini, essa prescinde del tutto dal considerare se il dolo (pur sem

pre generico) del fatto-base debba inoltre comunque abbracciare la proie zione aggressiva della condotta, e cioè il c.d. animus laedendi. Invece, in quest'ultimo senso è orientata la dottrina la quale, nel fissare i criteri

per l'accertamento della preterintenzione nel delitto di cui all'art. 584

c.p., sottolinea che l'aggressione-base deve essere realizzata allo scopo di cagionare un danno alla persona (l'accertamento dell'elemento psico

logico deve, altresì', estendersi alla verifica dell'assenza dell'animus ne

fandi): cfr., per tutti, Patalano, I delitti contro la vita, Padova, 1984, 257 ss. e riferimenti ivi contenuti. Più in generale, per una rivisitazione

teorica e politico-criminale del modello delittuoso in questione, cfr. Ca

nestrari, L'illecito penale preterintenzionale, Padova, 1989.

Stante la controvertibile attribuibilità al primario chirurgo (peraltro — secondo la stessa ricostruzione della vicenda proposta in motivazio

ne — mai sfiorato, neppure di sfuggita, dal problema dei limiti del

consenso preventivamente ricevuto) di una vera e propria «volontà»

di danneggiare la paziente, si spiega l'originaria qualificazione del fatto

ad opera del giudice istruttore come omicidio colposo realizzato in vio

lazione dei limiti del consenso scriminante. Ma questo tipo di inquadra mento giuridico, proprio con riguardo ai casi di trattamento medico

arbitrario, non ha neppure in dottrina finora riscosso particolare favo

re: per accenni cfr. Ramacci, in Riv. it. medicina legale, 1983, 850;

più diffusamente, si veda Manna, Profili penalistici del trattamento

medico-chirurgico, Milano, 1984, 128 ss. (l'a. obietta che, anche a voler

ammettere l'estensibilità dell'eccesso alla sacriminante del consenso non

espressamente menzionata nell'art. 55 c.p., rsidua pur sempre un'in

compatibilità strutturale tra colpa professionale ed eccesso posto che

nella prima farebbe difetto la volizione dell'evento, la quale invece sa

rebbe presente nel secondo, essendo l'eccesso colposo una forma di col

pa c.d. impropria). Più in generale, per riferimenti ai criteri di valutazione della colpa

medica si veda la nota di Renda a Trib. Brindisi 5 ottobre 1989, in

Foro it., 1990, II, 273.

II. - La motivazione della sentenza dedica maggiore spazio al ruolo

del consenso del paziente, di cui viene con una certa enfasi sottolineata

l'importanza quale presupposto di liceità di un'attività medico-chirurgica esercitata nel rispetto di valori fondamentali della persona dotati di si

cura rilevanza costituzionale (con ogni probabilità, è questa accentuata

preoccupazione di «riaffermare» il valore del consenso che sta anche

alla base della scelta di privilegiare la fattispecie dell'omicidio preterin

tenzionale, quale paradigma criminoso che consente un trattamento pu nitivo comparativamente ben più rigoroso). E cioè, secondo la corte,

il consenso del paziente «è la condizione imprescindibile perché possa

legittimamente esercitarsi nei suoi confronti qualsiasi attività medico

chirurgica»; essendo espressione di un diritto personalissimo, esso (sal vo i casi dei minori e degli interdetti) «non può che spettare all'avente

diritto», e non può essere validamente sostituito da quello dei congiun

ti, essendo quello di congiunti concetto arbitrario anche a causa dei

suoi contorni sfuggenti e potendo, altresì, insorgere conflitti tra i pa

II Foro Italiano — 1991.

anche la conferma avanti al p.m.) ed ebbe a comunicarlo alla

sorella Elena la quale fa presente di aver interpellato quest'ulti mo per sapere se fosse possibile evitare l'intervento, ricevendo

ne risposta negativa. Lo dà per scontato il Moretti, pur negan do di aver parlato prima con i congiunti della Del Lago; lo

conferma il Ponzalli riferendo la decisione del prof. Massimo, al termine dell'esame rettoscopico, di voler praticare l'interven

to per via transanale.

Ma dato atto di ciò, la corte non può sottacere la presenza al riguardo di una vasta e profonda zona d'ombra che affaccia

inquietanti interrogativi che l'odierno dibattimento lungi dal chia

rire ha invece rafforzato ed ingigantito. (Omissis) Si noti, peraltro, che dalla nutrita serie di dichiarazioni fin

qui rese dall'imputato emerge in maniera inoppugnabile un da

to di fatto: che egli mai, in nessun momento della vicenda, an

che fin parecchio tempo dopo l'inizio del procedimento penale a suo carico, si pose, nemmeno di sfuggita, il problema del

consenso della paziente e, correlativamente, quello dei limiti en

tro cui egli era facoltizzato ad esercitare la propria attività. Lo si

renti stessi difficilmente resolubili in assenza di sicuri criteri di preva lenza (le predette affermazioni di principio trovano pieno riscontro, nel

l'ambito della dottrina penalistica, in quanto sostenuto da Mantovani, in Riv. it. medicina legale, 1980, 23; v. pure Manna, cit., 37).

Portando alle estreme conseguenze la ritenuta necessità di un consen

so reale e non fittizio, la corte giunge inoltre ad escludere la validità

di un consenso «presunto» anche rispetto ai casi in cui l'ammalato sia

nell'impossibilità (ad es. perché in stato di incoscienza da trauma o

perché sotto anestesia) di consentire: in questi casi l'attività medico

chirurgica rinvenirebbe la sua fonte di legittimazione nella diversa scri

minante dello stato di necessità. La valorizzazione del consenso del pa ziente nella molteplicità delle sue implicazioni induce, infine, l'organo

giudicante ad affermare il principio secondo cui il diritto di ciascuno

di disporre della propria salute non può non ricomprendere altresì' «il

diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il

suo corso anche fino alle estreme conseguenze». In quest'ultimo senso,

v., in dottrina, Mantovani, cit., 22 s.; Manna, cit., 69 ss.; in argo

mento, v., altresì, AA.VV., Trattamenti sanitari tra libertà e doverosi

tà, Napoli, 1983. Quanto invece all'ammissibilità di un consenso «pre

sunto», mentre la giurisprudenza esprime anche più in generale (fuori cioè dallo specifico settore sanitario) posizioni non univoche (in senso

affermativo, ad es., Cass. 16 giugno 1986, Di Vita, Foro it., 1987, II,

4, con nota di richiami; contra, Cass. 21 gennaio 1982, Maglione, id.,

Rep. 1983, voce Cause di non punibilità, n. 28), la dottrina è per lo

più orientata nel senso del suo riconoscimento: con specifico riguardo all'attività medico-chirurgica, cfr. Mantovani, cit., 23, limitatamente

ai casi in cui il paziente, a causa della malattia, sia incapace di prestare consenso e l'intervento del medico non potrebbe essere rinviato senza

esporre il soggetto a grave rischio; v. pure Bettiol-Pettoello Manto

vani, Diritto penale, Padova, 1986, 411; ma per la tesi che in questi casi sia preferibile il ricorso allo stato di necessità, v. Manna, cit.,

46; Riz, Medico, IV Responsabilità penale del medico, voce dz\VEnci

clopedia giuridica Treccani, Roma, 1990, 107. Nella letteratura penali

stica, in tema di consenso del paziente, v., altresì, Mazzacuva, in Riv.

it. medicina legale, 1984, 419 ss.; Del Corso, in Riv. it. dir. e proc.

pen., 1987, 536 ss.; per un quadro riepilogativo delle diverse posizioni,

v., da ultimo, Riz, cit., 8 ss. e letteratura ivi citata.

Nella giurisprudenza penale, cfr. di recente, con riferimento ad una

ipotesi di lesioni personali conseguenti a terapia odontoiatrica, Cass.

22 gennaio 1988, Zanardi, Riv. pen., 1989, 789 e massimata in Foro

it., Rep. 1989, voce cit., n. 22, secondo cui il conenso dell'avente dirit

to ha efficacia esimente solo se prestato volontariamente nella piena

consapevolezza delle conseguenze lesive, sempre che queste non si risol

vano in una menomazione permanente. In tema di consenso del paziente l'elaborazione giurisprudenziale è

comunque maggiore in ambito civilistico; per una casistica cronologica, cfr. Avecone, La responsabilità penale del medico, Firenze, 1981, 55

s. Nella dottrina civilistica, cfr., tra altri, Scalfì, Consenso e fiducia nel rapporto medico-paziente, in AA.VV., La responsabilità medica,

Milano, 1982, 135 ss.; Paradiso, Il dovere del medico di informare il paziente. Consenso contrattuale e diritti della persona, id., 139 ss.

In argomento, v., più di recente, e anche più in generale, AA.VV.,

La responsabilità medica in ambito civile, a cura di Fineschi, Milano,

1989. Sul problema di chi e sulla base di quali criteri debbano essere prese

le decisioni terapeutiche quando un paziente si trova in stato di inco

scienza irreversibile, va segnalato il recente intervento della Corte su

prema degli Stati uniti d'America, sentenza 25 giugno 1990, Foro it.,

1991, IV, 66, con note di Santosuosso e Ponzanelli.

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PARTE SECONDA

arguisce dal fatto che egli, prima dell'intervento chirurgico, non

ebbe alcun colloquio al riguardo né con la paziente né coi fami

liari di lei. Le contrarie asserzioni dell'imputato, che assume

di aver parlato con una delle figlie della Del Lago che gli aveva

chiesto il suo personale interessamento per l'ammalata, sono

state seccamente smentite dalle figlie della Del Lago, e non tro

vano conferma alcuna in nessuno dei medici del reparto, men

tre viene invece confermato che fu il Ponzalli durante la retto

scopia a chiamare il Massimo, che avrebbe dovuto eseguire l'in

tervento chirurgico, perché si potesse rendere conto dell'esatta

posizione dell'adenoma per meglio intervenire. Il Ponzalli rife

risce testualmente che, al termine dell'esame, il prof. Massimo

gli aveva detto che avrebbe praticato l'intervento chirurgico per via transanale, cioè senza aprire l'addome. Egli, pertanto, ave

va riferito tale circostanza ai parenti, ad una o ad entrambe

le figlie, sentendosi in dovere di rassicurarle e di far loro cono

scere le decisioni del primario che avrebbe operato. Tutto ciò

conferma appieno quanto riferito dalla Rosanelli Nausica e dal

la Rosanelli Elena e smentisce, ove mai ve ne fosse bisogno, le affermazioni del Massimo, a conferma di una prassi non cer

to inconsueta e a dir poco sconcertante, che vede l'ammalato,

in questo caso la povera Del Lago, confinato in un anonimo

letto di ospedale in attesa che vengano eseguite «decisioni», che

pur riguardano direttamente suoi beni primari quali la salute

e l'integrità fisica, decisioni alle quali egli è restato totalmente

estraneo e che spesso, come nel caso in esame, ha appreso solo

per interposta persona. A riprova di ciò sta il fatto che dell'esistenza dello scoglio

rappresentato dal mancato consenso del malato ad un interven

to di amputazione e della sua necessità, l'imputato se ne rese

concretamente conto solo dopo il primo interrogatorio, cosic

ché nel secondo si trovò costretto ad inventare la storia della

fantomatica emorragia, poi ribadita ed arricchita con nuovi par ticolari fino all'odierno processo.

Non spetta certo alla corte esprimere giudizi di carattere mo

rale su tale disinvolto tipo di comportamento, né è il caso di

indulgere in troppo facili generalizzazioni, pur essendo esperienza comune a tutti che troppo spesso nelle strutture sanitarie pub bliche le innumerevoli deficienze e storture portano ad uno stra

volgimento dei rapporti tra il personale curante e i pazienti, con tutto danno di questi ultimi. Ciò che invece in questa sede

deve essere nettamente riaffermato è che l'attività medico

chirurgica, sicuramente da considerare di altissimo valore socia

le, e dunque preziosa, insostituibile e meritoria, deve tuttavia

svolgersi col rispetto di alcuni fondamentali principi, al di là

dei quali essa sconfina nell'illecito che è poi, nella specie, lesio

ne di alcuni beni fondamentali dell'individuo, quali il diritto alla salute ed all'integrità fisica, trasformandosi cosi' in aberra

zione, sopruso, violenza.

Tali beni trovano proprio nella Carta costituzionale la massi

ma consacrazione e tutela là ove si stabilisce l'inviolabilità della

libertà personale (art. 13, 1° comma), il diritto alla salute e

il diritto di non subire trattamenti sanitari obbligatori al di fuo

ri dei casi previsti specificamente dalla legge (art. 32, 1° e 2°

comma). In quest'ambito deve poi anche inquadrarsi il disposto dell'art. 5 c.c., regolante gli atti di disposizione del proprio cor

po, che, pur se collocato in un contesto normativo privatistico, deve nondimeno considerarsi espressione di un principio gene rale dell'ordinamento ed avente dunque valore di norma impe rativa ed inderogabile.

Orbene la corte, ben consapevole delle numerose dispute giu

risprudenziali e soprattutto dottrinarie sorte e tuttora in atto

circa il fondamento della liceità dell'attività medico-chirurgica, ritiene che non si possa e non si debba, come ha invece fatto

ad es. il g.i. (vedi ordinanza di rinvio a giudizio 24 maggio 1989), prendere posizione per l'una o l'altra tesi, non solo per ché ciò non è strettamente necessario ai fini della presente deci

sione, che non ha e non può avere, neppure incidentalmente, intenti didascalici, ma anche perché in tal modo si verrebbero

a creare, sia pur indirettamente, per il medico e per il chirurgo in particolare, possibili condizionamenti e remore psicologiche all'esercizio della propria attività in dipendenza del variare dei

sempre opinabili indirizzi giurisprudenziali e dottrinari, con danno

in ultima analisi proprio di coloro che si vorrebbe tutelare, cioè

gli ammalati.

Il Foro Italiano — 1991.

È sufficiente dunque constatare che dal contesto delle norme

sopra richiamate, soprattutto da quelle di rango primario con

tenute nella Carta costituzionale, emerge in maniera evidente

un principio basilare al quale l'attività del medico deve ispirarsi

e, comunque, sottomettersi: il consenso del malato. Ciò che,

in parole assai semplici, significa poi che nulla il medico può fare senza il consenso del paziente o addirittura contro il volere

di lui, il che, anche, corrisponde ad un principio personalistico di rispetto della libertà individuale e ad una configurazione del

rapporto medico-paziente che bene la difesa di parte civile ha

individuato nella figura del paziente come portatore di propri diritti fondamentali, e dunque come uomo-persona, uomo-valore

e non come uomo-cosa, uomo-mezzo, soggetto a strumentaliz

zazioni anche odiose per fini che sono stati spesso ammantati

di false coperture di progresso scientifico o di utilità collettiva.

Giustamente, viene ricordato come i principi costituzionali in

materia abbiano trovato concreta applicazione in leggi ordina

rie quali la 1. 180/78 in materia di istituti psichiatrici e la 1. 833/78 istitutiva del servizio sanitario nazionale che hanno po sto il consenso del paziente quale elemento centrale del sistema.

Dunque, il consenso del paziente è la condizione imprescindi bile perché possa legittimamente esercitarsi nei suoi confronti

qualsiasi attività medico-chirurgica e ciò, ovviamente, con le do

vute eccezioni previste dalla legge (es. vaccinazioni obbligatorie) e richiamate anche dall'art. 32 Cost. Tale consenso non può che essere reale, cioè dato espressamente, e mai presunto per le ragioni che si diranno innanzi. Esso poi, essendo un diritto

personalissimo, non può che spettare all'avente diritto, ossia

all'ammalato, salvo i casi di rappresentanza legale tassativamente

stabiliti (minori e interdetti), non potendo essere validamente

sostituito da quello dei congiunti. Esattamente, infatti, si pone in luce l'arbitrarietà del concetto di congiunti e la difficoltà di

delimitazione di una categoria dai contorni cosi sfuggenti, senza

dire poi che, in caso di conflitto tra gli stessi, sarebbe difficile

per non dire impossibile stabilire criteri di prevalenza degli uni

o degli altri, mentre decisivo appare infine l'argomento del pos sibile interesse contrario alla salute del paziente che potrebbero avere taluni o tutti i congiunti in casi particolari.

Non può essere invece accolto, a parere della corte, il princi

pio della validità del consenso presunto tutte le volte che sia

materialmente impossibile per il paziente manifestare il consen

so reale e cosi', ad esempio, quando l'interessato si trovi in stato

di incoscienza da trauma ovvero, ed è il caso che interessa l'o

dierno processo, sotto anestesia durante un intervento operato

rio, quando si presenti inopinatamente l'ugenza di praticare un

intervento diverso. Pur apprezzando nella subiecta materia l'a

cutezza e la compiutezza dell'esposizione della difesa di parte

civile, che subordina la validità del consenso presunto alla sus

sistenza di precise condizioni (presumibilità sulla base della co

mune esperienza che il soggetto se avesse potuto avrebbe pre stato il consenso; mancanza di una pregressa volontà contraria

espressamente manifestata; urgenza ed indifferibilità dell'inter

vento se non con grave rischio della salute del paziente; utilità

terapeutica, cioè proporzione tra i benefici per il paziente e ri

schi, nel senso che i primi debbono essere a priori quanto meno

superiori ai secondi) la corte non può che esprimere un giudizio

negativo in ordine alla possibilità della configurazione del con

senso presunto quale possibile causa di legittimazione dell'atti

vità medico-chirurgica. Ciò non tanto per motivi di principio che hanno dato adito ad annose dispute, tuttora non sopite, tra giurisprudenza e dottrina, quanto per un motivo di ordine

eminentemente pratico in una materia in cui la semplicità e la

chiarezza delle regole devono essere anteposte alle dispute dia

lettiche. È evidente infatti che se, ad es. in una situazione di

pronto-soccorso, si dovesse costringere il medico il quale si tro

va davanti un traumatizzato grave, ovvero il chirurgo che, nel

corso di un intervento chirurgico su un tumore ritenuto inizial

mente benigno, constata la presenza di una metastasi diffusa, ad accertarsi anche della volontà presunta del paziente, nonché

dell'assenza di una sua pregressa volontà contraria, ne conse

guirebbero due inevitabili nefaste conseguenze: che, o si perde rebbe del tempo prezioso, ritardando e magari rendendo inutili

le necessarie terapie, ovvero si costringerebbe il medico, per ti

more di addossarsi gravi responsabilità, ad astenersi dall'inter

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GIURISPRUDENZA PENALE

venire, con i danni irreparabili per la salute e la vita stessa del

paziente che sono facili da immaginare. È evidente invece che nei casi ipotizzati di consenso presunto

opera un'altra scriminante, quella dello stato di necessità ipotiz zata dall'art. 54 c.p. che dunque facoltizza il medico ad interve

nire in presenza del pericolo attuale di un danno grave alla per

sona, e dunque alla salute ed all'integrità fisica del paziente, e sempre che il fatto, cioè l'intervento del medico, sia propor zionato al pericolo. Nessuno meglio del medico, infatti, può essere in grado di valutare con immediatezza i dati salienti di

una situazione clinica che si presenta con caratteristiche di ur

genza tali da porre a repentaglio la salute e la vita stessa del

paziente. Ed è ovvio che in tale valutazione il medico deve esse

re lasciato assolutamente libero con la propria coscienza per ciò che riguarda le cure da prestare e dunque, in particolare,

per la scelta dell'intervento da praticare e del modo di procede re. Ciò non vuol dire peraltro che il paziente sia lasciato al

totale arbitrio del sanitario, visto che l'attività di costui dovrà

sempre rispondere ai fondamentali criteri dell'osservanza dei prin

cipi della scienza medica e della proporzione tra benefici otteni

bili e rischi per il paziente, talché non potrà mai, evidentemen

te, sacrificarsi un bene maggiore di quello che si intende salva

guardare. Per fare un esempio concreto ed abbastanza consueto,

senza voler ricorrere ai soliti esempi eclatanti, il chirurgo che,

praticando un intervento di asportazione della cistifellea, si tro

vasse in presenza di un'appendice infiammata con pericolo di

peritonite, bene agirebbe asportandola, anche senza il consenso

del paziente, posto che la situazione imprevista in cui egli è

venuto a trovarsi lo pone davanti ad una situazione potenzial mente di grave e ravvicinato pericolo per il paziente e la resezio

ne. di un viscere di modesta importanza non rappresenta per

quest'ultimo una perdita invalidante. Diversamente, il chirurgo

che, praticando l'asportazione di nodulo benigno dal seno di

una paziente, arrivi ad asportare l'intera mammella per preveni re future ed ipotetiche recidive, non solo non può valersi della

scriminante dello stato di necessità, di cui difettano con tutta

evidenza i presupposti, ma viola anche i principi elementari del

la buona arte medica, provocando cosi alla paziente una lesione

invalidante che deve essere penalmente sanzionata.

Se si esamina il caso per cui è processo alla luce delle consi

derazioni sopra esposte è evidente che, se davvero si fosse veri

ficata la massiccia emorragia intraoperatoria descritta dall'im

putato nel secondo interrogatorio avanti al g.i., si sarebbe forse

potuto discutere, sulla base delle ulteriori ammissioni fatte dal

Massimo all'odierno processo, se causa della stessa fosse stata

o meno l'imperizia del chirurgo, in un quadro quindi in cui

poteva ipotizzarsi la fattispecie dell'omicidio colposo, ma ben

difficilmente si sarebbe potuta negare la necessità dell'interven

to di amputazione praticato dal prevenuto posto che, in quella

particolare ed imprevista situazione, esso era verosimilmente l'u

nico mezzo idoneo a salvaguardare la vita del paziente. Fatte queste necessarie premesse, deve, pertanto, concludersi

che sul piano processuale la ricostruzione della vicenda appare a questo punto completa e può essere riassunta nei termini se

guenti: il chirurgo aveva avuto, sia pure per interposta persona e cioè dalle figlie della Del Lago che avevano funzionato quali nuncii della volontà della madre, il consenso all'effettuazione

di un intervento chirurgico per via transanale che, per ciò che

risulta dal vaglio probatorio, era stato in effetti intrapreso: se

nonché l'esplorazione del retto e i verosimili (come si è visto), anche se non ammessi dall'imputato, tentativi di avvicinare la

sede dell'adenoma per poi passare alla sua resezione, erano ri

sultati infruttuosi. A tal punto il chirurgo avrebbe dovuto evi

dentemente abbandonare ogni tentativo di proseguire l'intervento,

astenendosi dall'eseguirne un altro non rischiesto né autorizzato

e macroscopicamente devastante, ponendo, successivamente, la

paziente a conoscenza della situazione clinica in cui versava,

prospettandole il tipo di intervento da eseguire e le sue conse

guenze e richiedendole il necessario consenso. Ciò tanto più per

ché, come si è già visto, la Del Lago, pur essendo in condizioni

generali precarie, non versava però affatto in immediato perico lo di vita, mentre per gli stessi motivi e per l'età avanzata, la

portata estremamente cruenta dell'intervento avrebbe potuto fa

cilmente avere, come in effetti ebbe, conseguenze letali. È infat

ti di tutta evidenza che nel diritto di ciascuno di disporre, lui

Il Foro Italiano — 1991.

e lui solo, della propria salute ed integrità personale, pur nei

limiti previsti dall'ordinamento, non può che essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia

segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze: il che, a ragione, non può essere considerato il riconoscimento di un

diritto positivo al suicidio, ma è invece la riaffermazione che

la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente

al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall'arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell'avente dirit

to, trattandosi di una scelta che, come bene ha detto la difesa

di parte civile, riguarda la qualità della vita e che, pertanto, lui e lui solo può legittimamente fare. Nella specie, doveva esse

re lasciato alla libera scelta della Del Lago se trascorrere i non

moltissimi giorni di una vita ormai non lontana dalla fine in

maniera fisicamente e psicologicamente dignitosa, ovvero subi

re il trauma di un intervento chirurgico cruento e devastante,

con scarsissime probabilità di riuscita quoad vitam, con degen za ospedaliera lunghissima, dolorose medicazioni, sconvolgimento delle funzioni naturali, con applicazione di un ano artificale,

in una situazione quindi fisicamente dolorosa e psicologicamen te umiliante.

È noto invece quel che accadde: il Massimo senza minima

mente curarsi dei limiti del consenso ricevuto, senza che si fosse

verificata alcuna situazione di emergenza, senza che la situazio

ne clinica della paziente lo rendesse in alcun modo necessario,

non solo non decise di sospendere e rimandare l'intervento, ma,

all'opposto, senza esitazione alcuna e senza consultarsi minima

mente con gli altri membri dell 'équipe, cosi come risulta dalle

già viste deposizioni di costoro, praticò alla paziente un inter

vento che non solo ella non aveva consentito ma che, per tutti

i motivi già detti, era chiaramente contro la volontà di lei: a

dimostrazione di ciò basterebbe la sua violenta reazione nel ve

dersi ridotta in quello stato («Processo, processo!»), riferita dalla

figlia Nausica in denunzia, che ha una forza espressiva migliore di qualsiasi argomento. Praticando dunque alla paziente un in

tervento da questa non autorizzato e non voluto, al di fuori

di qualsiasi situazione di necessità, con conseguenze per lei estre

mamente cruente ed invalidanti, tali da sconvolgere l'equilibrio

psicofisico e le naturali funzioni dell'ammalata, l'imputato pose in essere consapevolmente e volontariamente una condotta che

sul piano giuridico integra indubitabilmente ed oggettivamente la fattispecie criminosa della lesione volontaria (art. 582 c.p.), sussistendo con tutta evidenza gli estremi dell'offesa all'integri

tà fisica della persona e dell'elemento intenzionale richiesto, cioè

il dolo generico. E poiché da tale delitto voluto ne è conseguita,

come effetto non voluto, la morte della paziente, ed essendo

tale evento, per motivi già illustrati, legato con nesso causale

alla condotta integrativa delle lesioni, ne deriva la penale re

sponsabilità del Massimo per il reato di omicidio preterintenzio nale addebitatogli.

La corte non può, poi, neppur porsi il problema della conce

dibilità al prevenuto dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 1, c.p.

ed anzi resta sorpresa del fatto che il p.m., da nessuno sollecita

to, si sia posto da sé tale particolare problema: quanto si è

detto finora dimostra in maniera evidente che il Massimo ha

impostato il suo rapporto con la paziente su un piano di assolu

to disinteresse per l'incolumità e la salute di costei, che ha trat

tato la povera Del Lago non come persona, ma come cosa di

cui si abbia la piena e totale signoria e disponibilità, esercitando

nei suoi confronti un vero e proprio ius vitae necisque. Quali

siano poi i sottostanti motivi che hanno ispirato tale condotta,

se essi siano quelli più volte con forza ribaditi dalla difesa di

parte civile, e cioè di esibizione narcisistica delle proprie capaci

tà davanti ad uno stuolo di reverenti spettatori, medici, tiroci

nanti, studenti e simili, su un soggetto che aveva tutte le carat

teristiche per fungere da cavia, ovvero altri non confessati ma

che il «buco nero» già menzionato esistente nella difesa del pre

venuto lascia forse intuire, non è cosa che, in mancanza di pre

cise contestazioni sul punto, possa rientrare tra gli aspetti pro

cessuali che devono essere accertati dai giudici della corte, i quali,

peraltro, non possono esimersi dal constatare che, per le ragio

ni fin qui esposte, nulla lascia, neppur lontanamente, presume

re che l'agire dell'imputato sia stato ispirato da motivi di parti

colare valore morale o sociale.

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PARTE SECONDA

Tutto ciò riverbera poi gli effetti sulla possibilità di conces

sione delle attenuanti generiche di cui il prevenuto appare larga mente immeritevole, oltreché per le ragioni dette, anche per il

disivolto e sleale comportamento processuale culminato con la

chiamata a sostegno dei suoi falsi assunti di due testi delle cui

qualità si è già detto. Unico motivo dunque che possa giustifi care la concessione delle attenuanti generiche, al di là delle non

sempre chiare argomentazioni del p.m. sul punto, è la sostan

ziale incensuratezza dell'imputato, non potendo poi darsi il ben

ché minimo rilievo all'asserita pendenza a suo carico di altri

procedimenti penali per fatti presuntivamente legati ad ipoteti che colpe professionali del prevenuto.

Ciò posto ed equamente valutati gli elementi tutti di cui al

l'art. 133 c.p., giusta pena per l'imputato si stima quella di

anni sei mesi otto di reclusione (anni 10-62 bis = anni 6 mesi

8), con il carico delle spese processuali e di custodia cautelare

se dovute.

L'imputato va inoltre condannato al risarcimento danni ver

so le costituite parti civili nella misura che sarà liquidata in se

parata sede, oltre alla rifusione alle stesse parti civili delle spese di onorari di costituzione e difesa per questo grado del giudizio che si liquidano in lire 3.019.800 per la parte civile Rosanelli

Nausica e lire 2.509.900 per la parte civile Conti Leda.

Alla condanna segue la pena accessoria dell'interdizione per

petua dai pubblici uffici.

TRIBUNALE DI ROMA; ordinanza 12 ottobre 1990; Pres. Sa

raceni; imp. Martignetti.

TRIBUNALE DI ROMA;

Stupefacenti e sostanze psicotrope — Dose giornaliera media — Determinazione — Sanzione penale — Questione non ma

nifestamente infondata di costituzionalità (Cost., art. 3, 25; 1. 22 dicembre 1975 n. 685, disciplina degli stupefacenti e so

stanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei rela

tivi stati di tossicodipendenza, art. 71, 72, 72 quater, d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309, testo unico delle leggi in materia di

disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzio

ne, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, art. 73, 75, 78).

Non è manifestamente infondata la questione di legittimità co

stituzionale degli art. 71, 72 e 72 quater /. 685/75 fora art.

73, 75 e 78 d.p.r. 309/90), nella parte in cui prevedono la

sanzione penale per la detenzione di sostanze stupefacenti in

quantità superiore alla dose giornaliera media, attribuendo

di fatto all'autorità amministrativa l'individuazione della so

glia di punibilità, in riferimento agli art. 3 e 25 Cost. (1)

Tratto a giudizio direttissimo per rispondere del reato in epi

grafe, Martignetti Romeo, dopo la convalida dell'arresto, ri

chiedeva ai sensi dell'art. 444 c.p.p., tramite i suoi difensori,

l'applicazione della pena nella misura di anni uno mesi quattro

(1) L'ordinanza invoca, a sostegno della questione sollevata, i princi pi di ragionevolezza, di offensività del reato e di legalità, affermando in particolare, su tale ultimo punto, che la norma di legge primaria — in bianco — è priva dei necessari criteri di specificazione ai fini della determinazione dei quantitativi massimi, e quindi il decreto mini steriale di attuazione n. 186 del 12 luglio 1990 finisce in concreto, e contro la riserva di legge di cui all'art. 25 Cost., con lo stabilire i termi ni di punibilità in materia.

Specificamente in tal senso muove, sollevando questione analoga, Trib. Camerino 11 febbraio 1991, Antolini, inedita.

Sulla nuova normativa in materia di stupefacenti, e segnatamente sul l'attenuante del fatto di lieve entità, App. Genova 28 settembre 1990 e Trib. Genova 21 settembre 1990, Foro it., 1991, II, 31, con nota di richiami.

Il Foro Italiano — 1991.

di reclusione e lire duemilionitrecentomila di multa (pena base

anni tre e lire cinque milioni, ridotta come sopra per effetto

di attenuanti generiche e diminuente ex art. 444 cit.). In appli cazione della sentenza della Corte costituzionale 313/90 {Foro

it., 1990, I, 2385), la richiesta veniva rigettata per incongruità della pena. Si procedeva quindi nelle forme ordinarie.

A conclusione del dibattimento, il tribunale ritiene di dover

rimettere a codesta corte la questione di legittimità costituziona

le degli art. 71, 72 e 72 quater 1. 22 dicembre 1975 n. 685 sicco

me modificata dalla 1. 26 giugno 1990 n. 162 (corrispondenti,

rispettivamente, agli art. 73, 75 e 78 t.u. 9 ottobre 1990 n. 309), in relazione agli art. 3 e 25 Cost. Ad avviso del collegio, infatti, l'art. 71 viola le due citate norme costituzionali nei limiti in

cui sottopone a sanzione penale la detenzione, in quantità supe riori alla «dose media giornaliera» (dmg), di sostanze stupefa centi destinate al consumo.

Sul punto della punibilità del consumatore di sostanze stupe facenti la 1. 162/90 ha radicalmente modificato la disciplina pre

vigente. La 1. 685/75 configurava, infatti, rispetto alla detenzio

ne, un reato di pericolo presunto (art. 71) e un reato di pericolo concreto (art. 72). La detenzione di droga, cioè, era punita solo

in quanto comportava il pericolo (presunto nell'art. 71 e da

provare nell'art. 72) di una destinazione allo spaccio e costitui

va quindi una condotta potenzialmente lesiva del bene protetto dalle citate norme incriminatrici. Il consumo di stupefacenti,

invece, di per sé non era considerato reato.

Il principio sopra enunciato discendeva con evidenza non so

lo dalla non punibilità della detenzione attuale di «modica quan tità» di sostanza stupefacente destinata al consumo personale, ma anche, e soprattutto, dalla non punibilità del consumo pre

gresso quale che fosse la quantità di droga consumata. Infatti, la ratio della non punibilità della detenzione pregressa di quan tità anche non modiche di droga effettivamente consumata, san

cita nella seconda parte del 2° comma dell'art. 80 1. 685/75,

risiedeva nella concreta insussistenza del pericolo di spaccio ri

velata dall'effettivo consumo (cfr. Trib. Roma 27 novembre 1987,

id., 1988, II, 388; Cass., sez. I, 1° dicembre 1986, Rasulo, id.,

Rep. 1988, voce Stupefacenti, n. 109). E questo era anche il

pensiero di codesta corte che, nella sentenza n. 170/82 (id., 1982,

I, 2990), aveva affermato che «nel punire l'accumulazione di

quantità di stupefacenti, anche quando se ne possa ipotizzare la destinazione ad uso personale, il legislatore ha avuto di mira

l'oggettiva pericolosità della condotta... L'argomento tratto dal

l'art. 80 della legge secondo cui non vengono puniti coloro che

abbiano in passato detenuto quantità anche non modiche di so

stanze stupefacenti di cui sia stato accertato l'uso personale, convalida quanto appena detto. È infatti evidente che in questo

caso, già esauritasi l'azione, è cessata altresì' quella pericolosità insita invece nella detenzione attuale».

La 1. 162/90 rovescia questa impostazione e punisce con la

sanzione penale la detenzione di sostanze stupefacenti indipen dentemente da una situazione di pericolo — concreto o presun to — di destinazione allo spaccio. Sarebbe invero palesemente

irragionevole presumere — in maniera assoluta — che la deten

zione di una quantità superiore al fabbisogno quotidiano di un

consumatore «medio» — calcolato peraltro con i criteri arbitra

ri e restrittivi di cui si dirà — integri il pericolo di destinazione allo spaccio. L'esperienza giudiziaria dimostra al contrario che

di regola i consumatori, specie delle droghe c.d. leggere, si ri

forniscono di quantità superiori al fabbisogno giornaliero, an

che per evitare i rischi connessi ai quotidiani contatti con il mon

do del traffico.

A differenza di quanto accadeva nella 1. 685/75 con la «mo

dica quantità» — la cui nozione giurisprudenziale consolidata

(v., da ultimo, Cass. sez. VI, 23 novembre 1988, Felicarie, id.,

Rep. 1989, voce cit., n. 100) corrispondeva alla quantità che

consentiva «ad un medio assuntore di soddisfare le sue necessi

tà per due/tre giorni» — la «dose media giornaliera» non costi

tuisce un parametro ragionevole, corrispondente cioè all 'id quod

plerumque accidit, su cui possa attendibilmente fondarsi una

prognosi legale di pericolo di spaccio. Pertanto, ove il legislato re del 1990 avesse inteso configurare la fattispecie di cui all'art.

71 come reato di pericolo (di spaccio), sarebbe incorso in un

palese vizio di irragionevolezza, per evidente mancanza di quel la «oggettiva pericolosità della condotta» che, secondo la citata

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