Date post: | 27-Jan-2017 |
Category: |
Documents |
Upload: | vuongthuan |
View: | 215 times |
Download: | 2 times |
sentenza 4 novembre 1991; Giud. ind. prel. Azzariti; imp. RicciSource: Il Foro Italiano, Vol. 115, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1992), pp.467/468-471/472Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23185980 .
Accessed: 28/06/2014 12:23
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 91.238.114.237 on Sat, 28 Jun 2014 12:23:44 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
che in ogni caso la complessità e lo stato dei fenomeni lamen
tati, legati ad una serie di componenti ed interessi anche conflit
tuali, che non consentono soluzioni radicali, non praticabili an
che per l'imponente aspetto finanziario, è materia, quanto alle
scelte, spettante alla competenza esclusiva degli organi di ammi
nistrazione locali, non sindacabile, anche per questo aspetto,
Né le cose appaiono diverse se il bene della salute è considerato come bene dell'ambiente salubre nei sensi sopra indicati, cioè come salubrità dell'ambiente quale dimensione spazio-territoriale della vita associata». Ne consegue che «l'amministrazione non ha il potere di rendere l'am biente insalubre neppure in vista di motivi di interesse pubblico di parti colare rilevanza. Segue che essa non ha il potere di compiere né di autorizzare attività suscettiva di determinare tale insalubrità senza l'im
piego di cautele atte, di attitudine verificabile dal giudice, a scongiurare il pericolo».
Esattamente l'opposto, quindi, di quanto sostiene il provvedimento in esame.
Nello stesso senso, cfr. fra le tante Cass, pen., sez. Ili, 10 novembre
1982, Mazzola (id., Rep. 1984, voce Acque pubbliche, n. 168) e più di recente Cass., sez. un., 25 gennaio 1989, n. 440 (id., 1990, I, 232).
Analoga conclusione viene raggiunta, e con altrettanta chiarezza, dal la Corte costituzionale. Cfr., ad esempio, la sentenza n. 210 del 1987
(id., 1988, I, 329) o la n. 641 del 30 dicembre 1987 (ibid., 694), dove si conclude che la tutela dell'ambiente è resa «concreta ed efficiente» da «sanzioni penali, civili ed amministrative» anche rispetto a specifici «obblighi di vigilanza e di intervento» demandati alle competenti autorità.
Ancor più esplicitamente, con sentenza n. 283 del 23 dicembre 1986
(ibid., 774), la stessa corte sancisce addirittura il potere-dovere del giu dice penale di assumere «provvedimenti che incidano nel campo dei
poteri riservati alla pubblica amministrazione» in caso di pericolo per la salute pubblica (ovviamente in presenza di reato).
E, da ultimo, proprio con riferimento ai limiti per l'inquinamento atmosferico, la stessa corte è giunta ad affermare che, se sorgono dubbi circa l'adeguatezza di questi limiti, il giudice «può disporre indagini scientifiche atte a stabilire la compatibilità del limite massimo delle emis sioni con la loro tollerabilità, traendone le conseguenze giuridiche del caso. Nessuna norma ordinaria, infatti, può sottrarsi all'ossequio della
legge fondamentale» e cioè l'art. 32 Cost. (Corte cost. 16 marzo 1990, n. 127, id., 1991, I, 36).
La rassegna di giurisprudenza potrebbe continuare ma, a questo pun to, sembra del tutto dimostrato che sia la Corte costituzionale sia la
Suprema corte di cassazione considerano esistente un diritto alla salu brità dell'ambiente e che questo diritto è direttamente esigibile dal citta dino dinanzi al giudice ordinario «nei riguardi di fatti e comportamenti comunque lesivi dell'equilibrio ecologico che è condizione necessaria
per la salubrità dell'esistenza umana» (la citazione è tratta dal recentis simo Mantini, Lezioni di diritto pubblico dell'ambiente, Cedam, Pado
va, 1991, 62, cui si rinvia per ulteriori citazioni e richiami). La richiesta di archiviazione in esame, quindi, si pone in totale contrasto con alme no dieci anni di giurisprudenza delle nostre corti e porterebbe di fatto, se venisse accolta, all'assurda e gravissima conseguenza di lasciare i cittadini romani esposti senza difesa, ad ogni sopruso ed inadempienza della pubblica amministrazione facendoli diventare di serie B rispetto a tutti gli altri cittadini italiani.
Passando al caso di specie, è bene ricordare che il nocciolo della
questione consiste nella configurabilità di una omissione di atti di uffi cio da parte di amministratori comunali e regionali per una situazione in cui si è accertato a Roma il costante e ripetuto superamento dei limiti inderogabili stabiliti dalla legge a tutela della salute della popola zione. Non si tratta, quindi, di non aver fatto il necessario «per il mi
glioramento delle condizioni ambientali», come si legge nella richiesta di archiviazione. Si tratta di un omesso intervento, doveroso, per ripor tare la qualità dell'aria a Roma nell'ambito dei limiti sanitari di sicurez za previsti dalla legge per la salute della popolazione, e, per ciò solo, definiti «inderogabili» della legge stessa, come ribadito dalla Suprema corte (Cass, pen., sez. Ili, 24 novembre 1987, Irollo). Non si tratta, neppure, di «sottovalutazione della pericolosità di un fenomeno», come è scritto nel provvedimento.
A parte il fatto che non si capisce perché in tal caso non possa rile varsi una omissione di atti di ufficio (salva, ovviamente, l'indagine sul la esistenza del dolo, che, tuttavia, non risulta affatto effettuata nel caso di specie secondo quanto si ricava dal provvedimento), deve met tersi in rilievo che nel caso di specie è ben difficile parlare di «sottova lutazione della pericolosità» della situazione creatasi a Roma. Infatti è la legge stessa che, fissando parametri inderogabili, considera perico losa la situazione quando questi vengono superati. E nessuna discrezio nalità, proprio per questo, è lasciata alla pubblica amministrazione. Si
potrà discutere sull'efficacia di provvedimenti adottati (magari perché, «sottovalutando» la situazione, non sono stati adeguati) ma, nel caso di specie, la sottovalutazione è stata tale che nessun concreto provvedi mento è stato adottato. Il che è esattamente il contrario di quanto vuo le la legge. Ed è appena il caso di ricordare che nel 1987 la Pretura di Roma, per un caso analogo, pervenne ad archiviazione per mancan
II Foro Italiano — 1992.
dal magistrato penale, soprattutto nei confronti del comune,
dotato, com'è noto, di particolare autonomia.
Per tutte queste ragioni, ed in particolare per il profilo di
responsabilità del tutto carente nella specie, dispone l'archivia
zione del procedimento e ordina la restituzione degli atti al pub blico ministero in sede.
za di dolo dopo una complessa indagine e dopo che il sindaco aveva istituito la fascia blu respingendo anche la tesi oggi accolta dalla procu ra della repubblica di Roma (Pret. Roma, decr. 2 marzo 1987, id.,
1987, II, 619). I sottoscritti, in conclusione, chiedono che il g.i.p. presso il Tribuna
le di Roma non accolga la richiesta di archiviazione della procura della
repubblica di Roma n. 131/918 con le conseguenze di legge e che, co
munque, prima di ogni decisione ascolti i sottoscritti circa i fatti in esame.
Chiedono altresì', ai sensi dell'art. 410 c.p.p., che si proceda ad inda
gini preliminari sull'accertamento, tra l'altro, del superamento dei limi
ti inderogabili del d.p.c.m. del 1983 con l'audizione dei tecnici del p.m.p. di Roma, e sulla mancata emanazione di qualsiasi provvedimento atto
a rispettare i limiti da parte del sindaco di Roma con l'audizione del
segretario generale del comune. Chiedono, altresì, che vengano acquisi ti tutti i fogli del giornale La Repubblica, cronaca di Roma, che all'e
poca hanno trattato la vicenda.
PRETURA DI CHIETI; PRETURA DI CHIETI; sentenza 4 novembre 1991; Giud. ind.
prel. Azzariti; imp. Ricci.
Oblazione nelle contravvenzioni — Domanda — Ammissibilità — Fattispecie (Cod. pen., art. 162 bis; cod. proc. pen., art.
461, 565).
È ammissibile la domanda di oblazione presentata per la prima volta nell'udienza fissata per la celebrazione del giudizio ab
breviato (nella specie, l'imputato, dopo aver presentato op
posizione a decreto penale di condanna, chiedendo la celebra
zione del giudizio nelle forme del rito abbreviato, aveva inol
trato in sede di udienza camerale fissata all'uopo domanda
di oblazione a norma dell'art. 162 bis c.p.). (1)
(1) Non constano precedenti editi in termini. In tema di ruolo e spazi procedimentali dell'oblazione nel codice di rito del 1988, cfr., in gene rale, Nappi, Guida al nuovo codice di procedura penale, 2a ed., Mila
no, 1991, 332 s.; Sottani, Iprocedimenti speciali in pretura, in I giudì zi semplificati a cura di Gatto, Padova, 1989, 340 s.; Id., L'oblazione nel nuovo processo penale: caratteristiche, struttura e ipotesi, in Giust.
pen,, 1990, III, 673.
Il principio di permeabilità delle forme processuali — su cui cfr. Somma, Giudizio abbreviato, in Iprocedimenti speciali a cura di Dalia, Napoli, 1989, 92 s., nonché Di Chiara, Permeabilità dei riti e giudizio abbre viato a seguito di conversione: il criterio dello 'stato degli atti' nella dialettica dei rapporti tra giudice e parti, in Foro it., 1991, II, 491 — trova precisi referenti normativi nelle ipotesi di trasformazione del rito previste dagli art. 452 e 458 c.p.p. (sul tema, cfr. Sechi, La conver sione in giudizio abbreviato del giudizio direttissimo e del giudizio im mediato, in / giudizi semplificati, cit., 277 s.), e risponde al duplice intento di consentire all'imputato, sussistendone i presupposti* di lucra re comunque i benefici premiali connessi ai riti 'patteggiati' e, nel con
tempo, di favorire lo svolgimento di tali riti per ragioni di economia
complessiva del sistema (cfr., in tale ultimo senso, i noti argomenti della Relazione al progetto preliminare, in Le leggi, 1988, 2544 s.).
Il problema postosi in giurisprudenza concerne, invece, la possibilità
This content downloaded from 91.238.114.237 on Sat, 28 Jun 2014 12:23:44 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA PENALE
A seguito di richiesta del p.m., Ricci Antonio, qualificato in epigrafe, veniva condannato alla pena di lire 800.000 di am
menda con decreto penale del 7 marzo 1991 emesso da questo
g.i.p. per il reato di cui in rubrica. Nei termini di legge il Ricci proponeva opposizione, facendo contestuale richiesta di giudi zio abbreviato a norma del 2° comma dell'art. 565 c.p.p.
Disposta l'udienza in camera di consiglio a norma dell'art.
441 c.p.p., l'imputato produceva istanza — che reiterava ver
balmente — per essere ammesso all'oblazione della contravven
zione ex art. 162 bis c.p., all'uopo dichiarando che era stata
da tempo eliminata ogni conseguenza pericolosa del reato atte
so che il cantiere era stato smantellato essendo stati ultimati
i lavori sin dal 30 aprile 1990; produceva e depositava agli atti
assegno circolare di lire 824.000 intestato all'ufficio del registro di Chieti, importo corrispondente alla metà del massimo del
l'ammenda prevista ex art. 77, lett. a), d.p.r. 164/76 oltre spese
processuali. Il p.m. dichiarava di opporsi alla domanda di oblazione atte
so che la richiesta non era proponibile nell'attuale fase di rito
abbreviato e non potevano acquisirsi ulteriori atti o documenti
rispetto a quelli già esistenti nel fascicolo di cui agli art. 561
e 554, 4° comma, c.p.p. Venivano da parte del giudicante acquisite informazioni pres
so i carabinieri di Ortona che confermavano che il cantiere del
Ricci era stato smantellato per ultimazione dei lavori; indi si
procedeva alla discussione della causa e all'esito veniva data
lettura del dispositivo di sentenza ex art. 442 c.p.p. fondata
sui seguenti motivi.
Motivi della decisione. — La violazione contestata rientra tra
quelle oblazionali ex art. 162 bis c.p. per la disposizione di cui
all'art. 127 1. 689/81, trattandosi di reato di cui al richiamato
art. 34, lett. n, stessa legge.
L'opposizione del p.m. alla istanza di oblazione attiene es
senzialmente a motivi d'ordine processuale, di duplice configu razione: a) tardività della richiesta, perché fatta nell'udienza di
camera di consiglio e non, invece, nell'atto di opposizione al
decreto penale, a norma dell'art. 464 c.p.p.; b) non acquisibili tà di ulteriori atti o documenti (in particolare l'assegno circola
re prodotto dall'opponente). Ritiene il giudicante ambedue le doglianze infondate e quindi
ammissibile la domanda di oblazione. Quanto al primo punto, a ben vedere non si rinviene una norma del codice di rito che
osti all'ammissibilità dell'istanza di oblazione fatta per la prima volta in udienza per il giudizio abbreviato. Le norme processua listiche che attengono specificamente all'opposizione al decreto
penale di condanna sono contenute negli art. 461, 3° comma,
c.p.p., per quanto attiene ai reati di competenza del tribunale
e 565, 2° comma, c.p.p., per quanto attiene ai reati di compe tenza pretorile. Col primo di detti articoli si prescrive semplice mente che l'opponente al decreto penale possa chiedere, quale alternativa al rito normale, il giudizio immediato ovvero il giu dizio abbreviato o l'applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.;
e, con l'art. 565, che debba chiedere al g.i.p. il decreto che
dispone il giudizio ordinario ovvero il giudizio abbreviato o l'ap plicazione della pena ex art. 444 c.p.p.
Sicché non c'è traccia di prescrizione di richiesta di oblazione
di dar luogo a ipotesi atipiche di conversione consentendo alla parte che abbia già effettuato scelte rituali di innestare su queste, in un mo mento successivo, ulteriori opzioni modificatrici. In quest'ottica — nel la quale si iscrive l'inedita problematica oggetto della pronuncia in ras
segna — si sono, tuttavia, evidenziati atteggiamenti non univoci: alla
tesi secondo cui «il patteggiamento è compatibile con il giudizio abbre
viato, nel senso che, pur mancando un'espressa previsione normativa, è configurabile la possibilità di chiedere l'applicazione della pena pat
teggiata nel corso del giudizio abbreviato, in linea con le finalità di
speditezza che si tendono a conseguire con i procedimenti speciali»,
pur essendo, ovviamente, esclusa una irrazionale duplice riduzione di
pena (Cass. 24 settembre 1990, Nuzzo, Cass, pen., 1991, II, 442), si
contrappone, nella medesima giurisprudenza di legittimità, la tesi oppo
sta, sostenuta facendo leva sulle «differenze ontologiche, strutturali, funzionali e procedimentali» tra i due istituti (Cass. 18 maggio 1990,
Doria, ibid., 15; analogamente, Cass. 28 giugno 1990, Nicoli, Arch, nuova proc. pen., 1991, 786). In argomento, cfr. Melillo, Note in te
ma di rapporti tra giudizio abbreviato e patteggiamento, in Cass. pen.,
1991, II, 443 s.
Il Foro Italiano — 1992.
nell'atto di opposizione a pena di decadenza. Le prescrizioni
attengono solo ai riti chiaramente indicati dalle norme stesse, riti alternativi che si possono chiedere solo in sede di opposizio ne non oltre i quindici giorni dalla notificazione del decreto
penale di condanna.
Una diversa opinione non potrebbe certo farsi derivare dal l'art. 464, 2° comma, secondo cui «il giudice, se è presentata domanda di oblazione contestuale all'opposizione, decide sulla
domanda stessa prima di emettere i provvedimenti a norma del
1° comma». Ciò significa semplicemente che se l'opponente ab
bia contemporaneamente chiesto il giudizio immediato (o ab
breviato o anche l'applicazione dell'art. 444) ed altresì fatto do
manda di oblazione, il giudice vagherà per prima quest'ultima e solo nel caso che non intendesse accoglierla emetterà il decre
to fissando il termine entro cui il p.m. dovrà esprimere il suo
consenso alla richiesta di giudizio immediato o abbreviato o
di applicazione dell'art. 444.
La norma quindi lungi dall'avallare la tesi del p.m., col fa
coltizzare la possibilità «contestuale», in sede di opposizione al decreto, dell'istanza di oblazione e della richiesta di uno dei
riti alternativi, semmai dimostra proprio il contrario, cioè la
possibilità di fare istanza di oblazione anche dopo aver chiesto
un rito alternativo.
Ma oltre all'interpretazione letterale delle cennate norme di
rito, osta certamente alla tesi del p.m. la considerazione delle
caratteristiche stesse dell'istituto dell'oblazione delle contravven
zioni punite con pena alternativa dell'arresto e dall'ammenda
di cui all'art. 162 bis c.p. quale introdotta dall'art. 126 1. 689/81.
Ivi si prevede non solo la facoltà del contravventore di chie
dere l'oblazione — con la conseguenza dell'estinzione del reato
in caso di accoglimento dell'istanza — «prima del decreto di
condanna» e comunque «prima dell'apertura del dibattimento»
(1° comma), ma anche di riproporla «sino all'inizio della di
scussione finale del dibattimento di primo grado» (5° comma). È cosi evidente il favor del legislatore per questa possibilità di
estinzione del reato contravvenzionale — estesa dalla 1. 689/81
oltre i limiti di cui all'art. 162 c.p. che concerneva i soli reati
puniti con la pena dell'ammenda — che non appare dubbio
che, se allora fosse già stato in vigore un codice processuale come quello attuale, sarebbe stata certamente specificata la fa
coltà di proporre l'istanza di oblazione anche in sede di udienza
di rito alternativo.
Ora quindi sussisterebbe semmai solo un problema di coordi
namento del testo dell'art. 162 bis c.p. con le attuali disposizio ni di procedura, ma posto che — come visto — da queste ulti
me non si ricava alcun divieto nel senso prospettato dal p.m., il problema stesso non può che essere risolto nel senso della
interpretazione estensiva (non analogica) dell'art. 162 bis c.p., onde equiparare al «dibattimento» ivi specificato l'udienza fis
sata per il rito alternativo.
Altrimenti opinando, sussisterebbe ad avviso del giudicante anche un problema di costituzionalità per l'evidente disparità di trattamento tra il caso dell'opponente a decreto penale facol
tizzato a fare istanza di oblazione prima del dibattimento di
primo grado e magari a riproporla, se non ammessa, dopo esau
rito il dibattimento e prima della discussione finale e il caso
dell'opponente a decreto penale non ammesso a tanto sol per ché aveva optato per la richiesta di un giudizio alternativo o
per l'applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. A ben vedere il giudizio «abbreviato» di cui agli art. 438 ss.
c.p.p. comporta solo la decisione della causa «allo stato degli
atti», e cioè senza possibilità per l'imputato o per il p.m. di
chiedere nuove prove. Ma tutto ciò evidentemente attiene al me
rito del processo, e cioè al giudizio sull'esistenza o meno della
responsabilità penale ascritta all'imputato, alla conferma giudi ziale o meno dell'accusa.
Ben altra questione — e certamente preliminare ed estranea
al merito — è quella che si introduce con la domanda di obla
zione, con la quale l'imputato evidentemente sul presupposto
implicito sull'accettazione del fatto come qualificato dal p.m. — chiede semplicemente a norma dell'art. 162 bis c.p. di poter
estinguere il reato stesso. È evidente che tutto ciò non scalfisce
la regola della decisione (di merito) «allo stato degli atti», che
è caratteristica del giudizio abbreviato.
Non ha infine pregio l'altra motivazione dell'opposizione del
p.m. fondata sulla assunta non acquisibilità di nuovi atti o do
This content downloaded from 91.238.114.237 on Sat, 28 Jun 2014 12:23:44 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
cumenti. L'art. 441 c.p.p. precisa semplicemente che «nel giudi zio abbreviato si osservano, in quanto applicabili, le disposizio ni previste per l'udienza preliminare», con le sole eccezioni di
quelle degli art. 422 (nuove acquisizioni di prove a seguito della
prospettazione di «temi nuovi o incompleti» da parte del giudi
cante) e 423 (modificazione dell'imputazione). Sicché è evidente che al di fuori dei casi suddetti non può
esistere un divieto assoluto di produrre documento alcuno, e
la conferma testuale ne viene proprio dall'art. 421 relativo alla
discussione in camera di consiglio dell'udienza preliminare, che, al 3° comma, prevede che il p.m. e il difensore procedono alla
discussione utilizzando gli atti contenuti nel fascicolo trasmesso
a norma dell'art. 416, 2° comma, «nonché gli atti e i documenti
ammessi dal giudice prima dell'inizio della discussione».
Dunque è prevista testualmente, per l'udienza preliminare, sif
fatta possibilità, e la stessa deve ritenersi evidentemente ammis
sibile, ex art. 441, nel giudizio abbreviato, e senza alcun dubbio
allorché trattasi non di atti o documenti che possano attenere
alla decisione di merito della causa, bensì all'estinzione del rea
to (nella fattispecie, l'assegno circolare per il pagamento di quan to previsto dall'art. 162 bis c.p.; in analoga fattispecie potrebbe
ipotizzarsi il certificato di morte del reo ovvero un formale ver
bale di rimessione di querela ed accettazione della rimessione). Parimenti ammissibile si palesa la semplice verifica da parte
del g.i.p. — nella fattispecie effettuata tramite informativa ri
chiesta ai carabinieri — dell'avvenuta eliminazione delle conse
guenze dannose o pericolose del reato quale richiesta dall'art.
162 bis c.p. per l'ammissione dell'oblazione.
Per le esposte considerazioni va definitivamente acquisito agli atti l'assegno circolare prodotto dall'imputato e, ritenuto non
sussistere altro motivo di ricusazione della domanda di oblazio
ne ex art. 162 bis c.p., va dichiarato non doversi procedere con
tro Ricci Antonio per essere il reato estinto per oblazione.
PRETURA DI VELLETRI; PRETURA DI VELLETRI; sentenza 31 ottobre 1991; Giud.
Meloni; imp. Franceschetti.
Incolumità pubblica (reati e sanzioni amministrative contro la) — Attività industriali — Rischi d'incidenti rilevanti — Obbli go di notifica — Inosservanza — Reato (D.p.r. 17 maggio 1988 n. 175, attuazione della direttiva Cee n. 82/501 relativa
ai rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attivi
tà industriali, ai sensi della 1. 16 aprile 1987 n. 183, art. 4,
21; d.p.c.m. 31 marzo 1989, applicazione dell'art. 12 d.p.r. 17 maggio 1988 n. 175 concernente rischi rilevanti connessi
a determinate attività industriali, art. 4).
Commette la contravvenzione di cui agli art. 4, 1° comma, lett.
a), e 21, 1° comma, d.p.r. 17 maggio 1988 n. 175 il responsa bile di una società esercente attività industriale, il quale omet
ta di far pervenire una notifica ai ministri dell'ambiente e
della sanità, qualora tale attività comporti o possa comporta re l'uso di sostanza pericolosa indicata nell'allegato III al de
creto in quantità eccedente il limite ivi specificato, ovunque la sostanza risulti contenuta, e, in particolare, anche nel caso
in cui la sostanza sia detenuta in due carri ferroviari conte
nenti ciascuno quantitativi inferiori al predetto limite e di
stanti tra di essi meno di cinquecento metri, l'uno collegato direttamente all'impianto all'interno dello stabilimento della
società e l'altro giacente nella stazione ferroviaria in attesa
dell'esaurimento del primo. (1)
(1) Per anni le guerre di competenza tra ministeri avevano bloccato il recepimento nel nostro paese della direttiva post-Seveso del 24 giugno 1982 sui rischi d'incidenti rilevanti connessi con determinate attività in
1l Foro Italiano — 1992.
All'esito dell'odierno dibattimento risulta sicuramente prova ta la responsabilità penale dell'imputato in ordine al reato a
lui ascritto. Le prove a carico dell'imputato sono costituite dal
le dichiarazioni dei funzionari Usi Rm 30 Blasetti e Fantini,
dei brigadieri della guardia di finanza Pascale e Palliccia, del
geom. Scafoni nonché dalla documentazione agli atti prodotta dal p.m. ed acquisita in dibattimento, costituita dalla copia del
la lettera di vettura in data 12 gennaio 1990.
In ordine alle deposizioni rese dai testi Blasetti e Fantini ap
pare necessario precisare che, contrariamente a quanto sostenu
to dal difensore dell'imputato, le dichiarazioni dei suddetti testi
sono pienamente valide ed utilizzabili ai fini della decisione.
A tale proposito, al fine di comprendere l'infondatezza della
eccezione proposta dalla difesa appare necessario riassumere bre
vemente le argomentazioni addotte nonché il contenuto delle
ordinanze dibattimentali pronunciate da questo giudice nel cor
so del giudizio. Occorre premettere che all'udienza in data 25
ottobre 1990 il p.m. ai sensi dell'art. 516 c.p.p. modificava l'o
riginario capo di imputazione nel senso in cui contestava all'im
dustriali. Non è bastato, però, emanare in attuazione della direttiva
post-Seveso il d.p.r. 17 maggio 1988 n. 175 (modificato e integrato con d.m. ambiente 20 maggio 1991), per far decollare effettive attività di
controllo sugli impianti a rischio d'incidente rilevante ubicato nel terri
torio nazionale (emblematico in proposito il d.l. 7 gennaio 1991 n. 4, reiterato con d.l. 17 marzo 1992 n. 232, volto a potenziare le strutture
organizzative preposte alle attività di controllo). In questo panorama deludente, ancor più significativa appare la sen
tenza che qui presentiamo, dal momento che mette in luce un caso di
applicazione del d.p.r. n. 175. Tra gli obblighi ivi previsti a carico dei
responsabili di attività industriali a rischio già esistenti (i c.d. «fabbri
canti»), fa spicco quello contemplato negli art. 4, 5, 7, 3° comma, e
sanzionato dall'art. 21, 1° comma, con l'arresto fino a un anno: l'ob
bligo, cioè, di far pervenire entro 1*8 luglio 1989 ai ministri dell'ambien
te e della sanità (e in copia alla regione o provincia autonoma) una
apposita notifica, con allegato un rapporto di sicurezza. Si tratta di un obbligo che sorge, in particolare, qualora l'attività industriale «com
porti o possa comportare l'uso di una o più sostanze pericolose riporta ta nell'allegato III, nelle quantità ivi indicate, come sostanze immagaz zinate o utilizzate in relazione con l'attività industriale interessata» (art.
4, 1° comma, lett. a, n. 1). D'altra parte, in forza dell'art. 4, 2° com
ma, la notifica è obbligatoria, «qualora le quantità delle sostanze peri colose... siano complessivamente raggiunte o superate in più stabilimenti distanti tra loro meno di cinquecento metri, di proprietà del medesimo
fabbricante». A sua volta, l'allegato III, contenente l'elenco delle so
stanze ai fini dell'applicazione dell'art. 4, esordisce con la frase: «Le
quantità menzionate in appresso si intendono per impianto o per com
plesso di impianti di un medesimo fabbricante quando la distanza tra
gli impianti non è sufficiente per evitare, in circostanze prevedibili, un
aggravamento dei rischi di incidenti rilevanti. In ogni caso queste quan tità si intendono per complesso di impianti di un medesimo fabbricante
se la distanza tra di essi è inferiore a circa cinquecento metri». Infine, il d.p.c.m. 31 marzo 1989, emesso in applicazione dell'art. 12 d.p.r. n. 175, all'art. 4, 1° comma, prevede che, «ai fini della verifica della
soglia dell'allegato III al d.p.r. 17 maggio 1988 n. 175, i quantitativi delle sostanze riferibili ad una singola voce si intendono per complesso di impianti e depositi connessi, appartenenti al medesimo fabbricante, se la distanza tra di essi è inferiore a cinquecento metri». (Per una
illustrazione della normativa post-Seveso, v. Guariniello, L'aspetto nor mativo del d.p.r. n. 175/88, in Dossier ambiente, 1989, 6, 11 s.; Muc
ciarelli, I decreti di attuazione delle direttive comunitarie in materia
di prevenzione dei rischi di incidenti rilevanti [d.p.r. 17 maggio 1988
n. 175], in Legislazione pen., 1989, 123). In un simile quadro normativo, il Pretore di Velletri giunge a soste
nere che «la ratio della normativa, consistente nella finalità di evitare
gli incidenti rilevanti dipendenti da attività industriali che potrebbero insorgere in presenza di elevati qualitativi di sostanze ritenute pericolo se, induce a interpretare la norma nel senso in cui ogniqualvolta venga superato il limite imposto di una determinata sostanza pericolosa, ovunque contenuta, scatti l'obbligo della notifica», e che «la normativa di cui
al d.p.r. n. 175 non richiede l'esistenza di un vero e proprio 'deposito' inteso come luogo ove vengono trasferite ed immagazzinate le sostanze
pericolose». Nel caso di specie, relativo ad attività industriale compor tante l'impiego di cloro, «l'imputato aveva progettato l'impianto in modo tale da esaurire un intero ciclo di lavorazione con una quantità di cloro inferiore al limite di venticinque tonnellate», ma era dimostrata «la con
temporanea presenza di due ferrocisterne contenenti ventiquattro ton nellate di cloro ciascuno ad una distanza inferiore a cinquecento metri l'una dall'altra»: la prima in uso nello stabilimento dell'imputato, la
seconda invece giacente presso la stazione ferroviaria in attesa dell'e saurimento della prima e tuttavia già consegnata all'imputato.
This content downloaded from 91.238.114.237 on Sat, 28 Jun 2014 12:23:44 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions