sentenza 3 marzo 1992; Pres. ed est. Guarino; imp. RaitanoSource: Il Foro Italiano, Vol. 115, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1992), pp.635/636-641/642Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23186016 .
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PARTE SECONDA
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I penale; sentenza 17 giu
gno 1991; Pres. Carnevale, Est. Pompa, P.M. (conci, conf.); ric. Caimuni. Annulla con rinvio App. Brescia 23 novembre
1990.
Esecuzione penale — Applicazione della disciplina del reato con
tinuato — Poteri del giudice (Cod. pen., art. 81; cod. proc.
pen., art. 671; norme att., coord, e trans, cod. proc. pen., art. 187).
Una volta introdotta la possibilità di applicazione della discipli na del concorso formale o del reato continuato in sede esecu
tiva, deve riconoscersi al giudice dell'esecuzione il potere-dovere di rideterminazione completa delle pene in aumento —- evi
dentemente nel rispetto dei limiti imposti dagli art. 81 c.p. e 671 c.p.p. — in una rappresentazione globale del numero
e dell'importanza di tutte le violazioni legate dal vincolo della
continuazione e della rideterminazione fra esse del reato più
grave, alla stregua del criterio dettato dalla disposizione di
attuazione di cui all'art. 187 norme att., coord, e trans, c.p.p.,
superando e travolgendo in tal modo la valutazione fram mentaria e parziale avvenuta in sede di cognizione. (1)
Il ricorrente contesta la legittimità dell'ordinanza impugnata sul presupposto di «erronea applicazione della legge penale ex
art. 606, n. 1 b), c.p.p.», in relazione agli art. 81 c.p., 671
e 187 d. leg. 28 luglio 1989 n. 271, assumendo che la detta
corte d'appello era incorsa in errore circa il criterio adottato
per la determinazione della pena base sulla quale effettuare i
relativi aumenti, con riguardo alla sede esecutiva, per avere con
siderato come reato più grave il reato di eversione della imposta di fabbricazione sugli oli minerali, per il quale il Caimuni era
stato condannato dalla Corte d'appello di Brescia, con la sen
tenza 29 marzo 1989, alla pena di anni due di reclusione e lire
100.000.000 di multa, aumentata per altri episodi di contrab
bando ed associazione per delinquere ad anni due, mesi otto di reclusione e lire 200.000.000 di multa, anziché il reato di
collusione (art. 3 1. 3 dicembre 1941 n. 1383). Il ricorso deve essere accolto, anche se per una ragione in
parte diversa da quella enunciata con predetta censura.
Invero, la norma dell'art. 671 c.p.p. è chiaramente finalizza
ta a rendere unificabile sotto il vincolo della continuazione, ai sensi del 1° comma e del 2° comma dell'art. 81 c.p., reati di
versi, come se fosse stato possibile giudicarli nell'ambito di un
simultaneus processus. Unico limite alla applicazione in sede
esecutiva della disciplina del concorso formale o del reato con
tinuato è costituito dalla sua esclusione da parte del giudice del
la cognizione; ma da tale limitazione non può derivare, come ritiene il giudice di merito, il divieto di rideterminazione della misura della pena nell'ambito della sentenza di condanna ri
comprendente la violazione ritenuta più grave, con la conse
guente applicazione a questa condanna — considerata nella to
talità della pena comminata anche per altri reati —, piuttosto che alla violazione più grave individuata in base al criterio po sto dell'art. 187 d.leg. 271/89, degli aumenti di pena per gli ulteriori reati ritenuti legati dal vincolo della continuazione.
Al contrario, la Corte suprema di cassazione (cfr. sez. un.
21 giugno 1986, Nicolini, Foro it., 1987, II, 309), già da tempo ha delineato il concetto di giudicato sostanziale, inteso come
«immodificabilità del giudizio sul fatto costituente reato», da cui non è consentito dedurre l'immodificabilità in assoluto del
trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile
di condanna; di guisa che, una volta introdotta la possibilità di applicazione della disciplina del concorso formale o del reato
(1) Analogamente, v. Cass. 19 settembre 1991, Zambianchi, Arch, nuova proc. pen., 1991, 270.
In generale sull'art. 671 c.p.p., v., in dottrina, Ambrosetti, Proble mi attuali in tema di reato continuato, Padova, 1991, 500; Corbi, L'e secuzione nel processo penale, Torino, 1992, 296; Cosseddu, Continua zione deI reato e giudicato di fronte alle scelte del c.p.p. del 1988, in Giust. pen., 1990, III, 14; Grosso, Continuazione del reato e processo penale tra dogma e riforma, id., 1989, IH, 590; Guardata, in Com mento al nuovo codice di procedura penale coordinato da Chiavario, Torino, 1991, VI, 555; Iazzetti, Il reato continuato nel nuovo c.p.p., in Arch, nuova proc. pen., 1990, 601.
Il Foro Italiano — 1992.
continuato in sede esecutiva, deve riconoscersi al giudice dell'e
secuzione il potere-dovere di rideterminazione completa delle pene in aumento — ovviamente, nel rispetto dei limiti imposti dagli art. 81 c.p. e 671 c.p.p. — in una rappresentazione globale del
numero e dell'importanza di tutte le violazioni legate dal vinco
lo della continuazione e della rideterminazione fra esse del rea to più grave alla stregua del criterio dettato dalla richiamata
disposizione di attuazione, superando e travolgendo cosi la va
lutazione frammentaria e parziale avvenuta in sede di cognizione. A tali principi non si è attenuta la Corte di appello di Brescia
allorché ha assunto «come pena base il reato più grave... che
deve essere tenuta ferma nella sua interezza e non può essere
disaggregata in sede di applicazione dell'art. 671 c.p.p.».
Pertanto, l'ordinanza impugnata deve essere annullata, con
rinvio, limitatamente al punto sopra evidenziato, per nuova de
liberazione, che, in conformità degli enunciati principi, provve da ad individuare, tra tutti i reati ricompresi nelle due sentenze
di condanna di cui in epigrafe — tra loro legati dal vincolo della continuazione — la violazione più grave, operando su questa
gli aumenti con riguardo a ciascuna delle altre violazioni.
CORTE D'APPELLO DI PALERMO; CORTE D'APPELLO DI PALERMO; sentenza 3 marzo 1992; Pres. ed est. Guarino; imp. Raitano.
Decreto penale — Sentenza di proscioglimento — Impugnazio ne — Disciplina (Cod. proc. pen., art. 129, 459, 568, 605).
La sentenza di proscioglimento emessa ai sensi degli art. 129 e 459, 3 ° comma, c.p.p. dal giudice per le indagini prelimina ri in sede di richiesta del pubblico ministero di emissione di
decreto penale di condanna, è soggetta alla disciplina genera le delle impugnazioni di cui agli art. 568 ss. c.p.p. (1)
(1) Questione nuova sulla quale non risultano precedenti.
* * *
Si ritiene opportuno per l'approfondimento della tematica pubblicare i motivi di ricorso per cassazione del procuratore generale di Palermo
(sostituto Giudici) avverso la sentenza.
Richiesto della emissione di un decreto penale di condanna per il reato di cui all'art. 2 1. 386/90, il g.i.p. della Pretura di Agrigento proscioglieva invece l'imputato, a norma degli art. 129 e 459 c.p.p., affermando che, a causa del mancato protesto dell'assegno, non sussi steva alcun fatto penalmente rilevante.
Su impugnazione di questa procura generale — che, ritenendo appli cabile l'art. 428 c.p.p., aveva richiesto l'annullamento della sentenza e la restituzione degli atti al giudice di primo grado — la corte di appel lo si considerava investita della facoltà di decidere nel merito, affer mando l'effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione del p.m., ed in riforma della sentenza del g.i.p. condannava l'imputato alla pena ritenuta congrua.
Nonostante lo sforzo interpretativo profuso dalla corte di appello per la novità della questione, la sua decisione non appare convincente: sem bra infatti che il collegio di secondo grado non abbia fatto corretta applicazione della normativa vigente, finendo col confondere il potere di annullamento di cui all'art. 428 c.p.p. con quello ex art. 604 c.p.p., ed entrambi questi con il potere di riforma della sentenza appellata, previsto invece dall'art. 605 c.p.p.
In conseguenza, questa procura generale si ritiene legittimata a pro porre ricorso per cassazione, avendo interesse alla corretta applicazione della legge e ad un intervento del Supremo collegio di legittimità che fornisca un autorevole indirizzo interpretativo della norma in questione.
Ciò posto, occorre anzitutto rilevare che, riformando la prima sen tenza con la condanna dell'imputato, la corte di appello non avrebbe
potuto applicare — né di fatto ha applicato — una «pena diminuita sino alla metà del minimo edittale» né alcuno degli altri riti speciali consentiti dall'art. 464 c.p.p. nel giudizio conseguente all'opposizione, sicché l'imputato è stato privato dei vantaggi derivantigli dalla eventua
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GIURISPRUDENZA PENALE
Fatto e diritto. — A carico di Raitano Antonio, il quale, il 31 ottobre 1990 in Canicattì, aveva emesso un assegno di c/c
di lire 4.000.000 non pagato alla presentazione per la mancanza
di fondi, il procuratore della repubblica presso la Pretura cir
condariale di Agrigento, in data 2 maggio 1991, chiedeva al
g.i.p. della stessa pretura di emettere decreto penale di condan
na alla multa di lire 250.000 per il reato di cui all'art. 2 1. 386/90
sulla nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari.
Il predetto g.i.p., disattendendo la richiesta, assolveva l'im
putato, con sentenza dell'8 maggio 1991, perché il fatto non
sussiste ai sensi degli art. 129 e 459/3 c.p.p.
le sua acquiescenza al decreto penale di condanna, che la controparte pubblica si era determinata ad offrirgli e che lo stesso legislatore aveva
previsto allo scopo di rendere particolarmente appetibile questo proce dimento speciale. Nonostante la riconosciuta erroneità della sentenza di primo grado, con la quale il g.i.p. — peraltro, senza contraddittorio — aveva fermato il procedimento per il decreto appena avviato dal
p.m., tale rito speciale è stato definitivamente abbandonato dalla corte
di appello, sicché la frattura, pur riconosciuta erronea, ha finito col
consolidarsi. Anche i riti speciali previsti dall'art. 464 c.p.p. sono dive nuti impraticabili, con pregiudizio della tendenza generale alla loro mas
sima diffusione quale strumento necessario per il buon esito della intera
riforma processuale. Ma se in effetti il gravame avverso la sentenza ex art. 459 c.p.p.
dovesse concretamente svolgersi e concludersi come nel caso in esame
è stato ritenuto dalla corte di appello, dovrebbe affermarsi che la legge
processuale abbia voluto dar carico all'imputato delle numerose conse
guenze negative derivanti dalla erronea pronunzia di primo grado, alla
quale egli è rimasto estraneo. Ed anzi tanto più sicuro sarebbe questo
irragionevole pregiudizio, quanto più smaccatamente erronea, fino al
l'arbitrio, dovesse poi risultare la sentenza di proscioglimento in primo
grado. Vero è che l'addurre gli inconvenienti di una certa interpretazione
non equivale alla prova della erroneità della stessa, ma è pur vero che
spetta all'interprete accertare se tali aberranti conseguenze siano effetti
vamente ineludibili, ovvero se, con un esame più approfondito e siste
matico della normativa vigente, sia possibile reperire una disposizione
adeguata alle concrete esigenze processuali, che consenta una ragione vole soluzione della questione.
Ad avviso di questa procura generale, una tale norma si rinviene nel
vigente sistema processuale, potendo desumersi dall'art. 428 c.p.p. e dallo stesso art. 604 c.p.p., menzionati dalla corte di appello con intenti
argomentativi opposti. Un confronto fra queste disposizioni e quelle contenute nel codice
previgente appare illuminante in proposito. È noto infatti che l'art. 129 del nuovo codice di procedura — nella
specie applicato dal g.i.p. — «ricalca» l'art. 152 del codice abrogato, dettando una disposizione di carattere generale, applicabile «in ogni stato e grado del processo».
Specifiche applicazioni della norma ex art. 129 c.p.p. risultano essere — fra gli altri e con gli ovvi adattamenti del caso — l'art. 425, con
riferimento alla udienza preliminare, e l'art. 459, 3° comma, c.p.p., relativo al procedimento per decreto. In quanto concernenti una fase
diversa ed anteriore a quella del giudizio, regolata nel libro settimo
del codice, questi articoli sono, per certi aspetti, grosso modo corri
spondenti all'art. 378 del codice previgente.
Quale ordinario mezzo di gravame avverso la sentenza ex art. 378
c.p.p. il codice abrogato prevedeva all'art. 387 una particolare impu
gnazione alla sezione istruttoria che — nel caso di riconosciuta erronei
tà del proscioglimento in primo grado — si concludeva con un provve dimento di mero impulso processuale, attraverso il quale, disponendosi il rinvio a giudizio dell'imputato, si rimetteva il processo nel corso ordi nario dal quale era stato distolto ad opera del giudice istruttore. Con
le ovvie differenze del caso, una analoga disposizione si rinviene nel
l'art. 428 del nuovo codice, prevedendo anch'esso, ove la sentenza del
g.i.p. sia riconosciuta erronea, un provvedimento conclusivo di mero
impulso processuale, il decreto che dispone il giudizio. In linea generale e mutatis mutandis, può dunque affermarsi che esi
ste una costante simmetria fra le nuove disposizioni e le precedenti, tale corrispondenza essendo imposta dalla persistenza delle medesime
esigenze processuali. In particolare, si rileva che le disposizioni dell'art. 152 del codice
previgente e dell'art. 129 del nuovo codice non erano né sono fornite
di una specifica norma relativa alla impugnazione di quelle sentenze,
poiché tale norma è di volta in volta stabilita con riferimento ai vari
stati e gradi del processo. SS rileva altresì' la permanenza della distinzio ne fra sentenze che paralizzano il normale corso del processo, antici
pandone la conclusione in applicazione dell'art. 129 c.p.p., e sentenze
emesse a seguito di giudizio in contraddittorio, con il rito ordinario
o con taluno dei riti speciali. Si rileva anche la permanenza del princi
II Foro Itaiiano — 1992.
Avverso detta sentenza il procuratore generale presso questa
corte, in data 17 maggio 1991, proponeva appello, ritualmente
notificato all'imputato il successivo 25 maggio 1991.
Ciò premesso, va rilevato che l'appellante si duole del pro
scioglimento dell'imputato evidenziando che il protesto o la con
statazione equivalente non è, contrariamente all'avviso del g.i.p., elemento costitutivo del reato o condizione di procedibilità giac ché l'art. 2 1. 386/90 richiede soltanto la emissione di un asse
gno il quale, presentato al pagamento entro il termine di cui
all'art. 32 r.d. 1736/33, non venga pagato per difetto o insuffi
cienza di provvista.
pio generale secondo cui, postosi rimedio ad un mancato impulso o riconosciuta una nullità insanabile, il processo penale regredisce al pun to in cui era stato erroneamente fermato, riprendendo il suo normale
corso in primo grado. Né può ritenersi, ad avviso di questo ufficio, che le considerazioni
sopra formulate trovino ostacolo negli art. 597 e 604 del nuovo codice
di procedura. Infatti non sembra pertinente il richiamo — operato dalla corte di
appello a sostegno della sua decisione — all'effetto pienamente devolu tivo dell'appello del p.m., poiché tale disposizione, inserita nell'art. 597
c.p.p., ripete la previsione del previgente art. 515 c.p.p., il quale certa
mente non veniva ad incidere sull'art. 387 del codice abrogato né impe diva alla sezione istruttoria di emettere l'impulso processuale omesso dal giudice istruttore.
Anche per l'art. 604 c.p.p. valgono le osservazioni già compiute in
ordine al tendenziale parallelismo di alcune disposizioni dell'abrogato e del vigente codice di procedura: anche in questo caso con gli opportu ni adattamenti, l'art. 604 c.p.p. sostituisce il previgente art. 522 c.p.p., il quale concerneva le «questioni di nullità» delle sentenze dibattimenta
li, e non refluiva sulla facoltà, per la sezione istruttoria, di annullare
una sentenza di proscioglimento e rinviare a giudizio l'imputato. Può anzi affermarsi che proprio nello stesso art. 604 c.p.p. si trova
una ulteriore conferma del principio generale secondo cui — fatte salve le ragioni di economia processuale — il processo regredisce al punto in cui si era verificato l'errore, se del caso con la restituzione degli atti al giudice di primo grado. E nel 7° comma, come già nel 5° comma
del precedente art. 522 c.p.p., si trova la conferma della intenzione
del legislatore di non privare l'imputato degli strumenti alternativi al
giudizio ordinario erroneamente negatigli dal giudice di primo grado. Orbene, se tutto ciò è vero, non sembra accettabile il travolgimento
di tutti questi principi generali, che risulta operato dalla corte di appel lo con la sentenza ora impugnata.
Nell'apparente silenzio della legge sullo strumento di gravame esperi bile avverso la sentenza emessa dal g.i.p. ex art. 459 c.p.p., sembra
potersi prospettare la seguente interpretazione. Vero è che l'art. 428 c.p.p. è inserito nel titolo nono del libro quinto,
relativo alla udienza preliminare, e che analoga disposizione non risulta
espressamente ripetuta per l'impugnazione della sentenza ex art. 459
c.p.p. È pur vero tuttavia che questa sentenza non risulta esplicitamen te presa in considerazione neppure fra le disposizioni concernenti l'ap
pello avverso le sentenze pronunziate in giudizio, di cui agli art. 593
ss. del nuovo codice. Può ipotizzarsi che la mancata previsione derivi da una involontaria
omissione del legislatore, il quale nel progetto preliminare non aveva attribuito al g.i.p. la facoltà di proscioglimento, che venne poi inserita nell'art. 459 del testo definitvo senza alcun coordinamento con le altre
disposizioni; in particolare, senza alcun coordinamento con la norma
ex art. 425 c.p.p., alla quale il 3° comma dell'attuale art. 459 c.p.p. sembra potersi assimilare.
È pur vero comunque che, ove si prescinda dalla collocazione topo
grafica, il contenuto dell'art. 428 c.p.p. può ben adattarsi anche alla
impugnazione di quest'ultima sentenza, non essendo con questa incom
patibile ed apparendo anzi soddisfare tutte le esigenze processuali già
poste in evidenza. È noto infatti che in alcuni casi è stata ritenuta l'applicabilità di talu
ne norme ad istituti del tutto diversi, che non soltanto non erano in
quelle disposizioni espressamente previsti, ma che addirittura ne sem
bravano esclusi. Cosi ad esempio, a proposito del procedimento contro
ignoti, la Corte costituzionale, con la sentenza 409/90 (Foro it., Rep.
1990, voce Indagini preliminari, n. 13), ha affermato che, proprio in
considerazione della finalità che accomuna tutte le varie ipotesi di ar
chiviazione, deve ammettersi l'estensione dalla ipotesi di base a quella di cui all'art. 415 c.p.p., «di quanto risulta compatibile con quest'ulti
ma, correlativamente alla non estensibilità di quanto si appalesa invece
incompatibile con essa». Con eguale argomentazione logica, si è dunque autorizzati a ritenere
che il mancato rinvio dell'art. 428 c.p.p. all'art. 459 c.p.p. «non signifi ca che anche le prescrizioni compatibili seguano la sorte di quelle in
compatibili». In conseguenza, pur in mancanza di espressa disposizio
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PARTE SECONDA
La doglianza è fondata. Invero, come statuito dal Supremo
collegio (sez. V 31 maggio 1991, Bonitatibus, Foro it., 1992,
II, 511) il reato di emissione di assegno a vuoto si consuma, ai sensi della 1. 386/90 applicabile anche alle emissioni commes se anteriormente alla sua entrata in vigore (4 gennaio 1991), nel momento in cui il titolo viene presentato in tempo utile alla
banca per il pagamento e non viene pagato per mancanza o
insufficienza di provvista, restando irrilevanti, ai fini della rea
lizzazione degli elementi costitutivi del reato e della procedibili
tà, tutti i fatti anteriori e successivi, tra cui il protesto.
ne, sembra potersi affermare che la sentenza ex art. 459 c.p.p. — alme
no nel caso, come quello in esame, di gravame del p.m. — è impugna bile con lo stesso strumento, nei medesimi limiti e con lo stesso oggetto
previsti dall'art. 428 c.p.p. per la sentenza emessa a norma dell'art.
425 c.p.p., entrambe le sentenze costituendo specifica applicazione del
l'art. 129 c.p.p. anteriormente alla fase del giudizio, in tal modo pre cluso ma eventualmente da ripristinare.
A questa conclusione non sembra d'ostacolo l'inciso contenuto nella
sentenza 580/90 della Corte costituzionale (id., Rep. 1991, voce Decre to penale, n. 11) — che ha prospettato l'applicabilità dell'art. 604, 6°
comma, c.p.p. all'appello dell'imputato avverso sentenza ex art. 459
c.p.p. dichiarativa della estinzione del reato — poiché nel caso ora in
esame il proscioglimento ad opera del g.i.p. fu pronunziato con formu
la ampiamente liberatoria nel merito e non già con una delle formule
(per estinzione del reato o improcedibilità) previste tassativamente da
quel 6° comma, e concretamente prese in considerazione dalla corte costituzionale. Già per questa ragione non sembra pertinente il richia mo di questa sentenza operato dalla corte di appello a sostegno della
sua decisione. Peraltro, non è superfluo notare che nella sentenza 580/90
fu rilevata l'eventualità di un appello dell'imputato avverso una senten za dichiarativa di amnistia, ma la Corte costituzionale non si è spinta sino alla affermazione che, ove fosse stato il p.m. ad impugnare la
sentenza del g.i.p., l'appello si sarebbe potuto concludere con una sen tenza di condanna.
In conclusione, questo ufficio ritiene che la corte di appello non fosse
legittimata a giudicare nel merito ed a condannare l'imputato, privan dolo di un giudizio in contraddittorio in primo grado e senza che l'or
gano del p.m. avesse mai richiesto la sua condanna in giudizio. La
corte avrebbe dovuto piuttosto annullare la sentenza del g.i.p. e rimet tere gli atti al giudice di primo grado per l'ulteriore corso.
In tal modo sarebbero state rispettate le varie esigenze processuali, senza aberrazioni di sostanziale iniquità, evitandosi anche di giudicare con una cognizione più estesa di quella attribuita al giudice di primo
grado, che giammai avrebbe potuto emettere, ex art. 459 c.p.p., una sentenza di condanna.
Ad avviso di questo ufficio, tuttavia, la corte di appello non avrebbe
potuto annullare la sentenza del g.i.p. ed emettere direttamente «il de creto che dispone il giudizio», come previsto dall'art. 428 c.p.p., poiché non è questo il punto in cui si verificò l'errore; non tale decreto il
g.i.p. era stato chiamato ad emettere, bensì' un decreto penale di con danna. Se dunque la corte avesse disposto il rinvio a giudizio, l'imputa to sarebbe stato privato del suo diritto di avvalersi dei benefici derivan
tigli dal procedimento per decreto e dagli altri riti speciali ancora a sua disposizione ex art. 464 c.p.p.
La ripresa dell'ordinario corso sarebbe dovuta avvenire con la tra smissione degli atti «al giudice che procedeva quando si verificò la nul
lità», come recita anche l'art. 604 c.p.p. in applicazione del principio generale; e dunque al g.i.p., affinché questi potesse compiere in assolu ta autonomia le ulteriori valutazioni di sua competenza, compresa quel la sulla congruità della pena indicata dal p.m. nella sua richiesta di emissione del decreto penale di condanna.
In proposito questo ufficio non ignora le possibili obiezioni, non rin venendosi fra gli articoli del codice una siffatta previsione esplicita; anche questa omissione sembra però spiegarsi con un difetto di coordi namento fra il progetto preliminare ed il testo definitivo del codice.
Ma, se un ostacolo volesse ravvisarsi nella mancanza di una tale pre visione, può in contrario rilevarsi la frequenza dei casi in cui una legge è stata interpretata estensivamente, in base al criterio del minus dixit
quam voluit. Un esempio è nella esperienza recente di questo ufficio: nonostante che l'art. 412 c.p.p. preveda che nel termine di trenta giorni il p.g. debba svolgere le indagini preliminari e formulare le sue «richie ste» al giudice, non sembra dubbio che, avocata una indagine di com
petenza pretorile, il p.g. debba — se del caso — provvedere direttamen te alla emissione del decreto di citazione a giudizio. Il tenore letterale della legge, invece, sembrerebbe precludere questa ovvia conclusione delle indagini avocate, rendendo di fatto impossibile l'avocazione delle
indagini pretorili. Anche nel caso in esame, pertanto, l'infelice testo normativo può
essere interpretato estensivamente, nel presupposto che anche nell'art. 428 c.p.p., come nell'art. 412 c.p.p., il legislatore si sia limitato ad
Il Foro Italiano — 1992.
Nel caso di specie l'assegno risulta consegnato, il 7 novembre
1990, al notaio per il protesto non essendo stato lo stesso paga
to, alla presentazione, perché privo di fondi.
Sussistono quindi e presentazione tempestiva dell'assegno su
piazza e mancato pagamento di esso per mancanza di fondi, costitutivi del reato di cui all'art. 2 1. 386/90; e, mancando il
pagamento ai sensi dell'art. 11 della legge cui, nella presente
fattispecie realizzata prima della entrata in vigore della legge, occorre fare riferimento, non ricorre improcedibilità.
Appare pertanto indubbia la erroneità della sentenza del g.i.p. che ha assolto l'imputato per insussistenza del fatto in mancan
za del protesto. Per rimuovere detta sentenza la corte non può adottare i prov
vedimenti richiesti dall'appellante, ma deve pronunziare nel me
rito riformando la sentenza ai sensi dell'art. 605 c.p.p. Nel presupposto che la sentenza di proscioglimento, emessa,
ai sensi degli art. 129, 459/3 c.p.p., dal g.i.p. in sede di richie sta del p.m. di emissione del decreto penale di condanna, altro
non sia che una sentenza di non luogo a procedere ex art. 425
c.p.p., soggetta — quanto al suo riesame — alla impugnazione
prevista dagli art. 428 ss. c.p.p., l'appellante chiede declarato
ria di nullità della sentenza ed emissione del decreto che dispo ne il giudizio dinanzi al competente, per materia e territorio, Pretore di Agrigento.
Ma, in contrario, va in primo luogo osservato che, a fronte
del dettagliato e complesso sistema normativo delineato al libro
nono del codice di procedura penale (art. 568 ss.) in materia
di impugnazioni avverso la sentenza di condanna o di proscio
glimento e, in particolare, in materia di appello avverso tutte
(salvo eccezioni che non ricorrono nella specie) le sentenze di
proscioglimento, il procedimento di impugnazione compiutamente stabilito dagli art. 428 ss. c.p.p. appare del tutto speciale ed
applicabile unicamente al caso espressamente considerato.
E cioè della sentenza di non luogo a procedere emessa nella
udienza preliminare (art. 418 c.p.p.), nella quale, in pienezza di contraddittorio (art. 419, 420 c.p.p.), deve essere emessa pro nunzia sulla richiesta del p.m. di emissione del decreto che di
spone il giudizio (art. 416 c.p.p.), da parte del g.i.p. che, dopo la discussione (art. 421 c.p.p.), può emettere o il citato decreto
o sentenza di non luogo a procedere (art. 424 c.p.p.), insuscetti
bile di divenire irrevocabile (art. 434, 648, 650 c.p.p.), anche
in casi non previsti dall'art. 129 c.p.p. (non imputabilità o non
punibilità per qualsiasi causa dell'imputato). Di contro, la sentenza «di proscioglimento», ai sensi dell'art.
459/3, del g.i.p., specie di pretura (art. 565 c.p.p.), viene emes
sa in procedimento speciale, in sede di richiesta del p.m. di emis
sione del decreto penale di condanna (art. 405, 459/1, 554 c.p.p.), da un giudice investito di ampi poteri decisori, potendo con dannare (col decreto) o prosciogliere (con la detta sentenza), ma non anche di quello di emettere il decreto che dispone il
giudizio, al qual fine può solo restituire gli atti a p.m. cui com
pete, in via esclusiva, ogni determinazione circa l'esercizio del
l'azione penale (Cass. 16 novembre 1990 e 3 dicembre 1990,
Ghelardini). Tale sentenza è, peraltro, emessa al di fuori della «udienza
preliminare», che addirittura non è prevista nel procedimento davanti al pretore, e in assenza di contraddittorio, nel quadro di un procedimento volto ad evitare il giudizio ed anticipare la decisione anche senza contraddittorio di irrevocabile condan
na (in caso di mancata opposizione al decreto: art. 648/2 c.p.p.).
indicare il più comune — o ritenuto tale — fra i vari provvedimenti conclusivi, non escludendo tuttavia gli altri.
D'altra parte, è da rilevare che proprio questo — ora prospettato nel presente ricorso — sarebbe stato l'esito del gravame ove la sentenza del g.i.p. fosse stata impugnata con ricorso immediato per cassazione; il sicuro annullamento della sentenza di proscioglimento avrebbe neces sariamente comportato, a norma dell'art. 569 c.p.p., la restituzione de
gli atti al g.i.p. per l'ulteriore corso in ordine alla richiesta emissione del decreto penale di condanna.
È da ritenere che la esigenza di omogeneità di trattamento del mede simo motivo di doglianza non possa essere sacrificata alla diversità del
l'organo giudicante chiamato a rimuovere il vizio denunziato. Per le considerazioni sopra esposte, si chiede l'annullamento della
impugnata sentenza, e la trasmissione degli atti al giudice di primo gra do per l'ulteriore corso.
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GIURISPRUDENZA PENALE
E, in relazione alla natura speciale del procedimento di impu
gnazione disciplinato dagli art. 428 ss. c.p.p. e per i peculiari e diversi elementi che caratterizzano il procedimento in cui vie
ne emessa la sentenza ai sensi dell'art. 459/3 c.p.p., deve con
cludersi che, quanto alla impugnazione di tale ultima sentenza, non può trovare applicazione la suddetta disciplina, ma quella generale di cui agli art. 568 ss. c.p.p.
Conclusione questa che, nel ritenuto silenzio sull'argomento della dottrina e della giurisprudenza, appare suffragata dall'au
torevole avviso della Corte costituzionale che espressamente in
dica l'appello e i poteri del giudice di appello ex art. 604/6
c.p.p. in caso di erronea declaratoria, ex art. 129 c.p.p., di estin
zione del reato per amnistia in sede di richiesta al g.i.p. di pre tura di emissione di decreto penale (sent. 28 dicembre 1990, n. 580, id., Rep. 1991, voce Decreto penale, n. 11); e che, an
che, non si pone contro il principio del doppio grado di giuri sdizione, il quale, postulando la sottoposizione di una questione a due giudici di grado diverso (Cass. 10 febbraio 1989) e venen do la questione all'esame di due giudici di grado diverso e di merito, viene rispettato.
Pertanto, in applicazione delle norme sul giudizio di appello
(art. 593 ss. c.p.p.) e non ricorrendo alcuno dei casi di nullità
previsti dall'art. 604 c.p.p., la corte deve decidere nel merito
ai sensi dell'art. 605 c.p.p. e, avendone potere per l'effetto pie namente devolutivo dell'appello del p.m. contro sentenza di pro
scioglimento (Cass. 26 giugno 1974, Molteni, id., Rep. 1975, voce Appello penale, nn. 33, 56) e in forza dell'art. 597/2, lett.
b), c.p.p., deve, riformando la sentenza, affermare la responsa bilità dell'imputato in ordine al reato ascrittogli e condannarlo
alla pena che, in relazione all'importo dell'assegno e alla so
stanziale incensuratezza dell'imputato, va stabilita nella pena
pecuniaria di lire 400.000 di multa. Al Raitano va fatto divieto di emettere assegni bancari e po
stali per un anno; e lo stesso va condannato alle spese dei due
gradi.
TRIBUNALE DI TREVISO; TRIBUNALE DI TREVISO; sentenza 3 febbraio 1992; Pres.
Stiz, Est. Carreri; imp. Milanese.
Bancarotta e reati fallimentari — Bancarotta per distrazione —
Beni oggetto di «leasing» — Fattispecie (R.d. 16 marzo 1942
n. 267, disciplina del fallimento, art. 216).
La distrazione di beni oggetto di leasing non costituisce reato
di bancarotta ai sensi dell'art. 2161. fall., se il fatto distratti vo commesso dall'utilizzatore fallito non determina alcuna le
sione delle ragioni di garanzia patrimoniale dei creditori. (1)
(1) Con la sentenza in epigrafe il Tribunale di Treviso ritiene che il bene oggetto di locazione finanziaria rileverebbe come un bene futuro e che il diritto di opzione derivante dal relativo rapporto contrattuale attribuirebbe all'utilizzatore del bene un diritto valutabile economica mente ed in quanto tale suscettibile di fatti distrattivi di baficarotta
patrimoniale. In tal senso anche un consolidato orientamento della giu
risprudenza di legittimità, secondo cui nel patrimonio del fallito an
drebbero ricompresi beni materiali, diritti di credito, beni strumentali, ma anche beni futuri che non si riducano in mere aspettative di fatto, ma in rapporti giuridici valutabili economicamente: cfr. Cass. 24 mag
gio 1984, Pompeo, Foro it., Rep. 1985, voce Bancarotta, n. 44 e 13
dicembre 1984, Merletti, ibid., n. 46, per esteso in Giur. it., 1985, II,
416, entrambe citate in motivazione; ma nello stesso senso vedi anche
Cass. 18 aprile 1980, Pieropan, Riv. pen., 1980, 925 e massimata in
Foro it., Rep. 1981, voce cit., n. 18 e 4 aprile 1984, Tinti, id., Rep.
1985, voce cit., n. 36, e per esteso in Riv. pen., 1985, 446. Secondo i giudici del tribunale, tuttavia, la potenziale acquisibilità
di tale componente economica alla massa attiva fallimentare sarebbe
subordinata alla scelta del curatore, il quale, nella fattispecie in esame, ha ritenuto conveniente recedere dal rapporto contrattuale piuttosto che
subentrare nella locazione in corso, considerando economicamente dan
II Foro Italiano — 1992.
È provato in atti che la ditta Tecnolegno s.n.c., di cui era
socio l'odierno imputato, concluse in data 27 luglio 1981, in
persona del Milanese stesso, un contratto di locazione finanzia
ria (leasing) con la società Locafit s.p.a. di Milano in relazione
ad alcuni beni strumentali per l'azienda, di cui al verbale di
consegna pure in atti, di data 25 agosto 1981. La ditta Tecnolegno e i relativi soci sono stati dichiarati falli
ti dal Tribunale di Treviso il 14 luglio 1984. È altresì provato che, al momento dell'inventario, non fu re
perito presso la ditta fallita uno dei beni oggetto di questo con
tratto di leasing e, più precisamente, la bordatrice Manea BE
1/3/12, come è risultato dalla precisa deposizione del curatore fallimentare.
Questi ha spiegato che il bene aveva un valore iniziale di circa
15 milioni e che la Locafit si insinuò nel passivo per le rate
non pagate, pari a circa 7 milioni, oltre a chiedere la restituzio
ne del bene.
Ha, altresì', aggiunto che non vi era alcun interesse del falli mento a subentrare nella locazione finanziaria, perché le rate
da pagare erano ancora troppe ed eccessive rispetto al valore
del bene.
Orbene, la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere
che i beni oggetto di contratto di leasing sono suscettibili di
bancarotta patrimoniale. Va premesso in diritto che, secondo la Cassazione civile (sent.
26 novembre 1987, n. 8766, Foro it., 1988, I, 2329) il leasing è un contratto atipico mediante il quale una società finanziaria
cede ad un'impresa il godimento di un bene, per un determina
to periodo di tempo e dietro pagamento di un canone, con fa
coltà di optare (c.d. diritto di opzione), alla scadenza, tra la restituzione o il conseguimento in proprietà del bene, previo versamento di un ulteriore importo.
Tale rapporto contrattuale, che sarebbe nella sostanza un fi
nanziamento a favore del cessionario del bene, che restituisce
a rate l'importo anticipato dalla società cedente per l'acquisto del bene, non sarebbe inquadrabile nello schema della vendita con riserva di proprietà, per cui, in caso di risoluzione anticipa ta del contratto per inadempimento dell'utilizzatore, non si ap
plicherebbe l'art. 1526, 1° e 2° comma, c.c., ma l'art. 1458, 1° comma, c.c., con conseguente inefficacia della risoluzione
ai fini della restituzione dei ratei già corrisposti. Poiché in caso di fallimento il curatore, per accrescere la massa
attiva, può subentrare nel contratto (art. 72 1. fall.), pagare le
residue rate ed esercitare il diritto di opzione, oppure può svin
colarsi dallo stesso, restituendo il bene ed evitando, pure a fa
vore dei creditori, l'onere finanziario delle ulteriori rate da cor
rispondere, per la Cassazione penale (sez. V 10 maggio 1988,
Ardassi, id., Rep. 1989, voce Bancarotta, n. 20) qualsiasi ma
nomissione del bene in questione, impedendo questo accresci
mento della massa attiva fallimentare, si risolve in una lesione
della garanzia patrimoniale dei creditori e, quindi, in un fatto
di bancarotta patrimoniale.
Infatti, anche se la proprietà del bene, diversamente dalla ven
dita con patto di riservato dominio, è del cedente finché l'utiliz
zatore non paga l'ultima rata ed esercita il diritto di opzione,
quest'ultima facoltà non costituisce una mera aspettativa, ma
noso per i creditori l'esercizio di tale opzione. In ragione di ciò, pertan to, si e ritenuto che il fatto distrattivo commesso non integrerebbe gli estremi del reato fallimentare contestato (quanto, semmai, l'ipotesi con corsuale del reato di appropriazione indebita), non essendosi determi nato alcun pregiudizio economico per i creditori e non essendo stata
violata l'«essenza» stessa della norma incriminatrice. In una precedente sentenza, invece, si è ritenuto che l'illecita manomissione del bene og
getto di leasing compiuta dall'utilizzatore fallito, impedendo l'accresci
mento della massa attiva fallimentare, si risolverebbe in una lesione delle ragioni di garanzia patrimoniale dei creditori e, quindi, in un fatto
distrattivo di bancarotta (cfr. Cass. 10 maggio 1988, Ardassi, Foro it.,
Rep. 1989, voce cit., n. 20). In dottrina, con riferimento specifico però al bene acquistato con
pagamento rateale e con riserva di proprietà, si sostiene che tale bene, non entrando a comporre il patrimonio dell'imprenditore prima del pa
gamento dell'ultima rata, non potrebbe essere oggetto di fatti di banca
rotta; il corpus delieti, invece, potrebbe individuarsi nel diritto di credi
to che fa capo al fallito in relazione a detto bene e per i pagamenti
già effettuati: cfr. M. La Monica, Diritto penale commerciale. I. Reati
fallimentari, Milano, 1988, 250.
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