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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sentenza 30 marzo 1979; Pres. Saitta, Est. Meloni; imp....

Date post: 27-Jan-2017
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sentenza 30 marzo 1979; Pres. Saitta, Est. Meloni; imp. Ravano e Zenoglio Source: Il Foro Italiano, Vol. 103, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1980), pp. 57/58-65/66 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23171534 . Accessed: 28/06/2014 09:32 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.31.195.50 on Sat, 28 Jun 2014 09:32:15 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sentenza 30 marzo 1979; Pres. Saitta, Est. Meloni; imp. Ravano e Zenoglio

sentenza 30 marzo 1979; Pres. Saitta, Est. Meloni; imp. Ravano e ZenoglioSource: Il Foro Italiano, Vol. 103, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1980), pp.57/58-65/66Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23171534 .

Accessed: 28/06/2014 09:32

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GIURISPRUDENZA PENALE

nistro per l'eventuale applicazione della pena pecuniaria pre vista dal citato art. 2 decreto n. 1928 del 1938.

Conseguentemente, nel caso in esame, la condotta incrimina

ta non costituisce reato e pertanto l'impugnata sentenza deve essere annullata senza rinvio, con ordine di trasmissione di co

pia della presente sentenza all'Ufficio italiano dei cambi. Per questi motivi, ecc.

CORTE D'APPELLO DI GENOVA; sentenza 30 marzo 1979; Pres. Saitta, Est. Meloni; imp. Ravano e Zenoglio.

CORTE D'APPELLO DI GENOVA;

Cambio e valuta — Reato valutario — Costituzione di dispo nibilità all'estero — Sanatoria — Limiti (Legge 30 aprile 1976 n. 159, conversione in legge con modificazioni del d. 1. 4 marzo 1976 n. 31, contenente disposizioni penali in ma teria di infrazioni valutarie, art. 2; legge 8 ottobre 1976 n.

689, conversione in legge del d. 1. 10 agosto 1976 n. 543, con cernente modifica dell'art. 2 legge 30 aprile 1976 n. 159, art. 3).

Cambio e valuta — Reato valutario — Costituzione di disponi bilità all'estero — Deposito presso banca estera di somme rea lizzate all'estero — Sussistenza (Legge 30 aprile 1976 n. 159, art. 2; legge 8 ottobre 1976 n. 689, art. 3).

Cambio e valuta — Reato valutario — Costituzione di disponi bilità all'estero — Reato di pura condotta — Dolo generico (Legge 8 ottobre 1976 n. 689, art. 3).

Cambio e valuta — Reato valutario — Costituzione di disponi bilità all'estero in più riprese — Continuazione — Estremi

(D. 1. 4 marzo 1976 n. 31, disposizioni penali in materia di infrazioni valutarie, art. 1; legge 30 aprile 1976 n. 159, art. 1).

Cambio e valuta — Reato valutario — Costituzione di disponi bilità all'estero in più riprese — Pena accessoria — Continua zione — Inapplicabilità (D. 1. 4 marzo 1976 n. 31, art. 8; legge 30 aprile 1976 n. 159, art. 1; r. d. 1. 5 dicembre 1938 n. 1928, norme per la repressione delle violazioni delle leggi valuta

rie, art. 2, 3; legge 7 gennaio 1929 n. 4, norme generali per la re

pressione delle violazioni delle leggi finanziarie, art. 8; cod.

pen., art. 16, 81).

Non rientra nella sanatoria prevista dalla legge 30 aprite 1976 n. 159 la costituzione di disponibilità all'estero in violazione delle norme valutarie vigenti al momento del fatto, avvenuta

dopo il 6 marzo 1976. (1)

Integra il reato di costituzione all'estero di disponibilità valutarie {e non un investimento diretto, consentito dalle « transazioni invisibili ») il deposito presso banca estera su conto non auto rizzato di somme realizzate all'estero da propri rappresentanti. (2)

Il reato di costituzione di disponibilità valutarie all'estero è reato di pura condotta (o di mero pericolo) che si perfeziona con il solo compimento dell'azione od omissione vietata; pertanto, è sufficiente il dolo generico. (3)

La continuazione, nel caso di costituzioni all'estero di disponibi lità valutarie in tempi diversi, sussiste allorché le singole co stituzioni sono collegate tra loro perché poste in essere di un medesimo piano economico. (4)

Alle pene accessorie, previste in aggiunta a quelle principali, per i reati valutari non è applicabile l'istituto della continuazione e vanno pertanto irrogate nella misura stabilita dal r. d. I. 5 di cembre 1938 n. 1928. (5)

(1-3) La sentenza di primo grado, ora confermata, Trib. Genova 15 novembre 1976, è riportata in Foro it., 1977, II, 19, con nota di ri chiami.

Per riferimenti sulla seconda massima, cfr. Trib. Torino 30 gen naio 1978, id., 1978, II, 168, su un caso di deposito in banca estera di valuta donata all'estero da non residente a cittadino italiano.

Per riferimenti, sulla terza massima, circa la natura di reato di pericolo, cfr. Trib. Napoli 28 giugno 1976, id., 1976, II, 386; circa la sufficienza del dolo generico ad integrare l'illecito valutario ammi nistrativo, cfr. Perrucci-Tallarida, Codice valutario 3, 1978, 53.

Sul reato di costituzione illecita di disponibilità valutarie all'estero, v. Cass. 18 giugno 1979, Blancardi, in questo fascicolo, II, 12, e, in dottrina, v. P. Nuvolone, Lineamenti di diritto penale valutario, 1979, 105-119; Id., Il processo penale valutario, in Tommaso Natale, 1977, 349.

V. inoltre, Malinverni, Reati valutari, 1978.

(4-5) In giurisprudenza, sulla continuazione nei reati valutari, cfr. Trib. Napoli 28 giugno 1976, Foro it., 1976, II, 386.

Sulla pena accessoria, nei reati valutari, cfr. Trib. Napoli 24 feb braio 1977, id., Rep. 1977, voce Cambio e valuta, n. 60. In dottrina v. P. Nuvolone, op. cit., 63 ss.

La Corte, ecc. — Fatto e diritto. — Con un primo rapporto del

2 novembre 1976, il nucleo regionale di polizia tributaria della

guardia di finanza di Genova denunciava Francesco Ravano ed

Enrico Zenoglio, in stato di arresto, per violazioni valutarie ai

sensi del d. 1. 4 marzo 1976 n. 31, sostenendo che il primo, come

presidente del consiglio di amministrazione, ed il secondo, come

direttore con procura generale, della Compagnia italiana di assi

curazione - Comitas s.p.a., sede di Genova, avevano costituito

nel periodo « dal 6 marzo al 20 settembre 1976 » disponibilità va

lutarie, a favore di detta società, nelle città di Lugano, Parigi ed

Anversa, dove la Comitas aveva operato. In dettaglio riferivano i verbalizzanti che per Lugano era sta

to nominato, come rappresentante della compagnia, il cittadino

svizzero Franco De Carli, che aveva i compiti specificati nell'ap

posita procura, rilasciatagli dalla società per atto notarile 9 gen naio 1970 a rogito dott. Giovanni Porcile di Genova, dallo stesso

De Carli in concreto esercitati in nome e per conto della Comitas, avendo egli sempre firmato facendo precedere al suo nome la di

citura Compagnia italiana di assicurazione Comitas s.p.a. — rap

presentanza generale in Svizzera - Lugano. I verbalizzanti precisavano anche che la società in questione

aveva aperto presso il Banco di Roma svizzero due conti correnti

bancari, di cui uno debitamente autorizzato dall'Ufficio italiano

dei cambi (U.I.C.) e funzionante in valuta estera con un massi

male di 25.000 dollari U.S.A., e l'altro, non autorizzato, funzio

nante in dollari U.S.A., franchi svizzeri e lire sterline, e nel quale i verbalizzanti avevano riscontrato un saldo: al 30 agosto 1976, di 755.443,41 dollari; il 2 settembre 1976, di 31.813,27 sterline;

e, al 17 agosto 1976, di 97.542,97 franchi svizzeri, per un am

montare complessivo, calcolato al cambio dell'epoca, di lire

961.891.800 che, secondo la denuncia, costituiva l'irregolare mo

vimento di somme eseguito dal rappresentante svizzero, per con

to della Comitas, anche in relazione al fatto che tale movimento

era stato rigorosamente riportato sul libro-giornale in possesso della società nella sede di Genova.

Nessun movimento, invece, avevano accertato nel conto ban

cario autorizzato dall'Ufficio italiano dei cambi.

Per Parigi gli stessi verbalizzanti, dopo aver assodato che in

tale città agiva in nome e per conto della società genovese il

cittadino francese Jean Michel Cerede (munito anch'egli di appo sita procura), davano atto di non aver potuto accertare « docu

mentalmente » l'invio in Italia, dal 1971 fino al novembre 1976, di rimesse a favore della Comitas, ma soggiungevano che le riscos

sioni relative al terzo trimestre ammontavano a lire 146.981,99 franchi francesi, pari a lire 25.354.400.

Per Anversa, sempre gli stessi verbalizzanti accertavano che

con scrittura privata del 14 febbraio 1973 la Comitas, in persona di Enrico Zenoglio, aveva' conferito alla ditta General Insurance

Office P.V. BA di Anversa pieni poteri di firmare, assumere e sti

pulare, per conto della società, assicurazioni e riassicurazioni nel

ramo trasporti, e di fare, in sintesi, tutto ciò che risultava dalla

scrittura predetta. Accertavano, inoltre, che gli importi riscossi

nel secondo e terzo trimestre 1976 erano: di 96.545,89 dollari e

di 263,00 fiorini olandesi per un importo espresso, in lire italiane, di 83.505.300.

In riepilogo generale, pertanto, il totale degli accreditamenti re

lativi alle tre rappresentanze ammontava alla cospicua somma di

lire 1.070.750.700.

Sulla base di queste risultanze, il procuratore della Repubblica di Genova, cui erano stati inviati gli atti per competenza, traeva

a giudizio per direttissima sia il Ravano Francesco che lo Ze

noglio Enrico, per rispondere del reato cosi come in epigrafe

specificato, davanti al Tribunale di Genova che, con sentenza

in data 15 novembre 1976 (Foro it., 1977, II, 19), riteneva la

responsabilità di entrambi e, concedendo loro le attenuanti ge neriche dichiarate equivalenti alla contestata aggravante, con

dannava tutti e due alla pena della multa nella misura di due

miliardi e cinquecento milioni per il Ravano Francesco, e di un

miliardo per lo Zenoglio Enrico, oltre alla pena accessoria di un

miliardo di lire per il primo e di cinquecento milioni di lire

per il secondo.

Avverso tale sentenza entrambi gli imputati interponevano ap

pello, asserendo di non aver commesso il reato loro congiunta mente ascritto.

Con un secondo rapporto del 19 novembre 1976, lo stesso nu

cleo tributario riferiva degli accertamenti eseguiti nei confronti

di Ravano Antioco e dello stesso Zenoglio Enrico, i quali erano, in quell'epoca, rispettivamente presidente e direttore della società

di assicurazione Liguria s.p.a. che operava, anch'essa, in Lugano e Parigi.

I verbalizzanti, dopo aver precisato che la società in questione aveva dei conti correnti bancari autorizzati in valuta italiana ed

estera con diverse banche genovesi ed una parigina e che per la

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PARTE SECONDA

sede svizzera agiva il cittadino Franco De Carli con i poteri di

cui alla procura rilasciatagli con atto notarile del 9 gennaio 1970, informavano che la società aveva un conto bancario funzionante

in dollari non autorizzato, sul quale il rappresentante suddetto

della s.p.a. Liguria aveva effettuato, nel periodo dal 6 marzo 1976

al 31 agosto 1976, in nome e per conto della società genovese, del

le riscossioni per 514.794 dollari, e pagamenti per circa 547.135

dollari (con un saldo passivo di 3.329 dollari al 21 settembre

1976), per un totale di lire 444.782.500.

Per la città di Parigi, dove agiva lo stesso Jean Michel Cerede

nella sua qualità di agente generale, i verbalizzanti assodavano che il predetto aveva aperto un conto autorizzato presso la banca della Union Parisienne e che il medesimo aveva riscosso nel se

condo trimestre 1976 l'importo di 126.528 franchi francesi pari a lire 21.820.000.

In riepilogo, pertanto, il totale delle riscossioni effettuate dalla

rappresentanza svizzera e francese, per la predetta società assi

curatrice Liguria, era complessivamente, al cambio dell'epoca, di lire 466.602.500.

Tanto il Ravano Antioco quanto lo Zenoglio Enrico venivano tratti a giudizio, per rispondere del reato di cui in rubrica, da vanti al Tribunale di Genova che, con sentenza in data 15 novem bre 1976, riteneva la responsabilità di entrambi gli imputati con dannandoli tutti e due, con le attenuanti generiche dichiarate

equivalenti alla contestata aggravante, alla pena della multa nella entità di lire 850.000.000 per il primo e di lire 750.000.000 per il

secondo, oltre alla pena accessoria di lire 466.602.500 per cia scuno degli stessi, nonché al pagamento delle spese processuali ed al risarcimento del danno nei confronti dell'amministrazione del commercio con l'estero, ritualmente costituitasi parte civile.

Contro la predetta sentenza appellavano sia il Ravano che lo

Zenoglio, i quali venivano citati per l'odierna udienza dibatti

mentale, nel corso della quale i due procedimenti penali veni vano riuniti.

Tanto premesso, si osserva: prima di passare all'esame della

posizione processuale dei singoli appellanti, la corte deve inizial mente occuparsi della tesi preliminare prospettata dalla difesa in

quanto essa, se fondata, sarebbe assorbente di ogni altra questione e comporterebbe l'immediata assoluzione degli odierni appellanti.

Tale tesi preliminare è basata sull'interpretazione dell'art. 2

legge 30 aprile 1976 n. 159 che così si esprime: « Chiunque, alla data di entrata in vigore della presente legge,

possiede all'estero disponibilità o attività di cui al 2° comma del l'art. 1 d. 1. 4 marzo 1976 n. 31, convertito in legge con la pre sente legge — costituite in violazione delle norme valutarie vi

genti al momento del fatto — è tenuto, entro tre mesi dall'en trata in vigore della presente legge, a farne dichiarazione all'Uffi cio italiano dei cambi ed entro i tre mesi successivi alla dichiara zione a far rientrare i capitali, versando ... ».

« L'osservanza delle prescrizioni contenute nel comma prece dente rende inapplicabili le sanzioni valutarie e fiscali previste dalle leggi vigenti al momento del fatto ».

« Chiunque non osserva le disposizioni del primo comma, en tro i termini ivi fissati, è punito a norma dell'art. 1 d. 1. 4 marzo 1976 n. 31, convertito in legge con la presente legge ».

Detto articolo fu poi sostituito dalla legge 8 ottobre 1976 n. 689, entrata in vigore il 24 successivo, ed il primo comma risulta ora cosi formulato:

« Chiunque alla data del 19 novembre 1976 possiede all'estero direttamente o indirettamente disponibilità valutarie o attività di

qualsiasi genere, costituite anteriormente al 6 marzo 1976 in vio lazione delle norme valutarie vigenti al momento del fatto, è te nuto, con le modalità stabilite dall'Ufficio italiano dei cambi, a farne... ».

Al quinto comma è poi stabilito che « l'osservanza delle pre scrizioni di cui ai precedenti comma rende inapplicabili le san zioni amministrative previste dalle norme valutarie fiscali vigenti al momento del fatto ». Ed inoltre che: « Chi non osserva le pre scrizioni stesse è punito con la multa... ».

Come ben si vede, la differenza tra le due leggi, a parte la di versa formulazione, è assai rilevante. Ed infatti, mentre la legge 159 non distingue se le illecite costituzioni all'estero di disponi bilità valutarie o di altre attività, cui la norma accenna, siano avvenute « prima » o « dopo » l'entrata in vigore del decreto

legge n. 31, e cioè se prima o dopo la data del 6 marzo 1976 e si limita a disporre l'inapplicabilità delle sanzioni valutarie e fiscali previste dalle leggi al momento del fatto per chi osserva

(« ... è tenuto ») determinate prescrizioni entro un preciso pe riodo, sotto pena, in caso di inosservanza, di sanzioni penali, la

legge n. 689, precisa, invece, che le illecite costituzioni di dispo nibilità valutarie o di altre attività sono quelle poste in essere an teriormente al 6 marzo 1976, ed inoltre che sono inapplicabili le sanzioni amministrative (e non già quelle « valutarie e fisca

li » della precedente legge) per chi osservi, anche qui, determi

nati obblighi entro precisi limiti di tempo, conservando, per le

ipotesi di inosservanza di tali obblighi, le penalità precedenti. Orbene, secondo la tesi prospettata dalla difesa, la legge n. 159

avrebbe introdotto una sorta di « causa di non punibilità » per chi ha costituito all'estero disponibilità valutarie o attività di

qualsiasi genere in violazione « delle norme valutarie vigenti al

momento del fatto », intendendo per tali le norme del decre

to-legge n. 31, di talché le costituzioni di disponibilità valuta

rie o di altre attività dopo la emanazione di esso decreto-legge e

prima che entrasse in vigore la legge n. 689, ossia nel periodo

compreso tra il 6 marzo 1976 (data di entrata in vigore del d. 1.

n. 31) ed il 24 ottobre 1976 (data di entrata in vigore della

legge n. 689) sarebbero esenti da pena in virtù del « principio della legge più favorevole » al reo, per modo che esse ricade

rebbero sotto la legge n. 159 la quale, prevedendo l'inapplica bilità delle norme valutarie e fiscali e quindi anche di quelle

penali da essa stessa legge previste, sarebbe più favorevole agli

appellanti, laddove la legge n. 689, poiché si riferisce alle vio

lazioni anteriori al 6 marzo 1976 e prevede l'inapplicabilità delle

sole sanzioni amministrative, sarebbe, per contro, quella meno

favorevole. In altre parole, poiché la legge n. 159 non distin

gue tra disponibilità o attività costituite anteriormente o poste riormente al 6 marzo 1976, mentre tale distinzione viene fatta

dalla legge n. 689, la causa di punibilità di cui si è detto si

estenderebbe alle disponibilità o attività costituite posteriormen te alla suddetta data e quindi le stesse sarebbero immuni da

pena perché ad esse non sarebbero applicabili le « sanzioni va

lutarie e fiscali », espressione questa che comprenderebbe anche

le sanzioni penali di cui alla legge n. 159, sicché, essendosi il

fatto ascritto agli appellanti verificatosi dopo il 6 marzo 1976, e

cioè in pieno periodo di franchigia, per cosi' dire, il fatto stesso

non sarebbe punibile ai sensi della legge n. 159 e gli appellanti stessi sarebbero in stato di piena assolutoria.

Siffatta tesi, per quanto abilmente prospettata, non può essere

condivisa. Ed invero, pur essendo esatto che la legge n. 159

preveda una causa di non punibilità per chi possiede all'estero, alla data di entrata in vigore della stessa legge, disponibilità valutarie o altre attività illecitamente costituite, deve ritenersi,

tuttavia, che tale causa di non punibilità, che è più esatto chia

mare « sanatoria », si riferisca esclusivamente alle disponibili tà costituite « prima del 6 marzo 1976 » e non anche a « quelle costituite dopo » come per l'appunto sostiene la difesa.

Non sembra infatti verosimile che il legislatore abbia dappri ma formulato un divieto e poi, dopo qualche tempo e senza al

cuna valida ragione, lo abbia egli stesso posto nel nulla, ciò fa

cendo addirittura con una sanatoria che appare priva di ogni plausibile spiegazione.

Si può essere senz'altro d'accordo con la difesa sul fatto che le norme valutarie penali sanno di abborracciamento, destano

perplessità e creano anche non lievi difficoltà in sede di pra tica applicazione; ma, per quanto possa essere, comunque, difet tosa la legge n. 159, essa non è tuttavia tale da essere interpre tata nel senso voluto dalla difesa. Se vero fosse, infatti, la detta tesi, l'art. 2 della menzionata legge non avrebbe fatto uso dell'inciso « costituite in violazione delle norme valutarie

vigenti al momento del fatto » perché, essendosi lo stesso arti colo richiamato inizialmente alle « disponibilità o attività di cui all'art. 1 d. 1. 4 marzo 1976 n. 31», non era necessario, ad avviso della corte, far cenno anche alle « norme valutarie vi

genti al momento del fatto », vale a dire in vigore al momento della illecita costituzione della disponibilità valutaria o delle al tre attività.

Ed infatti, se tale costituzione è avvenuta dopo l'entrata in

vigore del d. 1. n. 31, e cioè nel periodo compreso tra il 6 marzo ed il 24 ottobre 1976, le norme vigenti « in quel momento » non

potevano essere che quelle stesse del decreto in questione che sancivano allora e sanciscono ancora adesso non potersi costi tuire più a partire da quel momento {dalla data cioè della sua entrata in vigore) disponibilità valutarie all'estero senza la au torizzazione prevista dalle norme in materia valutaria.

Ed allora è più corretto ritenere che, proprio per il richiamo fatto all'inciso (« costituite in violazione delle norme valutarie

vigenti al momento del fatto »), il legislatore abbia inteso rife rirsi alla illecita costituzione delle disponibilità valutarie avve nuta « prima del 6 marzo 1976 », ispirandosi ad una sorta di

perequazione tra il presente ed il passato. Il legislatore, infatti, allorché percepì le necessità e l'urgenza

di emanare disposizioni penali in materia valutaria, onde fre nare il massiccio ed allarmante esodo di valuta, ricorse al de

creto-legge n. 31 stabilendo con esso che non erano più lecite, tanto la esportazione di valuta, quanto la costituzione di dispo nibilità valutarie o di altre attività fuori del territorio dello

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■GIURISPRUDENZA PENALE

Stato, e che, a partire dal 6 marzo 1976 (data di entrata in vi

gore dello stesso decreto in quanto pubblicato sulla G. U. del 5

marzo 1976), il reato valutario era punito anche con la pena detentiva.

Rimanendo, tuttavia, in vita le illiceità valutarie poste in es

sere prima della data del 6 marzo 1976, il legislatore si è visto

costretto a seguire la via della « sanatoria », non potendo ov

viamente estendere la normativa del d. 1. n. 31 anche alle in

frazioni valutarie precedenti, per la evidente ed avvertita in

superabilità del principio della « irretroattività della legge pe nale », sancito espressamente dall'art. 25, 2° comma, Cost. Sic

ché, cogliendo l'occasione che gli veniva offerta dalla emana

zione della legge di conversione del citato decreto legge — che

è precisamente quella del 30 aprile 1976 n. 159 — il legisla tore ideò e prescrisse all'art. 2 di detta legge, una vera e pro

pria sanatoria, che è in sostanza un « condono amministrativo »

e che, proprio perché diretto a rimuovere la persistenza del

danno inferto alla economia nazionale da operatori fraudolenti, venne sottoposto a degli adempimenti specifici da parte degli

operatori stessi, i quali dovevano infatti, per poter beneficiare

di tale condono o sanatoria, dichiarare all'Ufficio italiano dei

cambi le disponibilità e attività procurate all'estero e fare poi rientrare i capitali, il tutto nei modi e nei termini stabiliti nel

1" comma dell'art. 2 della suddetta legge n. 159, rendendo nel

contempo inapplicabili, per chi osservava tali adempimenti, le

« sanzioni valutarie e fiscali » vigenti all'epoca del fatto, espres sione questa nella quale devono essere comprese anche le even

tuali sanzioni di carattere penale, ammesso in ipotesi che ve ne

fossero ancora in vigore prima della emanazione del d. 1. n. 31

se è vero, come pare, che le sanzioni penali in materia valuta

rie siano state abrogate dalla legge 18 ottobre 1949 n. 769.

La sanatoria in questione si presenta come una necessità im

pellente per il legislatore e fu proprio per questo, ad avviso

della corte, che il legislatore stesso non esitò a creare, al secon

do comma dell'art. 2 legge n. 159, una ipotesi di « reato omis

sivo » che, pur essendo abbastanza singolare poiché considera

delittuosa la omissione degli adempimenti prescritti per ottenere

la sanatoria, è in effetti punito «a norma dell'art. 1 d. 1. n. 31 », debitamente convertito.

Se questo è stato dunque l'intento che il legislatore ha seguito in materia valutaria, è di tutta evidenza che la legge n. 159 non

può non essere interpretata nel senso dianzi detto, e cioè che è

punito con le pene sancite dal d. 1. n. 31 convertito l'operatore che abbia costituito all'estero disponibilità valutarie o altre at

tività dopo il 6 marzo 1976, ed è per contro, tenuto « obbliga toriamente » alla sanatoria colui che tali disponibilità o altre

attività pose in essere prima di tale data.

Passando ora al merito, la difesa ha prospettato la tesi del

cosiddetto « investimento diretto » nella cui ipotesi dovrebbe rien

trare, secondo la difesa, il fatto ascritto agli appellanti, del

quale è cenno all'art. 3 legge n. 689 (entrata in vigore, come si

è detto, il 24 ottobre 1976). Detto articolo rimanda, per il

concetto di investimento diretto alle disposizioni emanate dal

ministero del commercio con l'estero e denominate, in gergo tecnico finanziario, « transazioni invisibili ».

Tali disposizioni, dopo aver chiarito in linea generale che per investimenti diretti devono intendersi « quelli effettuati allo

scopo di stabilire legami economici durevoli con una impresa,

quali, specialmente, quelli che danno la possibilità di esercitare

un'influenza reale sulla gestione di detta impresa », precisano

poi, più dettagliatamente, che sono investimenti diretti anche

quelli posti in essere per conseguire: o l'assunzione di parteci

pazione in nuove imprese o in imprese già esistenti anche me

diante acquisto di titoli azionari non quotati al fine di stabilire

o mantenere legami economici durevoli « con l'obbligo di se

gnalazione » all'ufficio (movimenti dei capitali) accompagnato da copia della richiesta presentata dalla persona fisica o giuri dica interessata (causale 101); ovvero la costituzione o di nuove

imprese giuridicamente indipendenti e loro ampliamento, op

pure la creazione di nuove imprese od acquisto di proprietà

integrale di imprese già esistenti da parte di residenti: osservate, con gli opportuni adattamenti, le disposizioni concernenti l'as

sunzione di partecipazioni in società con sede all'estero di cui

alla presente causale 101, e cioè con « obbligo di segnalazione »

all'ufficio movimenti di capitali (causale 102).

Orbene, richiamandosi a dette causali, la difesa ha sostenuto

che il caso di specie dovrebbe essere riguardato non già come

una ipotesi « di costituzione di disponibilità valutarie », come

ritenuto dal tribunale, ma, viceversa, come una ipotesi di « in

vestimento diretto ». Gli appellanti, infatti, attraverso un appo sito contratto di « prestazione d'opera » e di « mandato » avreb

bero pattuito con persone giuridiche estere che esse mettessero

a disposizione la loro organizzazione di impresa per lo svolgi mento di una attività lucrativa nell'ambito del loro territorio,

per conto e nell'interesse di essi appellanti. In tal modo questi avrebbero utilizzato, con un modesto in

vestimento ed attraverso un durevole legame con dette persone, una stabile organizzazione imprenditoriale estera per esercitare

in paesi stranieri una attività lucrativa secondo il proprio og

getto sociale, come dire che essi appellanti avrebbero costituito, con questo sistema, una vera e propria « succursale » delle loro

società, retta da un vero e proprio « institore ».

Cosi sintetizzata la diffusa tesi difensiva, peraltro prospettata

per la prima volta in questa sede, osserva la corte che essa è in

fondata e non può pertanto essere condivisa.

La fattispecie in esame non può essere ricondotta, infatti, ad

avviso della corte, alla ipotesi dell'investimento diretto, perché non ricorrono gli estremi che per l'investimento diretto vengo no indicati proprio nelle richiamate disposizioni emanate dal

ministero per il commercio estero (transazioni invisibili) alla

causale 101, espressamente richiamata dalla causale 102.

In particolare non risulta minimamente provato che la « se

gnalazione » all'ufficio movimenti di capitale sia stata realmente

e tempestivamente fatta.

Deve allora ritenersi che gli odierni appellanti abbiano ope rato non già attraverso una fantomatica succursale (o filiale o

sede secondaria che dir si voglia) e servendosi di veri e propri institori, ma con il solo ausilio di semplici soggetti muniti di

procura, i quali possono essere ricondotti, per dar loro una veste

giuridica, non tanto alla figura degli institori prevista dall'art.

2203 cod. civ., quanto alla figura dei « procuratori » di cui al

successivo art. 2209 cod. civ., e cioè di coloro che « in base ad

un rapporto continuativo abbiano il potere di compiere per

l'imprenditore gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa, pur non essendo preposti ad essa », con la conseguenza che il con

tratto da loro posto in essere vincola, in base ai principi gene rali che reggono l'istituto della rappresentanza volontaria, il

rappresentato, perché concluso in nome e per conto del mede

simo: né più né meno come nel caso che ne occupa, come chia

ramente si desume dal contenuto delle procure rilasciate e

dalla « Comitas » e dalla « Liguria » ai suoi rappresentanti.

Si legge, infatti, nella procura rilasciata dalla « Comitas » per atto notarile 1° gennaio 1970, relativamente alla sede di Lugano, che il presidente della società « nomina e costituisce con effetto

dal 1° ottobre 1969 il signor Franco De Carli a rappresentante

procuratore della rappresentanza generale in Svizzera della com

pagnia di assicurazione Comitas s.p.a. » conferendogli quei po teri che poi il medesimo esercitò in concreto in nome della

società, per cui non è seriamente sostenibile che il De Carli

predetto fosse un institore.

Altrettanto dicasi per i soggetti che ebbero ad agire nelle

città di Parigi (cittadino francese Jean Michel Cerede) e di

Anversa (ditta General Insurance Office P.V.BA) per la Comitas

s.p.a., e per gli stessi rappresentanti che agirono anche per la « Liguria s.p.a. ».

Ne consegue allora che rettamente è stata individuata la

figura criminosa nella quale fu inquadrato il fatto posto in es

sere dagli appellanti, e che del pari rettamente è stata ritenuta

tale con l'impugnata sentenza che, sotto questo profilo, va pie namente condivisa.

Si tratta, infatti, senza alcun dubbio di costituzione di dispo nibilità valutaria. Ed invero, se costituire disponibilità valutaria

significa mettere insieme una determinata somma di denaro, del

la quale si possa giuridicamente disporre e sia di fatto disponi bile, allora è innegabile che tanto la Comitas quanto la « Ligu ria » hanno sicuramente ciò fatto con l'immettere sui loro conti

bancari « non autorizzati » gli importi che i rappresentanti, sia

dell'una che dell'altra società, via via realizzavano, importi che,

pur essendo depositati in istituto bancario, erano ugualmente da considerarsi liquidi a tutti gli effetti, in quanto a completa

disposizione dei titolari delle due società assicurative.

Non si tratta pertanto, di disponibilità di crediti, come la

difesa sostiene, ma di disponibilità di « valuta liquida », come

questa è intesa dall'U.I.C. nella circolare del 22 ottobre 1976

n. 344, nella quale sono considerati, per l'appunto, « disponibi lità valutarie liquide » non solo i biglietti di banca e di Stato

esteri, ma altresì « i depositi in valuta presso banche e società

finanziarie esigibili a vista ».

Ne consegue che se, per quanto dianzi detto, è provato che

tanto la Comitas quanto la Liguria operavano per il tramite

dei loro rappresentanti, è di tutta evidenza che le somme da

questi realizzate erano di proprietà delle società stesse che, fa

cendole affluire nei conti bancari « non autorizzati », finivano

per utilizzarle senza alcuna possibilità di controllo da parte del

l'U.I.C.

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PARTE SECONDA

È pertanto indubbia la sussistenza del reato contestato, a nulla rilevando: a) che le somme di cui le società disponevano all'estero non fossero state portate fuori del territorio dello Stato apposita mente per creare una disponibilità valutaria, ma fossero il risul tato dell'attività espletata esclusivamente fuori del territorio na

zionale; b) che tali somme dovessero rimanere all'estero sia mo mentaneamente che permanentemente; c) che tali somme ser vissero per lo svolgimento dell'attività delle due società, come sostenuto nei motivi di appello.

Quello che conta, infatti, non è il fine perseguito con la co stituzione delle disponibilità, ma la costituzione stessa in se e

per se considerata, e ciò per la natura giuridica del reato va lutario.

Non bisogna dimenticare, al riguardo, che il delitto previsto e punito dal d. 1. n. 31 rientra tra quelli cosiddetti di «pura condotta », che si perfezionano cioè con il semplice compimento di una data azione o di una data omissione; e più precisamente tra quelli .meglio noti come « reati di pericolo » nei quali, pro prio per il fatto che sia stata posta in essere una data condotta, è presunta in via assoluta la possibilità di un pregiudizio per il bene tutelato, nel senso che non si richiede, ma anzi si esclude, ogni indagine diretta a stabilire se il pericolo possa ritenersi sussistente nel caso concreto; con la conseguenza che, essendo

questa la natura del reato valutario, il dolo necessario per la sua giuridica esistenza non può che essere il « dolo generico » ossia quel dolo per aversi il quale è sufficiente che si sia voluto il fatto descritto dalla norma incriminatrice.

Per quanto riguarda « l'errore di fatto », in cui sarebbe ve nuto a trovarsi lo Zenoglio Enrico, nel ritenere che non le so cietà ma i pretesi titolari delle pretese filiali avessero in sostanza costituito i fondi all'estero, la corte osserva che tale errore non

sussiste, dovendosi ritenere che il predetto fosse a perfetta co noscenza che le somme versate nei vari conti bancari « non au torizzati », anche se in ipotesi aperti dai pretesi titolari delle

filiali, erano di esclusiva pertinenza delle società che ne dispo nevano come cosa propria. Lo Zenoglio era il direttore generale delle società e, come tale, non poteva assolutamente ignorare la esistenza delle disponibilità valutarie non autorizzate sol che si

pensi che egli aveva partecipato alla loro costituzione, consen tendo ai rappresentanti-procuratori di trattenerle materialmente all'estero.

Altrettanto dicasi per i Ravano i quali sapevano benissimo che le loro società agivano fuori dal territorio nazionale grazie ai conti bancari « non autorizzati »: e non potevano pertanto ignorare l'esistenza dei rappresentanti se loro stessi, i Ravano, avevano provveduto a nominarli e fornirli di procure.

Inoltre è pacifico nelle carte processuali che i predetti veni vano sistematicamente informati dallo Zenoglio — e non po teva essere d'altra parte diversamente — sull'andamento gene rale degli affari.

Nei motivi di appello si accenna in particolare, con riferimen to ad una memoria depositata nella udienza dibattimentale di

primo grado, alle rappresentanze di Parigi ed Anversa per pre cisare anzitutto che in esse non esistevano fondi illegali, e per chiedere poi la esclusione dalla contestazione dei fatti relativi a tali rappresentanze.

La richiesta non può essere accolta perché in entrambe le città vi è stato, comunque, un movimento di capitale controllato dalla Comitas in base ad una evidente disponibilità di valuta che, in quanto non debitamente autorizzata, non può essere enucleata dalla imputazione, a nulla rilevando, per un verso, che tale movimento si sia in pratica risolto in una mera passività e, per altro, che disposizioni di legislazione estera fossero di ostacolo al rientro in Italia dei capitali, posto che, essendo

quello valutario un reato di mera condotta, come già si è preci sato, si deve avere riguardo alla costituzione materiale della

disponibilità e non al suo evolversi, in senso positivo o nega tivo, nel tempo.

È stata altresì chiesta la prevalenza delle attenuanti generiche sul rilievo che i motivi addotti dal tribunale per giustificare la concessione di tali attenuanti potrebbero essere utilizzati in que sta sede per dichiararle prevalenti, riformando in tal senso la sentenza impugnata che le ha ritenute equivalenti.

Osserva in proposito la corte che i motivi ai quali si è ri chiamato il tribunale per la concessione delle anzidette atte nuanti, pur essendo indubbiamente validi per giustificare la con cessione stessa, non lo sono, invece, per dichiarare tali atte nuanti prevalenti sulla contestata aggravante, considerando non solo l'ingente quantitativo di valuta sottratta al controllo del l'U.I.C., ma altresì' il momento di particolare difficoltà per l'eco nomia nazionale in cui la sottrazione della stessa è avvenuta, per il che appare innegabile la gravità del reato commesso da gli appellanti, gravità che, proprio per via delle attenuanti ge

t neriche, è stata dal primo giudice sufficientemente mitigata con il. giudizio di equivalenza, per cui non pare alla corte che tale

giudizio possa essere ulteriormente ritoccato, per non ridurre in questa sede il reato che ne occupa a proporzioni minime.

Appare invece fondata la doglianza circa l'entità della pena inflitta in considerazione delle concesse attenuanti. Ed infatti, una volta eliminata l'aggravante e ridotta l'ipotesi criminosa da quella più grave, originariamente contestata, a quella meno

grave, poi ritenuta, non può essere seguito e condiviso il crite rio del tribunale usato per determinare la pena principale, in

quanto, avendola fissata in misura « più prossima al massimo che al minimo », come si legge nulla motivazione della sentenza

appellata, è chiaro che ciò è stato fatto all'esclusivo fine di neu tralizzare l'effetto stesso delle attenuanti in questione, per cui

pare alla corte che, pur non infliggendo il minimo edittale della

pena prevista per il reato semplice, l'entità della pena stessa

possa essere contenuta in una misura media, e quindi in limiti evidentemente più proporzionati.

Si è chiesto infine dagli appellanti anche una revisione della continuazione (ma non anche la sua eliminazione) per cui il con trollo della corte va limitato al conteggio fatto dal giudice di

primo grado. Non ignora la corte, a proposito dell'istituto della continua

zione in campo valutario, il travagliato divario che divide le

magistrature di merito negandosene da alcuni la sussistenza lad dove altri ne affermano, invece, la esistenza, in riferimento tan to alla pena principale quanto a quella accessoria.

Senza prendere posizione a favore dell'una o dell'altra tesi, si

può dire al riguardo che nel caso di costituzione all'estero di

disponibilità valutarie in momenti diversi occorre distinguere l'ipotesi in cui le singole costituzioni si presentino con carattere di autonomia tra loro, nel senso che esse non fanno parte di una stessa operazione economica, dalla ipotesi in cui tali costi tuzioni siano invece collegate tra loro, perché poste in essere in esecuzione di un medesimo piano economico.

In quest'ultimo caso le singole « costituzioni », ciascuna delle

quali di per sé realizza il reato valutario, vanno unificate sotto il vincolo della continuazione, laddove nell'altra ipotesi le varie « costituzioni » devono essere considerate unitariamente, senza che possa trovare applicazione l'istituto della continuazione.

Nel caso di specie, le due società, pur avendo avuto lo stesso direttore amministrativo nella persona dello Zenoglio Enrico, ope ravano tuttavia distintamente alla realizzazione della grossa ope razione economica da ciascuna di esse autonomamente posta in essere fuori del territorio metropolitano, e quindi le varie « co stituzioni » di valuta in esame devono essere ritenute autonome ed indipendenti tra loro, epperò effettuate in esecuzione di un medesimo piano economico, per cui bene è stata applicato l'isti tuto della continuazione dal giudice di primo grado, la cui sta tuizione al riguardo, essendo immune da censura, è senz'altro da condividere.

Le considerazioni che precedono non valgono per la pena ac cessoria, che deve essere necessariamente inflitta agli appellanti in aggiunta a quella principale.

È noto al riguardo che in campo finanziario (art. 8 legge 9 gen naio 1929 n. 4) la disciplina del reato continuato non differisce minimamente dalla disciplina accolta dalle regole generali (art. 81 cod. pen.) se non nel senso che l'applicazione non è obbliga toria (come per l'art. 81 citato), ma è rimessa al potere discre zionale del giudice di merito, il cui uso deve essere adeguata mente motivato (Cass., Sez. I, 14 novembre 1957, id., Rep. 1958, voce Reato finanziario, n. 11).

Ciò nondimeno, non pare alla corte che lo stesso ragionamen to possa essere seguito in campo valutario per la pena accesso ria prevista dall'art. 8 (cosi come modificato dalla legge 30 aprile 1976 n. 159) del d.l. n. 31, che cosi dispone: «Ai fatti previsti come reato dal presente decreto legge si applicano anche dal

giudice penale, quale pena accessoria, le sanzioni di carattere amministrativo previste dalle disposizioni vigenti ».

Tale pena accessoria non può essere che quella prevista dal l'art. 2 r. d. 1. 5 dicembre 1938 (debitamente convertito con la legge 2 giugno 1939 n. 739) nella misura « non superiore ad un

quintuplo del valore delle divise, dei titoli, delle merci, o delle altre cose che costituiscono l'oggetto della violazione ».

Il problema che ora si pone è quello di stabilire se anche alla pena accessoria da irrogare nel campo valutario debba essere applicato l'istituto della continuazione in base alla norma ge nerale di cui all'art. 81 cod. pen., oppure se per detta pena è valido il principio di cui all'art. 8, 2° comma, della legge finan ziaria del 7 gennaio 1929 n. 4 che prevede, per il caso di « più violazioni anche in tempi diversi in esecuzione della medesima risoluzione, l'applicazione della pena accessoria per una sola volta ».

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Page 6: PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sentenza 30 marzo 1979; Pres. Saitta, Est. Meloni; imp. Ravano e Zenoglio

GIURISPRUDENZA PENALE

Tale problema sorge per il fatto che il r. d. 1. 5 dicembre 1938

n. 1928, al quale occorre risalire, come è già detto, per la deter

minazione della pena accessoria, si riporta, per l'applicazione di

detta pena, all'art. 3 il quale rimanda, a sua volta, agli art. 3, 2°

comma, 4, 2° e 3° comma, 11, 17, 1° comma, e 20 legge 7 gen naio 1929 n. 4, ma non anche all'art. 8 della stessa legge n. 4, dove è per l'appunto prevista, ripetesi, l'applicazione per una sola

volta della pena pecuniaria, e quindi sembrerebbe non potersi invocare tale disposizione per il caso di specie.

D'altra parte, poiché il vigente codice penale prevede all'art.

15 che le disposizioni del codice stesso si applicano anche alle

materie regolate da altre leggi penali « in quanto non sia da que ste stabilito altrimenti », parrebbe, per contro, applicabile la con

tinuazione cosi come prevista dall'art. 81 cod. pen., proprio per ché nulla dispone al riguardo la normativa valutaria.

Ciò nondimeno la corte non ritiene che sia applicabile, alla

pena accessoria prevista in aggiunta a quella principale stabilita

per il reato valutario, l'istituto della continuazione come previ sta dal codice penale, e pertanto vanno confermate, perché ret

tamente ed equamente determinate, le pene accessorie inflitte in

primo grado nella rispettiva misura di lire 1.000.000.000 al Ra

vano Francesco ed allo Zenoglio Enrico nel procedimento penale n. 848/77 di R.G., e di lire 466.602.500 allo stesso Zenoglio En

rico ed al Ravano Antioco nell'altro procedimento n. 877/77 di R.G.

Le pene della multa, invece, cosi come fissate dal tribunale,

vanno, per quello più sopra detto, equamente ridotte e preci samente: a lire 1.100.000.000 (un miliardo e cento milioni) per il

Ravano Francesco (p. b. un miliardo più cento milioni a titolo di

continuazione); e a lire 620.000.000 (seicentoventimilioni) per il

Ravano Antioco (p. b. seicentomilioni più ventimilioni per la con

tinuazione). Per quanto riguarda la posizione dello Zenoglio Enrico, la cor

te osserva che al medesimo va riconosciuta la continuazione tra

i due reati che gli sono stati contestati nei due procedimenti pe

nali, e conseguentemente la pena da irrogare allo stesso può es

sere equamente determinata nella somma complessiva di lire

800.000.000 di multa, di cui cento milioni a titolo di continua

zione sulla pena base di settecento milioni.

Ai sensi dell'art. 11 legge 7 gennaio 1929 n. 4 — richiamato

dal r. d. 1. 5 dicembre 1938 n. 1928, che è la disposizione legis lativa istitutiva della pena accessoria che ne occupa — il paga mento di detta pena va posto « in solido » a carico del Ravano

Francesco e dello Zenoglio Enrico per quella dell'entità di un

miliardo, e a carico dello stesso Zenoglio Enrico e del Ravano

Antioco per l'altra, cosi' come pure « in solido » va posto il pa

gamento delle spese processuali di questo grado. La sentenza impugnata, parzialmente modificata come dianzi

detto, va confermata nel resto, liquidando nel contempo in lire

600.000 (di cui lire 500.000 per onorari) le spese sostenute dal

l'amministrazione del commercio con l'estero, ritualmente costi

tuitasi parte civile in primo grado ed altrettanto ritualmente

comparsa in questa sede per ribadire la propria costituzione.

Per questi motivi, ecc.

CORTE D'APPELLO DI ROMA; sentenza 16 gennaio 1979; Pres. Quattrino, Est. Del Basso; imp. Haggiag e altri.

CORTE D'APPELLO DI ROMA;

Truffa — Truffa in danno dello Stato — Coproduzioni cinema

tografiche — Sussistenza del reato — Fattispecie (Cod. pen., art. 640; legge 29 dicembre 1949 n. 958, disposizioni per la

cinematografia, art. 9).

Sussiste il reato di truffa ai danni dello Stato italiano qualora siano stati ottenuti indebitamente dal ministero del turismo e

dello spettacolo il riconoscimento della nazionalità italiana e

la erogazione dei connessi contributi finanziari, facendo appa

rire, con documentazione non veritiera, come realizzati in re

gime di coproduzione fra società cinematografiche italiane e

francesi, films prodotti esclusivamente da una società statuni

tense ovvero come prodotti in regime di compartecipazione ar

tistica films non girati prevalentemente in Italia e realizzati con

capitali e regista stranieri. (1)

La Corte, ecc. — Haggiag Hever, Haggiag Robert e Karmern

Leon sono stati ritenuti colpevoli:

(1) Sulle coproduzioni cinematografiche contemplate dall'art. 19

legge 4 novembre 1965 n. 1213 v. Corte conti, Sez. II, dee. 25 giugno

1979, n. 180, e Sez. controllo, delib. 14 luglio 1977, n. 805, in questo

fascicolo, III, 16, con nota di richiami e osservazioni di R. Ferrara.

Per riferimenti v. F. Contaldo-F. Fanelli, L'affare cinema (multi nazionali; produttori e politici nella crisi del cinema italiano) Fel

trinelli, 1979.

Il Foro Italiano — 1980 — Parte lì-5.

1) di truffa consumata ai danni dello Stato italiano, per aver ottenuto indebitamente dal ministero del turismo e dello spetta colo il riconoscimento della nazionalità italiana e la erogazione dei connessi contributi economici per i films « Il treno », « L'uomo

di Rio », « La cucina al burro », « Diario di una cameriera », « Jessica », « La pappa reale », « E1 Cid », facendo apparire con

documentazione non veritiera:

A) che i primi sei dei suddetti films — in conformità con

quanto prevede l'art. 9, prima parte, legge 29 dicembre 1949 n.

958 (nel testo modificato dalla legge 31 luglio 1956 n. 896) re

golante la materia — erano stati realizzati in regime di coprodu zione tra la società cinematografica italiana « Dear Film Produ

zione » e le società cinematografiche francesi « Le Productions

Artistes Associès », e « Le films Ariane », e alle condizioni di

reciprocità dell'accordo internazionale italo-francese del 7 otto

bre 1961, mentre, in realtà, essi furono realizzati esclusiva

mente dalla società statunitense « United Artist Corporation », come proverebbero soprattutto i memorandum segreti (se

questrati dalla guardia di finanza e allegati agli atti) con i quali tra le suddette società fu concordato che i finanziamenti occor

renti per la lavorazione dei films sarebbero stati forniti dalla so

cietà americana e a questa sarebbero spettati tutti i poteri di

decisione e di controllo circa l'organizzazione dei lavori nonché

tutti i diritti di utilizzazione commerciale dei films prodotti e

tutti i contributi che sarebbero stati erogati dal ministero italiano

del turismo e dello spettacolo. Ditalche le società italiane e fran

cesi vennero reperite se non addirittura costituite perché svolges sero la funzione di « paravento » della società americana, non

potendo questa aspirare ai contributi per mancanza sopratttuto di un accordo internazionale di reciprocità italo-statunitense;

B) che il settimo film, vale a dire « E1 Cid », prodotto dalla

società italiana « Dear Film Produzione » e la società americana

« Samuel Bronston Distribution, di Curasao », rispondeva alle

« particolari condizioni di interesse nazionale nel campo artisti

co, industriale, commerciale e del lavoro», alle quali il secondo

comma dell'art. 9 della citata legge 29 dicembre 1949 n. 958

subordina il riconoscimento ai films prodotti in Italia da imprese italiane in regime di compartecipazione artistica, tecnica e finan

ziaria con imprese estere e l'erogazione dei contributi, quando,

come nella specie, manca un accordo internazionale di recipro

cità, mentre, in realtà, tali condizioni per i film in parola non

sussistevano, perché esso non era stato girato prevalentemente in

Italia, aveva impiegato capitali americani e il regista del film

(Antony Mann) non era stato italiano;

2) di truffa tentata ai danni dello Stato italiano, per aver ten

tato, con gli stessi artifizi di cui al n. 1 A (cioè facendo credere, con falsa documentazione, che i films erano stati realizzati in re

gime di coproduzione tra società cinematogfafiche italiane e fran

cesi ed in conformità dell'accordo italo-francese di reciprocità), di ottenere il riconoscimento della nazionalità italiana ed i con

nessi contributi per i films « Candy » e « La primula rosa », mentre in realtà anche questi due ultimi films erano stati pro dotti esclusivamente dalla United Artist Corporation (società sta

tunitense, come già si sa).

Per quanto riguarda i films di cui sopra al n. 1 della lettera A)

gli appellanti non negano, almeno in questa sede, che essi siano

stati realizzati esclusivamente o prevalentemente con capitali della

United Artist Corporation e che questa abbia praticamente gestito la lavorazione di detti films, lasciando alle società italiane e fran

cesi, apparentemente coproduttrici, poco o addirittura nessun

margine di discrezione e di iniziative; né avrebbero potuto farlo

seriamente posto che i famosi memorandum segreti e la copiosa

corrispondenza sequestrati dalla guardia di finanza non lasciano

adito a discussioni al riguardo, tanto chiaro è il loro significato e tanto ovvie le deduzioni logiche che se ne possono trarre.

Sostengono, invece, gli appellanti che la società americana erogò somme alle società italiane e francesi, collegate per la coprodu zione dei film in parola, a titolo di finanziamento e non di parte

cipazione alle spese di produzione ed aggiungono che il finanzia

mento non ha alcuna rilevanza al fine di stabilire chi fu il pro

duttore dei films, in quanto non vi sono nella legge 29 dicembre

1949 n. 897 indicazioni o divieti al riguardo ed il ricorso al

credito, nel campo della produzione cinematografica, è praticato normalmente ed è ritenuto legittimo; insomma, per gli appellan

ti, quel che conta, al suddetto fine, è accertare se i films fu

rono realizzati dalle società italiane e francesi in collaborazione

tra loro e non importa come e dove reperirono i fondi necessari.

Credono, poi, gli appellanti di avvalorare la loro tesi avver

tendo che il concetto di produttore bisogna desumerlo dagli art.

45 e 46 legge 22 aprile 1941 n. 633 sul diritto di autore, a

norma dei quali produttore è colui che organizza la produzione

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