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sentenza 23 marzo 1993; Giud. Centinaro; imp. SabelliSource: Il Foro Italiano, Vol. 117, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1994), pp.123/124-131/132Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23188439 .
Accessed: 24/06/2014 22:27
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PARTE SECONDA
Visto l'art. 544, 3° comma, c.p.p. per la complessità della
sentenza il pretore si riserva di depositare la motivazione nel
termine di quaranta giorni.
I
PRETURA DI ASCOLI PICENO; sentenza 23 marzo 1993;
Giud. Centinaro; imp. Sabelli.
PRETURA DI ASCOLI PICENO;
Alimenti e bevande (igiene e commercio) — Sostanze alimentari — Insudiciamento — Nozione — Fattispecie (L. 30 aprile 1962
n. 283, disciplina igienica della produzione e della vendita
delle sostanze alimentari e delle bevande, art. 5).
Ai fini della norma incriminatrice di cui alliart. 5, lett. d), /.
283/62, la nozione di insudiciamento di sostanze alimentari
va intesa nel senso che non è sufficiente il contatto dell'ali
mento con una qualsiasi sostanza estranea (che potrebbe esse
re del tutto sterile ed inerte dal punto di vista biologico), ma
è necessaria una contaminazione igienicamente degradante e
comunque nociva per la salute del consumatore, tale cioè da
indurre un effettivo deterioramento della qualità dell'alimen
to; da ciò deriva che non è realizzata l'ipotesi in questione se la presenza di sostanze estranee non comporta l'insorgenza di un pericolo concreto per la salute pubblica. (1)
II
PRETURA DI CALTANISSETTA; sentenza 29 ottobre 1992; Giud. Fiore; imp. Ricotta.
Alimenti e bevande (igiene e commercio) — Detenzione per la
vendita di prodotti alimentari oltre il termine minimo di con
(1) Non risultano precedenti sulla questione. Sul concetto di insudiciamento si registrano, per vero, poche pronun
ce: secondo Cass. 6 luglio 1983, Capuano, Foro it., Rep. 1984, voce Almenti e bevande, n. 33, la contravvenzione di che trattasi è integrata anche dal solo fatto che i prodotti alimentari siano detenuti in condizio ni tali da potersi definire insudiciati, anche se non siano pericolosi per la salute pubblica o batteriologicamente impuri; analogamente, Cass. 17 dicembre 1985, Doncecchi, id., Rep. 1987, voce cit., n. 93, conferma che il reato di cui all'art. 5, lett. d), 1. 283/62 è reato di pericolo per la cui consumazione non ha rilevanza, in presenza di corpi estranei che alterino la purezza e l'igiene del prodotto, l'effettivo danneggiamento della pubblica salute; per Cass. 20 maggio 1981, Puglisi, id., Rep. 1983, voce cit., n. 54, la contravvenzione si realizza anche con il possesso di prodotti che saranno successivamente trasformati e venduti sotto forma di vivande. Tra le scarsissime decisioni di merito, cfr. Pret. Napoli 15 novembre 1988, id., Rep. 1990, voce cit., n. 51, che ha puntualizzato che l'autorizzazione a porre in vendita polli eviscerati mediante «sfila mento» non implica deroga al divieto di vendita di alimenti insudiciati considerato anche che è possibile l'evisceramento con la predetta tecni ca senza provocare l'insudiciamento dell'animale. Questa sentenza si
può leggere anche in Riv. pen. economia, 1989, fase. 3, 63, con nota di De Vita, Il divieto di vendita di sostanze alimentari insudiciate.
Secondo Correrà, Tutela igienico-sanitaria degli alimenti e bevande, Milano, 1991, III, 100-101, «l'espressione comunque nocive rivela sen za incertezza la precisa volontà del legislatore di non lasciar sfuggire nessuna ipotesi di nocività della sostanza alimentare. È il caso di segna lare, a questo punto, come mentre nelle prime tre ipotesi la nocività
per la salute è presunta in via assoluta ovvero per il fatto in sé che
Il Foro Italiano — 1994.
servazione — Reato — Esclusione (L. 30 aprile 1962 n. 283, art. 5; d.p.r. 18 maggio 1982 n. 322, attuazione della diretti
va Cee n. 79/112 relativa alla etichettatura dei prodotti ali
mentari destinati al consumatore finale ed alla relativa pub blicità nonché della direttiva Cee n. 77/94 relativa ai prodotti alimentari destinati ad una alimentazione particolare, art. 10).
Frode in commercio e nelle industrie — Tentata frode nell'eser
cizio del commercio — Detenzione per la vendita di prodotti alimentari con termine minimo di conservazione scaduto —
Reato — Esclusione (Cod. pen., art. 56, 515; d.p.r. 18 mag
gio 1982 n. 322, art. 10).
Il detenere per la vendita generi alimentari recanti un termine
minimo di conservazione scaduto, senza che sia provato l'ef
fettivo deperimento del prodotto, non integra il reato di ven
dita di alimenti in cattivo stato di conservazione (art. 5, lett.
b, /. 283/62). (2)
la sostanza si trovi in una delle tre descritte condizioni, in questa più ampia e generica (del comunque nocive) invece occorre l'accertamento
concreto, caso per caso, dell'effettiva idoneità a nuocere da parte del
prodotto alimentare».
(2) Negli stessi termini, v. Pret. Acireale 5 novembre 1991, Foro it., 1992, II, 596, con nota di richiami di Paone.
In tema, da ultimo, in un caso in cui era stata impiegata, per la
produzione di pane, farina di malto scaduta di validità, Cass. 29 otto bre 1991, P.m. c. Simioni, id., Rep. 1992, voce Alimenti e bevande, n. 81, ha confermato l'indirizzo tradizionale della Corte suprema rite nendo che commetta il reato di cui all'art. 5, lett. b), colui che utilizzi nella preparazione di alimenti sostanze la cui validità sia già scaduta e quindi non in perfetto stato di conservazione. In motivazione si pun tualizza che, se è stato previsto un termine oltre il quale si ritiene che il prodotto possa deteriorarsi e perdere comunque le sue caratteristiche
organolettiche, non vi è dubbio che una perfetta conservazione di tale
prodotto non vi è stata e che pertanto esso abbia subito alterazioni che — seppure non visibili — incidono di necessità sulla assoluta genui nità degli alimenti preparati con l'uso di tali prodotti.
Come si è già avuto modo di osservare nella nota a Pret. Acireale 5 novembre 1991, cit., l'impostazione della Cassazione su questo pro blema è fortemente criticabile non solo perché confonde l'ipotesi nor mativa del cattivo stato di conservazione dell'alimento con quella, del suo stato di alterazione, ma anche perché, ad una attenta lettura degli argomenti usati, non spiega il motivo per il quale dalla scadenza del termine di conservazione apposto dal produttore (magari anche con la formula «da consumarsi preferibilmente entro il...», sicuramente meno
perentoria di quella «da consumarsi entro il...») si debba far derivare necessariamente l'alterazione del prodotto alimentare. Questa tesi, inol
tre, comporta l'ulteriore conseguenza che la detenzione per la vendita di siffatti alimenti non integrerà mai la violazione amministrativa alle
disposizioni del d.leg. 27 gennaio 1992 n. 109, attuazione delle direttive 89/395 Cee e 89/396 Cee concernenti l'etichettatura, la pubblicità e la presentazione dei prodotti alimentari.
Nei termini sopra esposti è la prevalente dottrina (cfr. i contributi
riportati nella nota a Pret. Acireale, cit.), tra cui Corte-Dallavalle, Della relazione fra cattivo stato di conservazione degli alimenti e decor renza del termine minimo di conservazione per essi previsto, in Riv.
pen., 1991, 343, per i quali il termine apposto sugli alimenti in confe zioni originali non può essere considerato un termine «massimo» di
conservazione, superato il quale il prodotto è certamente nocivo o co
munque non commestibile, ma un termine «minimo» di conservazione e cioè una data entro la quale il prodotto conserva certamente integre tutte le sue proprietà con la conseguenza che, tra questa data e l'epoca in cui il prodotto è realmente alterato, c'è una «zona grigia» in cui il prodotto può essere buono o cattivo. Osservano, inoltre, gli a. che
questa zona è temporalmente assai ampia perché l'alterazione del pro dotto non si verifica istantaneamente, ma in modo lento e progressivo e quindi è del tutto arbitrario e semplicistico presumere che un prodotto posto in vendita il giorno successivo alla data indicata come termine minimo di conservazione sia per questa sola circostanza alterato o nocivo.
Gli a. citati, nel contestare l'orientamento della Cassazione, non si mostrano d'accordo invece con la tesi secondo cui lo stato di conserva
zione, cui si riferisce l'art. 5, lett. b), sia quello attinente alle modalità di conservazione del prodotto e non invece al suo stato effettivo e cioè alla condizione intrinseca del prodotto alimentare. In conclusione, se condo gli a. cit., l'interpretazione da preferire è quella per cui «nell'am
pia previsione normativa dell'art. 5, la lett. d) sanziona le alterazioni nocive per i consumatori, mentre la lett. b) punisce tutte le restanti
ipotesi di alterazione del prodotto che, pur non essendo ancora perico
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GIURISPRUDENZA PENALE
Non commette il reato di tentata frode in commercio l'esercen
te che ponga a disposizione de! pubblico prodotti alimentari
con il termine minimo di conservazione scaduto, giacché l'e
lemento materiale di questa fattispecie criminosa richiede l'e
sistenza di una specifica attività contrattuale tra venditore ed
acquirente volta alla consegna della merce. (3)
I
Osserva il pretore che, nella fattispecie, la verifica della ipo
tesi accusatoria deve prendere le mosse dalle risultanze degli
esami analitici eseguiti in sede di revisione, come in atti, a causa
del competente Istituto superiore della sanità, rilevandosi che
tali risultanze (confermative solo in parte di quelle eseguite in
un primo momento a causa del locale servizio Usi), hanno escluso
la presenza, nel prodotto caseario esaminato, di nocive conta
lose per l'uomo, sono egualmente già indice di una alterazione dovuta,
appunto, a cattivo stato di conservazione. Occorrerà, quindi, pur sem
pre accertare, caso per caso, attraverso le analisi presso i pubblici labo
ratori lo stato di conservazione del prodotto alimentare sospetto. Un'e
ventuale violazione del termine minimo di conservazione dovrà essere
considerata soltanto un indizio da tenere presente nella valutazione dei
risultati analitici».
L'opinione dottrinaria appena riferita non trova tuttavia riscontro
nella ormai consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui la no
zione di «cattivo stato di conservazione» è riferita alle sole modalità
di conservazione del prodotto e non anche ad eventuali sue anomalie
intrinseche: in argomento, da ultimo, v. Cass. 27 ottobre 1992, Casti
glione Mass. Cass, pen., 1993, fase. 5, 52, che, in fattispecie di traspor to di tonno congelato senza le opportune cautele igienico-sanitarie, ha
ribadito che l'art. 5, lett. b), 1. 283/62 mira ad assicurare che il prodot to alimentare sia ben conservato imponendo il rispetto di idonee moda
lità di conservazione che si ricavano dalla stessa 1. 283/62, dal relativo
regolamento di esecuzione, da altri regolamenti e disposizioni ministe
riali e dalle regole di comune esperienza produttiva e commerciale di
specifici generi alimentari. Di particolare interesse è la puntualizzazione che la normativa in questione va osservata in qualsiasi fase della catena
di approvvigionamento, di produzione e di commercio della sostanza
alimentare fino all'offerta al consumatore finale.
In materia di indicazione del termine di scadenza, si segnalano due
inedite decisioni della Cassazione civile.
Nella prima (Cass. 28 novembre 1992, n. 12722, Foro it., Rep. 1992, voce cit., n. 71), relativa alla messa in commercio di confezioni di moz
zarelle sulle quali era apposta la sola data di produzione, la corte ha
osservato che la 1. 11 giugno 1986 n. 252, nella parte in cui impone al produttore di formaggi freschi a pasta filata di indicare sull'imbal
laggio, anziché il termine minimo di conservazione del prodotto, la sua
data di produzione (art. 1), non va applicata per incompatibilità con
l'art. 3 della direttiva Cee n. 79/112, a norma della quale va invece
ritenuto sempre cogente l'obbligo di indicare tale termine minimo e non
già la data di fabbricazione.
Nell'altra decisione (Cass. 28 maggio 1993, n. 5963, id., Mass., 593), in cui si discuteva in merito all'esatta interpretazione della circolare
del ministro della sanità dell'I 1 ottobre 1978, in cui si dispone che la
validità del latte pastorizzato non deve protrarsi oltre quattro giorni da quello di confezionamento, è stata accolta la tesi secondo cui nei
quattro giorni di validità non va compreso anche quello di confeziona
mento, come, peraltro, risulta confermato dall'art. 5, 3° comma, 1.
3 maggio 1989 n. 169 che ha disciplinato il trattamento e la commercia
lizzazione del latte alimentare vaccino.
In tema di alimenti deperibili, per i riflessi di ordine processuale in
punto rispetto delle garanzie difensive per l'espletamento delle analisi
chimiche, v. Pret. Trento 4 giugno 1993 (giud. Pascucci, imp. Corradi
ni, inedita) che, richiamando Corte cost. 434/90 (Foro it., 1991, I, 21), ha osservato che «la deteriorabilità non va intesa con riferimento alla
sostanza alimentare in quanto tale (che non può che essere deteriorabi
le), ma in rapporto alla attendibilità della ricerca analitica che si preten de di eseguire. Lo yogurt è il tipico esempio di prodotto altamente de
peribile ma del quale va rifiutata l'etichetta di deteriorabilità ove si
intenda mirare la ricerca sulla percentuale di sostanze grasse presenti». Su questo presupposto, è stato escluso che l'analisi orientata alla sola
ricerca della sostanza grassa contenuta nello yogurt richiedesse l'osser
vanza della comunicazione all'interessato della data delle analisi.
Su queste tematiche, cfr. Paone, I reati in materia di inquinamento,
Torino, 1993, in corso di pubblicazione.
(3) Non risultano precedenti sulla configurabilità del delitto di tenta
ta frode in commercio nel caso di detenzione per la vendita di alimenti
con termine minimo di conservazione superato.
Il Foro Italiano — 1994.
minazioni da streptococchi, attestando, invece, la presenza di
germi di escherichia coli nella proporzione di cui in atti.
Pertanto, il tema della cognizione, nel presente procedimen
to, si incentra e si circoscrive (nell'ottica della norma incrimina
trice ex art. 5, lett. d, 1. 283/62) intorno al giudizi di valore
sul significato igienico della presenza, nel prodotto caseario, di
tracce di escherichia coli nei quantitativi accertati, fermo restan
do che (come evidenziato dalle attendibili conclusioni dell'esa
me peritale eseguito in corso di causa), la presenza di quelle de
terminate cariche di escherichia coli nel prodotto in questione
non integra, in se e per se, alcun fattore di nocività antigienica
e di potenzialità patogenetica (essendo di norma esclusa una ef
ficienza patogenetica della carica batterica cosi come rilevata),
ma potrebbe, al più, esser semplicemente indizio o sintomo ge
nerico di ulteriori e diversi (ma meramente ipotetici) fenomeni
contaminativi ad opera di altri, eventuali agenti microbiologici,
In dottrina, sostiene da tempo questa tesi Correrà, Tutela igienico
sanitaria, cit., 205-218. Infatti, secondo Fa., l'esercente può continuare
a porre in vendita un prodotto alimentare che abbia superato il termine
minimo di conservazione, ma non può lecitamente farlo senza eviden
ziare questa circostanza all'acquirente con apposito cartello o con speci fica dichiarazione. Questa opinione presta però il fianco all'obiezione
che il commerciante, ponendo in vendita un prodotto con il termine
minimo di conservazione scaduto, non tenta affatto di consegnare al
l'acquirente una cosa diversa da quella dichiarata giacché sulla confe
zione compare l'effettivo termine di conservazione del prodotto e quindi il consumatore non è per nulla ingannato sulla reale qualità del bene
offerto in vendita. Altra è, invece, l'ipotesi di un fraudolento sposta mento nel tempo del termine di consumazione indicato dal produttore:
per la sussistenza, in tal caso, del reato di tentata frode in commercio, v. Pret. Mantova 7 giugno 1990, Foro it., 1991, II, 267 e Pret. S. Minia
to 17 giugno 1988, id., Rep. 1991, voce Frode in commercio, n. 8.
Va peraltro notato che il Pretore di Caltanissetta ha escluso il reato
di cui agli art. 56 e 515 c.p. sulla scorta di due argomenti.
Infatti, da una parte si sostiene che per aversi frode in commercio
occorre che la cosa consegnata sia diversa per qualità da quella dichiara
ta o pattuita e che a questo fine non basta il semplice superamento del
termine minimo di conservazione, specie se il prodotto alimentare non
è altamente deperibile, essendo di contro necessario l'accertamento di
uno scadimento quantomeno delle sue qualità organolettiche e nutrizio
nali garantite dal produttore attraverso l'indicazione del termine di sca
denza. Sotto questo profilo, la decisione è coerente con le argomenta zioni già svolte in relazione alla configurabilità della contravvenzione
di cui all'art. 5 1. 283/62.
Dall'altra parte, però, si sostiene che il tentativo di frode in commer
cio richieda sempre almeno un inizio di reale contrattazione tra vendito
re ed acquirente. In argomento, va ricordato che la Corte suprema ha maturato un orien
tamento meno rigoroso di quello, pur tradizionale, invocato dal preto re: v., infatti, in tema di detenzione per la vendita di prodotti surgelati non indicati come tali nella lista delle vivande, Cass. 10 febbraio 1990,
Albano, ibid., n. 4; 3 dicembre 1988, Gnocchi, id., Rep. 1990, voce
cit., n. 8; 24 giugno 1986, Capalbo, id., Rep. 1987, voce cit., n. 9; 20
marzo 1986, Duca, ibid., n. 6; 30 marzo 1986, Randisi, ibid., n. 7.
In dottrina, su questi temi, v. Correrà, Esposizione in vendita o of
ferta al consumatore di pesce congelato, in Giur. merito, 1982, 907, e Severini, Tentativo di frode in commercio ed esposizione alla vendita,
ibid., 147.
Peraltro, va aggiunto che nello stesso senso accolto dal pretore nella
sentenza in epigrafe si è espressa Cass. 25 settembre 1989, Pansano, Foro it., Rep. 1991, voce cit., n. 10 (citata anche nella motivazione) e Cass. 10 gennaio 1990, Lanuara, ibid., voce Alimenti e bevande, n.
70 (in una fattispecie in cui salsicce sfuse venivano offerte in vendita
come confezionate con carne suina, mentre risultavano confezionate con
carne mista di suino e bovino, la corte ha ritenuto che il tentativo di
frode commerciale è ammissibile solo in presenza di una contrattazione
idoneamente e inequivocabilmente predisposta alla consegna di merce
diversa a chi in concreto intenda acquistarla, non essendo sufficiente
ad integrare tale ipotesi criminosa la semplice esposizione della merce
per l'eventuale vendita). Da ultimo, Cass. 3 aprile 1992, Esposito, Cass.
pen., 1993, 2000, pare, tuttavia, aver confermato il principio che ricorre
il reato di tentativo di frode in commercio nell'ipotesi di detenzione per
la vendita di carne scongelata come fresca in un deposito a disposizione
degli acquirenti. Da ultimo, in generale, su questa fattispecie delittuosa, v. Pret. Foggia
Cerignola 29 ottobre 1992, Foro it., 1993, II, 452. [V. Paone]
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PARTE SECONDA
questi ultimi potenzialmente nocivi, che potrebbero esser pene trati nel prodotto per le stesse via modali di ingresso del germe
escherichia.
Nello stesso elaborato peritale in atti si evidenzia, peraltro,
che la normativa sanitaria vigente non individua alcuna «soglia»
ufficiale di tolleranza o di accettabilità, oltre la quale la presen za di escherichia coli nel prodotto alimentare possa definirsi se
gno di processi contaminativi dotati di significato patogenetico,
né, del resto, tale «soglia» di rilevanza viene oggettivamente de
finita dalla scienza medica.
Sulla scorta di quanto sopra, si possono quindi stabilire, nel
presente giudizio, i seguenti punti fermi:
A) il prodotto caseario per cui è causa non può considerarsi
nocivo per la salute umana, stante la carenza di specifico signi
ficato potenzialmente patogenetico nella presenza di escherichia
coli nelle proporzioni in atti rilevate.
B) indipendentemente dalla sopra indicata assenza di signifi
cato potenzialmente patogenetico, la presenza di germi di esche
richia coli potrebbe tuttavia costituire mero sintomo generico
(«spia») dell'eventuale ingresso, per le stesse vie microbiologi
che, di altri e diversi agenti biologici, di analoga origine intesti
nale, questi ultimi invece portatori di rischio patogeno, fermo
però restando che un conto è dire che una sostanza possa costi
tuire mera «spia» della possibile (ma indimostrata) presenza di
un'altra sostanza, e altro conto è invece dire che ne possa costi
tuire premessa o condizione causale (tale relazione causale, an
che virtuale, nella specie, appare esclusa dalle risultanze peritali, come pure risulta esclusa, o perlomeno non provata, la presen
za, nel prodotto, di agenti microbiologici dotati di specificità
patogena). A questo punto, il problema del decidere va concettualmente
sintetizzato e semplificato alla definizione della portata e dei li
miti di operatività della norma incriminatrice ex art. 5, lett. d,
1. 283/62, che vieta la vendita di sostanze alimentati invase da
parassiti, insudiciate, in stato di alterazione o comunque nocive».
Va, al riguardo, anzitutto soffermata la attenzione sulla locu
zione conclusiva «o comunque nocive», che possiede una valen
za definitoria «riassuntiva» di quello che va inteso come il mini
mo comune denominatore (sotto il profilo della ratio normati
va) delle distinte ipotesi esemplificate in modo espresso dalla
norma in esame, e che vale a delimitare la «condizione necessa
ria e sufficiente» del significato antigiuridico comune alle pre dette variabili fenomenologiche esemplificate dalla norma stessa.
Orbene, se il fondamentale dato di disvalore necessariamente
comune alle ipotesi tutte contemplate dalla norma (sia le ipotesi
espresse, sia quelle genericamente richiamate nella formula di
chiusura) è sempre e comunque la potenzialità nociva per la sa
lute, è stato tuttavia osservato, da parte della più accreditata
giurisprudenza, che nelle ipotesi formulate in modo «espresso» dalla norma (insudiciamento, alterazione, invasione da parassi
ti) la nocività si deve intendere presunta in re ipsa. Ciò può senz'altro esser condiviso, a patto, però, che esista
estrema chiarezza in ordine ai termini concettuali del predetto
rapporto di equipollenza o equivalenza (presunto della norma) fra la nocività per la salute, da un lato, e le singole caratteristi
che morfologiche distintamente esemplificate dalla norma più volte citata.
Orbene, se è abbastanza chiaro e indiscutibile che la caratteri
stica morfologica costituita dalla «invasione da parassiti» è, da
un lato, sia empiricamente che concettualmente chiara (anche
per ciò che concerne la evidente immanenza, in tale caratteristi
ca, del potenziale di antigienicità e di nocività per la salute), dall'altro lato non altrettanto agevole si presenta invece la defi
nizione della caratteristica morfologica costituita dall'«insudi
ciamento» (che è quella oggetto della contestazione accusato
ria), quale termine di riferimento del predetto giudizio presunti vo a priori di nocività per la salute, come implicitamente
ipotizzato dalla norma incriminatrice.
È infatti necessario interrogarsi sul significato (non solo gene
rale, ma anche specifico, in relazione al predetto giudizio a priori di presunzione di nocività ricavabile dalla norma incriminatri
ce), della nozione di «insudiciamento», nozione che non può
Il Foro Italiano — 1994.
esser tratta, tout court, da meri e frammentari dati empirici, ma che va invece definita categorialmente, come altra nozione
rilevante ai fini della predeterminazione, generale ed astratta,
degli elementi costitutivi di una fattispecie di reato, nell'ovvio
rispetto del principio di legalità, per cui la prefigurazione astrat
ta del fatto ne deve precedere la verifica empirica a posteriori.
In tal senso, la necessaria definizione in senso categoriale, ol
tre a non poter procedere (come si è detto), per via empirica,
non può procedere neppure per via meramente analogica, ossia
mediante equiparazione o comparazione con nozioni fenomeni
che affini, ovvero (sul piano linguistico) con nozioni lessicali di
senso similare o sinonimico: dire che «insudiciato» significhi «in sozzato», «lordato» o «inquinato» non risolverebbe il problema
di una definizione per essenza.
Risalendo, invece, alla fonte primaria del dato concettuale,
è corretto affermare che il nucleo essenziale della nozione di «in
sudiciamento» presuppone l'idea di una contaminazione.
A sua volta, tale presupposta nozione di «contaminazione»
non può esser intesa, in senso inammissibilmente generico, co
me una qualsivoglia modificazione da contatto con una sostan
za estranea (poiché, in tal caso, dovrebbe paradossalmente defi
nirsi «contaminante», nel senso di «insudiciarne», anche il con
tatto con una sostanza estranea che sia del tutto sterile ed inerte
dal punto di vista biologico ed igienico), ma deve invece esser
intesa nel senso di una contaminazione igienicamente degradan
te, tale da indurre un deterioramento della qualità o della condi
zione igienica della sostanza che subisce il contatto: tale conclu
sione, di per sé ovvia, appare ancor più ovvia alla luce della
già notata locuzione conclusiva «o comunque nociva» dell'art.
5, lett. d, 1. 283/65 che, come si è detto, evidenzia nel carattere
della nociva antigienicità l'indefettibile dato di disvalore di tutte
le ipotesi contemplate nella norma stessa.
Se, dunque, deve trattarsi di una contaminazione antigienica,
o igienicamente degradante, è peraltro assai agevole osservare
che la nozione di «antigienicità» coincide a sua volta con la no
zione sia pur generica di «nocività per la salute», e ciò anche
sulla base del senso etimologico della parola «igiene» (essendo ne chiara la derivazione dal greco ighies, equivalente a «sano»):
— per meglio dire, dunque, una condizione di «igienicità»
corrisponde ad uno stato di pulizia o di purezza direttamente
ed essenzialmente finalizzato alla garanzia della salute, e una
condizione di «antigienicità» è, inversamente, uno stato di con
taminazione incompatibile con la salute, e nocivo per la stessa.
Riassumendo, dunque, possiamo correttamente affermare che
la nozione di «insudiciamento» (ai fini e per gli effetti della nor
ma incriminatrice ex art. 5, lett. d, 1. 283/62) non può prescin dere dal dato concettuale della degradazione antigienica, che a
sua volta non può prescindere dal dato della nocività per la sa
lute, dato concettuale che, del resto, come si è detto, è sotteso
all'intero arco delle variabili contemplate dalla norma stessa.
Da tutto quanto sopra argomentato discende inevitabile la con
seguenza che, ai fini e per gli effetti della norma incriminatrice
in esame, non può ritenersi realizzata l'ipotesi di «insudiciamen
to» di sostanze alimentari ogniqualvolta la presenza di sostanze
sia pur estranee non sia connotata da una effettiva valenza anti
gienica, id est di potenzialità nociva («comunque nociva») per la salute.
Orbene, nella specie in esame, ripetesi, le attendibili risultan
ze peritali in atti escludono (sia pure con generiche riserve) il
predetto, indefettibile requisito della nocività per la salute, tan
t'è che nelle conclusioni medesime si legge che «al quesito se
il materiale in esame fosse nocivo, si deve rispondere che non
era nocivo, sia per l'assenza di germi patogeni, sia per la non
nocività dei germi evidenziati d'origine intestinale o ambientale».
Se è vero, peraltro (come si evince dalle risultanze peritali) che la presenza di escherichia coli (di per sé non nociva) nel
prodotto caseario potrebbe esser «spia» dell'eventuale ingresso anche di altri agenti microbiologici, va ribadito che tale mera
eventualità non è, in primo luogo, prospettabile in termini di
relazione causale con la presenza di escherichia, e non è, in se
condo luogo, suscettibile di fondare alcun addebito penale a ca
rico del produttore, posto che il reato ex art. 5, lett. d), 1.
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GIURISPRUDENZA PENALE
283/62 (che è reato di pericolo concreto) postula ovviamente la
presenza effettiva e dimostrata di agenti biologici idonei alla de
terminazione di uno stato di pericolo per l'organismo umano,
non essendo ovviamente sufficiente, ai fini della stessa norma
incriminatrice, uno stato meramente e ipoteticamente «prodro mico» del pericolo stesso, come a dire, paradossalmente, una
aspettativa di pericolo o il «pericolo di un pericolo»!
La presenza di germi oggettivamente patogeni nel prodotto
in questione è stata comunque esclusa dalle risultanze peritali
in considerazione della natura e della entità della carica batteri
ca esaminata.
L'imputato va dunque assolto perché il fatto contestato non
sussiste.
II
All'esito dell'odierna udienza dibattimentale, il pretore, preso
atto delle conclusioni assunte dal pubblico ministero e dalla di
fesa come in epigrafe trascritte, osserva in fatto ed in diritto.
In data 25 gennaio 1991 agenti della guardia di finanza di
Caltanissetta sequestravano generi alimentari recanti sulle con
fezioni date di scadenza già decorse, rinvenuti nell'esercizio com
merciale dell'imputata. Rinviata costei successivamente a giudizio per la contravven
zione di cui agli art. 5, lett. b), e 6 1. n. 283 del 1962, nonché
per il delitto di cui all'art. 515 c.p., con decreto di citazione
del 29 novembre 1991, veniva all'udienza dichiarata contumace
non essendo comparsa e non ricorrendo le condizioni di cui agli
art. 485 e 486, 1° e 2° comma, c.p.p. Nel corso dell'istruzione dibattimentale veniva esaminato co
me testimone il brigadiere Falcone, in relazione alle circostanze
relative all'accertamento delle contestate violazioni. Questi con
fermava che i generi alimentari sequestrati riportavano sulle con
fezioni termini di conservazione scaduti, e che si trovavano esposti
per la vendita nel negozio dell'imputata.
Ritiene, tuttavia, il pretore di doverla assolvere in relazione
ad entrambi i reati.
Rispetto alla contravvenzione prevista e punita dagli art. 5,
lett. b), e 6 1. n. 283 del 1962, il motivo va individuato nella
insufficiente prova della sussistenza del fatto, inteso come catti
vo stato di conservazione degli alimenti.
Occorre preliminarmente chiarire come, nel caso di specie, le
sostanze consistessero in olii alimentari e bevande gassate anal
cooliche, e, dunque, in alimenti scarsamente deperibili. Per gli
olii soltanto le abrogate disposizioni d.p.r. n. 327 del 1980 pre
vedevano, all'art. 65, la necessità per le etichette di riportare
la data di confezionamento riferita semplicemente a mese ed an
no. Il successivo d.p.r. n. 322 del 1982, attualmente in vigore,
ha invece prescritto in via generale, con le sole esclusioni indivi
duate all'art. 10, 7° comma, che l'etichettatura dei prodotti ali
mentari comporti necessariamente l'indicazione del termine mi
nimo di conservazione (art. 3), da intendersi come la data fino
alla quale il prodotto conserva le sue proprietà specifiche in ade
guate condizioni di conservazione.
Tale definizione, fornita dal 1° comma dell'art. 10, viene uti
lizzata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità per legare
indissolubilmente lo stato di conservazione al termine di scaden
za. La contravvenzione di cui al citato art. 5, lett. b), viene,
infatti, comunemente costruita come reato di pericolo, non ri
chiedendosi per la consumazione che la merce sia effettivamente
alterata, inquinata o, comunque, nociva, onde consentire una
tutela anticipata del consumatore.
Tale indirizzo, senza dubbio apprezzabile sul piano della pre
venzione generale, appare, tuttavia, a questo giudice, essere frutto
di un equivoco che riferisce il pericolo non già alla lesione del
l'interesse alla salute collettiva bensì alla probabilità di altera
zione dell'alimento in conseguenza della scadenza del termine
minimo di conservazione. La contravvenzione di cui all'imputa
zione è ben qualificabile come reato di pericolo astratto, essen
do questo implicito nella realizzazione della condotta, ma tale
Il Foro Italiano — 1994.
conclusione non esime dal riscontro della conformità della con
dotta al tipo legale.
In sostanza, deve escludersi la possibilità di ricavare automa
ticamente la prova dell'alterazione dell'alimento dal semplice su
peramento del termine di conservazione, definito, oltretutto, dalla
legge come «minimo», ciò costituendo un semplice indizio della
perdita attuale o più o meno prossima delle caratteristiche ga
rantite dal produttore fino ad una certa data. Occorrono ulte
riori riscontri obiettivi al fine di ritenere lo stato di cattiva con
servazione degli alimenti scaduti, da acquisirsi mediante esami
di laboratorio. Il prelevamento di campioni e la conseguente ana
lisi chimica costituiscono, del resto, il principale strumento at
tribuito agli organi di vigilanza igienico-sanitaria dal regolamen
to di esecuzione della 1. n. 283 del 1962 (d.p.r. 327/80), il quale ne fornisce, al titolo primo, una disciplina minuziosa delle mo
dalità. Si aggiunga che questa tesi, formulata in via generale, appare
confermata, per i prodotti non facilmente deperibili, da un ar
gomento testuale legato al 2° comma dell'art. 10 d.p.r. n. 322
del 1982 che prescrive la menzione sull'etichetta «da consumarsi
entro...» solo per le sostanze altamente deperibili dal punto di
vista microbiologico altrimenti essendo sufficiente quella «da con
sumarsi preferibilmente entro...». Per tali ultimi prodotti è poi
prescritta la semplice indicazione del mese e dell'anno, o del so
lo anno se conservabili per più di diciotto mesi.
Il termine «preferibilmente» appare di per sé solo indice della
volontà del legislatore di non operare alcuna discriminazione tra
alimenti salubri ed insalubri mediante il termine minimo di con
servazione (cfr., in questo senso, Cass 12 novembre 1974, Pal
chetto, Foro it., Rep. 1975, voce Alimenti e bevande, nn. Ili,
112; 2 dicembre 1985, Domizi, id., 1987, II, 320). Occorre, infi
ne, rilevare come nel caso di specie non sia stato neppure possi
bile appurare a quando risalisse il decorso del termine rispetto
al momento del sequestro, tali elementi non risultando dal rela
tivo verbale ed essendo stati gli olii e le bevande analcoliche di
strutti anteriormente all'istruzione dibattimentale.
Per quanto attiene, invece, alla contestata imputazione di fro
de nell'esercizio del commercio, occorre preliminarmente rileva
re come, mancando la prova di un'avvenuta attività contrattua
le (pattuizione-dichiarazione) tra venditore ed acquirenti relati
va ai prodotti sequestrati, non sussiste l'elemento materiale del
reato di cui all'art. 515 c.p. Come è stato più volte chiarito (cfr., recentemente, Cass.,
sez. VI, sentenza 183888/89), il termine «consegna» individua
fattispecie diversa dal semplice «porre in vendita». Ed a meno
che non si tratti di vendita in supermercato nelle forme del
self service, ciò che non è nel caso in esame, in cui il prodotto
è messo a completa disposizione del pubblico, ed in cui il por
re in vendita il bene coincide con la sua possibile consegna
all'acquirente, la semplice esposizione della merce non è di
per sé sufficiente neppure a concretizzare il tentativo, occor
rendo all'uopo una reale contrattazione con il compimento di
atti inequivocabilmente predisposti alla consegna della cosa (cfr.
Cass. 2 febbraio 1973, Locci, id., Rep. 1973, voce Frode in
commercio, n. 4; 29 novembre 1971, Di Gaeta, id., Rep. 1972,
voce cit., n. 20).
Rispetto all'imputazione di cui al capo B), l'imputata va, per
tanto, dichiarata assolta mancando la prova della sussistenza
del fatto.
Si aggiunga che per aversi cosa qualitativamente diversa da
quella dichiarata o pattuita, nonostante l'identità della specie,
occorre una divergenza su elementi intrinseci di essa. L'essere
stata messa in vendita merce oltre la scadenza del periodo mini
mo di conservazione, specie ove si tratti di sostanze alimentari
non altamente deperibili, costituisce semplice presupposto di una
circostanza ulteriore che comunque deve essere provata: che si
sia determinata nelle sostanze un'alterazione od un'avaria che
ne modifichi le qualità di composizione, commestibilità e nutri vità originariamente possedute e prese in considerazione dai con
traenti all'atto della compravendita. L'indicazione del termine
di scadenza attiene, infatti, ad un elemento estrinseco del pro
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PARTE SECONDA
dotto, quale è la garanzia fornita dal produttore in ordine alla
sua sicura commestibilità (in termini Cass. 7 febbraio 1974). Anche in relazione a tale divergenza manca o, comunque, è
insufficiente la prova.
PRETURA DI PALERMO; sentenza 11 gennaio 1993; Giud.
Scalia; imp. Barrale.
PRETURA DI PALERMO;
Truffa — Truffa in danno dell'Enel — Sottrazione di energia mediante manomissione del contatore — Reato — Configu rability — Trasformazione dell'Enel in s.p.a. — Truffa ag
gravata — Esclusione (Cod. pen., art. 640; d.l. 11 luglio 1992
n. 333, misure urgenti per il risanamento della finanza pub
blica, art. 15; 1. 8 agosto 1992 n. 359, conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 11 luglio 1992 n. 333).
Legge penale — Norme integratrici — Successione nel tempo — Retroattività della legge più favorevole — Truffa in danno
dell'Enel — Esclusione — Truffa semplice (Cod. pen., art.
2, 640; d.l. 11 luglio 1992 n. 333, art. 153; 1. 8 agosto 1992
n. 359).
L'entrata in vigore del d.l. 11 luglio 1992 n. 333, convertito
nella l. 8 agosto 1992 n. 359, che ha trasformato l'Enel in
società per azioni (art. 15), ferma la idoneità astratta del com
portamento di colui che, alterando il misuratore di energia
elettrica, induca in errore l'ente erogatore nella determinazio
ne della quantità di energia consumata ad integrare il reato
di truffa semplice (perseguibile a querela di parte), ha fatto venir meno il carattere di ente pubblico dell'Enel e la possibi lità di ritenere il fatto aggravato ai sensi dell'art. 640, cpv., n. 1, c.p., con la conseguente preclusione di procedere d'uffi
cio, ai sensi dell'ultimo comma di tale disposizione. (1)
(1) Il Pretore di Palermo, ha ravvisato nella condotta di colui che, mediante manomissione del contatore, sottrae energia elettrica in danno dell'Enel, gli estremi del reato di truffa semplice, escludendo che la condotta in oggetto possa integrare la fattispecie aggravata di cui al l'art. 640, cpv., n. 1, c.p.: ciò dal momento che l'entrata in vigore del d.l. 11 luglio 1992 n. 333 (convertito nella 1. 8 agosto 1992 n. 359), avendo trasformato, all'art. 15, l'Enel in società per azioni, avrebbe fatto venir meno la configurazione pubblica dell'ente, soggetto passivo del reato, con conseguente esclusione della possibilità di ritenere il fatto
aggravato e connessa preclusione della possibilità di procedere in man canza di una querela di parte. Sull'art. 15, cfr., per riferimenti, Corte cost. 28 dicembre 1993, n. 466, in questo fascicolo, parte prima.
In ordine alla qualificazione giuridica della fattispecie relativa alla sottrazione di energia elettrica, mediante alterazione preventiva del mi
suratore, si sono in precedenza alternati due diversi orientamenti, sia sul versante dottrinale, sia in sede applicativa.
Secondo un orientamento giurisprudenziale, nel quale si colloca an che la sentenza in epigrafe, si ritiene appunto che la condotta in que stione integri gli estremi del reato di truffa; tale configurazione crimi nosa trae argomento dal rilievo che l'alterazione del contatore, stru mento la cui funzione non sarebbe quella di trasferire l'energia quanto piuttosto di determinarne il consumo, risulterebbe finalizzata ad impe dire l'esatta indicazione del quantitativo di energia utilizzata in danno dell'ente erogatore, che viene ad essere, a causa dell'artifizio, defrauda
to, in tutto o in parte, del corrispettivo dovutogli dall'utente: cfr. Trib. Pinerolo 28 febbraio 1973, Foro it., Rep. 1973, voce Truffa, n. 47; Cass. 25 febbraio 1986, Moretti, id., Rep. 1987, voce cit., n. 57;
Il Foro Italiano — 1994.
Ai processi per il reato di truffa aggravata ex art. 640, cpv., n. 1, c.p., in danno dell'Enel, instaurati prima dell'entrata
in vigore del d.l. 11 luglio 1992 n. 333 (da considerarsi nor mativa extra-penale, che ha trasformato l'Enel, quale even
tuale soggetto passivo di detto reato, in società per azioni) e pendenti a tale data, si applica il principio della legge poste riore più favorevole, di cui al 2° comma dell'art. 2 c.p., per
effetto del quale deve escludersi che all'utente che, con la
manomissione del contatore, abbia indotto in errore l'ente
erogatore sulla esatta indicazione dell'energia elettrica consu
mata, possa farsi carico anche dell'aggravante di cui al 2°
comma dell'art. 640, n. 1, c.p., potendosi configurare solo
l'ipotesi criminosa del reato di truffa semplice, perseguibile a querela di parte. (2)
5 maggio 1986, Chiodini, ibid., n. 59; 5 maggio 1986, Biscossi, ibid., n. 58 e Giur. it., 1987, II, 7; 21 aprile 1989, Mennello, Foro it., Rep. 1990, voce cit., n. 30; 10 maggio 1989, Braconi, ibid., n. 31; 12 maggio 1989, Iannone, ibid., n. 32; 4 aprile 1990, Pellingra, id., Rep. 1991, voce cit., n. 28 e Rass. giur. energia elettrica, 1990, 1018.
Nello stesso senso si è orientata una parte della dottrina: cfr. Casoli, Furto o truffa di energia?, in Foro it., 1959, II, 2; Angelotti, Delitti contro il patrimonio, in Trattato di diritto penale a cura di Florian, Milano, 1936, 213; Pecorella, Furto, voce dell' Enciclopedia del dirit
to, Milano, 1969, XVIII, 340.
Un altro indirizzo ravvisa, invece, gli estremi del reato di furto; se
condo tale tesi, infatti, la proprietà dell'energia elettrica si acquistereb be con il suo passaggio attraverso il contatore, per cui se l'apprensione avviene in contrasto con le disposizioni contrattuali, l'energia sottratta non sarebbe compresa nel consenso del venditore, realizzandosi, per tanto, un impossessamento della cosa invito domino: cfr. Cass. 13 otto bre 1933, Santoro, Foro it., Rep. 1934, voce Furto, n. 56; 22 gennaio 1958, Diana, id., 1959, II, I, con nota di Casoli; 12 giugno 1961, Ulis
se, id., Rep. 1961, voce cit., n. 70; 11 dicembre 1974, Ruggiero, id., 1976, II, 5, con nota di Boschi; Trib. Napoli 12 febbraio 1980, id.,
Rep. 1981, voce cit., n. 32; Pret. Brescia, ord. 19 marzo 1986, id., 1988, II, 338, con nota di Giacona; Cass. 27 maggio 1986, La Vista, id., Rep. 1987, voce Prova penale, n. 49.
Ed anche una parte della dottrina inclina a ricondurre la condotta in esame al reato di furto: cfr. Sandulli, Il furto di energia elettrica e l'aggravante del mezzo fraudolento, in Giust. pen., 1937, II, 542; Petrocelli, L'appropriazione indebita, 1933, 309; Crespi, Il contratto di somministrazione di energia nella struttura del reato di furto, in Riv. it. dir. pen., 1951, 430; Manzini, Trattato di diritto penale, Torino, 1984, IX, 24; Giacona, Considerazioni sul furto aggravato di energia elettrica e sul suo momento di commissione in caso di successione di
leggi processuali, in Foro it., 1988, II, 338. Per quanto riguarda, invece, l'alterazione del contatore, effettuata
successivamente al consumo di energia già registrato, vi è una sostan ziale unanimità nel ritenere che si tratti di truffa: in dottrina, cfr. Caso
li, Furto o truffa, cit., 2; Pecorella, Furto, cit., 340; Manzini, Trat
tato, cit., 24; Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte speciale, vol. II, tomo II, Delitti contro il patrimonio, Bologna, 1992, 56; contra, tutta
via, Giacobini, Questioni in tema di furto, in Studi in onore di Eula, Milano, 1957, II, 85; in sede applicativa, cfr. Cass. 27 aprile 1960, Quadro, Foro it., Rep. 1961, voce Truffa, n. 11; App. Catanzaro 2 dicembre 1964, id., Rep. 1966, voce Furto, n. 106; Cass. 18 aprile 1966, De Marco, ibid., voce Truffa, n. 25.
(2) In ordine alla problematica relativa alla definizione di «legge pe nale», ai sensi dell'art. 2 c.p., la giurisprudenza non ha fornito una lettura univoca.
Secondo un'interpretazione più estensiva, conforme anche a quella della sentenza in epigrafe, si ritiene che per legge incriminatrice debba intendersi non solo qualsiasi elemento espressamente inserito nella nor ma penale, ma anche qualunque legge extra-penale integratrice di essa: cfr. Cass. 22 aprile 1981, Bura, Foro it., Rep. 1982, voce Legge penale, n. 9; 7 febbraio 1984, Di Piazza, id., Rep. 1985, voce cit., n. 4; Trib. Oristano 28 gennaio 1985, id., Rep. 1986, voce cit., n. 9 e Riv. giur. sarda, 1986, 167, con nota di Barbalinardo; Trib. Palermo 13 dicem bre 1988, Foro it., 1989, II, 441, con nota di Rapisarda, tutte citate in motivazione; Trib. Genova 28 aprile 1992, id., 1993, II, 196, con nota di Bongiorno.
Secondo un'altra tendenza applicativa, invece, si ritiene che le modi ficazioni della norma integrativa del precetto penale non realizzino una successione di leggi, disciplinata dall'art. 2 c.p., poiché la norma penale rimane in vigore nella sua interezza malgrado il variare di quei comple tamenti previsti come mutevoli: cfr. Cass. 8 maggio 1978, Zamengo,
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