sentenza 21 novembre 1988; Giud. Gallo; imp. SeckSource: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1989), pp.247/248-253/254Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23182725 .
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PARTE SECONDA
mi ha mai detto Epaminonda sta parlando ma non scrivere nien
te»). Ma pur credendogli su questo, è lo stesso articolo incrimina
to a dimostrare che Longanesi sapeva di muoversi su un terreno
delicato e scottante, avendo con piena consapevolezza penetrato il segreto istruttorio o comunque la riservatezza delle investiga zioni in corso. Si legge infatti: «secondo quanto si è potuto ap
prendere attraverso la cortina di riserbo che circonda
l'indagine ... I nomi che si fanno e che per ovvi motivi non
possono essere riferiti». Non sono frasi di stile, ma espressioni
significative di un tono che permea tutto lo scritto e che gli in
fonde obiettivamente un carattere inquietante, quasi di avverti
mento, se non fosse che si tratta di un pezzo giornalistico e che
non vi è alcuna ragione per supporre che Longanesi abbia agito con dolo diretto.
E tuttavia ritiene il tribunale che Longanesi debba rispondere del delitto in questione, secondo i principi generali, a titolo di
dolo eventuale. Questa nozione può dirsi pacificamente acquisita nel senso che «se è esatto che la componente psicologica normale
della responsabilità per delitto doloso è il dolo diretto e di volon
tà, purtuttavia, se l'agente, non mirando ad un determinato evento
come proprio obiettivo intenzionale, ha previsto come probabile
(secondo un normale nesso di causalità) la verificazione di un
siffatto evento lesivo ed ha accettato il rischio della sua verifica
zione, agendo anche a costo di determinarlo, deve rispondere di
tale evento a titolo di dolo» (Cass., sez. Ili, 15 maggio 1963; sez. V 24 marzo 1970, Faraone, id., Rep. 1971, voce Reato in
genere, n. 11). Ed ancora: il dolo eventuale «si verifica quando
l'agente vuole un determinato evento, ma ne prevede possibile
pure un altro e tuttavia accetta il rischio del suo verificarsi, com
portandosi anche a costo di determinarlo» (Cass., sez. V, 6 mar
zo 1986). D'altra parte il dolo eventuale appare pienamente compatibile
col delitto di favoreggiamento, cosi come lo è con i reati di peri colo (v. ad es. Cass., sez. I, 23 ottobre 1986, con riferimento
al reato di cui all'art. 444 c.p.; v. anche sez. I 22 marzo 1985,
Calpuno, id., Rep. 1986, voce Tentantivo, n. 11, per tutte, sulla
configurabilità del dolo eventuale nel delitto tentato).
Questo tribunale non ignora la pronuncia della Cass., sez. VI, 20 gennaio 1982, Maffei (id., Rep. 1983, voce Favoreggiamento, n. 10), resa proprio in tema di favoreggiamento contestato a un
giornalista, secondo la quale «nella sfera dell'art. 378 c.p. il dolo
non può non ricomprendere anche la cognizione e volizione del
l'aiuto che l'attività posta in essere è confacente a produrre». Invero la Suprema corte non si diffonde a sviscerare l'argomento anche in relazione alle sue implicazioni sui principi generali. E
tuttavia pare che la detta sentenza censuri la corte di merito so
stanzialmente per il fatto di essersi incentrata sull'esame della og
gettiva idoneità dell'atto posto in essere dall'agente a produrre offesa al bene giuridico tutelato, difettando quella indagine ap
profondita e rigorosa che si rende necessaria nell'accertamento
dell'elemento soggettivo del reato, e tralasciando ogni riscontro
sulla coscienza dell'antidoverosità del fatto. In effetti, nella fatti
specie sottesa alla citata pronuncia della Suprema corte, la pub blicazione della notizia circa un emanando ordine di cattura nei
confronti di tale Grappone si inseriva in una campagna di stampa condotta proprio contro tale personaggio, il quale già era latitan
te e quindi verosimilmente insensibile, almeno nella prospettazio ne avuta dal giornalista imputato, alla emanazione di altro ordine
di cattura contro di lui. Ritiene dunque questo tribunale, prima ancora ed a prescindere da un dissenso teorico nei riguardi del
l'autorevole pronuncia, che vi sia una diversità di fattispecie con
creta che non va taciuta ai fini dell'apprezzamento di quella formulazione di principio.
Orbene, sostiene la difesa che Longanesi non ha avuto coscien
za di accettare il rischio che dalla pubblicazione nella notizia po tesse derivare nocumento alle indagini. Senonché proprio Longanesi fa affermazioni contraddittorie laddove, dopo aver detto di repu tare la notizia inoffensiva perché sostanzialmente già nota, di
chiara «ho temuto che altri giornalisti potessero prima di me
pubblicare le notizie da me pubblicate», ed aggiunge di avere ri
tenuto «di non compromettere l'indagine e nel contempo di dare
la notizia in esclusiva». Dunque è lo stesso Longanesi ad ammet
tere di essersi posto il problema, e in definitiva ha prevalso la
volontà di fare un colpo giornalistico. Si sono già illustrate le caratteristiche della notizia che la ren
II Foro Italiano — 1989.
devano effettivamente inportante. Longanesi, che si sentiva «tito
lare» della notizia, doveva ben saperlo, tanto da rappresentare al capo servizio Passanisi l'urgenza di pubblicazione e da sopras sedere a qualsiai riscontro, non attendendo neppure il rientro del
cronista giudiziario — Molossi, n.d.r. — assente per il fine setti
mana (v. dich. Passanisi 15 febbraio 1985: «è prassi anche del
mio giornale effettuare un riscontro delle notizie giudiziarie che
giungono in redazione da collaboratori non accreditati al palazzo di giustizia, interpellando i cronisti che appunto frequentano gli uffici giudiziari. Non mi fu possibile effettuare tale riscontro per ché la domenica il cronista giudiziario non è in servizio, anzi quel
giorno di domenica non era sicuramente in servizio. Non ho rite
nuto di dover attendere stante l'urgenza rappresentatami da Lon
ganesi e l'affidabilità che al collaboratore io riconosco»). In considerazione di quanto sopra è evidente che Longanesi,
giornalista di provata esperienza, non può avere valutato la noti
zia come innocua per lo svolgimento delle indagini e deve essersi
rappresentato anche il rischio che la sua divulgazione aiutasse
effettivamente qualcuno, accettandolo però proprio per dare quella notizia prima di altri. Né l'atteggiamento soggettivo di Longanesi è stato in qualche modo fuorviato da una rilevanza sociale della
notizia, tale da indurlo alla pubblicazione in nome di un interesse
pubblico alla conoscenza dei fatti o tale da far supporre la man
cata percezione che la pubblicazione implicasse qualche disvalore
sociale; si trattava di notizia che si presentava soltanto come me
ro fatto di informazione.
Longanesi deve dunque essere dichiarato colpevole del reato
ascrittogli al capo E), con l'aggravante contestata e sussistente
per l'obiettivo rilievo che si procedeva per delitti anteriori tra
cui quello previsto dall'art. 416 bis c.p. L'azione appare peraltro unica e realizzata in un medesimo con
testo, onde va esclusa la sussistenza di entrambe le ipotesi del
l'art. 81 c.p., contestate in imputazione. Possono concedersi le
attenuanti generiche, stante l'incensuratezza, da valutarsi preva lenti sull'aggravante. Considerati tutti gli elementi di cui all'art.
133 c.p. deve quindi condannarsi Longanesi alla congrua pena di mesi uno di reclusione (p.b. mesi uno e gg. 15, diminuita per att. gen.), oltre al pagamento delle spese processuali.
La valutazione della personalità dell'imputato, anche alla luce
della sua incensuratezza, fa fondatamente ritenere che lo stesso
in futuro si asterrà dal commettere reati, onde possono conceder
si i doppi benefici della pena sospesa e non menzione della con
danna alle condizioni di legge. Ai sensi degli art. 30 e 31 c.p. consegue la declaratoria di interdizione di Longanesi dalla pro fessione di giornalista per la durata di mesi uno. Ai sensi della
legge sulla stampa n. 47/48 si dispone la pubblicazione della pre sente sentenza per una volta e per estratto sul quotidiano II Gior
nale. Entrambe le suddette pene accessorie devono peraltro essere
dichiarate condonate interamente, ai sensi degli art. 1 ss. d.p.r. 865/86. (Omissis)
PRETURA DI PESCIA; sentenza 21 novembre 1988; Giud. Gal
lo; imp. Seek.
PRETURA DI PESCIA;
Falsità in sigilli e strumenti o segni di autenticazione, certificazio
ne o riconoscimento — Detenzione per la vendita di prodotti con marchi contraffatti — Reato — Esclusione — Fattispecie
(Cod. pen., art. 43, 474). Fiammiferi e accenditori automatici (imposta sui) — Detenzione
per la vendita di accendini privi di bollo — Ignoranza scusabile
della legge penale — Fattispecie (Cod. pen., art. 5; d.l. 20 apri le 1971 n. 163, regime fiscale degli apparecchi di accensione, art. 1, 8; 1. 18 giugno 1971 n. 376, conversione in legge, con
modificazioni, del d.l. 20 aprile 1971 n. 163, art. 1).
Non integra il reato preveduto dall'art. 474 c.p., per assenza di
dolo, la detenzione per la vendita di alcuni articoli dì abbiglia mento e di pelletteria con marchio contraffatto, ove difetti nel
l'agente — nella specie, un immigrato senegalese da poco
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GIURISPRUDENZA PENALE
stabilito in Italia — l'esperienza minima per essere consapevole della contraffazione. (1)
Non integra gli estremi del reato di cui agli art. 1 e 8 d.l. 163/61
la detenzione per la vendita di alcuni accendini privi del pre scritto bollo di Stato da parte di un immigrato senegalese, im
possibilitato a rendersi conto dell'illiceità del comportamento tenuto in quanto stabilito in Italia da poco tempo, con una
scarsissima o virtualmente nulla conoscenza di ogni normativa
tecnica e della stessa lingua italiana, con uno scarsissimo livello
di socializzazione dovuto, oltre che alla carenza di robuste strut
ture di solidarietà, anche alla sussistenza di ostacoli di natura
psicologica, sociale, culturale e antropologica (razzismo). (2)
(1-2) La sentenza assolutoria qui riprodotta esemplifica, almeno in li nea teorica (impregiudicata cioè l'esattezza delle valutazioni di merito) un caso «di scuola» di ignorantia legis inevitabile-scusabile dovuta a ma nifeste condizioni soggettive di inferiorità, a loro volta derivanti dalla
cittadinanza straniera, dalla carenza di socializzazione e dalla condizione di emarginato sociale dell'agente: la pronuncia, pertanto, intende esplici tamente collocarsi nella nuova prospettiva dischiusa dalla «storica» sen
tenza costituzionale n. 364/88, ampiamente citata in motivazione, riportata in Foro it., 1988, I, 1385, con nota di Fiandaca e commentata altresì'
da Pulitanò in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, 686, che ha — com'è
noto — dichiarato illegittimo l'art. 5 c.p. nella parte in cui non ammette
va la rilevanza scusante dell'ignoranza o errore di diritto inevitabile.
a) Più in particolare, il reato di detenzione per la vendita di articoli
con marchi contraffatti, cui fa riferimento la massima sub 1, viene esclu
so in base alla ritenuta inesistenza dello stesso «dolo del fatto»: l'imputa to, a causa della sua scarsissima o nulla esperienza dei circuiti dei consumi
propri dei paesi industrializzati, sarebbe rimasto ignaro della «contraffa
zione» del marchio degli articoli detenuti per la vendita, e perciò privo della necessaria consapevolezza in ordine a un fondamentale requisito della fattispecie incriminatrice. Nel senso che il dolo relativo all'art. 474
c.p. deve abbracciare l'estremo della contraffazione, cfr. Cass. 27 no
vembre 1985, Fantoni, Foro it., Rep. 1987, voce Falsità in sigilli, n. 6.
b) La prospettiva dell' ignorantia legis scusabile, nel solco della citata
sentenza costituzionale 364/88, viene invece adottata con specifico riferi
mento al reato di detenzione per la vendita di alcuni accendini sprovvisti del prescritto bollo (art. 1 e 8 d.l. 163/71): reato che l'organo giudicante non a caso riconduce al «novero dei c.d. reati di pura crazione legislativa (illeciti in materia economica, fiscale, ecc.) spesso eticamente neutri in
quanto carenti di un contenuto di disvalore apprezzabile a prescindere dalla valutazione normativa», i quali, pertanto, costituiscono il vero ter
reno in cui concretamente emerge la problematica dell'errore di diritto
inevitabile.
Quanto ai parametri cui ancorare il giudizio di inevitabilità dell'igno ranza della legge penale il pretore, dopo aver richiamato i criteri menzio
nati dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza 364/88 (in particolare,
quello della «carenza di socializzazione» dell'agente che renderebbe di
regola inevitabile l'ignoranza della legge), fa ricorso alla figura, origina riamente elaborata dalla dottrina con riguardo alla colpa penale (cfr.,
per tutti, Marinucci, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965,
passim), dell'homo eiusdem condicionis et professionis: posto che — ar
gomenta il pretore — «nel caso di specie, l'agente - modello è un immi
grado del terzo mondo (. . .) con una scarsissima o virtualmente nulla
conoscenza di ogni normativa tecnica e della stessa lingua italiana, con uno scarsissimo livello di socializzazione (. . .)», deve escludersi che tale
soggetto possa rendersi conto dell'illiceità di un fatto di reato che è tale
soltanto per volontà del legislatore. Ancorché frequentemente utilizzato anche in questa materia (cfr. Fian
daca, cit., 1392 ss.), il parametro dell'homo eiusdem condicionis et pro
fessionis svolge un ruolo non incontroverso in sede di determinazione
dell' ignorantia legis inevitabile: il problema è proprio quello di stabilire
fino a che punto il predetto parametro, se correttamente usato, consenta
di tenere conto delle molteplici condizioni soggettive presenti nella situa
zione concreta (età, sesso, salute, grado di socializzazione, ecc.). Con
riferimento a questo problema, rispetto al quale manca ancora una suffi
ciente elaborazione giurisprudenziale almeno in Italia, cfr., da ultimo,
Palazzo, «Ignorantia legis»: vecchi limiti ed orizzonti nuovi della colpe
volezza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, 950 ss.
Sulla normalità dei processi di socializzazione quale presupposto della
possibilità di conoscenza della norma penale, cfr. Pulitanò, L'errore di
diritto nella teorìa del reato, Milano, 1976, 475 ss.
Nella giurisprudenza più recente, in tema di conoscibilità della legge
penale, cfr. Pret. Lendinara 26 aprile 1988, Foro it., 1989, II, 193, che
ha negato la scusabilità dell'ignorantia legis nei confronti di chi, profes sionalmente inserito in un determinato campo di attività, non s'informa
sulle leggi penali disciplinanti lo stesso campo. Cfr. altresì Pret. Bari 8
aprile 1987, id., 1988, II, 477, con nota di richiami, che ha escluso la
Il Foro Italiano — 1989.
Fatto e diritto. — All'odierno dibattimento veniva tratto a giu dizio Seek Matarara per rispondere del reato di cui in epigrafe.
L'imputato non si presentava a rendere l'interrogatorio, venendo
dichiarato contumace.
Esaminato un teste e data lettura degli atti consentiti, il pubbli co ministero e la difesa concludevano come da verbale.
In data 14 maggio 1988 i carabinieri di Pescia sorprendevano il cittadino senegalese Seek Matarara intento ad effettuare il com
mercio ambulante. Poiché lo stesso era sprovvisto della relativa
licenza, i carabinieri provvedevano al sequestro della merce ed
alla contestazione della contravvenzione amministrativa di cui al
l'art. 2 1. 19 maggio 1976 n. 398 e d.p.r. 26 ottobre 1972 n.
641. Nel procedere all'inventario della merce i carabinieri si ac
corgevano che il Seek era in possesso di alcuni articoli di abbi
gliamento e di pelletteria (otto tute con il marchio «Valentino», otto magliette con il marchio «La Coste» e cinque borse) che
presentavano il marchio contraffatto di note case di moda, non
ché di alcuni accendini privi del prescritto bollo di Stato.
Di qui la denunzia all'autorità giudiziaria. Per quanto riguarda il reato di cui sub a), va rilevato che la
norma di cui all'art. 474 c.p. punisce il fatto di chiunque (al di fuori dei casi di concorso nel delitto di contraffazione, altera
zione o uso di segni distintivi di prodotti industriali falsificati, puniti dall'art. 473 c.p.) introduce nel territorio dello Stato per farne commercio, detiene per la vendita o pone in vendita, o mette
altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industria
li, con marchi o segni distintivi, nazionali ed esteri, contraffatti
o alterati.
Nel caso di specie integra la condotta punibile il semplice fatto
di detenere gli oggetti industriali con il marchio contraffatto, as
sieme ad altri oggetti chiaramente offerti in vendita, poiché tali
circostanze fanno ritenere in re ipsa l'intenzione della vendita.
Per quanto riguarda l'elemento soggettivo del reato in questio
ne, esso consiste nella coscienza e volontà di detenere e porre in vendita degli oggetti industriali con il marchio contraffatto.
È necessaria, pertanto, la consapevolezza della contraffazione.
Ed è proprio questo requisito che, ad opinione del giudicante, difetta nel caso in questione.
Non vi è alcuna prova, infatti, della consapevolezza dell'agente della falsità dei marchi, né tale prova è possibile desumerla logi camente dagli elementi del fatto.
L'imputato è un cittadino del Senegal, paese africano situato
poco al di sotto della fascia del Sahel, caratterizzato da scarse
risorse di base e da condizioni climatico-ambientali non eccellenti
(basti pensare alla siccità dei primi anni settanta), inserite in un
quadro economico di sottosviluppo endemico, reso ancor più pro blematico da uno schiacciante debito estero (cfr. Enciclopedia geo
grafica Garzanti, 793 ss.). Le mediocri condizioni di vita nel Senegal come in altri paesi
del terzo mondo, fanno si che gli abitanti di tali paesi siano com
pletamente esclusi dai costumi e dai circuiti dei consumi propri dei paesi industrializzati. Pertanto, i marchi dei prodotti indu
striali di consumo alla moda (per es. Levi's, Trussardi, Pierre
Cardin, Louis Vuitton, Benetton, La Coste, Best Company, Guc
ci, ecc.), dal punto di vista di un cittadino del terzo mondo, sono
qualcosa di astratto, sideralmente lontano dalla propria esperien za quotidiana.
È ben vero che l'imputato deve essere in Italia da alcuni mesi,
essendo in possesso della residenza a Livorno, tuttavia è da pre sumere che, come frequentemente capita in questi casi, non abbia
trovato robuste strutture di solidarietà che gli abbiano reso possi bile un percorso di integrazione, se è vero che egli ancora non
parla correttamente l'italiano, essendo solo in grado di farsi com
prendere (vedi dep. carabiniere Tempobono).
Si deve presumere pertanto che egli, non avendo avuto l'occa
sione di entrare in una boutique per acquistare un pantalone «Le
coscienza e volontà di detenere video-cassette prive del sigillo, essendo
stata la disposizione incriminatrice in questione emanata appena dieci giorni
prima del fatto; nonché Trib. Rovigo 22 ottobre 1987, ibid., 463, con
osservazioni di Fornasari, che ha escluso il delitto di detenzione di arma
clandestina in presenza di buona fede determinata dall'atteggiamento de
gli organi competenti in ordine all'obbligo di immatricolazione. In argo
mento, da ultimo, in ossequio a Corte cost. 344/88, cit., v. Pret. Milano
29 marzo 1988, in questo fascicolo, II, 291, con nota di richiami.
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PARTE SECONDA
vi's» o una maglietta «La Coste» o una cintura «Louis Vuitton»,
difetti di quell'esperienza minima, comune alla generalità dei cit
tadini italiani, che gli possa consentire di verificare se un tale
marchio possa essere contraffatto ovvero originale. Né si possono desumere elementi concreti per la sussistenza
del dolo argomentando in ordine all'origine delle mercanzie poste in vendita dall'imputato.
A questo proposito va chiarito che non risulta che l'imputato abbia esplicitamente ammesso innanzi ai carabinieri di essere a
conoscenza della contraffazione. Invero, a parte il problema del
l'inutilizzabilità processuale di una siffatta eventuale dichiarazio
ne, è stato chiarito dal teste Tempobono che l'imputato riconobbe
esplicitamente di non essersi rifornito dalla merce direttamente
dalle case titolari dei marchi.
Da questa constatazione — peraltro ovvia — non se ne può dedurre nulla in ordine alla conoscenza della contraffazione.
Invero l'assenza dell'imputato dal processo non consente di ac
quisire ulteriori elementi di cognizione. È evidente, tuttavia, nel
l'ipotesi che la merce in questione sia stata venduta all'imputato, come ad altri cittadini senegalesi, da un'organizzazione di perso ne prive di scrupoli che utilizzano la difficile condizione degli
immigrati del terzo mondo per smerciare prodotti con marchi con
traffatti, che si debba escludere che costoro abbiano messo a co
noscenza gli interessati della incommerciabilità della merce loro
ceduta.
Dal fatto poi che l'imputato è incensurato e che non risulta
che sia stato denunziato per reati della stessa indole si ricavano
ulteriori elementi in favore della tesi dell'assenza di dolo.
Di conseguenza l'imputato deve essere assolto dalla relativa im
putazione perché il fatto non costituisce reato.
Per quanto riguarda il reato di cui al capo ti) [n.d.r.: art. 1
e 8 d.l. 2 aprile 1971 n. 163, convertito in 1. 18 giugno 1971
n. 376] anche in questo caso non vi è motivo di dubitare dell'esi
stenza dell'elemento oggettivo poiché l'imputato palesemente de
teneva per la vendita cinque accendini sprovvisti del prescritto bollo.
Il problema della punibilità in concreto dell'imputato presenta
però profili del tutto particolari alla luce della «storica» sentenza
della Corte costituzionale del 24 marzo 1988, n. 364 (Foro it.,
1988, I, 1385) sui limiti all'inescusabilità dell'ignoranza della leg
ge penale. Al riguardo è necessaria una, sia pur sommaria, disamina delle
argomentazioni della corte.
La corte parte da alcune premesse metodologiche e critica l'o
pinione secondo cui il principio dell'irrilevanza assoluta dell'igno ranza della legge penale costituisca un necessario corollario della
obbligatorietà della stessa legge, tant'è vero che nei sistemi nei
quali si attribuisce rilevanza all'ignoranza della legge penale, non
per questo la legge diviene meno obbligatoria. Osserva quindi la corte che: «gli opposti principi dell'assoluta
irrilevanza o dell'assoluta rilevanza dell'ignoranza della legge pe nale non trovano valido fondamento: ove, infatti, si accettasse
il principio dell'assoluta irrilevanza dell'ignoranza della legge pe nale si darebbe incondizionata prevalenza alla tutela dei beni giu ridici a scapito della libertà e dignità della persona umana, costretta
a subire la pena (la più grave delle sanzioni giuridiche) anche
per comportamenti (allorché l'ignoranza della legge sia inevitabi
le) non implicanti consapevole ribellione o trascuratezza nei con
fronti dell'ordinamento; ove, invece, si sostenesse l'opposto
principio dell'assoluta scusabilità della predetta ignoranza, l'in
dubbio rispetto della persona umana condurrebbe purtroppo a
rimettere alla variabile «psicologia» dei singoli la tutela dei beni
che, per essere tutelati penalmente, si suppone siano fondamenta
li per la società per l'ordinamento giuridico statale».
Poste queste premesse la corte si interroga sul significato e sui
limiti del principio costituzionale della colpevolezza, che reputa «valore» insostituibile, osservando: «Per precisare ancor meglio
l'indispensabilità della colpevolezza, quale attuazione, nel siste
ma ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale, vale ricordare non solo che tal sistema pone al vertice della scala
dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a
fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche, che lo stesso sistema, allo scopo di attuare compiutamente la fun
zione di garanzia assolta dal principio di legalità, ritiene indi
li. Foro Italiano — 1989.
spensabile fondare la responsabilità penale su «congrui» elementi
subiettivi. La strutturale «ambiguità» della tecnica penalistica con
duce il diritto penale ad essere insieme titolo idoneo di intervento
contro la criminalità e garanzia dei c.d. destinatari della legge
penale. Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve tro
vare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed
a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti ri
conoscibili direttive di comportamento. Il principio di colpevolez za è, pertanto, indispensabile, appunto per garantire al privato
la certezza di libere scelte d'azione: per garantirgli cioè che sarà
chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui control
labili e mai per comportamenti che, solo fortuitamente, produca
no conseguenze penalmente vietate, e, comunque, mai per
comportamenti realizzati nella «non colpevole» e, pertanto, ine
vitabile ignoranza del precetto».
Quindi la corte passa ad una più attenta disamina del principio costituzionale della colpevolezza, attraverso una approfondita let
tura del 1° comma dell'art. 27 Cost., che viene messo in relazio
ne col 3° comma dello stesso articolo.
Ed osserva: «A conclusione del primo approccio interpretativo
del disposto di cui al 1° comma dell'art. 27 Cost., deve, pertan
to, affermarsi che il fatto dell'imputato, perché sia legittimamen
te punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa
dell'agente in relazione agli elementi più significativi della fatti
specie tipica. Il fatto punibile («proprio» dell'agente) va, dun
que, nella materia che si sta trattando, costituzionalmente inteso
in una larga, anche subiettivamente caratterizzata, accezione e
non, in quella, riduttiva, d'insieme di elementi oggettivi. La «ti
picità» (obiettiva e soggettiva) del fatto (ovviamente, di regola,
vengono richiesti nelle diverse ipotesi criminose, ulteriori elemen
ti subiettivi, come il dolo, ecc.) costituisce cosi primo necessario
«presupposto» della punibilità ed è distinta dalla valutazione e
rimproverabilità del fatto stesso.
Dal collegamento fra il 1° ed il 3° comma dell'art. 27 Cost.,
risulta, altresì, insieme con la necessaria «rimproverabilità» della
personale violazione normativa, l'illegittimità costituzionale della
punizione di fatti che non risultino essere espressione di consape
vole, rimproverabile contrasto (od indifferenza ai) valori della con
vivenza espressi dalle norme penali. La piena particolare
compenetrazione fra fatto e persona implica che siano sottoposti a pena soltanto quegli episodi che, appunto personalmente, espri mano il predetto riprovevole contrasto o indifferenza.
Il ristabilimento dei valori sociali «dispregiati» e l'opera riedu
catrice ed ammonitrice sul reo hanno senso soltanto sulla base
della dimostrata «soggettiva antigiuridicità del fatto».
Quindi la corte perviene alla conclusione che: «l'impossibilità di conoscenza del precetto, non ascrivibile alla volontà dell'inte
ressato, deve necessariamente escludere la punibilità». Ed aggiun
ge che: «Anche quando non si sia dell'avviso che l'art. 5 c.p.
operi nell'ambito della colpevolezza e lo si agganci, come nel co
dice Rocco, all'obbligatorietà della legge penale, ugualmente lo
stesso articolo, per le ragioni innanzi indicate, si dovrebbe ritene
re contrastante con l'art. 27, 1° e 3° comma, Cost., nella parte in cui esclude ogni rilevanza all'errore od errore sul precetto do
vute all'impossibilità (non rimproverabile) di conoscerlo».
La corte quindi richiama la concezione contrattualistica dello
Stato di diritto e si sofferma su una più approfondita lettura dei
principi di cui agli art. 25, 2° comma, e 73, 3° comma, precisan do che le garanzie formali contenute in tali norme vanno svelate
in tutte le loro implicazioni: «queste comportano il contempora neo adempimento da parte dello Stato di altri doveri costituzio
nali: e, in prima, di quelli attinenti alla formulazione, struttura
e contenuti delle norme penali. Queste ultime possono essere ri
conosciute soltanto allorché si rendano «riconoscibili». Il princi
pio di «riconoscibilità» dei contenuti delle norme penali, implicato dagli art. 73, 3° comma, e 25, 2° comma, Cost., rinvia, ad es., alla necessità che il diritto penale costituisca davvero l'extrema
ratio, sia costituito da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valo
ri almeno di «rilievo còstituzionale» e tali da essere percepite an
che in funzione di norme «extrapenali», di civiltà, effettivamente
vigenti nell'ambiente sociale nel quale le norme penali sono desti
nate ad operare».
Inquadrato cosi teoricamente, metodologicamente ed ideologi
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GIURISPRUDENZA PENALE
camente il problema dei limiti costituzionali della punibilità nei confronti dell'ignoranza della legge penale, la corte passa ad esa minare quello snodo fondamentale della punibilità in concreto
rappresantato dal passaggio dell'effettiva possibilità di conoscen
za delle leggi penali alla concreta conoscenza delle leggi stesse, frutto dell'attività conoscitiva dei singoli soggetti.
Anche in questo caso la corte muove le premesse del proprio
ragionamento da osservazioni di carattere teorico, argomentando dal principio dei doveri di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.
Osserva la corte che: «supposta esistente in fatto l'oggettiva
possibilità di conoscenza di una particolare legge penale, i sogget ti privati, diventando diretti destinatari dell'obbligo (principale) d'adempimento del precetto oggettivamente conoscibile, devono
operare la predetta insostituibile mediazione. A questo fine in
combono sul privato, preliminarmente, strumentali, specifici do
veri di informazione e conoscenza: ed è a causa del non
adempimento di tali doveri che è costituzionalmente consentito
chiamare a rispondere anche chi ignora la legge penale ... La
Costituzione richiede dai singoli soggetti la massima costante ten
sione ai fini del rispetto degli interessi dell'«altrui» persona uma
na: ed è per la violazione di questo impegno di solidarietà sociale
che la stessa Costituzione chiama a rispondere penalmente anche
chi lede tali interessi non conoscendone positivamente la tutela
giuridica . . . Non esiste, è vero, un «autonomo» obbligo di co
noscenza delle leggi penali; non può disconoscersi, tuttavia l'esi
stenza in testa ai c.d. destinatari dei precetti «principali», nei
confronti di tutto l'ordinamento di doveri «strumentali» d'atten
zione, prudenza, ecc. (simili a quelli che caratterizzano le fatti
specie colpose) nel muoversi in campi prevedibilmente lesivi di
«interessi altrui»; doveri già incombenti prima della violazione
delle singole norme penali, mirati, attraverso il loro adempimen
to, e, conseguentemente, attraverso la raggiunta conoscenza delle
leggi, a prevenire (appunto inconsapevoli) violazioni delle mede
sime. Inadempiuti tali doveri, l'ignoranza della legge risulta ine
scusabile, evitabile. Adempiuti ai medesimi, la stessa ignoranza, divenuta inevitable e, pertanto, scusabile, esclude la rimproverbi lità e, pertanto, la responsabilità penale».
La corte quindi passa ad esaminare le varie ipotesi di interpre tazione sin qui operate dall'art. 5 c.p., rilevando che la stessa
giurisprudenza, nel darvi la massima espansione, ha finito, in pra
tica, con l'addivenire ad una interpretazione abrogans dell'art.
47, 3° comma, c.p. Rileva poi che l'art. 5 c.p. viola anche l'art. 3, 1° e 2° comma,
Cost, e conclude questa lunga trattazione, osservando che: «Far
sorgere l'obbligo giuridico di non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla consapevolezza dell'agen
te, considerare violato lo stesso obbligo senza dare alcun rilievo
alla conoscenza od ignoranza della legge penale e dell'illiceità del
fatto, sottoporre il soggetto agente alla sanzione più grave senza
alcuna prova della sua consapevole ribellione od indifferenza al
l'ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico offre al cittadino ed a strumentalizzare
la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione priorita ria che essa occupa e deve occupare nella scala dei valori costitu
zionalmente tutelati.
Resta da accennare ai criteri, ai parametri ai quali ancorare
il giudizio di inevitabilità dell'ignoranza della legge penale. A questo riguardo osserva la corte che: «l'inevitabilità dell'er
rore sul divieto (e conseguentemente l'esclusione della colpevolez
za) non va misurata alla stregua di criteri c.d. soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i dati influenti sulla conoscenza del pre cetto esclusivamente alla luce delle specifiche caratteristiche per
sonali dell'agente) bensì secondo criteri oggettivi: ed anzitutto in
base a criteri (c.d. oggettivi puri) secondo i quali l'errore sul pre
cetto è inevitabile nei casi di impossibilità della conoscenza della
legge penale da parte di ogni consociato» (come succede nei casi
di assoluta oscurità del testo normativo, ovvero di confliggenti
interpretazioni giurisprudenziali). La corte ammette, peraltro, che
ci si possa valere anche di altri criteri (c.d. criteri misti), osser vando che: «il fondamento costituzionale della «scusa» dell'ine
vitabile ignoranza della legge penale vale soprattutto per chi versa
in condizioni soggettive di inferiorità e non può certo essere stru
mentalizzata per coprire omissioni di controllo, indifferenze, ecc.,
di soggetti dai quali, per la loro elevata condizione sociale e tec
II Foro Italiano — 1989.
nica, sono esigibili particolari comportamenti realizzativi degli ob
blighi strumentali di diligenza nel conoscere le leggi penali». Precisa quindi la corte che, nell'ipotesi che l'agente neppure
si rappresenti che il suo fatto sia antigiuridico, se l'assenza di
ogni dubbio: «discende principalmente dalla personale, non col
pevole, carenza di socializzazione dell'agente, l'ignoranza della
legge penale va, di regola, ritenuta inevitabile».
Infine la corte, a completamento del proprio ragionamento, rinvia ai criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia di buona
fede nelle contravvenzioni.
Al riguardo la giurisprudenza prevalente esige che il soggetto abbia fatto «tutto quanto poteva per osservare la legge» (Cass. 6 dicembre 1982, Piersigilli, id., Rep. 1984, voce Reato in genere, n. 39), ovvero si trovi in uno stato soggettivo tale da escludere
la colpa (Cass. 4 maggio 1984, Sciarrino, id., Rep. 1985, voce
cit., n. 19). In questo settore non esistono schemi dogmatici astratti da ap
plicare, bensì, come accennato dai principi su esposti dal giudice delle leggi, si tratta di porre in rapporto le circostanze oggettive del caso concreto con le condizioni e le attitudini soggettive del
l'agente, onde accertare se e sino a che punto la prestazione ri
chiesta dall'ordinamento sia esigibile dal soggetto in questione. Sembra appropriato, quindi, in questo caso, il ricorso alla fi
gura, elaborata dalla dottrina, àtW'homo eiusdem condicionis et
professionis: in altri termini il contenuto e la misura dei doveri
di conoscenza relativi al carattere illecito di una certa azione van
no determinati in rapporto al diverso campo di esperienza ed al
diverso livello di socializzazione e di cultura corrispondenti ai tipi di agente-modello, cui l'agente concreto è di volta in volta ricon
ducibile. Orbene, nel caso di specie, l'agente-modello è un immigrato
del terzo mondo, stabilito in Italia da poco tempo, con una scar
sissima o virtualmente nulla conoscenza di ogni normativa tecni
ca e della stessa lingua italiana, con uno scarsissimo livello di
socializzazione, dovuto, oltre che alla carenza di robuste struttu
re di solidarità, anche alla sussistenza di ostacoli di natura psico
logica, sociale, culturale, religiosa e antropologica (razzismo). Stante questa difficile situazione umana e sociale si deve ritene
re del tutto escluso che tale soggetto possa rendersi conto dell'illi
ceità di quei fatti che, al di là dei c.d. delitti naturali, rientrano nel novero dei c.d. reati di pura creazione legislativa (illeciti in
materia economica, fiscale, ecc.) spesso eticamente neutri in quanto carenti di un contenuto di disvalore apprezzabile a prescindere dalla valutazione normativa.
In questo quadro il richiamo ai doveri di solidarietà sociale, di cui all'art. 2 Cost., che impongono ai soggetti la massima, costante tensione, ai fini del rispetto degli interessi «altrui» è scar
samente significativo. Sia perché, quando si opera al di fuori di
una cornice di solidarietà, quando si è dei non garantiti per defi
nizione, anche l'adempimento del dovere di solidarietà si sbiadi
sce, in quanto esso è il contraltare di quei diritti di cittadinanza
sociale che, in una siffatta situazione appaiono offuscati, sia per ché la carenza di socializzazione del soggetto rende soggettiva mente ed obiettivamente impossibile che questi possa avere gli
strumenti, culturali, linguistici, relazionali, indispensabili per es
sere in grado di conoscere le norme penali che pongono reati
di pura creazione legislativa, come quello in esame.
Passando ad una maggiore personalizzazione del problema, il
fatto che l'imputato sia incensurato e che non risulta che sia sta
to denunziato altre volte per reati della stessa indole, e quindi — sia pure indirettamente — reso cosciente dell'esistenza dei di
vieti da lui infranti, conferma la tesi dell'inevitabilità dell'igno ranza della legge penale, con riferimento al reato di cui sub b).
Di conseguenza, anche da questa imputazione l'imputato deve
essere assolto perché il fatto non costituisce reato.
Non essendovi motivo, tuttavia, per dubitare della contraffa
zione dei marchi e della abusiva detenzione degli accendini, la merce sequestrata deve essere confiscata e distrutta.
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