sezione feriale penale; sentenza 10 agosto 1989; Pres. Consoli, Est. Marrone, P.M. (concl. conf.);ric. Marti. Annulla App. Lecce, decr. 1° febbraio 1989Source: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp.307/308-313/314Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183622 .
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PARTE SECONDA
Misure cautelari personali — Procedimenti in corso alla data di
entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale — Pro
secuzione secondo le norme anteriormente vigenti — Disposi zioni del nuovo codice — Applicabilità — Limiti (Cod. proc.
pen. dal 1988, art. 278; norme att., coord, e trans, cod. proc.
pen. del 1988, art. 250; cod. proc. pen. del 1930, art. 275). Misure cautelari personali — Custodia cautelare — Durata —
Codice di procedura penale del 1988 — Sentenza di condanna — Circostanze attenuanti — Concessione e giudizio di equiva lenza o prevalenza sulle circostanze aggravanti — Rilevanza
(Cod. proc. pen. del 1988, art. 278, 303).
Nei procedimenti che ai sensi degli art. 241 e 242 d. leg. 271/89
proseguono con l'osservanza delle norme del codice di rito abro
gato, quest'ultimo è applicabile anche alla trattazione dei pro cedimenti incidentali aventi ad oggetto provvedimenti sulla li
bertà personale adottati dopo l'entrata in vigore del nuovo co
dice (fattispecie in tema di rito da osservarsi in Cassazione per la decisione del ricorso avverso ordinanza della corte
d'appello). (1) Ai sensi dell'art. 250 d. leg. 271/89, nei procedimenti che prose
guono con l'osservanza delle norme del codice di rito abroga
to, in tema di libertà personale trovano applicazione solo le
disposizioni del nuovo codice ivi richiamate, le quali derogano alla precedente disciplina esclusivamente per ciò che concerne
i presupposti «sostanziali» della custodia cautelare; continua,
pertanto, ad osservarsi l'art. 275 c.p.p. del 1930. (2) Anche secondo il nuovo codice di procedura penale, pur in difet
to di una disposizione analoga all'art. 275 c.p.p. del 1930, per individuare il termine massimo di durata della custodia caute
lare (o delle altre misure di coercizione) dopo una sentenza di
condanna è necessario aver riguardo alle circostanze attenuan
ti, anche diverse da quella indicata all'art. 278 c.p.p. del 1988, ritenute sussistenti, nonché all'eventuale giudizio di prevalenza o equivalenza delle stesse con le circostanze aggravanti. (3)
L'Hernandez veniva condannato dal Pretore di Roma, con sen
tenza del 10 maggio 1989, per un delitto di furto con destrezza
commesso il giorno precedente, alla pena di mesi quattro di re
clusione e lire 200.000 di multa e veniva scarcerato il 10 agosto
per decorrenza dei termini di custodia cautelare, ma con l'obbli
go di presentarsi alle ore 19 di tutti i giorni davanti all'autorità
di polizia competente;
l'imputato ha ottemperato a quanto impostogli fino al giorno 17 stesso mese, rendendosi poi irreperibile, per cui il p.g. ciedeva
l'emissione di mandato di cattura; la corte di merito respingeva l'istanza perché, a norma dell'art. 250 disp. trans, del nuovo c.p.p.,
(1-3) Conformemente, sulla prima massima, v. Cass. 9 gennaio 1990, Fidale, inedita, per un diverso orientamento, in tema di conflitto di com
petenza, v. Cass. 14 dicembre 1989, Nicolazzi, Foro it., 1990, II, 161 e Cass. pen., 1990, II, n. 4, con osservazioni critiche di Ferraro.
Non risultano precedenti sulle altre due massime. Sulle disposizioni tran sitorie del nuovo codice di procedura penale, v., in dottrina, Ciani, Le
disposizioni transitorie dal nuovo codice di procedura penale, in Docu menti giustizia, 1989, fase. 9, 79; Frigo, Lineamenti del regime transito
rio, in Commentario del nuovo codice di procedura penale a cura di Amodio e Dominion!, Milano, 1989, I, LI. Sull'art. 278 c.p.p. del 1988, v. Ascione De Biase, La libertà personale nel nuovo codice di procedura penale, Milano, 1990, 184; Cordero, Codice di procedura penale, Torino, 1990, 317.
Nel senso che secondo il codice di procedura penale del 1930 devesi aver riguardo, nella determinazione della pena ai fini dell'individuazione del termine massimo di custodia cautelare dopo una sentenza di condan
na, al riconoscimento di attenuanti, nonché all'eventuale loro equivalen za o prevalenza con le aggravanti, v. Cass. 22 febbraio 1986, Natella, Foro it., Rep. 1987, voce Libertà personale dell'imputato, n. 103; 3 di cembre 1985, Zagara, ibid., n. 105; App. Bologna 10 giugno 1985, id., 1987, II, 240, con nota di Giacona, Sentenza non definitiva di condanna e computo dei termini di custodia cautelare, alla quale si rinvia per ulte riori precedenti e citazioni di dottrina.
Sulla stretta correlazione fra la durata della custodia cautelare e l'enti tà della pena irrogabile per il reato per il quale si procede, v., fra le
tante, Cass. 9 aprile 1985, Barbaro, id., 1985, II, 201; sez. un. 28 novem bre 1981, Gregorio, id., 1982, II, 121 (in motivazione).
Per l'affermazione che «pena legale non è soltanto quella comminata dalle singole fattispecie penali, ma pur quella risultante dall'applicazione delle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio», v. Cass., sez. un., 26 maggio 1984, Falato, id., 1985, II, 172; sez. un. 7 febbraio
1981, Viola, id., 1981, II, 297.
Il Foro Italiano — 1990.
non può essere emesso mandato di cattura se non ricorrono le
condizioni previste dall'art. 280 c.p.p. che contempla tale possi bilità solo se il reato per il quale si procede prevede una pena
superiore a tre anni di reclusione, mentre nel caso di specie l'im
putato era stato riconosciuto colpevole di un reato per il quale, in conseguenza dell'applicazione di circostanze attenuanti generi
che, la pena massina edittale è quella di anni tre per la quale non è consentita l'emissione del richiesto mandato;
il p.g. ricorre deducendo che la decisione trascura l'art. 278
c.p.p., necessario presupposto dell'art. 280, il quale fissa i criteri
per la determinazione della pena agli effetti dell'applicazione del
la misura, norma secondo cui l'unica attenuante da tenere pre sente è quella dell'art. 62, n. 4, c.p., oltre che le circostanze ag
gravanti ad effetto speciale. L'articolo non ha riprodotto la dero
ga al divieto di scarcerazione di cui all'art. 275 c.p.p. abrogato. Il processo in questione, per il disposto dell'art. 241 disp. trans,
nuovo codice di procedura, andava trattato seguendo le norme
vigenti anteriormente, di talché anche il rito presso questa corte
avrebbe dovuto svolgersi in osservanza dell'art. 631 c.p.p. 1930
e non secondo i criteri fissati dalla nuova normativa.
Per tali processi, infatti, l'art. 250, 1° comma, disp. trans.,
deroga limitatamente ai presupposti di natura «sostanziale» della
custodia cautelare, cosa che non comporta l'applicazione di tutte
le altre disposizioni del nuovo codice, di guisa che, per effetto
del richiamo dell'art. 280, con l'entrata in vigore del nuovo codi
ce è stato abrogato l'art. 253, 1° comma, c.p.p. 1930, ma non
anche l'art. 275 dello stesso codice che indica i criteri per la ride
terminazione della pena in presenza di una sentenza di condanna.
L'applicabilità del nuovo rito nei procedimenti già instaurati
e parzialmente trattati con la procedura abrogata è limitata stret
tamente a quelle parti espressamente indicate e non esclude la
vecchia normativa anche in considerazione del principio del favor rei. Comunque, anche a voler seguire integralmente la nuova nor
mativa, la conclusione non può essere diversa perché, giusta il
disposto dell'art. 278 c.p.p., «agli effetti dell'applicazione della
misura si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun
reato consumato o tentato». Ma ciò non significa che dopo una
sentenza di condanna si debba prescindere dall'eventuale conces
sione di attenuanti diverse da quelle ivi indicate e dal giudizio di bilanciamento con le aggravanti e ciò per una serie di conside
razioni: a) secondo il codice le misure coercitive sono in stretta
correlazione con la pena massima da infliggere per il reato per il quale si procede ed il giudizio di equivalenza, quanto alla pena, annulla ogni rilevanza delle aggravanti di cui non può più tenersi
conto al momento dell'applicazione della misura stabilita; b) tale
considerazione è tanto più valida ove si consideri che per il caso
di specie la pena massima edittale non potrebbe mai superare
quel limite di anni tre di reclusione applicabile per effetto del
giudizio di comparizione, in assenza dell'impugnazione del p.m.
che, in ipotesi, potrebbe portare all'elisione della valutazione più favorevole e quindi del beneficio per effetto del quale la misura
punitiva è contenuta nei limiti del richiamato art. 280 c.p.p.; c)
per pena stabilita dalla legge non deve intendersi solo quella edit
tale prevista dai singoli articoli che la contemplano, ma anche
quella che si concretizza per effetto dell'operatività di altre dispo sizioni legislative eventualmente applicabili.
Il ricorso va, di conseguenza, rigettato.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione feriale penale; sentenza 10
agosto 1989; Pres. Consoli, Est. Marrone, P.M. (conci, conf.); ric. Marti. Annulla App. Lecce, decr. 1° febbraio 1989.
Misure di prevenzione — Sorveglianza speciale — Pericolosità
sociale — Accertamento — Fattispecie (L. 27 dicembre 1956
n. 1423, misure di prevenzione nei confronti delle persone peri colose per la sicurezza e per la pubblica moralità, art. 1; 1.
3 agosto 1988 n. 327, norme in materia di misure di prevenzio ne personali, art. 2).
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GIURISPRUDENZA PENALE
Posto che nel testo di ciascuno dei tre numeri dell'art. 11. 1423/56, come novellato dall'art. 2 I. 327/88, è ribadita l'affermazione che la valutazione delle persone pericolose deve essere effettua ta «sulla base di elementi di fatto», va annullato per carenza
di motivazione il provvedimento che si limita a desumere gene ricamente la pericolosità sociale del prevenuto dal suo vaga bondare, ossia non dedicarsi al lavoro, da due precedenti pro cedimenti penali, nonché dal suo associarsi a pericolosi pregiu dicati. (1)
II
TRIBUNALE DI LECCE; decreto 4 novembre 1989; Pres. ed
est. Gaeta; Riotti.
Misure di prevenzione — Mafia — Pericolosità sociale — Accer
tamento — Fattispecie (L. 13 settembre 1982 n. 646, disposi zioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimo niale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956 n. 1423, 10
febbraio 1962 n. 57 e 31 maggio 1965 n. 575. Istituzione di
una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, art. 13).
Il concetto di «indiziato di appartenenza ad associazione di tipo
mafioso» ex art. 13 l. 646/82 è ben diverso da quello di impu tato ex art. 416 bis c.p., in quanto nel primo caso l'apparte nenza esprime una subcultura mafiosa che seleziona il prossi mo secondo la categoria «amico-nemico», perseguendo l'ideale
di una comunità di «amici» («picciotti», «comparielli», ecc.) creata e mantenuta con la violenza; ne deriva che costituisce
prova di manifestazione tipica di comportamento mafioso, si
gnificativa ai fini dell'applicazione della sorveglianza speciale, la partecipazione del prevenuto ad un ristretto summit, svoltosi
presso un ristorante, di soggetti appartenenti all'associazione
«Sacra corona unita». (2)
I
Con provvedimento in data 4 luglio 1988 il Tribunale di Lecce
sottoponeva Marti alla misura di prevenzione della sorveglianza
speciale di p.g. per anni uno.
Proponeva ricorso il prevenuto deducendo 1) di essere incensu
rato; 2) di essere stato condannato con sentenza ancora non defi
nitiva per il reato di violenza privata e di essere stato arrestato
per possesso di minime quantità di stupefacenti; 3) di condurre
un tenore di vita che non poteva essere definito alto.
In data 1° febbraio 1989, la corte d'appello di Lecce rigettava il ricorso ritenendo che 1) i due procedimenti penali subiti dal
Marti, l'ultimo con riferimento a detenzione e spaccio di stupefa centi ed il fatto che lo stesso, al lavoro, preferisse vagabondare ed associarsi a pericolosi pregiudicati, legittimavano il provvedi mento del tribunale.
(1-2) Le due decisioni si segnalano perché attuano un diverso tipo d'ap proccio applicativo alla normativa prevenzionistica.
La sentenza della Cassazione si preoccupa di recepire al massimo la
prospettiva di potenziamento della dimensione garantistica che ha ispira to la recente riforma delle misure di prevenzione personali realizzata con la 1. 327/88. L'art. 2 di tale legge, oltre a riformulare in senso restrittivo
le categorie soggettive di pericolosità originariamente previste dall'art. 1
1. 1423/56, ha infatti aggiunto, con riguardo a tutte le nuove tipologie contemplate, il requisito degli «elementi di fatto» quale base dell'accerta mento richiesto ai fini dell'applicazione delle misure preventive: requisito che serve appunto, anche nelle intenzioni del legislatore, a sottolineare l'insufficienza dei meri sospetti o labili indizi. Sulla portata e sui limiti
di tale intervento novellistico, cfr. Fiandaca, in Legislazione pen., 1989, 23.
La decisione di Trib. Lecce adotta, invece, una concezione «giuridico
sociologica» dell'indiziato di prevenzione che, marcando l'autonomia tra
i rispettivi presupposti del procedimento preventivo e dei processo penale relativi a manifestazioni di criminalità organizzata di stampo mafioso, manifesta minori preoccupazioni liberal-garantistiche e privilegia le istan
ze di difesa sociale, in un'ottica che tende appunto a valorizzare l'aspetto
sociologico e (per dir cosi) culturale del fenomeno mafioso e camorristi
co; in questo senso la decisione in parola si inquadra in un filone inter
pretativo sviluppato soprattutto dal Tribunale di prevenzione di Napoli: cfr. decr. 30 gennaio 1986, Foro it., 1987, II, 366, con nota di Fiandaca
e 18 gennaio 1988, id., 1988, II, 526. A sostegno di questo indirizzo, cfr. Guglielmucci, in Cass, pen., 1987, 1669; in senso critico, invece,
Fiandaca, cit. Sul problema dei rapporti tra procedimento preventivo e processo pe
nale in materia di normativa antimafia, v. altresì, di recente, Caprioli, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, 1179.
Il Foro Italiano — 1990.
Ha proposto ricorso per cassazione il difensore sostenendo il
difetto di motivazione in relazione alla dedotta incensuratezza, alla mancata indicazione dei fatti o comportamenti dai quali de
durre gli elementi anche di sospetto a carico del Marti e chieden
do l'annullamento del provvedimento. Il p.g. ha chiesto il rigetto del ricorso.
Va subito osservato che la 1. 3 agosto 1988 n. 327 ha innovato
profondamente la normativa in materia di misure di prevenzioni
personali. In particolare, per quel che riguarda le persone alle
quali le misure di prevenzione devono essere applicate. L'art. 2 1. 327/88, che ha sostituito l'art. 1 1. 27 dicembre 1956
n. 1423, ha anzitutto eliminato la categoria degli oziosi e vaga bondi abituali, validi al lavoro, che costituiva il n. 1 dell'art.
1 1. 1423/56. Il legislatore ha mostrato in tal modo di recepire almeno parzialmente le critiche mosse dalla dottrina che riteneva
condizione essenziale per il mantenimento delle misure ante delic
tum la configurazione di fattispecie tipiche ed individualizzanti.
Tant'è che nel testo di ciascuno dei tre numeri dell'art. 1 novella
to è ribadita l'affermazione che la valutazione delle persone peri colose debba essere effettuata «sulla base di elementi di fatto».
Formulazione questa che, come risulta dai lavori preparatori, fu
introdotta nel testo normativo su proposta della commissione af
fari costituzionali della camera dei deputati, che espresse parere favorevole al disegno di legge, a condizione però che nell'art.
2, nn. 1, 2 e 3, fosse aggiunta l'espressione «sulla base di fondati
elementi». La commissione dovette tenere conto dell'elaborazio
ne giurisprudenziale della Corte costituzionale che, sin dalle pri me sentenze ebbe a sostenere, nella presente materia, che il prov vedimento «perché sia legittimo deve essere giustificato da fatti
concreti», onde «il sospetto, anche se fondato, non è sufficiente
perché muove da elementi di giudizio incerti e perché potrebbe dar luogo ad arbitri» (v. sent. 23 giugno 1956, n. 2, Foro it.,
1956, I, 1043). Il legislatore con la nuova normativa ha perciò eliminato i casi
nei quali vi era riferimento unicamente alla «persona» del preve nuto (oziosi e vagabondi) ed ha delimitato le altre ipotesi (perso ne attualmente dedite a traffici delittuosi, persone che vivono abi
tualmente anche in parte con i proventi di attività delittuose, ecc.)
con riferimento alla loro condotta che deve essere basata su ele
menti di fatto.
Pertanto, non può condividersi l'opinione del procuratore ge nerale quando afferma che «il vagabondare, ossia il non dedicar
si al lavoro, unitamente all'attività di spaccio di stupefacenti, non
ché l'associarsi a pericolosi pregiudicati, denotano che trattasi di
soggetto il quale trae abitualmente i mezzi per vivere dal delitto
e nel contempo è soggetto pericoloso per la frequentazione con
persone dedite al crimine».
In realtà, non rispettano il preciso dettato normativo i rapidi
accenni, contenuti nel provvedimento impugnato, ai due procedi menti penali subiti dal prevenuto, al suo vagabondare e al suo
associarsi a pericolosi pregiudicati. Tale motivazione non consente di stabilire se gli addebiti mossi
al prevenuto rientrino nel n. 1 dell'art. 1 della legge del 1956,
novellato, o nel n. 2; se cioè il Marti è stato ritenuto persona abitualmente dedita a traffici delittuosi o persona che vive abi
tualmente anche in parte con i proventi di attività delittuose. Non
sono, infatti, enucleati fatti precisi per sostenere l'una o l'altra
ipotesi. Il vagabondare o l'associarsi con pregiudicati sono dati generi
ci ed anche il riferimento ai due procedimenti penali appare in
sufficiente dato che né sono evidenziati i fatti alla base di quei
procedimenti (quanto meno al fine di valutarne l'entità e la con
nessione temporale tra gli stessi) né è motivato il giudizio di peri
colosità derivante dai due processi. Il provvedimento impugnato va perciò annullato per carenza
di motivazione, con rinvio per nuovo esame ex art. 543 c.p.p.
Sarà compito del giudice di rinvio esaminare i fatti oggetto
dei due processi penali e gli altri risultanti dal rapporto e valutare
se dagli stessi può desumersi che il Marti è abitualmente dedito
al delitto o vive, anche in parte, coi proventi di attività delittuose.
II
Gli elementi addotti a carico di Riotti nel rapporto di preven
zione 12 maggio 1989 possono cosi sintetizzarsi: a) mancato svol
gimento di un onesto lavoro, traendo l'indiziato i mezzi per vive
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PARTE SECONDA
re dal delitto; b) precedenti penali gravi e reiterati; c) frequenta zione abituale dei pregiudicati Riezzo Antonio, Carrozzo Lucio, Greco Claudio e Fanghella Antonio, tutti denunciati insieme a
lui per il reato di cui all'art. 416 bis c.p.; d) partecipazione ad
un ristretto summit di appartenenti all'associazione «Sacra coro
na unita», tenuto in Lecce il 22 dicembre 1987 presso il ristorante
«Out Line».
L'indiziato si è articolatamente difeso per tutti i predetti profi
li, mentre il difensore, all'udienza del 25 ottobre 1989, ha ampia mente illustrato il contenuto di memoria difensiva 30 settembre
1989. Va anzitutto rilevato che l'elemento di cui al punto a) non sem
bra sufficientemente dimostrato, atteso che Riotti ha documenta
to lo svolgimento di regolare lavoro dipendente sin da ottobre 1988.
I precedenti penali, benché indicativi di una personalità violen
ta e antisociale (ripetute condanne per violazione del codice della
strada, resistenza, lesioni, furto e detenzione di armi), non ri
guardano reati successivi al 1985, e comunque, cosi come la pen denza presso la Pretura di Lecce di procedimento per ricettazione
commessa all'inizio del 1987, non sono di per sé soli indicativi
di personalità inserita nell'ambiente mafioso.
La frequentazione del pregiudicato Greco Claudio è ammessa
dall'indiziato, cosi come la conoscenza di Fanghella Antonio, men
tre è negato ogni rapporto con Riezzo Antonio e Carrozzo Lucio.
Non potendosi andare al di là di tali dichiarazioni difensive
sulla base della considerazione del questore, secondo il quale tale
frequentazione abituale di Fanghella, Riezzo e Carrozzo risulte
rebbe dal solo fatto dell'essere il Riotti stato denunciato insieme
agli stessi per violazione dell'art. 416 bis c.p., occorre valutare
la fattispecie in relazione all'indizio sub D). Riotti ha affermato di essersi recato all'«Out Line» per la festa
di compleanno dell'amico d'infanzia Greco Claudio, nulla sapen do della presenza di pericolosi pregiudicati, che non gli erano
stati neppure presentati, a causa dell'intervento immediato della
squadra mobile di Lecce.
Sul punto va osservato che il pranzo del 22 dicembre 1987 era
certamente riservato ai membri di spicco della «Sacra corona uni
ta». In particolare, benché il festeggiato fosse in apparenza Gre
co Claudio, nato il 22 dicembre 1964, al centro del tavolo sedeva
Dodaro Antonio, all'epoca capo indiscusso dell'organizzazione
criminale, poi ucciso il 19 dicembre 1988 nell'ambito di un rego lamento di conti, il quale aveva ai suoi lati esponenti di primo
piano della stessa organizzazione, quali Macchia e Fanghella da
un lato, Greco ed Indino dall'altro, tutti sottoposti a misure di
prevenzione. Riotti Lucio era seduto più discosto, e, peraltro, in posizione analoga a personaggi del calibro di Carrozzo e Riezzo.
La disposizione dei posti a sedere rifletteva evidentemente non
il carattere tipico della riunione tra amici per una festa di com
pleanno, ma la gerarchia delle funzioni nell'organizzazione, alla
quale Riotti non appariva certo estraneo.
A smentire ogni casualità della sua presenza, sta il fatto che
egli, al sopraggiungere della polizia, cercò di fuggire saltando dalla
finestra, cosi mostrando un chiaro timore di essere identificato
in quella compromettente situazione.
La giustificazione fornita in proposito da Riotti, il quale ha
ricordato che i suoi precedenti penali per resistenza sono sempre stati occasionati da tentativi di fuga impulsivamente operati nella
flagranza di reati di guida senza patente, non appare convincente. Pur dando per accertata l'impulsività del suo carattere, e la
motivazione addotta delle condotte di resistenza risultanti dal cer
tificato penale, non si spiega perché l'indiziato, trovandosi in un
ristorante che lui stesso ha escluso essere ritrovo di delinquenti
(e del resto i summit criminali si eseguono o in luoghi appartati, o in locali di ordinarie frequentazioni non certo in locali già so
spetti), avrebbe dovuto temere che la polizia, dalla quale egli si
apprestava a recarsi quello stesso pomeriggio, dovesse arrestarlo
«per chissà cosa» (sue parole). Certo è che giustificazioni cosi labili non possono in alcun mo
do intaccare il fatto che l'invito al pranzo de quo riguardava po chissime persone (una dozzina circa), tutte di spiccata capacità criminale specifica mafiosa, e che la presenza allo stesso da parte di Riotti non appare giustificata che dalla sua appartenenza al
medesimo «giro», in quanto a riunioni cosi riservate non si invi
tano mai degli estranei.
A questo punto va considerata l'argomentazione, sviluppata dal
difensore nella discussione, secondo cui sarebbe opportuno che
sul significato della partecipazione al pranzo presso il ristorante
Il Foro Italiano — 1990.
«Out Line» si pronunci la magistratura penale, dinanzi alla quale Riotti è stato denunciato a piede libero per l'art. 416 bis c.p.
La tesi è priva di fondamento.
Periodicamente si riaffaccia, soprattutto in una dottrina sostan
zialmente ferma a schemi tradizionali, la concezione secondo cui
sarebbe possibile fondare sugli stessi fatti sia la condanna per il reato associativo, sia la misura di prevenzione antimafia (cosi di fatto riducendo quest'ultima ad una sorta di misura di sicurez
za), affermandosi peraltro, che nel primo caso dovrebbero sussi
stere vere e proprie prove (o pure indizi), nel secondo bastereb
bero meri sospetti, sia pure significativi. Da tale presupposto si
arriva facilmente a considerare incostituzionale l'intero sistema
delle misure di prevenzione, senza, peraltro, riuscire a spiegare
perché mai esso si sia notevolmente esteso e consolidato proprio
dopo il 1947, oppure perché esso abbia preso piede anche nella
legislazione americana (alla quale pure i reati associativi sono pres soché sconosciuti), mediante la legislazione antiracket, la quale non a caso tipizza ben delineati «patterns of racketeering activi
ty» (modelli di attività criminale organizzata). Di tutt'altro tenore, la giurisprudenza costituzionale italiana ha
sempre detto che le misure di prevenzione non richiedono minor
rigore probatorio, ma un diverso rigore, in quanto non si fonda
no sulla colpevolezza propria del reato. Ciò ha trovato consacra
zione nella giurisprudenza di legittimità (cfr., per tutte, sez. I
5 novembre 1987, Nuto, Foro it., Rep. 1988, voce Misure di pre
venzione, n. 53: «La prova della qualità di indiziato di apparte nenza ad un'associazione mafiosa, ai fini dell'applicabilità di una
misura di prevenzione, è diversa per quantità e qualità della pro va occorrente per l'addebitabilità del reato di associazione mafio
sa. A tal fine possono essere presi in considerazione elementi di
scarso o inesistente significato ai fini della responsabilità per il
delitto associativo, elementi che costituiscono indizi di una situa
zione di pericolosità, più che prove, sia pure indirette, di un
fatto-reato»). In conclusione, può ben dirsi che la prova richiesta per la mi
sura di prevenzione antimafia concerne non un fatto-reato, ma
comportamenti-indice di pericolosità sociale specifica. Da tale impostazione discende l'autonomia dei due procedimenti
e l'assenza di ogni pregiudizialità dell'azione penale, che pure è
affermata da App. Milano 4 luglio 1986 (id., 1987, II, 361), e
App. Torino 23 giugno 1986, nonché dalla dottrina criticata, che
argomentano soprattutto in relazione all'art. 24 1. 646/82 ed al
potere ivi previsto dal giudice penale di applicare autonomamen
te le misure di prevenzione (con conseguente trasformazione della
natura giuridica delle stesse). In realtà, l'art. 24 non altro intende
fare che investire un altro soggetto, quello incaricato di giudicare dell'art. 416 bis c.p., del potere di disporre misure equivalenti a quelle di prevenzione, ma non comporta affatto la preclusione delle misure di prevenzione propriamente dette nelle more del pro cedimento penale.
In proposito il testo dell'art. 6 d.l. 230/89, il quale prevedeva
l'obbligo del p.m. che procede per l'art. 416 bis c.p. di informare il procuratore della repubblica competente per il promuovimento dell'azione di prevenzione e stabiliva il carattere meramente even tuale di una pregiudizialità dell'azione penale rispetto a quella di prevenzione, benché soppresso dalla legge di conversione 282/89, a causa della macchinosità ed automaticità della procedura indi
cata, conferma la possibilità (che è anzi regola) di un procedere
parallelo delle due azioni, quale poi sostenuto dalla giurisprudenza costante del Supremo collegio (cfr., oltre a sez. I 5 novembre
1987, Nuto, anche sez. I 14 marzo 1988, Amerato, id., Rep. 1988, voce cit., n. 49).
Alla stregua di tali osservazioni, la qualità di «indiziato di ap
partenenza ad associazione di tipo mafioso» o simili, quale previ sta dall'art. 13 1. 646/82, non può dirsi analoga, o addirittura
identica, a quella di imputato ex art. 416 bis c.p. In tal senso
depongono, oltre che le considerazioni sistematiche sopra svolte, anche il fatto che il concetto di «appartenenza» di cui al predetto art. 13 è ben diverso dalla «partecipazione» al delitto. La parola
«appartenenza» ben esprime una subcultura (quella mafiosa) che seleziona il prossimo secondo la categoria «amico-nemico», se
guendo l'ideale di una comunità, creata e mantenuta con la vio
lenza, di «amici» («picciotti», «comparielli», ecc.). Essa denota
anche un connotato di passività, di inserimento «organico» in
una situazione data, ben diverso dal libero ruolo attivo che è
tipico della partecipazione (si appartiene, ad es., ad una genera
zione, non si partecipa alla stessa).
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GIURISPRUDENZA PENALE
Tale genere di condotta non può essere confusa con quella co
stitutiva di singoli reati, che, quand'anche abbiano carattere as
sociativo, riguardano sempre fatti individuati puntualmente e ato
misticamente, benché eventualmente collegabili tra loro.
A proposito di tale interpretazione, sviluppata soprattutto dal
Tribunale di prevenzione di Napoli (cfr. decr. 30 gennaio 1986,
id., 1987, II, 36; 18 gennaio 1988, id., 1988, II, 526) la dottrina
sopra criticata ha parlato di «inquietante ricorso al tipo crimino
logico d'autore». Il richiamo è del tutto fuor di luogo, in quanto le misure di prevenzione non hanno nulla a che vedere con la
responsabilità penale. La concezione giuridico-sociologica dell'in
diziato di prevenzione è al contrario del tutto legittima, in quanto tali misure tendono a colpire le aree di espansione della mentalità
mafiosa, impedendo che essa giunga a permeare pezzi sempre più vasti dell'attività economica e/o politica, e cioè di società civile.
In tale prospettiva vengono perseguite quelle forme di contiguità che non si riducano a mera passiva accettazione — a livello di
opinione — della subcultura mafiosa, ma concretamente l'incre
mentino, creandole attorno un alone di rispettabilità e comunque di inevitabilità: paradigmatico il caso avvenuto qualche anno fa, di un noto imprenditore campano, presidente di una importante
squadra di calcio, il quale avrebbe presentato in un'aula giudizia ria ad un pericolosissimo boss camorrista, all'epoca ben inserito
nel giro dei pubblici appalti, e quindi utile per «protezioni» alle
imprese, un attaccante della predetta squadra acquistato all'este
ro, facendo allo stesso boss pervenire una medaglia d'oro.
Pertanto, come ha pur sostenuto un'autorevole dottrina, non
serve al processo di prevenzione l'identificazione, tipica del pro cesso penale, del ruolo in concreto occupato dall'indiziato nel
l'associazione mafiosa, ma la ben diversa prova circa la presenza di manifestazioni tipiche del comportamento mafioso.
Nel caso in esame, ben poca importanza ha il problema del
se la partecipazione al pranzo al ristorante «Out Line» basti per condannare Riotti per l'art. 416 bis c.p. Ciò che conta è se tale
partecipazione sia o meno tipica di un'appartenenza mafiosa, nel
senso sopra precisato.
L'episodio in questione ha un'importanza che non può in al
cun modo essere sminuita. Una riunione come quella in esame
non è come un matrimonio o un battesimo di familiari di boss
della mafia e della camorra, al quale, in un tripudio di ostenta
zione della volgarità della ricchezza male acquisita, vengano invi
tate centinaia di persone, magari anche «perbene» più o meno
inconsapevoli, e grossi personaggi del mondo dello spettacolo quali animatori. Essere invitati ad un summit, cosi' ristretto e seleziona
to, quale quello dell'«Out Line», non capita mai per caso. Che
poi in tale riunione si dovessero o meno decidere singole azioni
criminose, non rileva, in quanto l'elemento fondamentale è l'ap
partenenza all'ambiente mafioso come elemento discriminante per l'invito alla riunione.
In tale prospettiva, l'utilità di una presenza del Riotti per i
fini dell'associazione era di tutta evidenza. Si trattava infatti di
un soggetto di provata capacità criminale, non solo sotto il profi lo dei reati contro il patrimonio, ma anche di quelli comportanti l'uso della violenza, o comunque costituenti manifestazione di
antisocialità (si tenga presente che la reiterazione delle violazioni
del codice della strada, soprattutto quando riguardi la guida sen
za patente, è indicativa di una personalità che non intende in
alcun modo accettare le regole della civile convivenza). Tale ge nere di soggetti, all'epoca del summit, nella quale l'organizzazio ne criminosa stava fortemente espandendo le sue attività ed il
numero di adepti, costituiva (e costituisce tuttora) la base di re
clutamento dell'associazione, la quale ha bisogno che soggetti con
sperimentata capacità criminale generica riconvertano la stessa in
capacità criminale specifica, e cioè mafiosa.
Perché mai scegliere proprio Riotti? Evidentemente perché ben
potevano costituire credenziali a suo favore, oltre ai précédenti
penali ed alla fratellanza con l'ancor più pericoloso Riotti Gio
vanni, l'amicizia con Greco e la conoscenza con Fanghella. In tale prospettiva, anche l'eventualità che l'indiziato non co
noscesse altri «boss» prima del summit, se vera, ridonda a suo
carico: è evidente in tal caso eh? la riunione doveva servire ad
inserirlo in modo definitivo nell'ambiente mafioso.
Come si vede, l'applicazione di una misura di prevenzione a
Riotti serve proprio a contrastare la sua pericolosità sociale, af
finché la già acquisita contiguità all'ambiente mafioso non deter
mini il suo passaggio dal crimine comune a quello organizzato. Va rilevato, peraltro, che, dopo l'episodio del 22 dicembre 1987,
Il Foro Italiano — 1990.
non altri gravi indizi sono emersi a carico del Riotti, la cui volon
tà di lavorare appare anzi apprezzabile. Pertanto, se è vero che
il predetto episodio è talmente significativo da far ritenere che, in assenza di elementi sopravvenuti di segno e di peso uguali e
contrari, non possa formularsi, dopo meno di due anni, un giudi zio di cessata pericolosità di tipo mafioso, è opportuno comun
que respingere la richiesta di obbligo di soggiorno in Lecce, in
quanto la stessa si porrebbe come sostanzialmente vessatoria, an
che in relazione alla possibilità che Riotti, per svolgere il suo la
voro, debba allontanarsi dal capoluogo, e irrogare la sorveglian za speciale di p.s. nella misura di anni uno, con le prescrizioni di cui in dispositivo.
CORTE D'APPELLO DI MILANO; sentenza 13 dicembre 1989; Pres. Franchina, Est. Cerqua; imp. Marinoni ed altri.
CORTE D'APPELLO DI MILANO;
Appello penale — Decisioni in camera di consiglio — Forma (Cod.
proc. pen. del 1988, art. 127, 599).
Nell'ipotesi di accordo delle parti sui motivi di appello a norma
dell'art. 599, 4° comma, c.p.p. del 1988, la decisione assume
la forma della sentenza, ancorché l'art. 127 c.p.p. del 1988 —
richiamato dall'art. 599 — disponga che il giudice provvede con ordinanza; quest'ultima disposizione, infatti, nel caso di
specie, deve essere osservata soltanto per quanto riguarda la
comunicazione della data dell'udienza, i diritti e le facoltà delle
parti, le modalità di redazione del verbale, il deposito del prov vedimento del giudice e la comunicazione e la notificazione del
l'avviso di deposito. (1)
Fatto e motivi della decisione. — All'esito della formale istru
zione, Piergiorgio Marinoni, Francesco Raiti, Salvatore Longo e Bartolomeo Iaconis venivano rinviati a giudizio dinanzi al Tri
bunale di Como per rispondere del delitto di cui agli art. 110
c.p. e 71, 1° comma, 1. 22 dicembre 1975 n. 685, per avere, in
concorso tra loro, illecitamente detenuto gr. 50 di cocaina e gr. 50 di eroina, in Lurago Marinone fino al 27 maggio 1988.
Il Tribunale di Como, con sentenza di data 6 aprile 1989, di
chiarava Salvatore Longo e Bartolomeo Iaconis colpevoli del de
litto loro ascritto e, riconosciute le circostanze attenuanti generi che al solo Longo, li condannava alla pena ritenuta di giustizia, come da dispositivo. Assolveva, invece, Piergiorgio Marinoni e
Francesco Raiti per insufficienza di prove. Avverso la sentenza hanno proposto appello tutti gli imputati.
Salvatore Longo e Bartolomeo Iaconis hanno chiesto l'assoluzio
ne, quanto meno per insufficienza di prove, ed il secondo, in
via subordinata, la condanna alla pena, determinata nella misura
minima consentita dalla legge, previo, riconoscimento delle atte
nuanti generiche. Francesco Raiti e Piergiorgio Marinoni hanno
(1) La decisione costituisce una delle prime applicazioni del giudizio di appello in camera di consiglio previsto dall'art. 599 c.p.p. del 1988, sia quando l'appello ha «esclusivamente» per oggetto la specie o la misu
ra della pena, anche se vi siano implicate questioni attinenti alla compa razione delle circostanze o l'applicabilità delle attenuanti generiche, di
sanzioni sostitutive, della sospensione condizionale della pena o della non
menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, sia quando le parti — come nel caso di specie — ne fanno richiesta dichiarando di concordare sull'accoglimento dei motivi di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi.
In particolare, la corte ha statuito che, nell'ipotesi di giudizio di appel lo in camera di consiglio previsto dall'art. 599, 4° comma, c.p.p. non
può trovare integrale applicazione l'art. 127 c.p.p., relativo ai procedi menti in camera di consiglio, con la conseguenza che la decisione è adot
tata con sentenza e non con ordinanza. Analogamente, v. Amodio, in
Amodio, Dominioni, Commentario del nuovo codice di procedura pena
le, Milano, 1989, II, sub art. 127-128, 86, secondo cui, nelle ipotesi del
procedimento camerale in grado di appello ex art. 599, 1° e 4° comma,
c.p.p., la decisione «assume la forma della sentenza», avendo il rito pre visto dall'art. 127 c.p.p. «ad oggetto questioni sul merito dell'imputazio ne». Contra, v. Dubouno, Baglione, Bartolini, Il nuovo codice di pro cedura penale, Piacenza, 1989, 1108.
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