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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sentenza 7 febbraio 1990; Giud. Schiesaro; imp. Di Stefani...

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sentenza 7 febbraio 1990; Giud. Schiesaro; imp. Di Stefani ed altri Source: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1991), pp. 557/558-567/568 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23186412 . Accessed: 25/06/2014 04:51 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.44.78.31 on Wed, 25 Jun 2014 04:51:25 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sentenza 7 febbraio 1990; Giud. Schiesaro; imp. Di Stefani ed altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1991), pp.557/558-567/568Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23186412 .

Accessed: 25/06/2014 04:51

Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp

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GIURISPRUDENZA PENALE

rando in tal modo, resti violato il principio della precostituzio ne del giudice, di cui all'art. 25, 1° comma, Cost. (Cass. 28

aprile 1975, Codazzi, id., Rep. 1976, voce Competenza penale, n. 43; 7 ottobre 1977, Bucci, id., Rep. 1978, voce cit., n. 108).

Nella specie, peraltro, non si pone neppure un problema di

favor rei (pure escluso dalla migliore dottrina come principio

generale del processo e come criterio dirimente del problema «retroattività-irretroattività» della norma processuale penale) dal

momento che la sostituzione di un giudice collegiale ad un giu dice monocratico non può certo considerarsi disposizione più sfavorevole per colui nei cui confronti le ragioni di punibilità sono accertate o indagate. Talvolta, in caso di successione di

leggi processuali, vengono dal legislatore dettate norme partico

lari, c.d. di diritto transitorio, dirette a disciplinare il passaggio da un ordinamento processuale a un altro.

È quanto è successo, ad esempio, con la 1. 31 luglio 1984

n. 400 che, nell'estendere la competenza del pretore, espressa mente stabiliva all'art. 12 che la maggiore competenza di que st'ultimo era applicabile solo ai reati commessi posteriormente alla data di entrata in vigore della legge.

Ed è quanto, ancora di recente, è accaduto con gli art. 241

e 242 d. leg. 271/89 (norme di attuazione, di coordinamento

e transitorie del codice di procedura penale), i quali hanno espres samente sancito casi di ultrattività delle norme processuali ante

riormente vigenti, e con l'art. 259 dello stesso decreto che te

stualmente afferma che «ai fini della determinazione della com

petenza per materia e per territorio le disposizioni del codice

si applcano solo per i reati commessi successivamente alla data

di entrata in vigore dello stesso».

Ciò che conferma la regola secondo la quale, quando disposi zioni contrarie di diritto transitorio non siano dettate, tempus

regit actum. Il che equivale a dire, per quanto qui interessa,

che la nuova competenza per materia è di immediata applica

ci posta in essere anteriormente all'entrata in vigore della modifica

legislativa, v. Pret. Vigevano 21 maggio 1990, Foro it., 1991, II, 42, con nota di Rapisarda, ove si è ritenuto che «considerato il carattere unitario e concentrato del dibattimento penale dinanzi al giudice di pri mo grado, nessuna applicazione può avere . . . una legge che entri in

vigore a dibattimento iniziato, ancorché non ancora concluso, e che

venga a spogliare quel giudice della sua competenza in ordine a quel reato per cui si procede»: in caso contrario, infatti, «verrebbe a ricono

scersi alla legge ablativa della competenza una non prevista efficacia

retroattiva», che, si soggiunge, «viene esclusa solo se si applica la legge in esame ai dibattimenti non ancora aperti».

Sul principio della precostituzione del giudice come criterio ispiratore dell'art. 259 d. leg. 28 luglio 1989 n. 271, recante norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale del 1988, a mente del quale «ai fini della determinazione della competenza per materia e per territorio le disposizioni del codice si applicano solo per i reati commessi successivamente alla data di entrata in vigore dello

stesso», cfr. Frigo, Lineamenti del regime transitorio, in Commentario

del nuovo codice di procedura penale a cura di Amodio e Dominioni, Milano, 1989, I, LXVI, e Grisolia, in Commentario, cit., appendice, Norme di coordinamento e transitorie, 1990, sub art. 259, 407. Sul punto, cfr., altresì', Lozzi, La successione delle leggi processuali penali nel tempo e le disposizioni transitorie del nuovo codice di procedura penale, in

Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1990, 84, secondo il quale

«per le norme relative alla competenza per materia e per territorio si

ha riguardo in via eccezionale non al tempo della commissione del sin

golo atto processuale bensì al tempo della commissione del reato e, si noti, siffatta disposizione sembra imporre l'applicazione della norma

tiva processuale concernente la competenza per materia e per territorio

vigente al momento del reato, prescindendo dal fatto che la composi zione del giudice del tempo del commesso reato sia oppure no più favo

revole all'imputato». Sulle problematiche poste dal trasferimento al tribunale della compe

tenza per materia concernente i più significativi delitti dei pubblici uffi

ciali contro la pubblica amministrazione, cfr. Zagrebelsky, in Legi.sta zione pen., 1990, 346.

Per talune ulteriori osservazioni in tema di ius superveniens e indivi

duazione del giudice competente, cfr. Di Chiara, Revisione deI giudi cato e successione di leggi processuali: problematiche in tema di compe

tenza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, 792. [G. Di Chiara]

Il Foro Italiano — 1991.

zione anche ai reati commessi anteriormente alla data di entrata

in vigore della legge che la diversa competenza materiale ha posto.

Quando il g.i.p., dopo la chiusura delle indagini preliminari, riconosce la propria incompetenza per qualsiasi causa, la di

chiara con sentenza, ordinando la trasmissione degli atti al pub blico ministero presso il giudice competente (art. 22, ultimo com

ma, c.p.p.). Nel caso di specie, però, poiché non v'è da parte del p.m.

esercizio dell'azione penale, il provvedimento declinatorio della

competenza non può avvenire, secondo la migliore dottrina, se

non con ordinanza, con trasmissione degli atti al proprio p.m.

PRETURA DI ROVIGO; sentenza 7 febbraio 1990; Giud. Schie

saro; imp. Di Stefani ed altri.

PRETURA DI ROVIGO;

Alimenti e bevande (igiene e commercio) — Acque destinate

al consumo umano — Reato — Fattispecie (D.p.r. 24 maggio 1988 n. 236, attuazione della direttiva Cee n. 80/778, concer

nente la qualità delle acque destinate al consumo umano, art.

21). Alimenti e bevande (igiene e commercio) — Acque destinate

al consumo umano — Requisiti di qualità — Inderogabilità — Fattispecie (D.p.r. 24 maggio 1988 n. 236, art. 2, 3, 21).

È punibile, ai sensi dell'art. 21, 1° comma, d.p.r. 236/88, il

responsabile di un acquedotto pubblico che consenta l'eroga

zione di acqua destinata al consumo umano non conforme ai requisiti legali di qualità, per colpa costituita da negligen

za, imprudenza o imperizia (desunte dalla non adeguata or

ganizzazione del servizio) e/o dalla violazione di specifiche

prescrizioni del detto d.p.r. o di altre norme tecniche, poste a tutela della qualità delle acque potabili. (1)

La fornitura a terzi di acqua destinata al consumo umano non

conforme a tutti i requisiti previsti dall'allegato I d.p.r. 236/88

integra, comunque, l'elemento obiettivo del reato previsto dal

l'art. 21, 1° comma, d.p.r. cit., anche se autorizzata sulla

base di provvedimenti amministrativi contingibili ed urgenti

(nella specie, essendo stato acclarato che l'acqua erogata da

alcuni acquedotti non rispettava i requisiti di qualità previsti dal d.p.r. 236/88, alcuni sindaci, con ordinanza, avevano vie

tato ai cittadini l'uso alimentare della detta acqua, pur distri

buita all'utenza; peraltro, gli amministratori degli acquedotti sono stati assolti dal reato di cui all'art. 21 d.p.r. 236/88,

perché incorsi nell'erronea e scusabile convinzione di essere

obbligati a continuare l'erogazione per effetto di dette or

dinanze). (2)

(1-2) I. - Nella pronuncia in rassegna vengono per la prima volta

affrontate alcune questioni ermeneutiche collegate al reato contravven

zionale previsto dall'art. 21 d.p.r. 24 maggio 1988 n. 236 (Le leggi, 1988, 1510), attuativo della direttiva Cee n. 80/778 concernente la qua lità delle acque destinate al consumo umano (su cui cfr. Pret. Torino, ord. 22 luglio 1987, Foro it., 1987, II, 616 e, in dottrina, Lettera, La disciplina comunitaria dell'ambiente idrico, in Nuovo dir. agr., 1987,

219; nonché Capria, Direttive ambientali Cee - Stato di attuazione in

Italia, Milano, 1988, 37 ss.). Preme evidenziare che il provvedimento de quo (dalla ponderosa motivazione complessiva di ben 300 cartelle

dattiloscritte) ha concluso un complesso e tormentato processo,

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PARTE SECONDA

(Omissis). — II reato di cui all'art. 21 d.p.r. 236/88. Genera

lità. In relazione all'ipotesi di reato di cui all'art. 21 d.p.r. 236/88

sono necessarie alcune osservazioni preliminari di carattere ge nerale.

Innanzitutto si deve rilevare che si tratta di norma sussidiaria

destinata ad operare soltanto nei casi in cui il fatto non costitui

sca più grave reato. Tale carattere di norma residuale e di sbar

ramento ben si concilia con le finalità perseguite dalla direttiva

comunitaria (15 luglio 1980, n. 778) di cui al d.p.r. citato costi

tuisce atto di adattamento dell'ordinamento interno. Invero è

proprio l'esigenza di garantire livelli di qualità minimi per l'ac

qua destinata al consumo umano ai fini di salvaguardia della

di cui due significative ordinanze sono già apparse su queste colonne

(Pret. Rovigo, ord. 4 dicembre 1989, Foro it., 1990, II, 517 e 20 no vembre 1989, id., 1991, II, 135).

II. - Nella sentenza in rassegna, vengono analiticamente delineati gli elementi caratterizzanti la citata fattispecie criminosa: essa, innanzitut

to, come attestato dal dictum letterale del 1° comma dell'art. 21 cit., ha natura sussidiaria, costituendo presidio sanzionatorio residuale a tu tela dei livelli di qualità legali dell'acqua destinata al consumo umano. Ne consegue, quindi, la possibile applicabilità di eventuali reati più gra vi, assorbenti rispetto al reato de quo (es.: art. 5, lett. h, e 6 1. 30

aprile 1962 n. 283, in tema di diritto penale alimentare, ed art. 439, 440, 452, c.p.) in tema di azioni delittuose in danno di «acque destinate all'alimentazione (. . .), ma non ancora attinte o distribuite per il con sumo». In secondo luogo, viene sottolineata la distinzione — rilevante sul piano giuridico, tra la nozione (più estesa) di «acque destinate al consumo umano» e quella (più ristretta) di «acque potabili», compren dendo la prima anche le acque utilizzate sia per la preparazione di pro dotti alimentari (c.d. acque d'impresa), sia per usi igienici e terapeutici (in dottrina, cfr., da ultimo, con riferimento al d.p.r. cit., Lettera, Le acque destinate al consumo umano, in Riv. giur. ambiente, 1988, 611, spec. 617-618; v., in precedenza, Petrocchi, Acque potabili, voce del Novissimo digesto, Torino, 1957, I, 228 ss., nonché Papaldo, Ac

que potabili, voce dell' Enciclopedia del diritto, Milano, 1958, I, 456 ss.). III. - In terzo luogo, il Pretore di Rovigo evidenzia il carattere inde

rogabile della disciplina prevista dal detto d.p.r., tale da giustificare l'assoluto divieto di erogazione a terzi di acque non conformi a tutti i parametri di qualità previsti dalla tabella allegata al provvedimento legislativo de quo. A confronto di tale assunto, vengono richiamati te stualmente ampi brani della motivazione di Corte giust. 22 settembre

1988, causa 228/87, Foro it., 1989, IV, 113, con nota di Guariniello. In sostanza, quindi, non sarebbero affatto legittime ordinanze sindaca

li, atte a giustificare — per ragioni contingibili ed urgenti — la distribu zione per il consumo di acque prive dei requisiti legali di qualità (con conseguente disapplicazione delle stesse — ex art. 4, 5° comma, 1.

2248/1865, ali. E — anche in sede penale). Peraltro, secondo l'estensore, l'eventuale deroga ai precetti del d.p.r.

de quo può giustificarsi solo attraverso il rispetto della complessa pro cedura (tipicamente ed esclusivamente) prevista dagli art. 17 e 18, com

portante, tra l'altro, la necessaria contestuale adozione del «piano d'in tervento» regionale, suscettibile di essere (solo) sollecitata dal sindaco di un comune (in argomento, Lettera, op. ult. cit., 619-621).

IV. - Va, comunque, sottolineato che gli amministratori degli acque dotti, i quali avevano autorizzato l'erogazione di acqua non conforme ai requisiti legali, in ottemperanza alle prescrizioni in tal senso di varie ordinanze sindacali contingibili ed urgenti, sono stati assolti dall'adde bito loro mosso, essendo stata riconosciuta l'esimente putativa dell'a

dempimento di un dovere ex art. 51 e 59, ultimo comma, c.p. (più che la sussistenza di un sensibile errore di diritto ex art. 5 c.p., secondo

quanto stabilito da Corte cost. 364/88, Foro it., 1988, 1, 1385, con nota di Fiandaca). Sui presupposti di applicabilità delle esimenti puta tive, cfr., da ultimo, Cass. 29 marzo 1988, Mingacci, id., Rep. 1989, voce Cause di non punibilità, n. 15.

V. - L'estensore evidenzia, inoltre, che il reato de quo può essere

integrato (indifferentemente) da una condotta colposa «generica» o «spe cifica», in caso di violazione di norme tecniche poste a tutela della qua lità delle acque, anche se previste da disposizoni diverse da quelle del

d.p.r. 236/88. Nel caso specifico, il giudicante ha fatto riferimento a quanto statui

to nei punti 3.1 e 3.3 dell'ali, n. 3 alla delibera del (già soppresso, ex art. 2, 1° comma, lett. a, 1. 349/86) comitato dei ministri per la tutela delle acque dall'inquinamento, adottata il 4 febbraio 1977 (G.U. 21 febbraio 1977, n. 48 suppl. ord.).

Indubbiamente, però, la norma prevista dall'art. 21 cit., pur non po tendo essere classificata tra quelle «a soggettività ristretta» (cfr., in pro posito, Pret. Rovigo 25 marzo 1991, est. Pavarin, imp. Ghibellini ed

Il Foro Italiano — 1991.

salute pubblica che impone al legislatore nazionale di sanziona

re con rigore (e quindi in sede penale) la condotta di chi co

munque eroghi acqua con siffatta destinazione sprovvista dei

requisiti di qualità richiesti. In questa prospettiva viene, ovvia

mente, fatto salvo l'eventuale trattamento di maggior rigore con

seguente alla configurazione di — più gravi fatti — reato nel

presupposto che ugualmente, in tale evenienza, sarebbe garanti ta protezione penale al valore-salute di cui, in sede comunitaria, si esige la tutela.

Ciò consente di escludere la prospettabilità di qualsiasi que stione di legittimità costituzionale dell'art. 21 con riferimento

ad un'ipotesi di eccesso di delega in relazione alla generale pre

altri, inedita, che ha sanzionato, tra l'altro, il comportamento negli gente di un fontaniere), si dirige in particolar modo nei confronti dei

legali rappresentanti degli enti acquedottistici, «garantiti» per legge (ex art. 11, 2° comma, 12, 3° comma, 13 d.p.r. cit. e punto 3.1 della delibera cit. del comitato antinquinamento) sia della distribuzione del consumo di un'acqua conforme ai requisiti legali, sia dallo svolgimet no dell'attività (strumentale) di controllo (c.d. interna) (e su cui, in

particolare, cfr. in dottrina, Battaglia-Altissimo, Quella soglia invali cabile dell'acqua, Gea, 1989, 23 ss., spec. 27-28; per una lettura critica dell'art. 21 d.p.r. cit., ritenuto ingiustificativamente punitivo, dalla

Federgasacqua, per i legali rappresentanti degli enti acquedottistici, cfr. Balzanetti, Acque per uso umano. La norma è da cambiare, Gea, 1989, 13).

VI. - Occorre evidenziare che il d.p.r. 236/88 non regola in alcun modo le modalità dei campionamenti delle acque potabili ai fini dei controlli «interni» ed «esterni» (a cura della competente Usi) previsti dall'art. 12 cit. Non sembra azzardato ritenere, anche alla luce delle

prescrizioni contenute nell'allegato III al d.p.r. de quo, che nella fatti

specie concreta debba parlarsi di campioni «rapidamente deteriorabili»

(in proposito, cfr., da ultimo, Corte cost. 26 giugno 1990, n. 330, Foro

it., 1991, I, 32, con nota di Giorgio), per cui risulta applicabile la

disciplina prevista dall'art. 223 disp. att. c.p.p. del 1988 (in tal senso, cfr. Micciché - Brusa - D'Angelo, Reati ambientali e nuovo codice di procedura penale, in Riv. giur. ambiente, 1990, 355, spec. 357, non ché Pret. Rovigo 25 marzo 1991, cit.).

VII. - Il «microsistema» normativo riguardante la protezione delle

acque potabili si è arricchito, dopo il d.p.r. 236/88, di numerosi prov vedimenti legislativi ed amministrativi. Dopo i d.m. del 14 luglio 1988 e del 14 febbraio 1989, adottati di concerto tra il ministro della sanità e quello dell'ambiente, con cui sono stati indicati diversi valori massimi ammissibili ex art. 16 d.p.r. cit., è stata pubblicata la 1. 5 aprile 1990 n. 71, recante misure urgenti per il miglioramento qualitativo e per la

prevenzione dell'inquinamento delle acque (Le leggi, 1990, I, 554) e con cui, tra l'altro, sono state previste sanzioni penali (art. 13) a carico di chi impiega o vende sostanze attive diserbanti nelle zone interessate

(ex art. 1, 1°, 2° e 3° comma) dai piani d'intervento regionali di cui

agli art. 17, 3° comma, e 18 d.p.r. 236/88 e per cui siano stati espressa mente vietati l'uso e la distribuzione delle dette sostanze. Indi, con d.m. 26 marzo 1991 (id., 1991, I, 994), il ministro della sanità ha dettato le norme tecniche di attuazione del d.p.r. 236/88, pubblicate ben oltre il termine previsto dall'art. 22, 3° comma, d.p.r. cit. Indi, con ulteriore decreto (adottato di concerto con il ministro dell'ambiente ex art. 16, 2° comma, d.p.r. 236/88) dell'8 maggio 1991 (ibid., 1186), il ministero della sanità ha disposto l'ennesima deroga alle caratteristiche di qualità delle acque destinate al consumo per la regione Lombardia, mentre con l'art. 1 d.l. 17 maggio 1991 n. 156 (ibid., 1237) sono state dettate nor me per il funzionamento dei piani regionali d'intervento ed in tema di (più frequente) cadenza (almeno bimestrale) dei controlli analitici sulle

acque potabili dei territori, interessati dai detti provvedimenti. VIII. - Sui provvedimenti ministeriali (adottati sino al 30 dicembre

1988) con cui è stato vietato (cautelativamente) l'impiego di presidi sa

nitari, contenenti i principi attivi atrazina, molinate e bentazone (atti ad inquinare le falde acquifere), cfr. in dottrina, Lettera, Acque pota bile e fitofarmaci, in Riv. giur. ambiente, 1989, 439. In subiecta mate

ria, peraltro, è attualmente vigente l'ordinanza del ministero della sani tà del 6 febbraio 1991 (Le leggi, 1991, I, 543).

IX. - Sul d.p.r. 236/88, in dottrina, cfr. anche La Barbera, Inqui namento, in Annuario delle autonomie locali, 1990, 283; per un inqua dramento del d.p.r. 236/88 nell'ambito della più ampia normativa in materia di tutela dell'ambiente, cfr. F. Giampietro, L'impatto ambien tale delle attività agricole: in specie sugli usi idropotabili e di balnea

zione, in Giur. merito, 1991, 573. V., inoltre, Dell'Anno, Alimenta

zione, agricoltura, tutela dell'ambiente, in Sanità pubbl., 1990, 9, spec. 18-21.

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GIURISPRUDENZA PENALE

visione della sanzione penale operata per qualsiasi violazione

degli standards di qualità di cui all'allegato I (indipendentemen te dalla considerazione del loro carattere tossico), nonostante

il criterio generale fissato dall'art. 16, lett. e), punto 2 della

legge-delega 16 aprile 1987 avesse limitato il ricorso alla sanzio

ne penale soltanto nei casi di violazioni «. . .di particolare gra vità avuto riguardo all'entità del danno o del pericolo provocato».

Si deve escludere, infatti, che sia corretto distinguere (sotto il profilo della pericolosità) un parametro dall'altro.

Certamente, diversi sono i valori delle concentrazioni massi

me ammissibili, graduati in relazione alla significatività del ri

schio per la salute calcolato per ciascun parametro; tuttavia iden

tico è il giudizio di pericolosità formulato in sede comunitaria

in relazione a qualsiasi ipotesi di superamento di detti valori.

Proprio nel carattere sussidiario dell'incriminazione si trova,

dunque, conferma della volontà di attuare una precisa indica

zione fornita dalla direttiva comunitaria secondo cui i requisiti di qualità (e, in particolare, quelli rappresentati dai valori di

concentrazione massima ammissibile) costituiscono il livello mi

nimo per la tutela della salute collettiva al di sopra del quale sussiste un pericolo (che, alla luce delle più recenti conoscenze

scientifiche, può dirsi concreto) di lesione che non può essere

accettato in nessuno degli Stati membri se non nei limiti rigoro sissimi delle condizioni cui la direttiva subordina la possibilità di autorizzare, per tempi limitati, il superamento della soglia di rischio.

Sul punto, preziosa è l'interpretazione fornita dalla Corte di

giustizia delle Comunità europee, con sentenza del 22 settembre

1988, causa 228/87 (Foro it., 1989, IV, 113), delle norme co

munitarie che consentono deroghe ai valori di concentrazione

massima dei parametri di qualità dell'acqua. La corte, infatti, dopo aver osservato che la direttiva «. . .

impone agli Stati membri obblighi precisi per quanto riguarda la qualità delle acque destinate al consumo umano» le quali «. . . debbono essere almeno conformi ai valori indicati per i

parametri che figurano nell'allegato I (art. 7, n. 6) entro il ter

mine di cinque anni dalla notifica» stabilisce che le norme che

consentono deroghe (art. 9, 10, 20) «. . . debbono essere inter

pretate in senso restrittivo» (cfr. punti 9 e 10). Con riferimento, in particolare, alle deroghe che gli Stati mem

bri avrebbero potuto autorizzare, in caso di circostanze acci

dentali gravi, ai sensi dell'art. 10, la corte ha affermato che

la norma, «. . . nel consentire deroghe in materia di fattori pe ricolosi per la salute umana, ... le ha subordinate a condizioni

tassative».

Devono a tal fine ricorrere in primo luogo «circostanze acci

dentali gravi», espressione che la corte ha testualmente definito

come «... situazione d'urgenza nella quale le autorità respon sabili debbono fare repentinamente fronte a difficoltà di ap

provvigionamento di acqua destinata al consumo umano».

In secondo luogo l'autorizzazione al superamento deve essere

contenuta per un periodo di tempo limitato, «... corrispon dente al tempo normalmente necessario per ripristinare la quali tà delle acque interessate».

Il superamento che s'intende autorizzare, poi, non deve in

alcun caso comportare rischi inaccettabili per la salute pubblica. Infine «. . . occorre che l'approvvigionamento di acqua de

stinata al consumo umano non possa essere garantito in alcun

altro modo . . . tenendo conto dei mezzi di cui dispongono i

pubblici poteri». Enunciando siffatti principi la corte ha con chiarezza operato

due statuizioni estremamente significative. Essa ha innanzitutto affermato che tutti i valori dei parame

X. - Va, infine, segnalato che con sentenza 25 marzo 1991, n. 119

il Tar Sicilia, sez. II, Catania, ha affermato la sussistenza del diritto

soggettivo pubblico (incondizionato) del cittadino ex art. 14, 3° com

ma, 1. 346/89 a ricevere da un comune tutte le informazioni e copia

degli atti relativi alle analisi di potabilità delle acque edotte nell'acque dotto comunale. Ne riferiscono Amendola, Diritto sull'acqua pulita, in L'Espresso del 2 giugno 1991, n. 22 e Saporito, Sull'accesso ai do

cumenti un Tar contraddice l'altro, in Sole-24 Ore del 23 maggio 1991, 17. [G. Giorgio]

Il Foro Italiano — 1991.

tri di cui all'allegato I costituiscono una soglia di pericolosità

per la salute umana (ovviamente nella considerazione del fatto

che l'acqua destinata al consumo umano costituisce un alimen

to irrinunciabile per l'uomo, di cui si deve fare un uso continuo

ed in quantità notevolmene superiori a qualsiasi altro genere di alimento), soglia che, proprio in relazione alla concretezza

del pericolo derivante dal suo superamento, non può e non de

ve di regola essere superata nei paesi membri.

In secondo luogo ha affermato, in pratica, che le deroghe a tali valori sono legittime soltanto se applicate in condizioni

di «stato di necessità», per effetto di un evento grave, non im

putabile al soggetto che autorizza la deroga in quanto definito

«accidentale».

Solo in tal caso, infatti, è consentito operare un bilanciamen

to tra l'esigenza di salvaguardare la salute e la necessità di tute

lare l'incolumità pubblica messa in pericolo da un'«emergenza» dovuta a carenza di approvvigionamento idrico e quindi privile

giare (però unicamente per il tempo strettamente necessario al

ripristino della qualità dell'acqua e purché vi sia proporzione tra il rischio conseguente alla deroga e quello derivante dall'as

soluta mancanza di approvvigionamento, con esclusione, comun

que, delle situazioni in cui la deroga comportasse rischio inac

cettabile per la salute) la seconda rispetto alla prima. Ad identiche conclusioni si perviene sulla base dell'esame del

le norme del d.p.r. 236/88 che disciplinano il regime delle dero

ghe ai valori di concentrazione massima ammissibile (articoli da 16 a 18).

Pur con tutte le riserve in ordine alla sua conformità al dirit

to comunitario (esplicitate da Guariniello nella nota di com

mento alla citata sentenza della Corte di giustizia in Foro it.) si deve rilevare che l'art. 17 (3° e 4° comma), nel disciplinare le uniche due ipotesi in cui possono essere consentite deroghe ai valori di concentrazione massima ammissibile (purché nel ri

spetto del valore massimo ammissibile), impone pur sempre, con

limite assolutamente inderogabile, che il «. . . superamento non

presenti un rischio inaccettabile per la salute pubblica». Con siffatta statuizione, puntualmente riproduttiva dell'espres

sione contenuta nell'art. 10 della direttiva comunitaria, anche

il legislatore nazionale dimostra di concordare con il principio cardine contenuto nella direttiva, ribadendo esplicitamente che

ogni superamento del valore di concentrazione massima ammis

sibile fissato per ogni parametro tra quelli indicati nell'allegato I rappresenta pur sempre un fattore di rischio (e, quindi, di

pericolo concreto) per la salute dell'uomo e che la deroga può essere consentita solo quando essa non comporti un rischio inac

cettabile. Tale inaccettabilità del rischio dovrà, evidentemente,

essere valutata sulla base di un giudizio di elevata pericolosità del superamento del valore di concentrazione massima ammissi

bile da formulare sia con riferimento all'entità del superamen

to, ai limiti di tempo entro i quali la deroga dovrà essere conte

nuta (ciò sicuramente nell'ipotesi di cui al 4° comma quando non si voglia ritenere per ogni deroga direttamente applicabile il dettato della norma comunitaria nell'interpretazione fornita

dalla corte) sia con riferimento a quel procedimento di ponde razione comparata dei rischi (che mette a confronto il rischio

derivante dall'assoluta mancanza di approvvigionamento idrico

con quello da contatto-assunzione di sostanze contenute nell'ac

qua in concentrazione superiore alla soglia di pericolosità, pro cedendo alla scelta del rischio meno grave) nei termini in prece denza descritti.

Del resto che tutti i parametri contemplati dall'allegato I al

d.p.r. 236/88 siano stati individuati con un preciso riferimento

a fattori di rischio per la popolazione emerge con chiarezza (e senza necessità di particolare ermeneutica) dal testo dell'Avver

tenza contenuta in calce al citato allegato. Infatti, nel ricordare

che i parametri individuati sono tali da garantire la qualità delle

acque soltanto in linea generale, in quella sede il legislatore ha

precisato che «... devono essere tenuti sotto controllo — con

idonea frequenza — anche parametri non contemplati nel pre

sente allegato, ma che comunque possono rappresentare fattori

di rischio per la popolazione». Con siffatta precisazione (in particolare con l'uso dell'avver

bio «comunque») si è ribadito ancora una volta il principio del

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PARTE SECONDA

l'equivalenza di tutti i parametri contenuti nell'allegato in fun

zione dell'esistenza di un preciso fattore di rischio (determinato dal superamento delle concentrazioni massime ammissibili) e si

è, ovviamente, stabilito il dovere per l'autorità sanitaria di con

trollare anche ogni altro parametro, diverso da quelli contem

plati in allegato ma, comunque, al pari di quelli, idoneo a rap

presentare un fattore di rischio.

Tornando ora ai profili di carattere generale della struttura

del reato, come seconda osservazione va rilevato che non si tratta

di reato proprio, essendo punita la condotta di «chiunque» di

stribuisca per il consumo umano acqua sprovvista dei requisiti di qualità senza che siano necessarie particolari qualificazioni

soggettive del reo.

Ne consegue che nel caso in cui il reato sia stato commesso

da soggetto incaricato di pubbliche funzioni, nell'esercizio delle

stesse, il particolare disvalore sociale del fatto potrà essere san

zionato con l'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 61, n.

9, c.p. tutte le volte in cui la condotta sia stata resa possibile dalla violazione dei doveri inerenti all'ufficio.

In terzo luogo si deve considerare che la condotta vietata dal

1 ° comma consiste nel fornire al consumo umano acqua sprov vista dei requisiti di qualità.

È sufficiente, pertanto, ad integrare l'elemento oggettivo del

reato il solo fatto di mettere a disposizione di un numero inde

terminato di soggetti, in modo che gli stessi possano utilizzarla

per il consumo umano, acqua sprovvista dei requisiti di qualità.

Va, poi, rilevato come non sia consentito restringere l'ambito

operativo del precetto penale nella considerazione della diversa

destinazione che si potrebbe dare all'acqua dopo la sua fornitu

ra ed escludendo, cosi, la rilevanza penale della condotta nei

casi in cui la fornitura riguardasse acqua non ritenuta destinata

(o destinabile) al consumo umano.

È, infatti, previsto che la particolare destinazione al consumo

umano dell'acqua consegua automaticamente, ed in ogni caso,

per effetto di specifica disposizione di legge, alla sua fornitura

al consumo: l'art. 2 d.p.r. 236/88 stabilisce che sono destinate

al consumo umano «... tutte le acque, qualunque ne sia l'ori

gine, allo stato in cui si trovano o dopo trattamento, che siano»

fornite al consumo.

Alla luce di siffatta disposizione risulta, allora, del tutto irri

levante l'eventuale diversa qualificazione giuridica della desti

nazione al consumo umano operata da fonti normative subordi

nate alla legge. La «destinazione al consumo umano» è conseguenza giuridi

ca indefettibile di una circostanza di fatto (la fornitura al con

sumo) e, come tale, non è suscettibile di essere modificata per effetto di provvedimenti amministrativi che subordinassero la

possibilità di consumare l'acqua all'adozione di particolari cau

tele (ad esempio bollitura o altri metodi di sterilizzazione) e nem

meno che la vietassero in modo assoluto per ragioni d'igiene. Da ciò consegue che anche in presenza di provvedimenti am

ministrativi del genere, la fornitura di acqua sprovvista dei re

quisiti di qualità non perde il carattere antigiuridico che le deri

va dal precetto penale contenuto nell'art. 21 (da solo sufficiente

a porre comunque in tal caso il divieto di fornitura). Eventuali ordinanze dell'autorità sanitaria che imponessero

ulteriori prescrizioni o divieti ai potenziali consumatori dell'ac

qua non produrrebbero, infatti, l'effetto di eliminare l'oggetti vità del reato sia perché inidonee ad incidere sulla destinazione

al consumo umano del prodotto in questione (già operata diret

tamente dalla legge) sia, soprattutto, perché il precetto penale sanziona unicamente la condotta di chi fornisce l'acqua proprio nel presupposto che alla fornitura si accompagni ope legis (ed

indipendentemente dai trattamenti operabili) anche la sua desti

nazione al consumo umano (intesa come potenziale possibilità di consumo da parte dell'uomo).

È, poi, evidente che la nozione di «acque destinate al consu

mo umano» è più ampia di quella di «acque potabili» dal mo

mento che comprende anche acque utilizzate dall'uomo in mo

do indiretto ma pur sempre con riflessi sulla salute del medesi

mo (ad esempio per la preparazione di prodotti alimentari, per

Il Foro Italiano — 1991.

attività igienica che comporti il contatto con il corpo in modo

tale da esporlo ad un rischio d'infezione e/o di contaminazio

ne, quale il lavaggio di ferite, il contatto con le mucose, con

i liquidi dell'occhio, ecc.). Inoltre, mentre per l'acqua potabile caratteristico sembra es

sere il requisito della possibilità di consumo senza danno per la salute (cfr. in proposito sul tema Petrocchi, Acque potabili, voce del Novissimo digesto, Torino, 1957, 228 ss.), per l'acqua destinata al consumo umano, alla luce delle osservazioni svolte

supra in ordine ai requisiti di qualità, tipico è il requisito della

possibilità di consumo senza neppure pericolo per la salute, aven

do le norme (comunitarie e statali) inteso assicurare al consu

matore una tutela anticipata rispetto a quella garantita dalla

disciplina previgente. Sulla scorta delle indicazioni ricavabili dello stesso d.p.r. è,

pertanto, possibile ricostruire la categoria delle acque destinate

al consumo umano enucleando le seguenti tipologie:

a) acque fornite da acquedotti, pubblici o privati (art. 2, 1°

comma, lett. a), o da pozzi (art. 8, 1° comma, lett. g);

b) acque distribuite mediante autoveicoli o natanti (art. 11, 3° comma);

c) acque per approvvigionamento idrico d'emergenza (art. 9, 1° comma, lett. a);

d) acque utilizzate da imprese alimentari mediante incorpo razione o contatto per la fabbricazione, il trattamento, la con

servazione, l'immissione sul mercato di sostanze e prodotti de

stinati al consumo umano e che possano avere conseguenze per la salubrità del prodotto alimentare finale (art. 2, 1° comma, lett. b).

Deve, infine, trattarsi di fornitura di acqua avvenuta «in vio

lazione delle disposizioni» del decreto.

Poiché gran parte delle norme contenute nel d.p.r. 236/88

hanno per oggetto la disciplina delle competenze dei soggetti e degli organi della pubblica amministrazione preposti al con

trollo, è necessario interpretrare l'espressione normativa in mo

do da offrire alla stessa un significaato logico prima ancora

che giuridico. Ad una prima lettura, infatti, si potrebbe essere portati ad

intendere l'espressione in questione come diretta a qualificare l'elemento soggettivo del reato introducendo ipotesi definite di

colpa specifica conseguenti a violazioni di norme a contenuto

tecnico o organizzativo (quali, ad esempio, quelle di cui agli art. 5 e 6 per quanto riguarda le caratteristiche delle aree inte

ressate dall'attingimento idrico oppure all'art. 13 per quel che

riguarda l'obbligo posto a carico degli enti gestori di dotarsi

di laboratorio gestionale interno per il controllo dei servizi es

senziali del ciclo dell'acqua). Secondo tale ricostruzione, pertanto, non potrebbe essere sog

getta a sanzione l'eventuale erogazione di acqua non conforme

ai requisiti di qualità se tali norme fossero state rispettate, quan d'anche fossero ravvisabili a carico di chi avesse eseguito la for

nitura ulteriori e diversi profili di colpa.

Un'intepretazione del genere, però, non ha alcun fondamen

to né logico né giuridico.

Sarebbe, infatti, veramente singolare una cosi vasta limitazio

ne della colpa (tale da escludere, oltre ad ogni forma di colpa

generica, anche profili di colpa specifica diversi dalla violazione

delle poche norme del d.p.r. contenenti prescrizioni a carico

del soggetto erogatore dell'acqua) proprio in materia contrav

venzionale (notoriamente caratterizzata, invece, dalla rilevanza

di qualsiasi profilo colposo) e, per di più, proprio in una mate

ria nella quale l'obbligo di assicurare l'effettività del precetto deriva da fonte internazionale e costituisce la ragione principale della scelta della sanzione penale in luogo di quella ammini

strativa.

L'interpretazione censurata porterebbe, poi, paradossalmente a scriminare la condotta di quanti non fossero soggetti agli ob

blighi di cui agli articoli menzionati del d.p.r. e ciò in palese contrasto con l'esplicita volontà, contenuta nel precetto, di san

zionare la condotta di «chiunque» abbia fornito al consumo

umano acqua sprovvista dei requisiti di qualità.

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GIURISPRUDENZA PENALE

L'unico significato che può, pertanto attribuirsi all'espressio ne in esame è quello di concorrere a determinare l'elemento

oggettivo della fattispecie individuando (attraverso un rinvio a

tutte le disposizioni del d.p.r. che possono essere utilizzate per definire il livello di qualità dell'acqua che è oggetto di discipli na) l'ambito di applicazione della sanzione penale che non può,

ovviamente, che essere limitato all'ambito di applicazione del

d.p.r. 236/88. In altri termini grazie all'espressione richiamata si può esclu

dere la rilevanza penale della condotta di chi abbia fornito al

consumo umano (cosi come definito all'art. 2) acqua sprovvista di requisiti di qualità quando si tratti di acqua comunque non

soggetta al campo di applicazione del d.p.r. 236/88 (ad esempio

acqua minerale ex art. 2, ultimo comma); oppure escludere la

rilevanza penale della condotta di chi abbia fornito al consumo

acqua con valori di concentrazione massima ammissibile supe riori ai limiti fissati nell'allegato I nel caso in cui fossero stati

determinati, ai sensi degli articoli da 16 a 18, i valori massimi

ammissibili, purché l'acqua fosse conforme a questi ultimi. In

tale ipotesi, infatti, pur essendo lecito dubitare della legittimità comunitaria (e costituzionale) della norma statale di adattamen

to alla menzionata direttiva (essendo stata stabilita una possibi lità di deroga ai limiti della soglia di rischio ben più ampia di quella pur concessa dalla normativa comunitaria) non po trebbe essere disconosciuta alle norme in questione la capacità

di scriminare la condotta, restringendo l'ambito di efficacia del

precetto contenuto nell'art. 21, indipendentemente dalla loro sup

posta incostituzionalità.

È facile constatare, allora, come entrambe le condotte sopra

descritte sarebbero state inevitabilmente ricomprese nella gene rica formulazione del precetto penale contenuto al 1° comma

dell'art. 21 se non fosse stata opportunamente usata l'espressio ne della cui interpretazione si sta trattando e della quale gli

esempi prospettati hanno chiarito I'inequivoco significato og

gettivo. (Omissis) b) L'elemento soggettivo, bl) Profili di colpa specifica. -

bl.l) . . . in relazione al dovere giuridico di assicurare il con

trollo di qualità. Venendo ora all'esame della posizione sogget

tiva degli imputati un primo rilievo che deve essere evidenziato

è quello che discende dalla loro più volte ribadita convinzione

che il controllo di qualità sull'acqua erogata fosse unicamente

di competenza dalla struttura sanitaria.

Tutti gli imputati hanno, infatti, dichiarato tale convinzione

a volte in modo esplicito, a volte, invece, implicitamente quan

do hanno affermato che, in assenza di certificazione dell'Usi,

non avrebbero potuto interrompere l'erogazione dell'acqua an

che se l'odore della stessa fosse stato particolarmente percepibile. Invero tale convinzione è errata perché contrasta con precise

disposizioni normative (anche di carattere primario) nonché con

le direttive impartite dalla regione Veneto, con proprie circola

ri, esplicitamente dettate per richiamare l'attenzione degli enti

acquedottistici sul rispetto di una funzione di controllo cosi es

senziale ai fini della garanzia della qualità dell'acqua erogata.

Si deve, in proposito, innanzitutto ricordare il chiaro dispo

sto degli articoli da 11 a 14 d.p.r. 236/88 con cui il legislatore

ha disciplinato la materia prevedendo (art. 11,2° comma) due

generi di controllo: uno interno al servizio acquedottistico ed

uno esterno di competenza degli uffici del servizio sanitario na

zionale.

Si tratta, ovviamente, di controlli ben diversi tra loro e ogget

to di distinta disciplina in relazione alle diverse finalità perseguite.

Da un lato, infatti, gli art. 12 e 14 disciplinano il controllo

esterno che ha caratteristiche sanitarie, essendo inteso come l'in

sieme di attività (anche di carattere ispettivo) con cui gli organi

della pubblica amministrazione preposti alla tutela della salute

pubblica verificano il rispetto delle norme che assicurano l'ero

gazione senza rischio per la salute di un prodotto alimentare

tanto facilmente reperibile (almeno nelle nostre zone) quanto

facilmente contaminabile.

Tale tipo di controllo è dunque strumentale all'adozione di

provvedimenti cautelari da parte dell'autorità competente, tutte

Il Foro Italiano — 1991.

le volte in cui vi sia anche solo la semplice «possibilità di un

pregiudizio per la salute» (cosi come ben evidenzia la chiara

lettera del 3° comma dell'art. 12) i quali possono essere richiesti

(oltre che alla regione ed al comune) anche all'ente gestore del

l'acquedotto per quanto di sua competenza.

L'acquedotto, in detta prospettiva, è oggetto di controllo (co si come risulta anche dall'art. 14) da parte dell'organo pubblico

preposto alla tutela della salute e, al tempo stesso, possibile destinatario della richiesta di provvedimenti da parte della me

desima autorità.

Ben diversa, invece, è la disciplina dei controlli interni all'ac

quedotto. Essi debbono garantire l'ente stesso della buona qualità del

prodotto alimentare che eroga, attraverso il controllo della qua

lità dell'acqua prima del trattamento, la verifica del buon fun

zionamento degli impianti, della regolarità del trattamento in

tutte le sue fasi e della sua adeguatezza in relazione alla qualità

dell'acqua da trattare nonché della rete di distribuzione (cfr. 2° comma dell'art. 11).

A tali fini l'art. 13 impone ai soggetti gestori l'obbligo di

dotarsi di laboratori gestionali interni (anche in forma consorti

le) «per il controllo dei servizi essenziali del ciclo».

Pur essendo l'ultima in ordine di tempo, non è certo questa

l'unica norma ad imporre specifici doveri di controllo di qualità all'ente: basti considerare tutta la disciplina dettata dalla delibe

ra 4 febbraio 1977 del comitato dei ministri per la tutela delle

acque dall'inquinamento, allegato III (in G.U. n. 48 del 21 feb

braio 1977 - supplemento) a proposito dell'installazione e del

l'esercizio degli impianti di acquedotto.

Essa contiene una serie di disposizioni che impongono speci fiche prescrizioni all'ente gestore le quali avrebbero dovute es

sere rispettate «. . . nella installazione e nell'esercizio dei nuovi

acquedotti e nell'ammodernamento ed ampliamento di quelli esi

stenti nonché, per quanto possibile, nell'esercizio di questi ulti

mi» fermo restando, per gli stessi, l'obbligo di adeguarsi ad

esse gradualmente (punto 1.1).

Si possono, pertanto, richiamare le disposizioni più significa tive iniziando dalle cautele imposte per la fase dell'attingimento

da corsi d'acqua: «Si dovranno definire, in via preliminare, il

regime idrologico del corso d'acqua nel tratto interessato alla

presa (con particolare riguardo alle magre), la quantità e la na

tura del trasporto solido in sospensione correlato al regime idro

logico, le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche delle ac

que nei vari periodi» (punto 2.1, lett. b).

Per quel che riguarda, poi, le prescrizioni in materia d'im

pianti di trattamento, detto ovviamente che gli stessi avrebbero

dovuto tener conto «delle caratteristiche delle acque all'ingresso e di quelle richieste dall'uso» cui sarebbero state destinate, il

punto 2.2 richiedeva la dotazione «... di strumenti di misura

e di controllo, possibilmente registratori, del funzionamento delle

singole unità operatrici in tutte le fasi del trattamento» nonché

«. . . di un laboratorio di analisi, di dimensioni adeguate al

l'importanza dell'impianto, per il controllo (in continuo e con

registrazione) dei dati della qualità dell'acqua da trattare e dal

l'acqua trattata».

Se l'adeguamento alle indicazioni sin qui illustrate avrebbe

dovuto essere operato con gradualità (pur non essendo stato

certo breve il lasso di tempo intercorso dal febbraio 1977 alla

data dei fatti oggetto del procedimento), l'ottemperanza alle pre

scrizioni in materia di esercizio avrebbe dovuto essere, per quanto

possibile, immediata o comunque essere conseguita con la mas

sima immediatezza possibile. Si deve, allora, segnalare come il punto 3.1 imponesse di affi

dare l'esercizio degli impianti a «personale specializzato» con

la predisposizione di «strutture organizzative» e di «mezzi tec

nici idonei a dare attuazione» alle norme in questione.

Fondamentale, poi, appare la seguente prescrizione:

«È indispensabile che venga esercitato un attento e continuo

controllo della qualità delle acque in tutte le fasi (dall'attingi

mento alla distribuzione) e del buon funzionamento di tutti gli

impianti che compongono l'acquedotto, tenendo presente che

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PARTE SECONDA

— qualunque siano le precauzioni adottate nella loro realizza

zione — possono insorgere cause di contaminazione non previ ste o non prevedibili».

Altrettanto rilevante la successiva indicazione in ordine alle

modalità dei controlli:

«Le frequenze dei controlli verrà stabilita in conformità delle

norme vigenti, nonché in relazione all'estensione e alle condi

zioni di tutte le opere costituenti l'impianto, alla provenienza

dell'acqua distribuita, all'uniformità dei risultati dei controlli

stessi, all'affidabilità dell'eventuale impianto di trattamento e

al numero degli abitanti serviti» (il successivo d.m. 15 febbraio

1983, nel definire la frequenza del campionamento da effettuar

si per il controllo delle acque superficiali utilizzate per l'approv

vigionamento potabile ai sensi del d.p.r. 515/82, ha ribadito,

sub art. 5, che la frequenza minima avrebbe dovuto essere au

mentata quando ciò fosse richiesto da «. . . qualunque situazio

ne di rischio d'inquinamento anche potenziale» con riferimento

ai parametri che avrebbero potuto essere correlati con il rischio

temuto).

Pure da menzionare è la prescrizione concernente gli inter

venti d'emergenza: «Si dovranno programmare in via preventiva i provvedimenti

occorrenti per fronteggiare eventuali situazioni di emergenza con

seguenti all'inquinamento delle acque». Il punto 3.2, poi, ha dettato prescrizioni vincolanti per l'ipo

tesi in cui si fossero riscontrate violazioni ai provvedimenti am

ministrativi di tutela della qualità delle acque di bacino tali da

rendere possibile l'inquinamento tossico delle acque da utilizza

re, specificando che in detti casi avrebbero dovuto essere predi

sposte «... idonee apparecchiature di rilevamento continuo e

di allarme, con sorveglianza permanente».

Tutte le minuziose prescrizioni descritte sono strumentali al

conseguimento di un preciso obbligo di risultato consacrato for

malmente al punto 3.3:

«Gli impianti di trattamento dovranno essere soggetti ad un

continuo controllo.

«Questo dovrà essere tanto più attento quanto più numerose

e complesse sono le correzioni realizzate, e dovrà essere tale

da garantire che alla distribuziione non arrivino acque non ido

nee al consumo».

Ben prima, dunque, del d.p.r. 236/88 esisteva una vasta e

specifica normativa che imponeva agli acquedotti una serie di

comportamenti e di cautele tutti finalizzati a garantire la quali tà dell'acqua erogata.

Ma le fonti del dovere di controllo sono anche più recenti.

Si deve, infatti, considerare che un particolare dovere di con

trollo è stato imposto agli enti gestori di acquedotti con la cir

colare 30 aprile 1984 n. 29 della regione Veneto (cfr. B.U.R.

n. 23 del 18 maggio 1984) avente ad oggetto «inquinamenti oc

casionali di corsi d'acqua da cui attingono opere di presa di

acquedotti». (Omissis)

d) L'esimente putativa dell'adempimento di un dovere. Tutti

gli imputati hanno affermato che, successivamente all'adozione

delle ordinanze dell'autorità sanitaria, l'erogazione dell'acqua era continuata unicamente in quanto imposta dai predetti prov vedimenti al fine di evitare più gravi conseguenze di ordine

igienico-sanitario. In effetti per l'acquedotto «Alto Polesine» la circostanza ri

sulta con evidenza ove si consideri il contenuto dell'ordinanza

del sindaco di Badia Polesine del 25 febbraio 1989 (allegata a

verbale dell'udienza del 5 febbraio 1990) che testualmente im

pone «... Al fine di evitare inconvenienti igienico-sanitari è

fatto obbligo al presidente del consorzio acquedotto di Lendi

nara di mantenere l'erogazione dell'acqua nell'intero territorio

comunale di Badia Polesine» (cfr. anche ordinanza adottata al

le ore 20 del 25 febbraio 1989 dal comune di Gaiba). Di analogo contenuto (anche se non identiche) le ordinanze

adottate dai sindaci dei comuni serviti dall'acquedotto di Rovi

go che presupponevano (in particolare le due ordinanze del sin

Ii Foro Italiano — 1991.

daco di Rovigo) pur sempre la prosecuzione dell'erogazione del

l'acqua per non aggravare la situazione igienica delle popolazio ni già pesantemente compromessa dalla mancanza di acqua

potabile nelle abitazioni.

L'accertata esistenza di tali provvedimenti, provenienti dal

l'autorità competente ad imporre un facere se necessario a tute

lare l'igiene pubblica, e il contenuto dagli stessi assunto non

possono non essere presi in considerazione dal giudicante nella

valutazione della condotta degli imputati.

Infatti, i provvedimenti in questione sono astrattamente ido

nei a costituire situazioni giuridiche soggettive in capo ai desti

natari degli stessi la cui condotta non potrebbe discostarsi da

quanto legittimamente ordinato dalla competente autorità senza

incorrere nel rischio di contravvenire al processo di cui all'art.

650 c.p.

Certamente, i provvedimenti in questione non autorizzavano

preventivamente (né avrebbero potuto farlo per le ragioni in

precedenza illustrate nella parte dedicata alla figura del reato) una (futura) erogazione di acqua non conforme ai requisiti ta

bellari né dispensavano gli amministratori degli acquedotti dagli

obblighi loro spettanti in materia di controllo di qualità.

Tuttavia, essi apparivano oggettivamente diretti ad impedire

comunque la sospensione dell'erogazione dell'acqua impedendo in tal modo agli acquedotti di ricorrere al rimedio più facilmen

te praticabile (nelle condizioni in cui si trovavano) per rispettare il dettato di cui all'art. 21 d.p.r. 236/88.

Si deve, pertanto, ritenere invocabile, per tutti i casi in cui

il superamento del limite tabellare sia stato accertato nel perio do di tempo in cui hanno avuto vigore le ordinanze dell'autori

tà sanitaria (dal 25 febbraio 1989 al 21 giugno 1989), la discipli na dell'esimente putativa dell'adempimento del dovere di cui

agli art. 51-59 c.p. dal momento che l'erronea interpretazione del contenuto dei menzionati provvedimenti sindacali non può essere attribuita ad errore determinato da colpa essendosi trat

tato di valutazione di un provvedimento il cui contenuto, per le sue caratteristiche di contingibilità ed urgenza e considerata

la situazione di emergenza in cui è stato adottato, appariva di

necessitata deroga alle norme vigenti e, in ogni caso, appariva

agli imputati come ostativo di comportamenti che permettesse ro di evitare l'evento criminoso. (Omissis)

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