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sezione I penale; sentenza 1° giugno 1990; Pres. Carnevale, Est. Buogo, P.M. Pagliarulo (concl.conf.); imp. Vianello. Conflitto di competenzaSource: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1991), pp.381/382-385/386Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23186381 .
Accessed: 28/06/2014 13:42
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GIURISPRUDENZA PENALE
tà della pronuncia è conseguente all'esaurimento del giudizio e prescinde dalla concreta realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato.
Le su esposte considerazioni consentono di affermare che non
può essere dichiarato prescritto un reato quando la causa estin
tiva sia sopravvenuta, com'è avvenuto nel caso in esame, alla
sentenza di annullamento parziale pronunciata dalla Corte di
cassazione, quando questa ha ad oggetto statuizioni diverse ed
autonome rispetto al riconoscimento dell'esistenza del fatto-reato
e della responsabilità dell'accusato.
È pur vero, infatti, che l'art. 152 c.p.p., per il suo contenuto
e per le finalità cui è diretto, altro non è che la rappresentazio ne normativa di un principio di carattere generale nel quale con
vivono e si armonizzano due anime, il favor libertatis, nella
sua più lata accezione, ed il rispetto dell'«economia processua
le»; ed è altrettanto incontestabile che quella norma, obbligan do il giudice alla sua applicazione, in qualsiasi stato e grado del procedimento, è insensibile alla preclusione processuale con
seguente al riconoscimento dell'efficacia devolutiva dei mezzi
d'impugnazione, ma rappresenta, rispetto a questa, una vera
e propria deroga. Tutto ciò però non autorizza a ritenere che, ai fini dell'applicazione dell'art. 152 c.p.p., il giudice possa pre scindere da un presupposto al quale è strettamente subordinato
il suo potere decisorio, e cioè la pendenza di un procedimento avente ad oggetto l'accertamento del fatto contestato e della
responsabilità del suo autore. Né può quella norma, nel pur doveroso rispetto della rilevanza dei principi ai quali è ispirata,
superare la barriera del giudicato ed essere applicata quando il giudizio sull'attribuibilità di un reato ad un soggetto si sia
ormai irrevocabilmente concluso.
Neppure sussiste, contrariamente a quanto dedotto da alcuni
imputati ricorrenti, un rapporto di connessione essenziale tra
le parti annullate della sentenza e quelle sottratte a tale pronun cia: il rapporto di connessione essenziale, richiesto quale condi
zione imprescindibile per attrarre alla cognizione del giudice di
rinvio le disposizioni della sentenza non comprese tra quelle an
nullate, va inteso come necessaria interdipendenza logica e giu ridica tra le diverse statuizioni, di guisa che l'annullamento di
una di esse rende inevitabile il riesame di quelle parti che, per ché non suscettibili di autonoma decisione, impongono un rin
novato giudizio. Ma siffatto rapporto non esiste in relazione all'accertamento
dell'esistenza di un reato e della responsabilità dell'autore quando sia rimessa in discussione soltanto la concedibilità di attenuanti
generiche o il giudizio sulla pericolosità sociale degli autori di
quel reato. Né lo stesso rapporto può rivivere, come invece è
stato sostenuto dalle difese di alcuni ricorrenti, attraverso l'e
saltazione di una connessione meramente probatoria, evocata
attraverso il giudizio negativo espresso dall'impugnata sentenza
sulla sufficienza della prova in relazione ai furti attribuiti agli stessi imputati ricorrenti. Innanzi tutto va osservato che non
è certamente un rapporto più o meno intenso di connessione
probatoria sufficiente a disperdere l'autonomia che caratteriz
za, nell'astratta e nella concreta configurabilità, il delitto di as
sociazione per delinquere rispetto ai singoli reati compresi nel
programma del sodalizio criminoso. D'altronde, la ricerca della
prova, in relazione al reato associativo, può legittimamente av
valersi del determinante contributo offerto dalla dimostrazione
della realizzazione del programma predisposto, ma non è certa
mente riduttivamente esauribile in questa. In ogni caso, poi, il rapporto di «necessaria connessione»,
richiesto dall'art. 545 c.p.c., non può essere dilatato al punto
da comprendere in esso l'ipotesi prevista dall'art. 45, n. 2, dello
stesso codice, giacché quest'ultima forma di connessione, ido
nea a giustificare la riunione dei procedimenti ed alcune dero
ghe alla competenza del giudice; nulla ha a che vedere con quel la imprescindibile interdipendenza che deve sussistere in relazio
ne all'oggetto delle diverse decisioni, perché è soltanto questo
rapporto capace di attrarre alla cognizione del giudice di rinvio
statuizioni che, altrimenti, sarebbero precluse dal giudicato.
Pertanto, anche sotto tale profilo, non può essere accolta la
richiesta diretta ad ottenere la declaratoria di prescrizione per il reato previsto dall'art. 416, 2° comma, c.p. Per le considera
zioni su esposte non può nemmeno provvedersi alla sostituzione
della formula assolutoria per insufficienza di prove, adottata,
Il Foro Italiano — 1991.
per alcuni imputati ricorrenti, con riferimento a quel reato, aven
do la relativa decisione acquisito autorità di cosa giudicata in
seguito alla sentenza con la quale la Corte di cassazione aveva
respinto i ricorsi degli imputati ed aventi ad oggetto quella spe cifica pronuncia. Non possono neppure essere accolti i motivi
dedotti dagli imputati Arnaldi Gianfranco, Gandolfi Riccardo, Passaro Attilio e Guglielmo Antonio e con i quali è stata de
nunciata la violazione degli art. 489, 213 e 544 c.p.p. Risulta dagli atti che le amministrazioni comunali che si era
no costituite parti civili nel procedimento non avevano limitato
la domanda risarcitoria ai soli danni conseguenti alla consuma
zione dei furti subiti dal casinò di Sanremo; né quelle costitu
zioni erano state ritenute ammissibili soltanto in relazione al
reato di furto contestato agli imputati ricorrenti.
D'altronde, in questa sede, non è più consentito contestare
la legitimatio ad causam delle parti civili in relazione all'impu tazione di associazione per delinquere: nella sentenza d'appello,
pronunciata dalla corte di Genova il 20 febbraio 1986, gli impu
tati, riconosciuti colpevoli del delitto previsto dall'art. 416 c.p., erano stati tutti condannati al risarcimento dei danni ed al pa
gamento delle spese processuali in favore delle costituite parti civili e tale capo della sentenza non ha formato oggetto della
pronuncia di annullamento da parte della Corte di cassazione.
Ne consegue che è preclusa dal giudicato la verifica dell'esisten
za e della legittimità del titolo che ha dato origine all'accogli mento della domanda risarcitoria in relazione alla condanna per
quel delitto.
Quanto poi al problema relativo alla legittimità della condan
na degli stessi imputati al pagamento delle spese relative al giu dizio di rinvio in favore delle stesse parti civili, va osservato
che allorquando vi sia stata, com'è avvenuto nel caso in esame, una dichiarazione d'impugnazione generica, che investe tutti i
capi della sentenza, la parte civile ha interesse ad intervenire
nel giudizio per contrastare tutte le possibili istanze dirette a
rimettere in discussione la proponibilità della domanda risarci
toria, ovvero il titolo che la giustifica, o il contenuto del suo
diritto.
Ne consegue che quando, a conclusione del giudizio d'impu
gnazione, resta ferma la condanna anche per uno solo dei capi
d'imputazione che legittimava l'esercizio dell'azione civile, l'im
putato dev'essere condannato al pagamento delle spese proces suali in favore della parte civile intervenuta nel giudizio, e ciò
anche se in relazione alle altre statuizioni della sentenza l'impu
gnazione dell'imputato sia stata accolta.
Il parziale accoglimento dell'impugnazione giustifica, ai sensi
del 1° comma dell'art. 213 c.p.p. il fatto che un imputato sia
esonerato dall'obbligo di rifondere le spese anticipate dallo Sta
to, ma non è certamente sufficiente per escludere, nel contem
po, l'obbligo del pagamento delle spese in favore della parte
civile, trattandosi di obbligazioni fondate su diversi presuppo sti: la soccombenza della parte civile nel giudizio d'impugnazio ne — la sola idonea ad escludere l'obbligo dell'imputato al rim
borso delle spese — si ha quando la domanda proposta dal
danneggiato dal reato e diretta ad ottenere il riconoscimento
del diritto alla restituzione ovvero al risarcimento del danno,
sia, per effetto dell'accoglimento dell'impugnazione dell'impu
tato, disattesa, ma non già quando il giudice della impugnazio ne ne confermi l'accoglimento, sia pure limitatamente ad uno
dei reati contestati. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I penale; sentenza 1° giu
gno 1990; Pres. Carnevale, Est. Buogo, P.M. Pagliarulo
(conci, conf.); imp. Vianello. Conflitto di competenza.
Competenza e giurisdizione penale — Conflitto tra p.m. e g.i.p. — Inammissibilità (Cod. proc. pen., art. 22, 28).
Indagini preliminari — Riapertura — Provvedimento di diniego — Impugnazione — Inammissibilità (Cod. proc. pen., art.
127, 409, 414, 568, 606).
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PARTE SECONDA
Nel nuovo codice di procedura penale non è configurabile il
conflitto di competenza tra pubblico ministero e giudice per
le indagini preliminari in quanto, nell'eventualità di un con
trasto, prevale la decisione del giudice. (1)
Nel silenzio della legge, stante il principio di tassatività delle
impugnazioni, non è ammesso il ricorso per cassazione avver
so il provvedimento di diniego della riapertura delle indagini
preliminari dopo la precedente archiviazione; né tale diniego
può configurare una ipotesi di provvedimento abnorme, in
quanto, se la legge subordina una procedura a preventiva au
torizzazione, è conforme ed intrinseco a tale sistema sia il
provvedimento autorizzativo sia quello opposto che rifiuti l'au
torizzazione richiesta. (2)
(1-2) I. - La Corte di cassazione, nelle prime decisioni emanate dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, ha costante
mente affermato che non è ipotizzabile il conflitto di competenza tra
organi del pubblico ministero, né tra pubblico ministero e giudice (Cass. 11 giugno 1990, Facchinelli, cit. in Guariniello, Il nuovo codice di
procedura penale: un anno di applicazione nella giurisprudenza della
Corte di cassazione, in Foro it., 1990, II, 537, n. 3; 11 giugno 1990,
Labanti, ibid.; 21 maggio 1990, Salvi, Ciust. pen., 1991, III, 36; 9 apri le 1990, Arch, nuovaproc. pen., 1990, 605; 2 aprile 1990, Rosmi, ibid.,
605; 20 febbraio 1990, Ruta, Foro it., 1990, II, 294; 19 febbraio 1990,
Facchinari, ibid., 295; 19 febbraio 1990, Rinchi, Giur. it., 1990, II,
296; 9 febbraio 1990, Ignoti, Cass, pen., 1990, II, 82; 29 gennaio 1990,
Rufinatscha, ibid., 152; contra, Proc. rep. presso Pret. circ. Cremona
11 maggio 1990, Arch, nuova proc. pen., 1990, 59).
Questa soluzione viene giustificata in base a un duplice ordine di
considerazioni. In primo luogo, il conflitto di competenza (che è delimitazione della
giurisdizione) non potrebbe configurarsi se non tra giudici, cioè tra sog
getti funzionalmente omogenei, con la conseguenza che il pubblico mi
nistero — quale parte — non sarebbe idoneo ad entrare in una situazio
ne conflittuale con organi giurisdizionali (Cass. 21 maggio 1990, Salvi,
cit.; 20 febbraio 1990, Ruta, cit.; 9 febbraio 1990, Ignoti, cit.). Inoltre, il principio della prevalenza della decisione del giudice del dibattimento
rispetto alla determinazione del giudice dell'udienza preliminare — san
cito dall'art. 28, 2° comma, c.p.p. — sarebbe applicabile a fortiori con riferimento ai contrasti tra giudice e pubblico ministero; ne conse
guirebbe che, non potendosi prospettare un conflitto di competenza per caso analogo, il pubblico ministero «deve ritenersi vincolato dalla deci
sione del giudice per le indagini preliminari e da quella del giudice del
dibattimento, nei confronti dei quali non può assumere un comporta mento processuale tale da determinare una stasi del processo» (Cass. 11 giugno 1990, Facchinelli, cit.; 11 giugno 1990, Labanti, cit.; 29 gen naio 1990, Rufinatscha, cit.).
Un ulteriore elemento a sostegno di questa tesi è stato individuato
dalla sentenza in rassegna nella relazione al progetto preliminare del
codice, laddove si afferma espressamente che non è possibile «la confi
gurabilità di conflitti tra pubblico ministero e giudice» in considerazio
ne della qualità di parte — sia pure pubblica — che il pubblico ministe
ro ha nel contesto del nuovo sistema processuale (Le leggi, 1988, 2374,
2385). La dottrina, dal canto suo, si è schierata su due posizioni tra loro
nettamente contrastanti. Da un lato, analogamente a quanto sostenuto dalla giurisprudenza
di legittimità, si è affermato che il conflitto di competenza può insorge re solo tra organi dotati di potestà giurisdizionale (Bonetto, in Com
mentario al nuovo processo penale coordinato da Chiavario, Torino,
1989, I, 167; Conti-Macchia, Il nuovo processo penale. Lineamenti
della riforma, 2a ed., Milano, 1990, 23; Macchia, in Commentario
del nuovo processo penale, a cura di Amodio-Dominioni, Milano, 1989,
I, 184; Marafioti, Contrasti tra uffici dei pubblico ministero, in Giur.
it., 1990, II, 397; Nappi, Competenza, voce del Digesto pen., Torino,
1990, IV, 497; Zappalà, in Conso-Grevi, Profili del nuovo codice di
procedura penale, Padova, 1990, 13). Altra parte della dottrina ha, invece, prospettato una soluzione diver
sa (Cordero, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1990,
34, n. 5; Dubolino-Baglione-Bartolini, Il nuovo codice di procedura
penale illustrato per articolo, Piacenza, 1989, 97, s.; Nobili, La nuova
procedura penale, Bologna, 1989, 188 s.; Tranchina, in Siracusano
Dalia-Galati-Tranchina-Zappalà, Manuale di diritto processuale pe nale, Milano, 1990, I, 155 s.; Turel-Buonocore, Il nuovo rito penale, Udine, 1989, 35). In particolare — partendo dall'art. 28, 2° comma,
c.p.p. che esclude la possibilità di conflitto per caso analogo solo per i contrasti tra giudice del dibattimento e giudice dell'udienza prelimina re — si è sostenuto che i conflitti di competenza «per casi analoghi» sono ipotizzabili ogniqualvolta i contrasti, possibili anche tra organi non giurisdizionali, riguardino la competenza a compiere un determina
to atto, attribuito alla sfera funzionale di uno dei soggetti in contrasto, e la stasi processuale conseguente risulti eliminabile solo mediante l'ele
vazione del conflitto. Tutto questo deriverebbe da «una regola generale
Il Foro Italiano — 1991.
Fatto. — A seguito di un esposto presentato il 17 febbraio
1989 da Magnanini Massimo, Magnanini Elio e Magnanini Mau
rizio nei confronti di Vianello Sante, non ravvisando estremi
di reato bensì, «al più, un illecito civile» con decreto in data
24 febbraio 1989 il Pretore di San Donà di Piave disponeva
l'archiviazione della denuncia ai sensi dell'art. 74 c.p.p. (del
1930). Successivamente, essendogli pervenuti dalla procura della re
pubblica presso il Tribunale di Venezia atti da riunire al prece
dente fascicolo concernente il Vianello, con decreto del 11 otto
bre 1989 il Pretore di S. Donà di Piave confermava la già di
sposta archiviazione del 24 febbraio 1989 ed inoltre disponeva
la restituzione al notaio Giuseppe Galimberti di Venezia delle
buste e di quattro libretti di deposito a risparmio che il procura
tore della repubblica di Venezia aveva sottoposto a sequestro.
Con successiva istanza in data 2 novembre 1989 i predetti
Magnanini nonché Boscaro Alvaro insistevano presso il procu
ratore della repubblica presso la Pretura di Venezia acché pro movesse l'azione penale per gli stessi fatti in precedenza narrati
ma detto procuratore non ravvisando elementi nuovi né in fatto
né in diritto, si limitava a trasmettere al Pretore di San Donà
di Piave l'ulteriore esposto non ravvisando «negli atti ragioni
per l'accoglimento della richesta formulata il 2 novembre 1989».
Magnanini Massimo e Magnanini Maurizio non demordeva
no, tanto che con successiva istanza del 7 dicembre 1989 inve
stivano il procuratore della repubblica presso la Pretura circon
dariale di Venezia affinché richiedesse al g.i.p. l'autorizzazione
alla riapertura delle indagini nonché per la restituzione alla Marco
Polo s.r.l., rappresentata dal Magnanini Massimo, dei quattro
libretti bancari che il Vianello aveva depositato presso il notaio.
A tal punto, con richiesta formulata il 21 dicembre 1989 il
procuratore della repubblica presso la Pretura circondariale di
Venezia chiedeva al giudice per le indagini preliminari affinché
si pronunciasse sulla domanda di riapertura della indagini, ài
sensi dell'art. 414 c.p.p. (nuovo codice). Con provvedimento del 31 gennaio 1990 il g.i.p. dichiarava
non luogo a provvedere e disponeva le retribuzione degli atti
al procuratore della repubblica suddetto in quanto l'archivia
zione era stata disposta sotto la vigenza del precedente codice
di rito, non precludeva l'eventuale esercizio successivo dell'a
zione penale da parte del procuratore della repubblica, senza
necessità che, nel caso in esame, esso giudice dovesse autorizza
re riapertura delle indagini dato che il decreto previsto ex art.
414, n. 1, c.p.p. presupponeva una precedente archiviazione ef
fettuata secondo la diversa (rispetto al precedente rito) articola
zione e disciplina del nuovo codice di procedura nella specie inesistente.
Se ne duole il procuratore della repubblica presso la Pretura
circondariale di Venezia con ricorso del 15 febbraio 1989 col
quale, oltre a denunciare per abnormità il provvedimento adot
tato dal g.i.p. il 31 gennaio 1990, comunque solleva conflitto
negativo di competenza in quanto ritiene che non gli sia possi bile esperire le necessarie indagini né promuovere l'azione pena le senza l'autorizzazione del g.i.p., cosi determinandosi una si
tuazione di stasi processuale. Diritto. —- Le deduzioni qui avanzate articolano, dunque un
conflitto ed un ricorso, contestualmente.
Quanto al conflitto, e per le ragioni già in parte ribadite (ve
dasi, tra le altre: Cass., sez. I, 18 aprile 1990, n. 1037) non
può questa Suprema corte che rilevare inammissibilità della de
nuncia.
Infatti, il nuovo codice di rito penale, adempiendo alle diretti
ve della legge delega, ha conferito un'impronta più marcatamen
te accusatoria al procedimento penale, accentuando maggiormente la terzietà di un giudice super partes e sottolineando invece il
in tema di libertà di giudizio . . . secondo la quale qualsiasi organo chiamato a compiere un atto di propria spettanza da parte di altro or
gano che non sia quello del controllo di legittimità, può contestare la
liceità della pretesa, rifiutando di adempiervi» (Tranchina, op. cit., 155). II. - Il principio affermato dalla seconda massima, infine, è piena
mente da condividere in quanto il nuovo codice, con la regola generale in tema di tassatività delle impugnazioni (art. 568) e con la mancata
previsione del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti di diniego della riapertura delle indagini dopo la precedente archiviazione, ha reso
inoppugnabili tali provvedimenti. [A. Scaglione]
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GIURISPRUDENZA PENALE
ruolo di parte, che sostiene la pubblica accusa, nel p.m. cui
è stato tolto ogni potere decisorio e che si è voluto sottrarre
alla giurisdizionalizzazione.
Sull'argomento la relazione al progetto preliminare ed al te
sto definitivo del codice è quanto mai esplicita nel negare «la
configurabilità di conflitti tra pubblico ministero e giudice», in
coerenza con una logica che rende concettualmente impossibile un contrasto fra giudice e parte, che possa indurre ad una stasi
del procedimento, mentre ai contrasti fra magistrati del pubbli co ministero è stata data soluzione all'interno dell'organizzazio ne di questo stesso organo mediante le disposizioni dell'art. 54
c.p.p.
Che, poi, il legislatore sia concretamente rimasto fedele alle
intenzioni spiegate nel progetto preliminare risulta dalla formu
lazione dell'art. 28, n. 1, c.p.p. il quale testualmente riconduce
le ipotesi di conflitto ai casi in cui il contrasto nel prendere o nel ricusare di prendere cognizione del medesimo fatto attri
buito alla stessa persona corra fra giudici soltanto.
La possibilità di conflitti per «casi analoghi», che secondo
il vecchio codice ed in un contesto nel quale all'ufficio del p.m. erano attribuite funzioni di carattere giurisdizionale, consentiva
la sussunzione dell'ipotesi conflittuale pure tra p.m. e giudice, è stata ora ricondotta nell'alveo dei contrasti fra soli giudici, attraverso il richiamo operato dell'art. 28, n. 2, ai casi previsti dal precedente comma, n. 1; e lo stesso legislatore ha voluta
mente evitato qualsiasi riferimento a casi di contrasto tra pub blico ministero e giudice, proprio per sottolineare che eventuali
casi di contrasto non sono riconducibili alle categorie dei con
flitti «anche in considerazione delle qualità di parte — sia pure
pubblica — che il pubblico ministero ha nel contesto del nuovo
sistema processuale». In tal modo, la disciplina dei conflitti si qualifica quale mez
zo per regolare l'ambito della giurisdizione e della competenza — che riguarda i soli giudici — e non anche i dissensi tra uffici
giudiziari in ordine a situazioni diverse. Acquistano cosi particolare significato, confermativo dei pre
cedenti rilievi, sia la disposizione dell'art. 28, n. 2, c.p.p. che
prevede l'ipotesi di conflitto fra giudice dell'udienza prelimina re e giudice del dibattimento, attribuendo prevalenza alla deci
sione di quest'ultimo, sia la disposizione dell'art. 30, n. 2, c.p. il quale parifica il ruolo del p.m. a quello delle parti private nel momento della denuncia del conflitto.
Dal che si evince che non è ipotizzabile conflitto fra p.m. e g.i.p. perché in evenienza di un contrasto fra i due prevale la decisione del giudice.
Il conflitto qui denunciato dal p.m. presso la Pretura circon
dariale di Venezia deve essere quindi ritenuto inammissibile.
Anche la restante parte, formulativa di un ricorso a questa
Suprema corte, avanzato dal p.m. che qualifica come abnorme
il provvedimento del g.i.p. denegante la necessità — nella spe
cie — di autorizzazione alla riapertura delle indagini, deve esse
re ritenuta inammissibile.
Va tenuto presente, infatti, che, essendo rimasto fermo il prin
cipio della tassatività dei mezzi di impugnazione (art. 568, n.
1, c.p.p.), sono soggetti a ricorso solo quei provvedimenti pei
quali è stato specificatamente previsto tale rimedio, quelli con
cernenti la libertà personale, le sentenze diverse da quelle sulla
competenza che possono dare luogo ad un conflitto di giurisdi zione o di competenza (art. 568, n. 2, c.p.p.), nonché i provve dimenti abnormi, ossia quelli che si pongano talmente al di fuo
ri dell'ordinamento e del sistema processuale da non potere es
sere previsti e pei quali l'unico rimedio è quello dato dalla verifica
di legittimità, unica coerente al vizio che li permea.
Nel procedimento per l'archiviazione la sola ipotesi di ricorri
bilità è data dall'art. 409, n. 6, c.p.p., il quale prevede siffatto
mezzo di impugnazione solo allorquando il giudice dispone l'ar
chiviazione con ordinanza affetta da taluna delle nullità previ
ste dall'art. 127, 5° comma, c.p.p.; eguale rimedio non è invece
previsto né dall'art. 414 c.p.p. — che disciplina la riapertura
delle indagini dopo precedente archiviazione — né da alcun'al
tra norma, nelle ipotesi che venga richiesta l'autorizzazione ivi
prevista. Né può sostenersi che dopo l'emissione del provvedimento
di archiviazione il rifiuto ad accedere alla richiesta di riapertura
delle indagini, avanzata dal p.m., possa configurare una ipotesi
Il Foro Italiano — 1991 — Parte II-12.
di provvedimento abnorme perché se la legge subordina una
procedura a preventiva autorizzazione è congeniale ed intrinse
co a tale sistema sia il provvedimento autorizzativo sia quello — opposto — che rifiuti l'autorizzazione richiesta, allorquando il g.i.p. non ravvisi gli estremi di legge; e, d'altra parte, sarebbe
contrario al sistema il prevalere della volontà della parte su quella del giudice.
Devesi quindi dare atto che, nella specie, il ricorso investe
un provvedimento sottratto ad impugnazione di qualsiasi tipo e che, pertanto, risulta avanzato al di fuori dei casi consentiti
dalla legge: il che lo rende inammissibile ai sensi dell'art. 606, n. 3, c.p.p.
Dall'inammissibilità del conflitto e del ricorso deriva che non
può questo Supremo collegio indugiare nello spiegare le ragioni
per le quali sarebbero da ritenere fondate le argomentazioni svolte
dal g.i.p. per le quali il p.m. sarebbe — nella specie — libero
di attivare nuove indagini od esercitare l'azione penale senza
necessità di previa autorizzazione, in quanto la conseguente mo
tivazione non sarebbe funzionale alla decisione oggi adottata
e quindi non potrebbe formarsi un giudicato vincolante le parti.
CORTE D'APPELLO DI ROMA; sezione per i minorenni; sen
tenza 23 maggio 1990; Pres. Figliuzzi, Est. Infelisi; imp. C.M. ed altri.
CORTE D'APPELLO DI ROMA;
Tribunale per i minorenni — Disciplina transitoria — Appello — Inammissibilità dell'azione civile — Inapplicabilità (D.p.r. 22 settembre 1988 n. 448, approvazione delle disposizioni sul
processo penale a carico di imputati minorenni, art. 10; d.leg. 28 luglio 1989 n. 272, norme di attuazione, di coordinamento
e transitorie del d.p.r. 22 settembre 1988 n. 448, art. 30). Tribunale per i minorenni — Disciplina transitoria — Appello
— Sospensione del processo e messa alla prova — Esclusione
(D.p.r. 22 settembre 1988 n. 448, art. 28; d.leg. 28 luglio 1989 n. 272, art. 30).
La preclusione all'esercizio dell'azione civile in sede di processo
penale a carico di imputati minorenni, introdotta dall'art. 10
d.p.r. 22 settembre 1988 n. 448, non si applica, in virtù della
disciplina transitoria prevista dall'art. 30 d.leg. 28 luglio 1989
n. 272, ai procedimenti ancora pendenti in grado d'appello. (1) L'istituto della sospensione del processo e messa alla prova del
l'imputato minorenne, introdotto dall'art. 28 d.p.r. 22 set
tembre 1988 n. 448, non si applica, per esplicita previsione dell'art. 30 d.leg. 28 luglio 1989 n. 272, in sede di giudizio
d'appello ai processi iniziati con il vecchio rito. (2)
(1-2) Con la presente decisione la Corte d'appello di Roma ha risolto
due questioni di notevole interesse relativamente all'applicazione, in un
giudizio già iniziato sotto l'impero della precedente disciplina normati
va (r.d.l. 20 luglio 1934 n. 1404), di alcune fra le più importanti inno
vazioni operate dalla riforma del processo penale minorile.
Il legislatore ha prescritto, in sede di disposizioni di attuazione, di
coordinamento e transitorie, l'immediata estensione ai procedimenti an
cora pendenti solo di alcuni dei nuovi istituti previsti, tenendo conto
delle finalità, della natura giuridica e della compatibilità della ratio de
gli stessi con il vecchio rito.
Pertanto, la corte d'appello ha fatto riferimento all'art. 30 d.leg. 28
luglio 1989 n. 272, recante le norme transitorie del processo penale a
carico di imputati minorenni, cercando, nell'operazione ermeneutica com
piuta, di mettere in evidenza le ragioni di ordine sistematico poste a
fondamento della norma stessa.
Infatti, dovendo pronunciarsi su una richiesta difensiva di estromis
sione della parte civile dal giudizio d'appello, conclude per la negativa
svolgendo una duplice considerazione. Se è pur vero che, nel nuovo
processo minorile ispirato, tra gli altri, ad un criterio di celerità ed in
formalità mirante a favorire la rieducazione, il reinserimento e la fuo
riuscita dell'imputato minorenne dal c.d. «circuito penale», è inammis
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