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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sentenza 19 febbraio 1987; Pres. ed est. Passarelli; imp....

Date post: 31-Jan-2017
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sentenza 19 febbraio 1987; Pres. ed est. Passarelli; imp. Lori Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1988), pp. 603/604-607/608 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23179782 . Accessed: 24/06/2014 21:41 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 188.72.126.196 on Tue, 24 Jun 2014 21:41:42 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sentenza 19 febbraio 1987; Pres. ed est. Passarelli; imp. Lori

sentenza 19 febbraio 1987; Pres. ed est. Passarelli; imp. LoriSource: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1988), pp.603/604-607/608Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23179782 .

Accessed: 24/06/2014 21:41

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PARTE SECONDA

in precedenza, ossia il colloquio e una presenza attenta accanto

al tossicodipendente» (cosi l'ordinanza di scarcerazione del g.i. del 1° dicembre 1980, su conforme parere del p.m.).

Secondo una interpretazione del cpv. dell'art. 152 c.p.p. che

questo collegio condivide, pur in presenza della causa estintiva

dei reati per morte, anche il Canini va assolto o dichiarato non

punibile, come gli altri imputati, ferme restando le altre antece

denti (art. 183 c.p.) cause estintive degli altri reati ascrittigli. Va ora considerata la doglianza della difesa relativamente alla

condanna del Muccioli per il reato di sequestro di persona in

danno di Livia Gaballo detta Lilly di Roma.

Il caso presenta molti tratti in comune con altri episodi di tem

poranea limitazione della libertà personale, per cui varrebbe an

che la causa di giustificazione dello stato di necessità, secondo

l'opinione accolta e già motivata da questo collegio. È certo in

fatti che la ragazza (non ancora diaciassettenne al tempo della

fuga) aveva fatto uso anche di eroina prima di essere stata affi

data dai genitori a Muccioli (v. deposizione del padre il 21 giu

gno 1981 e le sue stesse dichiarazioni a dibattimento): e che dopo la denunzia e la fuga da S. Patrignano, dopo un breve periodo di «normalità» in famiglia, aveva ripreso a «bucarsi», dopo ave

re venduto gli orecchini (deposizione del padre al g.i. il 6 luglio

1981); finendo per ritornare a San Patrignano da maggiorenne. La ragazza ha dichiarato di essersi prostituita ed anzi aveva fatto

la proposta di scappare a Monica di Ferrara (la Casarini) ed a

Laura di Milano (la Scandura), dicendo a quest'ultima che «la

sua vocazione era di andare a fare la puttana». Muccioli si è

difeso dicendo che, avendo saputo la cosa, l'aveva chiusa a chia

ve in una stanza al massimo per un'ora di notte perché non fug

gisse ed in attesa dell'arrivo del padre che aveva informato tele

fonicamente. Il padre ha confermato la circostanza approvando il comportamento anche energico del Muccioli (la madre era an

cora più dura nei confronti delle figlia). Ora, anche ad ammette

re che la «segregazione» della minorenne sia stata più ampia di

quella ammessa dal Muccioli, deve ammettersi che questi ebbe

a comportarsi come il padre della ragazza, esercitando il diritto

dovere di impedirle di fuggire, conoscendo lo scopo dichiarato

della fuga (andarsi a prostituire per disporre dei soldi necessari

all'acquisto della droga). È del resto significativo, anche in questa occasione, il misurato

atteggiamento dello stesso g.i., che, con missiva del 30 settembre

1981 al p.m., lo invitava (trovando consenso nello stesso p.m.) a riesaminare la richiesta di emissione di mandato di cattura con

tro Muccioli, la cui «attività era stata svolta in sostanza su richie

sta del padre della minore Gaballo, la quale sembra(va) peraltro avere fatto ampio ricorso alla fantasia», opinando dell'opportu nità di «valutare l'unificazione delle imputazioni di sequestro di

persona e di maltrattamenti sotto l'unica rubrica dell'art. 572 c.p. o dell'art. 571 c.p.».

Pare quindi di giustizia, correttamente interpretando la sostan ziale richiesta difensiva di assoluzione, dichiarare il Muccioli non

punibile dal delitto di cui al capo P) della rubrica ai sensi del

l'art. 51 c.p. Per quanto riguarda infine i reati minori, già dichiarati estinti

per amnistia, la sentenza appellata va confermata, non ricorren

do gli estremi di cui al cpv. dell'art. 152 c.p.p. alla stregua delle

già ricordate testimonianze (Camosetti, Pieri, Grossi), senza pe raltro che la discussione orale dei difensori abbia proposto temi

nuovi e significativi in proposito.

I

TRIBUNALE DI CAMERINO; sentenza 19 febbraio 1987; Pres.

ed est. Passatelli; imp. Lori.

TRIBUNALE DI CAMERINO; :

Furto — Furto venatario — Reato — Configurabilità (Cod. pen.,

art. 624, 625; 1. 27 dicembre 1977 n. 968, principi generali e

disposizioni per la protezione della fauna e la disciplina della

caccia, art. 8, 31; 1. 24 novembre 1981 n. 689, modifiche al

sistema penale, art. 9).

L'abbattimento e l'impossessamento di un capo di selvaggina, in

violazione della l. 968/77, integra sia il delitto di furto, ag

li, Foro Italiano — 1988.

gravato in quanto commesso con violenza e su cosa destinata

alla pubblica fede, sia gli illeciti amministrativi, previsti dal com binato disposto degli art. 8 e 31 I. cit., giacché non è ravvisabi

le alcun rapporto di specialità tra la suddetta norma e l'art.

624 c.p. (1)

II

TRIBUNALE DI CAMERINO; ordinanza 23 aprile 1986; Giud. istr. Iacoboni; imp. Lori.

Furto — Furto venatario — Reato — Configurabilità (Cod. pen., art. 624, 625; 1. 27 dicembre 1977 n. 968, art. 8, 31; 1. 24

novembre 1981 n. 689, art. 9).

Il c.d. «furto venatorio» è configurabile allorché il cacciatore,

dopo aver abbattuto o comunque catturato un capo di fauna selvatica in violazione della l. 968/77, se ne impossessi, al fine di trarne profitto, sottraendolo al patrimonio indisponibile del

lo Stato, sia perché non difetta il requisito della preesistente

detenzione, coincidente, nel caso di specie, con la destinazione

pubblica del bene, sia perché non v'è concorso apparente di

norme tra il combinato disposto degli art. 8 e 31 l. 968/77

e l'art. 624 c.p. (2)

(1-2) Come il lettore probabilmente ricorderà, l'indirizzo, che propen de per la configurabilità del furto di selvaggina, si trova a dover superare due ostacoli di natura interpretativa (cfr., per un panorama degli orienta menti della giurisprudenza e della dottrina, Cass. 4 novembre 1985, Ser

ra, Foro it., 1987, lì, 212, con nota di richiami e osservazioni di Ingroia, e App. Torino 21 novembre 1986, id., 1988, II, 318, con nota di Ingroia).

In primo luogo, è emersa la difficoltà di individuare il detentore, al

quale verrebbe illecitamente sottratto il capo di fauna selvatica: ci si chie

de, insomma, se lo Stato-proprietario effettivamente eserciti quel potere di fatto, che costituisce un requisito della fattispecie di cui all'art. 624

c.p. Peraltro, si è obiettato che, anche se il primo ostacolo interpretativo fosse aggirabile, l'applicabilità della sanzione penale andrebbe comunque esclusa, in virtù dell'art. 9 1. 689/81, giacché il combinato disposto degli art. 8 e 31 1. 968/77, che sanziona in via amministrativa l'esercizio abusi vo della caccia, sarebbe norma speciale nei confronti dell'art. 624 c.p.

Mentre la Cassazione e, poi, la Corte costituzionale hanno costante mente affermato la configurabilità del flirto di selvaggina (v. Corte cost. 3 aprile 1987, n. 97, id., 1987, I, 3207, con osservazioni critiche di In

groia; Cass. 4 novembre 1985, cit., e sentenze ivi citate), per contro tale indirizzo ha incontrato puntuali critiche e vaste resistenze in parte della dottrina e, ancor più, nella giurisprudenza di merito, presso la quale è anzi prevalente la tesi assolutoria (cfr., tra le altre, App. Torino 21 no vembre 1986 cit.; Trib. Vigevano 27 marzo 1986, e Trib. Locri 26 aprile 1985, id., 1987, II, 212, con nota di Ingroia; Trib. Agrigento 26 febbraio

1985, id., 1986, II, 319, con nota di richiami). I due provvedimenti in epigrafe si segnalano, in quanto, pur aderendo

sostanzialmente all'orientamento della giurisprudenza di legittimità, evi denziano profili interpretativi, sui quali finora non ci si era soffermati

adeguatamente. Circa il requisito della detenzione, va segnalata, in particolare, l'ordi

nanza del giudice istruttore del Tribunale di Camerino, nella cui motiva

zione, dopo aver richiamato il noto orientamento dottrinale, che relega la detenzione à requisito «eventuale» della fattispecie di furto (cfr. Neppi

Modona, Un aspetto problematico del furto: la detenzione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1962, 1156. Contra, in riferimento alla fattispecie in

oggetto, Barbalinardo, Il furto di selvaggina: un caso particolare di giu dice legislatore, in Giust. pen., 1983, II, 664 s.), si assume che in essa ben potrebbe ravvisarsi, più che un potere di fatto, anche una situazione reale di destinazione pubblica, nel caso di specie, del bene.

Ciò condurrebbe, si potrebbe convenire, ad una più rigorosa tutela dei beni qualificati da una destinazione pubblica, dato che il requisito della

detenzione, negli altri casi, va comunque provato autonomamente (v. Man

tovani, Furto, voce del Novissimo digesto, Torino, 1961, VII, 693 s., secondo il quale l'eliminazione della detenzione, quale presupposto logico del furto, è ammissibile soltanto in una prospettiva de iure condendo). Senonché, sembra che tale tentativo di rafforzare la tutela penalistica di determinati beni, in relazione alla loro destinazione pubblica, lungi dal costituire una reinterpretazione originale della nozione di detenzione alla luce dei profili pubblicistici della materia, conduca al medesimo risultato, cui, per altra via, è approdata la Cassazione in materia di furto di selvag gina: l'eliminazione della detenzione dal novero dei requisiti della fatti

specie, di cui all'art. 624 c.p. Ed invero, non pare possano ravvisarsi differenze sostanziali tra la ri

costruzione della Suprema corte, secondo la quale sarebbe sufficiente pro vare la sussistenza della proprietà statale sul bene «sottratto» per ritenere

integrato il furto (cfr. Cass. 4 novembre 1985, cit.) e quella dell'ordinan

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GIURISPRUDENZA PENALE

I

(Omissis). Va poi rigettata nel merito la tesi difensiva secondo

la quale è applicabile nella fattispecie il principio di specialità di cui all'art. 9 1. 24 novembre 1981 n. 689, sul presupposto che

il fatto contestato al Lori come delitto di furto non è che lo stes

so fatto ipotizzato dagli art. 11 e 31/e della legge sulla caccia

del 1977, punito con sanzione amministrativa, di talché è la di

sposizione speciale che dovrebbe trovare attuazione.

Non ignora questo collegio che vari giudici di merito hanno

ritenuto che nella specie ricorre tra le due normative — l'art.

624 c.p. da una parte e gli art. 8 e 31 legge sulla caccia dall'altra — la medesimezza del fatto, ma non ritiene questo tribunale di

poter aderire a siffatto orientamento giurisprudenziale, atteso che

tra l'illecito penale e quello amministrativo non vi è una perfetta identità e coincidenza di elementi, essendo diverse le componenti

dei due illeciti. Come correttamente ha evidenziato il giudice istrut

tore nell'ordinanza di rinvio a giudizio: . . . «se si raffrontano

le fattispecie tipiche di cui all'art. 31 1. 968/77 con la condotta

tipica di cui all'art. 624 c.p., non si riesce in alcun modo ad

intravvedere alcun rapporto di specialità e soprattutto non è dato

za in epigrafe, secondo la quale sarebbe sufficiente provare la «destina

zione pubblica» del bene sottratto. Dato che, infatti, secondo tale ultima

ricostruzione, il furto di selvaggina consisterebbe nella illecita sottrazione

del bene alla sua destinazione pubblica, va osservato che una siffatta

condotta appare assimilabile più ad una «distrazione» che alla «sottrazio

ne» materiale, di cui all'art. 624 c.p. In buona sostanza, aderendo a tale

ricostruzione, si finisce per ritenere sufficiente la prova della sussistenza

di un proprietario e della «distrazione» del bene dalla sua destinazione:

la figura del detentore viene, anche qui, eliminata.

Peraltro, ammesso e non concesso che la detenzione, nella fattispecie del furto di selvaggina, coincida con la «destinazione pubblica» dell'ani

male, v'è da chiedersi quale sia tale destinazione. Ora, l'ambiguità, rile

vata pure nella stessa ordinanza in epigrafe, della 1. 968/77, che mira, nel contempo, a tutelare la fauna e a disciplinare la caccia, induce ad

individuare proprio nell'attività di caccia, purché esercitata osservando

determinate regole, una tipica «destinazione» della fauna selvatica. An

cor più ingiustificato appare, allora, il ricorso all'art. 624 c.p., considera

to che tutelare il capo di selvaggina dalle sottrazioni alla sua c.d. «desti

nazione pubblica» significherebbe anche garantire, con la minaccia della

sanzione penale, che esso possa essere egualmente abbattuto, purché con

modalità legittime. Per converso, posto che la 1. 968/77 sembra soprat tutto finalizzata alla disciplina della caccia, piuttosto che ad un'effettiva

tutela della fauna selvatica, la sanzione amministrativa appare come lo

strumento repressivo più in armonia con lo spirito della legge (cfr., per

tutti, Gorlani, Il furto dì selvaggina al vaglio della Corte di cassazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1984, 1467 s.).

Contro la configurabilità del furto di selvaggina depone, altresì, l'ap

plicabilità del principio di specialità, di cui all'art. 9 1. 689/81.

Sul punto, i due provvedimenti in epigrafe, aderendo all'indirizzo della

Cassazione (cfr., per tutte, sent. 4 novembre 1985, cit.) negano che tra

l'illecito penale e l'illecito amministrativo, previsto dalla 1. 968/77, vi sia

rapporto di specialità, essendo diverse le componenti dei due illeciti. In

particolare, la sentenza del Tribunale di Camerino, sopra riprodotta, pre senta originali spunti interpretativi, fondati sulla distinzione della nozio

ne di impossessamento da quelle, tra loro pure diverse, di abbattimento

e di cattura dell'animale, che costituiscono la condotta di caccia secondo

la 1. 968/77.

Non si può, però, non osservare che, se si accedesse alla suddetta tesi

interpretativa, il risultato sarebbe ben diverso dall'esclusione sic et simpli citer dell'applicabilità del principio di specialità. Ed invero, se l'abbatti

mento e la cattura dovessero davvero intendersi come condotte alternati

ve, la norma, di cui al combinato disposto degli art. 8 e 31 1. cit., com

prenderebbe due diverse fattispecie tra loro equivalenti (le fattispecie, invero,

sarebbero quattro se si considera la distinzione tra esercizio di caccia «ef

fettivo» e «presunto», per la quale si rinvia alla nota a Cass. 4 novembre

1985, cit.), ciascuna delle quali andrebbe separatamente confrontata con

l'art. 624 c.p. per accertare la sussistenza del rapporto di specialità. Eb

bene, poiché la nozione di cattura, comunque intesa, implica evidente

mente l'impossessamento, che invece non coincide con l'abbattimento del

l'animale, si arriverebbe all'assurdo che, mentre nel primo caso sarebbe

applicabile soltanto la sanzione amministrativa, stante il rapporto di spe

cialità, nell'altro caso, qualora all'abbattimento segua l'apprensione del

capo di selvaggina, dovrebbero applicarsi insieme sanzione penale e san

zione amministrativa, con conseguente ingiustificata disparità di trat

tamento.

Quanto, infine, alla pretesa estraneità del fine di trarre profitto dalla

fattispecie amministrativa, si rinvia alle osservazioni contenute nella nota

a Corte cost. 3 aprile 1987, n. 97, cit. [A. Ingroia]

Il Foro Italiano — 1988.

individuare alcuna ipotesi in cui viene, seppure indirettamente con

templato e sanzionato l'impossessamento la cui previsione conti

nua pertanto a richiamare la diretta applicabilità dell'art. 624 c.p.». La validità di siffatta argomentazione del giudice istruttore si co

glie pienamente ove si prendano le mosse dall'art. 8 della legge sulla caccia il quale, definendo e determinando i confini dell'atti

vità venatoria, precisa che costituisce esercizio di caccia ogni atto

diretto all'abbattimento e cattura di selvaggina mediante l'impie

go di determinati mezzi, lasciando in tal modo estraneo al con

cetto di caccia l'apprensione dell'animale abbattuto o catturato.

L'impossessamento dell'animale che nel mondo degli accadi

menti quasi sempre segue l'abbattimento e la cattura, non è però

una componente essenziale della fattispecie giuridica di esercizio

venatorio: esso è quindi al di fuori della nozione giuridica di cac

cia come disegnato dal citato art. 8. Non può invero indurre in

errore il termine cattura di cui al predetto art. 8 perché esso non

è affatto usato in senso improprio per indicare l'apprensione del

l'animale abbattuto, ma è usato invece dal legislatore in senso

tecnico per individuare l'attività venatoria alternativa dell'abbat

timento perché rispettoso della vita dell'animale.

Siffatto significato del termine cattura non è contrastato affat

to, invero, dalla congiunzione «e» che si legge, al 2° comma del

l'art. 8 più volte citato, tra le parole «abbattimento»-«cattura»

perché tale congiunzione non ha natura copulativa, ossia per le

gare al concetto di abbattimento quello di cattura inteso come

evento naturalistico conseguenziale all'abbattimento, ma ha inve

ce natura disgiuntiva come peraltro è fatto palese dalla congiun

zione «o» che si legge invece, sempre tra le parole «abbattimento

(e) cattura» nei commi 3° e 4° dello stesso articolo.

L'impossessamento che come si è visto è concetto diverso da

quello di cattura rappresenta invece elemento essenziale e tipico

della fattispecie astratta del reato di furto e pertanto deve conclu

dersi che il fatto oggetto dell'illecito penale è cosa diversa dal

fatto oggetto dell'illecito amministrativo, non coincidendo le due

fattispecie. Ne consegue che non può farsi applicazione del prin

cipio di specialità di cui all'art. 9 1. 24 novembre 1981 n. 689

perché questo vuole quale presupposto la medesimezza del fatto.

Per ogni altra questione prospettata, ritiene il tribunale di po

ter aderire alle argomentazioni del giudice istruttore nell'ordinan

za di rinvio a giudizio. (Omissis)

II

Rilevato, in fatto, che il prevenuto è stato colto in violazione

di norme concermenti l'attività della caccia;

ritenuto, in diritto, che la prospettazione accusatoria devesi ri

tenere meritevole di accoglimento, ancorché vari e spesso sugge

stivi argomenti siano stati svolti, in giurisprudenza, al fine di so

stenere la non configurabilità giuridica del c.d. furto venatorio,

benché tuttora permanga contrasto negli indirizzi giurispruden

ziali (da ultimo Trib. Ferrara 29 novembre 1983, Foro it., Rep.

1985, voce Caccia, n. 27; Trib. Siena 11 gennaio 1985, ibid., n.

22; Trib. Crema 5 dicembre 1984, ibid., n. 23; Trib. Cuneo 6

giugno 1984, ibid., voce Furto, n. 39), peraltro segnati da predo minanza della tesi assolutoria:

ritenuto che le più ricorrenti argomentazioni arrecate a soste

gno dall'or detta tesi non paiono poter essere condivise, o risul

tando palesemente irrilevanti (tale è da definirsi quella che fa leva

sul mancato rinvio, nella 1. 968/77, alle norme penali), ovvero

non sufficientemente ponderate; la qual cosa devesi dire a propo

sito dell'asserita insussistenza del requisito dell'impossessamento

che par presupporre una detenzione materiale e soltanto fisica

mente intesa, che sembra richiamare aspetti propri delle società

arcaiche, specie Jaddove essa volutamente ignora la marcata com

plessità odierna delle forme di proprietà, in massimo grado rap

presentata dai beni pubblici, che tali sono (come diffusamente

insegna la migliore e più recente dottrina amministrativa, i cui

esiti appare opportuno non trascurare) non soltanto a cagione

dell'appartenenza, che rappresenta forse il profilo meno rilevan

te, quanto in forza dei vincoli di destinazione e fruizione colletti

va, tant'è che il regime pubblicistico conforma anche beni indi

scutibilmente privati (si pensi ai c.d. beni culturali e ambientali

di privata proprietà); ciò che induce a far ritenere che la relazio

ne materiale tra lo Stato e il bene sia sussunta (né potrebbe essere

altrimenti) nella qualificazione giuridica del bene, che ope

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PARTE SECONDA

ra ex se quale limite all'appropriazione privata e al di là della

singolare pretesa secondo cui Io Stato dovrebbe «possedere», a

fini penalmente rilevanti, cosi come possiede una persona fisica

privata.

Pare, di contro, al giudicante che l'obiettiva impossibilità di

detenere la fauna nulla comporti a fini penali, rilevante e decisiva

essendo la qualificazione giuridica della medesima come patrimo nio indisponibile, cessando, pertanto, di essere res nullius acqui sibile per occupazione da parte di chicchessia. Chiara, infatti, è la volontà legislativa intesa a consentire l'occupazione, median

te attività di caccia, quale deroga eccezionale al principio, di cui

è informata la 1. 968/77, della indisponibilità della fauna, concet

to nel cui seno risiede il parametro di riferibilità dell'illecito, al

pari di ogni e qualsiasi appropriazione di beni demaniali e patri moniali indisponibili di cui, tanto più se mobili, appaia impossi bile la detenzione suddetta (si pensi alla sabbia del demanio ma

rittimo). Giova, comunque, precisare che la tesi qui respinta non pre

suppone, soltanto, scarsa attenzione per i profili pubblicistici del

la materia, ma ignora anche recenti e importanti evoluzioni dot

trinali che hanno comprovato la sostanziale coincidenza dell'im

possessamento con il requisito della detenzione, di cui si riconosce

l'eventualità, in essa ravvisandosi, più che un potere di fatto, una situazione reale di uso, di fruizione o (secondo più appro

priata terminologia tratta dal diritto amministrativo) di destina

zione pubblica, nel caso di specie, del bene.

Del pari, sebbene trattasi di argomento suggestivo, non pare debbasi conferire efficacia risolutiva al principio di specialità in

trodotto dall'art. 9 1. 689/81.

Benché di esso sia stata fatta frequente applicazione giurispru denziale a sostegno della tesi assolutoria, occorre rilevare che tale

indirizzo appare frutto di una forzatura idonea a sconvolgere le

teoriche generali. È agevole rilevare, innanzitutto, che la dizione dell'art. 9 1.

689/81 è perfino più ristretta di quella dell'art. 15 c.p. («stesso fatto» a fronte di «stessa materia»), e che pertanto a fortiori devesi sottolineare l'imperabilità dell'ovvia constatazione secon

do cui il «fatto» dato dall'art. 624 c.p., nella sua interezza, non

coincide con alcuna delle fattispecie di illeciti amministrativi di

cui alla 1. 968/77.

Invero, né la condotta dell'impossessamento, né il fine di trar

ne profitto sono constatabili nelle suddette fattispecie ammini

strative, che si limitano, molto più semplicemente, a determinare

i confini entro i quali l'esercizio di caccia è lecito, e al di là dei

quali deborda in violazione della specifica normativa che, dero

gando a se stessa, consente ad una particolare categoria di citta

dini (i cacciatori) di apprendere la selvaggina, ma sempre nel ri

spetto della disciplina amministrativa.

Ciò posto, se si raffrontano le fattispecie tipiche di cui all'art.

31 1. 968/77 con la condotta tipica di cui all'art. 624 c.p., non

si riesce in alcun modo a intravvedere alcun rapporto di speciali

tà, e, soprattutto, non è dato individuare alcuna ipotesi in cui

viene, seppur indirettamente, contemplato e sanzionato l'impos sessamento, la cui previsione continua, pertanto, a richiamare la

diretta applicabilità dell'art. 624 c.p., che, secondo il giudicante, concorre con la violazione amministrativa e non ne viene assorbito.

Di più rilevante momento appare altra argomentazione di ca

rattere interpretativo, che il giudicante ritiene di dover formula

re, ancorché su di essa, a quanto è dato conoscere, non ci si

sia pressoché mai soffermati.

Benché, come già detto, le violazioni amministrative non con

templino l'impossessamento di per sé, nondimeno l'art. 31, lett.

d ed e, 1. 968/77 sanziona l'esercizio della caccia su specie per le quali non è consentita ovvero su specie particolarmente protette.

La definizione giuridica di caccia proviene dall'art. 8, 2° e 3°

comma, 1. 968/77, e in essa viene considerata anche la cattura

della selvaggina.

Talché, sembrerebbe di poter affermare che, in virtù del detto

richiamo, anche il profilo dell'impossessamento troverebbe par ziale previsione nelle violazioni amministrative.

Invero, appare di tutta evidenza che le menzionate fattispecie amministrative mirano a regolare un'attività abituale svolta da

una particolare categoria di cittadini, cui esse sono rivolte, e la

loro presenza tradisce, in primo luogo, l'ambiguità della struttu

ra legislativa, che si basa, in sostanza, su una deroga interna per consentire un'attività (la caccia) che, nella ratio di una normativa

posta a tutela della fauna, si profila più come inevitabile eccezio

II Foro Italiano — 1988.

ne al regime della proprietà pubblica della fauna che come positi vo riconoscimento del «diritto» di cacciare.

In secondo luogo, da tale sofferta concezione della normativa

discende la ben singolare conseguenza del riconoscimento, di fat

to, di una categoria privilegiata di cittadini cui è consentita la

cattura della selvaggina, in deroga agli stessi principi ispiratori della normativa di tutela.

Al di là dei possibili profili di incostituzionalità, quel che oc corre mettere in rilievo è l'oggettiva difficoltà logica nel ravvisare

specialità tra le condotte tipiche di cui alle norme amministrative

e la condotta incriminata dall'art. 624 c.p., che comunque pre senta sempre un quid pluris rispetto alle prime, secondo quanto

già esaminato.

Tutto ciò, data anche la delicatezza del problema, impone il

rinvio a giudizio dell'imputato.

PRETURA DI COSENZA; ordinanza 6 luglio 1988; Giud. V.

Ferrari; imp. Tenuta.

PRETURA DI COSENZA;

Radiotelevisione e servizi radioelettrici — Esercizio di impianto ricetrasmittente di debole potenza in ambito locale senza con

cessione amministrativa — Questione non manifestamente in

fondata di costituzionalità (Cost., art. 3, 21, 41, 43; d.p.r. 29

marzo 1973 n. 156, t.u. delle disposzioni legislative in materia

postale, di bancoposta e di telecomunicazioni, art. 195; 1. 14

aprile 1975 n. 105, nuove norme in materia di diffusione radio

fonica e televisiva, art. 45).

Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costi

tuzionale dell'art. 195 d.p.r. 29 marzo 1973 n. 156, come mo

dificato dall'art. 45 I. 14 aprile 1975 n. 105, nella parte in cui

non consente la libera installazione ed il libero esercizio di im

pianti di telecomunicazione via etere costituiti da apparecchi ricetrasmittenti di debole potenza operanti in ambito locale, in riferimento agli art. 3, 21, 41 e 43 Cost. (1)

All'imputato è stata contestata la fattispecie contravvenzionale

di cui all'art. 195 d.p.r. 29 marzo 1973 n. 156 nel testo sostituito

dall'art. 45 1. 14 aprile 1975 n. 103, in relazione al possesso di

un apparato radio-ricetrasmittente installato su di un veicolo di

sua proprietà senza avere ancora ottenuto la prescritta concessione.

(1) Ennesima ordinanza di rimessione dell'art. 195 cod. postale, come novellato dalla 1. 103/75, alla Consulta, chiamata ancora una volta a definire — ed è augurabile in via definitiva — la querelle circa l'obbligo dei radioamatori operanti con ricetrasmittenti di debole potenza sulla banda cittadina di «modulare» solo dopo aver ottenuto la prescritta concessione amministrativa ovvero in regime di libertà, come consentito agli impianti di diffusione radiofonica e televisiva dopo le storiche pronunce in data 10 luglio 1974, n. 225, Foro it., 1974, I, 1945, e 28 luglio 1976, n. 202, id., 1976, I, 2066, citate in motivazione. Sulla materia, dunque, non sem bra aver inciso più di tanto Corte cost. 30 luglio 1984, n. 307, id., 1984, I, 2049, con nota di Pardolesi, ribadita con ord. 20 novembre 1985, n. 294, id., Rep. 1986, voce Radiotelevisione e servizi radioelettrici, n.

83, la quale, nel respingere la questione di legittimità costituzionale degli art. 183, 195 e 334 cod. postale predicata sulla perdurante disparità di trattamento tra i «baracchini» e le radio e televisioni private, ha lasciato

più che mai aperti i contrasti che agitano gli operatori del diritto (ed è sintomatico che nell'ordinanza in epigrafe il giudice cosentino ometta

perfino di farne menzione). Mentre, infatti, la giurisprudenza di merito

continua, più o meno in egual misura, a condannare ovvero a mandare assolto l'esercizio di tali apparati di debole potenza in assenza di conces sione (cfr., sul punto, Pret. Torino 7 gennaio 1986, id., Rep. 1987, voce

cit., n. 98; Trib. Oristano 18 luglio 1985 e Pret. Cassino 5 luglio 1985, id., 1986, II, 436, con nota di Paganelli), in sede di legittimità va rapi damente prendendo corpo la tesi integrativa del reato di cui all'art. 195 cod. postale. Per la non estensibilità del regime di libertà anche agli ap parati ricetrasmittenti in parola si sono pronunciate: Cass. 23 aprile 1986, Targa, id., Rep. 1987, voce cit., n. 96; 23 aprile 1986, Barbagallo, ibid., n. 97; 7 ottobre 1986, Parzani, ibid., n. 99; 30 giugno 1986, Martini, ibid., n. 100; 9 maggio 1985, Mangano, ibid., n. 101; 16 novembre 1984, Comacchio, id., Rep. 1986, voce cit., n. 86.

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