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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione I penale; sentenza 14 giugno 1988; Pres. Sorrentino,...

Date post: 27-Jan-2017
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sezione I penale; sentenza 14 giugno 1988; Pres. Sorrentino, Est. Saccucci, P.M. La Cava (concl. diff.); ric. Pierattini e altri. Annulla Assise app. Firenze 4 novembre 1987 Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1989), pp. 147/148-155/156 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23182709 . Accessed: 25/06/2014 04:56 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.2.32.46 on Wed, 25 Jun 2014 04:56:54 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione I penale; sentenza 14 giugno 1988; Pres. Sorrentino, Est. Saccucci, P.M. La Cava (concl.diff.); ric. Pierattini e altri. Annulla Assise app. Firenze 4 novembre 1987Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1989), pp.147/148-155/156Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23182709 .

Accessed: 25/06/2014 04:56

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147 PARTE SECONDA 148

L'esposta esegesi della norma dell'art. 47, 4° comma, dell'or

dinamento penitenziario, applicabile nella specie, identifica per tanto il tribunale di sorveglianza competente in quello di Ancona, dove ha sede il giudice dell'esecuzione, con la conseguente risolu

zione del conflitto.

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I penale; sentenza 14 giugno 1988; Pres. Sorrentino, Est. Saccucci, P.M. La Cava (conci,

diff.); ric. Pierattini e altri. Annulla Assise app. Firenze 4 no

vembre 1987.

Istigazione a delinquere o a disobbedire e apologia di reato o

sovversiva — Istigazione di militari a disobbedire alle leggi —

Reato — Esclusione — Fattispecie (Cod. pen., art. 266).

L'elemento materiale del reato di istigazione di militari a disob

bedire alle leggi non sussiste, e il reato, pertanto, non si confi

gura, quando sia stata genericamente annunciata la volontà di

compiere un atto istigatorio, subordinandolo al verificarsi di un evento futuro ed incerto, poiché in una simile ipotesi non

viene messo concretamente in pericolo il bene tutelato dall'art.

266 c.p. (nella specie, è stato ritenuto lecito un intervento pro nunciato al comitato centrale del Partito marxista leninista ita

liano e integralmente riprodotto sul giornale «Il bolscevico»,

organo ufficiale del Partito marxista leninista italiano, nel qua le si dichiarava l'intenzione di invitare i soldati alla diserzione nel caso di una ipotetica aggressione bellica dell'Italia contro la Libia). (1)

II

CORTE DI ASSISE D'APPELLO DI FIRENZE; sentenza 4 no vembre 1987; Pres. Cassano, Est. Pucci; imp. Pierattini e altro.

Istigazione a delinquere o a disobbedire e apologia di reato o

sovversiva — Istigazione di militari a disobbedire alle leggi —

Reato — Sussistenza — Fattispecie (Cod. pen., art. 266).

Rispondono del reato di istigazione di militari a disobbedire alle

leggi ex art. 266 c.p. il componente del comitato centrale del Partito marxista leninista italiano che annunci, durante una riu

nione dell'organismo, la volontà di invitare i soldati alla diser

zione nel caso di una ipotetica aggressione bellica dell'Italia contro la Libia, ed il direttore responsabile dell'organo ufficia le del Partito marxista leninista italiano che pubblichi integral mente il testo dell'intervento, perché, nella fattispecie, è realizzata la situazione di pericolo astratto per il bene dell'obbligo della

fedeltà alle leggi che tutelano la disciplina militare, sanzionata dall'art. 266 c.p. (2)

(1-2) Pericolo concreto o pericolo astratto nelle fattispecie di istigazio ne? L'interrogativo, che indubbiamente costituisce uno dei cruciali nodi

interpretativi nella problematica dei reati di opinione, trova risposte dif ferenti nelle due decisioni su riportate: Cass. 14 giugno 1988, sub I, infat ti, fa proprio l'orientamento, invero minoritario nella giurisprudenza tanto di legittimità quanto di merito, secondo cui la rilevanza penale di una condotta istigatrice è condizionata alla sua concreta idoneità a provocare la commissione dei reati che ne sono oggetto (analogamente alla sentenza in epigrafe, ma con riguardo a ipotesi diverse da quella prevista dall'art. 266 c.p., cfr. Cass. 23 gennaio 1979, Paolozzi, Foro it., 1980, II, 248; 5 luglio 1979, Pontrandolfo, id., Rep. 1980, voce Istigazione a delinque re, n. 6, entrambe in tema di apologia di reato ex art. 414 c.p.; ne! meri to, Assise Roma 5 marzo 1981, id., 1981, II, 435, con nota di Fiandaca, cui si rinvia per ulteriori riferimenti; v., inoltre, implicitamente, Cass. 12 maggio 1986, Pizzarelli, id., Rep. 1987, voce cit., n. 5, ove si afferma che il punto di demarcazione fra la propaganda sovversiva e la lecita manifestazione del pensiero consiste «nell'idoneità dell'azione a suscitare consensi da parte di un numero inteterminato di persone e quindi perico lo di adesione al programma sovversivo»); Assise app. Firenze 4 novem bre 1987, sub II, per contro, si colloca nell'ambito della finora prevalente

Il Foro Italiano — 1989.

I

Motivi della decisione. — I ricorsi sono fondati.

Invero, rispetto alle varie argomentazioni affrontate dalla corte

di merito ed esposte dai ricorrenti nei motivi, è logicamente e

giuridicamente pregiudiziale risolvere il quesito se nel caso in esa

me si è realizzato l'elemento materiale del delitto in contestazio

ne, il quale, alla stregua del tenore letterale del citato art. 266

c.p. ed in base alla dottrina e alla costante giurisprudenza, consi

ste, nella sua forma diretta — non è stata contestata con il capo di imputazione la forma indiretta della apologia — nella istiga zione di militari a disobbedire alle leggi o a violare il giuramento

dato, i doveri della disciplina militare o altri doveri militari.

tendenza ad estendere quanto più possibile l'operatività delle incrimina

zioni, in virtù di un richiamo alla categoria del pericolo presunto, ripro ducendo per larga parte le considerazioni già svolte dai giudici di primo grado (cfr. Assise Firenze 27 ottobre 1986, Questione giustizia, 1987, 61, con nota critica di D. Gallo; nello stesso senso, si vedano Cass. 13 giu gno 1984, Di Maio, Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 6, riguardo l'ipotesi di apologia ex art. 414 c.p.; 18 aprile 1983, Calà, id., 1984, II, 391, relativa ad un episodio di volantinaggio delle Brigate rosse in una scuola; 10 novembre 1982, Morlacchi, id., Rep. 1984, voce cit., n. 7, circa un caso di affissione di manifesti; 11 dicembre 1981, Scuderi, id., Rep. 1983, voce cit., n. 2, cui adde 20 novembre 1980, Canal, id., Rep. 1981, voce

cit., n. 3; 22 gennaio 1979, Osterero, id., Rep. 1980, voce cit., n. 1; 19 gennaio 1979, Magni, id., Rep. 1979, voce cit., n. 3; 16 gennaio 1978, Campobello, id., Rep. 1978, voce cit., n. 3; 20 ottobre 1955, Ascani, id., Rep. 1956, voce Personalità internazionale dello Stato, n. 14; 29 no vembre 1954, Scuderi, id., Rep. 1955, voce cit., n. 15, tutte citate in motivazione sub II; nel merito, Trib. Teramo 27 giugno 1985, id., Rep. 1987, voce Istigazione a delinquere, n. 11 e Giur. merito, 1987, 457, con nota di Cerqua).

Ora, lungi dal voler qui attibuirle la portata di un decisivo e definitivo mutamento di rotta in una materia talmente delicata, la sentenza sub I si segnala, tuttavia, perché rappresenta, pur nelle sue cadenze argomen tative non compiutamente approfondite, un significativo sforzo di fornire una lettura dell'art. 266 c.p. non solo costituzionalmente compatibile, ma anche più «moderna» e aderente alla necessità di impedire che, in uno Stato democratico, la sanzione penale possa trasformarsi in drastico strumento di mutilazione del dibattito pubblico su tematiche, come quelle pacifiste, sempre più diffusamente avvertite dalla collettività (nella stessa

prospettiva di fondo, cfr. recentemente De Vero, Tutela penale dell'ordi ne pubblico, Milano, 1988, 97 ss.; cfr., sul punto, altresì le appassionate osservazioni di D. Gallo, Militarismo e giurisdizione, nota ad Assise Fi renze 27 ottobre 1986, cit., 64, il quale si chiede, non senza preoccupazio ne, «quanto la cultura della pace sia penetrata nel bagaglio professionale dei magistrati italiani»). In questa direzione la sentenza della Cassazione in epigrafe mostra di ispirarsi alle note pronunce della Corte costituzio nale (peraltro esplicitamente richiamate in motivazione) 23 aprile 1974, n. 108, Foro it., 1974, I, 1564 e 4 maggio 1970, n. 65, id., 1970, I, 1545, che hanno ritenuto legittime, rispettivamente, l'istigazione all'odio fra le classi sociali ex art. 415 c.p. e l'apologia ex art. 414 c.p., precisan do però che l'applicazione delle due norme deve essere ristretta e quei soli casi in cui le modalità attuative della condotta istigatrìce o apologeti ca siano tali da porre concretamente in pericolo i beni protetti (l'esigenza di ricorrere, in sede interpretativa dei reati di opinione, al solo modulo del pericolo concreto per ridurre al minimo la compressione di libertà fondamentali costituzionalmente garantite è stata segnalata anche da quella parte della dottrina che ha, per altri versi, proposto una rivalutazione della categoria concettuale del pericolo astratto ai fini della tutela penale di beni di rango primario quali la vita o la salute: cfr. Fiandaca, Note sui reati di pericolo, in Tommaso Natale-Scritti in memoria di G. Bellavi

sta, 1977, 204; Id., La tipizzazione de! pericolo, in Dei delitti e delle

pene, 1984, 460. Sul punto, v. pure Violante, Istigazione di militari a disobbedire alle leggi, voce dell' Enciclopedia del diritto, Milano, 1972, XXII, 1010).

Successivamente alle due appena ricordate decisioni, però, rigettando una eccezione di costituzionalità riguardante proprio l'istigazione di mili tari a disobbedire alle leggi, la Consulta ha, in un certo senso, fatto un

passo indietro ed è tornata a ribadire la strutturazione a pericolo presun to dell'art. 266 c.p. (cfr. Corte cost. 5 giugno 1978, n. 71, Foro it., 1978, I, 1338, con nota di Pizzorusso, forse non del tutto casualmente non citata in motivazione sub I, e invece richiamata da Assise app. Firenze sub II): sotto questo profilo, dunque, Cass. 14 giugno 1988 su riprodotta sembrerebbe attestarsi su posizioni più avanzate rispetto a quelle, ormai non recentissime, della Corte costituzionale.

Invero, ancor prima della sentenza 71/78 cit., la legittimità dell'art. 266 c.p. era stata riconosciuta, in relazione alla libertà di manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost., da Corte cost. 27 febbraio 1973, n. 16, id., 1973, I, 965, con nota di Pizzorusso, la quale aveva affermato, da

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GIURISPRUDENZA PENALE

Orbene nel caso in esame il detto quesito deve essere risolto

in senso negativo. È, infatti, pur vero quanto affermato dalla corte di merito che nel periodo in cui fu pubblicato lo scritto

per cui è processo si era verificata in campo internazionale una

situazione che non faceva apparire impossibile o improbabile un'a

zione di guerra dell'Italia nei confronti della Libia: ciò per i due

missili che pochissimo tempo prima erano stati lanciati dalla Li

bia contro il territorio italiano. Ed è altrettanto vero quanto rile

vato dai giudici di appello che lo Scuderi, cioè, proprio nell'articolo

incriminato, aveva fatto riferimento all'eventualità che «la Libia

ripetesse azioni del tipo di Lampedusa» con ciò arrivando sostan

zialmente a ritenere che, qualora l'Italia avesse reagito con atti

un lato, che la costituzionalità della norma de qua risiede nel fatto che essa è posta a tutela del preminente interesse della difesa della patria ex art. 52 Cost., e, dall'altro, che all'istigazione non può in nessun caso estendersi la garanzia ex art. 21 Cost., in quanto, piuttosto che una «pu ra manifestazione del pensiero», essa è «azione e diretto incitamento al l'azione». Simili presupposti teorici sono stati pedissequamente ripresi da Assise Firenze sub II, mentre il problema della compatibilità fra i reati di opinione e l'art. 21 Cost, è rimasto solo marginalmente accennato sub I. L'esegesi che tende a superare i forti sospetti di legittimità costituzio nale che gravano su fattispecie come l'art. 266 c.p., mediante una restri zione della nozione di «pensiero» alla pura teoria priva di conseguenze pratiche e di incidenza sulla realtà, è stata, però, criticata dalla dottrina che vi ha visto un arbitrario e pericoloso svuotamento di senso dell'art. 21 Cost. (cfr. Gamberini, I «pensieri leciti» della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1973, 671; v., ancora, Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte speciale, Bologna, 1988, I, 64 s., e letteratura ivi

citata, e 67 per una sintesi delle diverse obiezioni di costituzionalità poste all'art. 266 c.p.).

Espressamente nella prospettiva di un più coerente rispetto della garan zia costituzionale della libera manifestazione del pensiero la problematica dei reati di opinione è stata sottoposta, da ultimo, ad un'attenta verifica. Con riguardo alle mutate istanze di confronto sociale e politico su que stioni oggi di larghissimo interesse come la pace o l'opzione energetica nucleare, è apparsa sempre meno accettabile la precostituzione di una

gerarchia di valori assoluti che sarebbero meritevoli sempre e comunque di tutela penale a scapito di altri e diversi valori: è stato, in particolare, osservato che offese al «sentimento nazionale» racchiuso in valori costi

tuzionali come il dovere di difendere la patria o di fedeltà alla repubblica dovrebbero essere tollerate (cioè non perseguite penalmente) quale «ne

cessario sacrificio (. . .) per consentire che posizioni di radicale dissenso

nei confronti dell'organizzazione politica e sociale, ovvero di negazione della legittimità generale delle forme storicamente date degli Stati nazio

nali — cioè autentiche forme di pensiero politico —, si esprimano sia

pure in modi esasperati e provocatori» (testualmente, De Vero, op. cit.,

Ili; cfr., altresì, i rilievi di Fiore, / reati di opinione, Padova, 1972,

172, il quale avverte come, sminuendo la portata del concetto costituzio

nale di manifestazione del pensiero, si possa finire col lasciare esposte a troppo severe repressioni «manifestazioni vitali della cultura e dell'azio

ne politica»; ancora, E. Gallo-Musco, Delitti contro l'ordine costituzio

nale, Bologna, 1984, 138, sottolineano che il nucleo essenziale e

fondamentale della libertà di pensiero è l'essere una libertà «squisitamen te politica e pratica, e come tale ricomprensiva di ogni forma espressiva, sia dell'intelletto come dell'emozione, sia della cultura accademica sia della

vita popolare»; nel senso di un necessario recupero alla sfera della liceità

anche di quelle manifestazioni «di dissenso verso l'ordine costituito» si

esprime altresì D. Gallo, op. cit., 65. In giurisprudenza, l'opportunità di attenuare il rigore della sanzione

penale di fronte a condotte ispirate da principi etico-culturali pressoché unanimemente accolti dalla collettività, quali quelli del pacifismo o della

salvaguardia ambientale, è stata riconosciuta da Trib. Ragusa 14 aprile 1984, Foro it., 1985, II, 22 e da Pret. S. Vito dei Normanni 28 aprile

1986, id., 1986, II, 635, entrambe con nota di Rapisarda, che hanno,

rispettivamente, applicato l'attenuante dei motivi di particolare valore mo

rale o sociale ad alcuni pacifisti autori di un blocco stradale a fini dimo

strativi, e la causa di non punibilità dello stato di necessità all'omissione

di atti d'ufficio commessa da un sindaco per opporsi all'installazione di

una centrale elettronucleare; l'esigenza di sostituire all'apoditticità incri

minante connessa con la strutturazione a pericolo presunto delle fattispe cie di istigazione, una consapevole valutazione bilanciata degli interessi

in gioco, assumendone a parametro la categoria del pericolo concreto, è stata affermata, analogamente a Cass. 14 giugno 1988 sub I, dall'inedi

ta Cass., sez. I, 6 aprile 1988, pres. Molinari, est. Papadia, ric. P.m.

c. Gallo e altro, ove testualmente si legge che per la limitazione del fon

damentale diritto della libera manifestazione del pensiero «non può gene ricamente essere invocata la tutela di un interesse di rilievo costituzionale,

quale, come nel caso di specie, l'obbligo della fedeltà alle leggi che tutela

no la disciplina militare, giacché è necessario che la condotta vietata pre senti anche un contenuto immediatamente offensivo per il bene tutelato».

[C. Rapisarda]

Il Foro Italiano — 1989.

di guerra, non avrebbe agito a difesa del territorio italiano ma

con mire espansionistiche e imperialistiche. Ma ciò, tuttavia, non realizza ancora l'elemento oggettivo del

delitto in esame perché sia dal tenore letterale delle singole frasi

riportate nel capo di imputazione, sia dal loro significato com

plessivo nell'ambito dell'intero discorso pronunciato dallo Scude

ri e pubblicato dalla Pierattini Poli, chiaramente si desume la

mancanza di una diretta — lo si ripete l'ipotesi indiretta del reato

in esame non è stata contestata — istigazione ai militari ma sol

tanto il proposito di commettere un futuro atto istigatorio ma

sottoposto ad una condizione possibile — il che, contrariamente

a quanto erroneamente ritenuto dai giudici di appello, non è suf

ficiente a realizzare l'elemento materiale del reato — ma futura

ed incerta. In effetti in tutte tre le frasi ritenute di contenuto

istigatorio, riportate nel capo di imputazione, tale condizione è

chiaramente indicata con le parole: «Se Craxi aggredirà la Li

bia» . . «qualora il governo volesse usare mezzi militari . . .»; «in tal caso ... noi diremo». Dato tale tenore delle frasi incrimi

nate, il quale è ancora più chiaro nel contesto dell'intero discorso — e non si dimentichi che la condizione predetta era riportata anche nel titolo dell'articolo predetto — è evidente che l'elemen

to oggettivo del reato in esame non si sarebbe realizzato neppure se l'invito nell'articolo fosse stato avanzato direttamente ai mili

tari nella forma: «disertate se . . .», essendo evidente che un in

vito subordinato ad un evento futuro ed incerto manca di attualità

e, quindi, non concretizza il fatto dannoso sanzionato dalla nor

ma incriminatrice in esame. Ma a maggior ragione si deve perve nire a tale conclusione nel caso di specie nel quale, come si è

detto, lo Scuderi, si è limitato a esprimere il proposito di com

mettere un futuro atto di istigazione qualora il governo italiano

avesse compiuto un atto aggressivo contro la Libia, cosicché, a

ben vedere, l'evento di danno sanzionato dalla norma incrimina

trice in esame si sarebbe verificato soltanto col realizzarsi, per nulla certo, di tre ben precise condizioni: che la Libia avesse com

piuto un altro atto aggressivo; che il governo italiano avesse rea

gito; che lo Scuderi e i suoi compagni avessero ritenuto tale

reazione esorbitante dai limiti di una guerra difensiva. Ma l'inesi

stenza dell'elemento oggettivo del reato è certa anche sotto un

altro profilo.

È, invero, pacifico, alla stregua della dottrina e della costante

giurisprudenza, che destinatari del comportamento istigatorio pos sono essere soltanto dei militari. Orbene, appare evidente sia dal

tenore letterale delle singole frasi riportate nel capo di imputazio ne (Inviteremo . . .; se il governo italiano . . . ecc.), sia dal signi ficato complessivo del discorso dal quale tali frasi sono state

estrapolate, sia dall'occasione in cui vennero pronunciate e pub blicate (vedi l'indirizzo riportato all'inizio del discorso: care com

pagne e cari compagni), che i propositi espressi, dai quali si è

voluto ricavare un contenuto istigatorio, non erano diretti ai mi

litari, ma agli appartenenti al partito e, se mai, agli organi di

governo. Appare, in conseguenza, evidente quale sia stata la vera

sostanziale portata del discorso incriminato: si è trattato di una

critica, magari unilaterale, eccessiva, partigiana e alquanto esagi tata di alcune opninioni espresse dal presidente del consiglio dei

ministri in carica in quelle circostanze, critica che, tuttavia, non

avendo, come si è visto, concretizzato l'elemento oggettivo del

reato in esame, deve ritenersi pur sempre legittima e consentita

in quanto tutelata dall'art. 21 Cost. La Corte costituzionale ha,

invero, costantemente ritenuto che tale libertà, tutelata dal citato

art. 21, trova, però, i suoi limiti anche nella necessità di proteg

gere altri beni di rilevanza costituzionale (vedi sentenze n. 65 del

1970, Foro it., 1970, I, 1545; n. 16 del 1973, id., 1973, I, 965

e n. 108 del 1974, id., 1974, I, 1564). Ma, come questa Corte

suprema ha già avuto occasione di pronunciarsi in una fattispecie

del tutto analoga (trattavasi si un articolo di critica alla citata

sentenza della Corte d'assise di Firenze del 27 ottobre 1986 pub

blicata dalla Pierattini Poli nel predetto periodico «Il Bolscevi

co»), per la compressione di un siffatto diritto, certamente

fondamentale, quale è quello della manifestazione del pensiero

e della critica, non può genericamente essere invocata la tutela

di un interesse di rilievo costituzionale quale l'obbligo della fedel

tà alle leggi che tutelano la disciplina militare, giacché è necessa

rio che la condotta vietata presenti anche un contenuto

immediatamente offensivo per il bene tutelato (Cass., sez. I, n.

1061/88, Gallo). Orbene, nel caso in esame, non essendosi, come

si è visto, realizzati gli elementi materiali, costitutivi della con

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PARTE SECONDA

dotta incriminata, è ultronea ogni ulteriore indagine circa la sus

sistenza di un pericolo concreto per l'interesse protetto dal citato

art. 266 c.p. (comunque da escludersi per la dimostrata inesisten

za del contenuto istigatorio nelle frasi incriminate) e circa l'ele

mento psicologico del reato medesimo. Anche tutte le altre

eccezioni sollevate con i motivi di ricorso rimangono assorbite.

L'impugnata sentenza deve, pertanto, essere annullata senza

rinvio nei confronti di entrambi gli imputati perché il fatto non

sussiste.

II

Motivi della decisione. — (Omissis). In relazione al merito del

l'appello degli imputati, sia il procuratore generale che i difensori

degli imputati hanno svolto ampie argomentazioni sulla liceità

o meno di un'eventuale guerra da parte dell'Italia contro la Libia

nel momento storico in cui venne pubblicato il numero de «Il

Bolscevico» cui si riferisce l'imputazione e, in particolare, la dife

sa ha parlato in maniera appassionata e con parole nobili, che

trovano totale rispondenza nel pensiero di questa corte, degli or

rori delle guerre di ogni tempo e del desiderio di ogni popolo civile e di ciascuna persona di evitare che scempi e massacri pos sano essere perpetrati in nuovi conflitti.

Ritiene, peraltro, la corte che, prima di addentrarsi in dotte

disquisizioni di diritto internazionale attinenti appunto alla legit timità o meno dell'azione di guerra sopra indicata, debba svol

gersi un esame pregiudiziale per accertare se sia consentito al

singolo cittadino, al singolo militare, di opporsi agli ordini degli

organi di governo e di quelli legislativi sulla base di una valuta

zione individuale della rispondenza o meno della politica dello

Stato alla direttiva dell'art. 11.

Al riguardo va detto che questa corte ritiene, in aderenza al

pensiero della gran parte dei costituzionalisti, che la norma del

l'art. 11 Cost, non è rivolta ai cittadini, ma agli organi di gover no e a quelli legislativi e che il singolo, qualora compia una scelta

diversa da quella di quegli organi che, per il principio della rap

presentatività, agiscono in nome di tutta la collettività, anche del

le minoranze dissenzienti, compie un atto rivoluzionario, che potrà essere diversamente valutato dal punto di vista etico o politico a seconda dei vari punti di vista, ma che certamente si pone fuori

dell'ordinamento giuridico vigente. A proposito del principio di rappresentatività, va detto che il

nostro Stato repubblicano, che in oltre quaranta anni della sua

storia non ha certamente mostrato propensione alle guerre di ag

gressione, è uno Stato democratico le cui massime istituzioni tro

vano la loro legittimazione nell'espressione della volontà della

maggioranza a seguito di libere elezioni. Sicché appare del tutto

fuori luogo fare riferimento ai generali argentini o al Salvador

o ricordare le nefandezze del nazifascimo o le affermazioni di

S. Tommaso d'Aquino sulla legittimità dell'uccisione dei tiranni. Alla stregua di quanto si è detto consegue che deve essere escluso

che, in caso di guerra, un militare possa opporsi agli ordini solo

perché ritenga che tale guerra non sia stata motivata da necessità di carattere difensivo in conformità all'art. 11 Cost.

La difesa ha peraltro richiamato il diritto, anzi il dovere, di disobbedienza del militare sancito dall'art. 25 del regolamento di disciplina militare (d.p.r. 18 luglio 1986 n. 545). Tale norma non è applicabile però in relazione alla fattispecie in esame posto che tale unica eccezione al dovere dei militari di eseguire gli ordi ni ricevuti riguarda esclusivamente le ipotesi in cui l'ordine sia

manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato e in cui l'esecuzione dello stesso costituisce menifestamente reato. Col ter mine «istituzioni dello Stato» con tutta evidenza il legislatore ha fatto riferimento agli organi o istituzioni costituzionali, che, se condo un'opinione largamente seguita dalla dottrina, sono gli or

gani supremi dello Stato, quelli posti al vertice della sua

organizzazione, che non hanno superiori e che si trovano tra loro sostanzialmente su un piano di parità e costituiscono l'espressio ne e lo strumento del principio della divisione dei poteri. Sono

quindi certamente «istituzioni dello Stato» il presidente della re

pubblica, la camera dei deputati, il senato della repubblica, la corte costituzionale. In sostanza la prima delle ipotesi indicate dall'art. 25 sopra indicato riguarda l'eventualità di un colpo di

Stato, di un attentato agli organi costituzionali dello stesso. Ma tale ipotesi certamente non ricorre quando sia stata dichiarata

guerra contro un paese straniero, cosi come con tutta evidenza

Il Foro Italiano — 1989.

non si può ravvisare in tal caso alcuna ipotesi di reato, una volta

che la guerra sia stata dichiarata con le procedure indicate dalla

Costituzione.

Quanto sopra premesso, appare certo allora che nello scritto

a firma di Giovanni Scuderi pubblicato sul numero de «Il Bolsce

vico» del 16 maggio 1986 ricorrono gli estremi del contestato de

litto di istigazione di militari a disobbedire alle leggi. Nessun credito

può al riguardo attribuirsi alle odierne dichiarazioni del prevenu

to, secondo le quali il suo discorso non era diretto ai militari

ma al popolo. Ed invero, a prescindere dalla considerazione che

la diserzione è una condotta che può essere posta in essere soltan

to dai militari, va ricordato che nel titolo dello scritto si legge «Inviteremo i soldati a disertare» e nel contesto dello stesso si

dice ancora «diremo ai nostri militari: Disertate! Rifiutatevi di

sparare contro la Libia». Affermare, pertanto, ora che il discorso

non era rivolto ai militari significa negare una realtà assoluta

mente evidente. Non v'è dubbio pertanto che lo Scuderi invitò

i militari italiani a disobbedire alle leggi e ai doveri della discipli na istigandoli a porre in essere una tra le più gravi violazioni

di tali doveri come è da considerare la diserzione. Né può dirsi, come è stato sostenuto nei motivi di appello, che l'imputato ha

agito conformemente ai diritti, sanciti dagli art. 18 e 21 Cost., di associazione e di espressione del proprio pensiero. Quanto al

primo punto giova rilevare che allo Scuderi non si dà carico di

avere pronunciato le parole incriminate nel chiuso di una sede

di partito, non si contesta di averle dette durante il comitato cen

trale del Partito marxista leninista italiano, tenutosi tra il 1° e

il 3 maggio del 1986, ma di averle pubblicate sul giornale del

suo partito e quindi di averle dirette alla comunità e, in partico lar modo, ai militari italiani. Riguardo al secondo rilievo va detto

che la conformità della disposizione dell'art. 266 c.p. al dettato

dell'art. 21 Cost, è stata più volte affermata dalla Corte costitu

zionale (sentenza n. 16 del 27 febbraio 1973, Foro it., 1973, I, 965 e sentenza n. 71 del 5 giugno 1978, id., 1978, I, 1338), che

ha osservato che non tutte le manifestazioni del pensiero devono

essere tutelate e che la libertà di pensiero non può venire invocata

quando la relativa espressione si attua mediante un'offesa a beni

e diritti che meritano tutela. Con la prima delle decisioni sopra indicate è stato affermato che «l'istigazione di militare all'infe

deltà, o al tradimento, in tutte le forme previste dall'art. 266

(disobbedire alle leggi, violare il giuramento dato o i doveri della

disciplina militare o altri doveri inerenti al proprio Stato), offen

de e minaccia un bene cui la Costituzione riconosce un supremo valore e accorda una tutela privilegiata, in conformità di tutte

le costituzioni moderne, da qualsiasi ideologia siano ispirate e

da qualunque regime politico-sociale siano espresse». Si è ricor

dato poi che, rispetto alla norma incriminatrice dell'art. 266, la

libertà garantita dall'art. 21 Cost, può consentire modi di mani

festazione e propaganda per la pace universale, la non violenza, la riduzione della ferma, la riforma del regolamento di disciplina o altri che non si concretino mai in un'istigazione a disertare e

che, in tale caso, non si può parlare di manifestazione di pensiero

perché l'istigazione «è azione e diretto incitamento all'azione, sicché

essa non risulta tutelata dall'art. 21 Cost.».

Ma altre osservazioni sono state mosse alla sentenza impugna ta. Si è sostenuto infatti: 1) che secondo la giurisprudenza della

Corte costituzionale (sentenza n. 108 del 23 aprile 1974, id., 1974, I, 1564) perché la sanzionabilità della condotta di istigazione pos sa considerarsi non contrastante con l'art. 21 Cost, è necessario

che vi sia un pericolo concreto di lesione dell'interesse tutelato;

2) che, in conseguenza, deve escludersi la punibilità dell'istigazio ne quando la stessa sia sottoposta a condizione, cioè ad un even

to futuro e incerto; 3) che nel caso in esame la condizione apposta

dall'imputato (Se l'Italia aggredirà la Libia) non soltanto era da

considerare un evento futuro ed incerto, ma anche giuridicamen te impossibile, in quanto l'Italia, secondo i principi di cui agli art. 10, 1° comma, e 11 Cost., non può aggredire né la Libia né qualsiasi altro paese.

Tali rilievi sono infondati. Intanto è opportuno rilevare che è errato sostenere che la condicio sine qua non della sanzionabili

tà delle condotte istigatrici è rappresentata dall'esistenza di un

pericolo concreto di lesione dell'interesse tutelato. Con la senten za del 23 aprile 1974, richiamata dalla difesa, si dichiarò l'illegit timità costituzionale dell'art. 415 c.p. soltanto per la parte riguardante l'istigazione all'odio tra le classi sociali, nella parte in cui non specificava che tale istigazione deve essere attuata in

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GIURISPRUDENZA PENALE

modo pericoloso per la pubblica tranquillità. Ma tale dichiarazio

ne si fondava sul rilievo che l'ipotesi sopra indicata «non indica

come effetto dell'istigazione un fatto criminoso specifico o un'at

tività diretta contro l'ordine pubblico o verso la disobbedienza

alle leggi, ma l'ingenerare un sentimento senza nel contempo ri

chiedere che le modalità con le quali ciò si attui siano tali da

costituire pericolo all'ordine pubblico e alla pubblica tranquilli tà». Dalla lettura della sopra indicata decisione appare chiaro

invece che una situazione di pericolo debba invece ritenersi pre suntivamente sussistente per l'altra ipotesi contemplata dall'art.

415 c.p., cioè quella della disobbedienza alle leggi di ordine pub blico. Che l'orientamento della Corte costituzionale nella sogget ta materia sia contrario a quello sostenuto dalla difesa degli

imputati lo si evince del resto chiaramente dalle prima citate sen

tenze n. 16 del 1973 e n. 71 del 1978. Particolarmente con la

seconda di tali decisioni si è affermato che deve escludersi ogni indeterminatezza dell'art. 266, che trova applicazione «solo quando

l'istigazione sia diretta a commettere gli atti concreti specifica mente elencati, i quali costituiscono per valutazione legislativa immune da irragionevolezza pericolo per il bene costituzionalmente

protetto e non invece sostanziano critica per fatti specifici in rela

zione ai quali si eserciti democraticamente il controllo dell'opi nione pubblica». Chiaro appare allora dalle espressioni usate dalla

Corte costituzionale che la stessa ritiene che, per scelta non cen

surabile del legislatore, sia da ravvisare un pericolo presunto nel

solo fatto dell'istigazione a commettere gli atti specificatamente indicati dall'art. 266 c.p. E a tale conclusione è pervenuta del

resto più volte la Corte di cassazione, statuendo che il delitto

in questione è un reato di pericolo presunto e che per il suo rea

lizzarsi non è necessario che si sia verificata una concreta situa

zione di pericolo, per gli interessi militari tutelati (sez. I 16 gennaio

1978, Campobello, id., Rep. 1978, voce Istigazione a delinquere, n. 3; 19 gennaio 1979, Magni, id., Rep. 1979, voce cit., n. 3). Chiarito pertanto che, per scelta insindacabile del legislatore, va

ravvisato un pericolo presunto nel solo fatto dell'istigazione a

commettere gli atti indicati dall'art. 266, consegue logicamente che è del tutto irrilevante che l'istigazione sia riferita a situazioni

non solo future, ma anche ipotetiche ed eventuali, sicché conser

vano tuttora validità, anche alla luce dell'interpretazione che del

la norma ha dato la Corte costituzionale, le pur non recenti

decisioni della Corte di cassazione con le quali si è ritenuta ap

punto la sussistenza del reato in fattispecie nelle quali l'istigazio

ne era condizionata (Cass., sez. I, 29 novembre 1954, Scuderi,

id., Rep. 1955, voce Personalità internazionale dello Stato, n.

15; 20 ottobre 1955, Ascari, id., Rep. 1956, voce cit., n. 14). Va disattesa poi l'argomentazione secondo la quale la condi

zione posta dallo Scuderi è da ritenere giuridicamente impossibi le. Va detto intanto che l'espressione «aggredirà» è riportata solo

nel titolo dello scritto, mentre nel testo si dice: «Se il governo

italiano ricorrerà alla rappresaglia militare e alla guerra contro

la Libia . . .». Vero è che dal contesto dell'articolo il pensiero

dello Scuderi risulta essere quello che una guerra dell'Italia con

tro la Libia sarebbe stata un atto di sopraffazione e di imperiali smo e, quindi, un atto aggressivo, ma è vero altresì' che tale

conclusione riflette soltanto un giudizio personale dell'imputato e quindi una valutazione politica sulle cause e sulle motivazioni

di una eventuale guerra. In realtà proprio nel periodo in cui fu pubblicato lo scritto

per cui è processo si era verificata una situazione in campo inter

nazionale che non faceva certamente apparire impossibile e im

probabile un'azione di guerra dell'Italia nei confronti della Libia.

Non ci si può certo dimenticare del fatto che pochissimo tempo

prima due missili erano stati lanciati dalla Libia contro il territo

rio italiano. E certamente non se ne era dimenticato lo Scuderi,

che proprio nel suo articolo faceva riferimento all'eventualità che

«la Libia ripetesse azioni del tipo di Lampedusa», con ciò arri

vando sostanzialmente a ritenere che, qualora l'Italia avesse rea

gito con atti di guerra, non avrebbe agito a difesa del territorio

italiano ma con mire espansionistiche ed imperialistiche. Da quanto

si è detto emerge chiaramente che la condizione di fatto che lo

Scuderi ipotizzava non era certamente impossibile, avendo egli

prefigurato l'eventualità che l'Italia reagisse con la guerra ad atti

offensivi della Libia. Anche sotto questo profilo l'appello è per

tanto infondato.

Il Foro Italiano — 1989.

Si è sostenuto peraltro che in ogni caso Io Scuderi dovrebbe

essere assolto perché difetterebbe nell'ipotesi in esame l'elemento

psicologico del delitto contestato. Si è argomentato al riguardo che l'imputato non dovrebbe rispondere di tale reato in quanto

egli era convinto che il suo invito fosse conforme alle leggi dello

Stato, considerato che di obbedire agli ordini nel caso di una

guerra d'aggressione era da lui ritenuto un diritto-dovere in con

formità al dettato dell'art. 11 Cost.

Anche il sopra indicato motivo di censura non ha pregio e va

disatteso. Si è detto già come sia insussistente il diritto del singo lo militare di rifiutarsi ad eseguire gli ordini in caso di guerra

(salvo che non ricorrano le eccezioni di cui all'art. 25, ultima

parte, d.p.r. 18 luglio 1986 n. 545, non ipotizzabili nella specie) in base ad una personale valutazione della rispondenza o meno

di tale guerra al dettato dell'art. 11 Cost. Da ciò discende che

ignorare tale principio significa ignorare il contenuto degli obbli

ghi posti a carico dei militari per effetto della disciplina militare

cui sono sottoposti e cui fa riferimento l'art. 266. Ciò si traduce

in ignoranza della legge penale — che non può essere invocata

a propria scusa ex art. 5 c.p. — in quanto leggi penali, secondo

l'insegnamento costante della corte regolatrice, devono essere con

siderate per incorporazione tutte le norme extrapenali che, in di

versa maniera, determinano il contenuto del comando o del divieto

penale e che ne costituiscono il presupposto. Ora, con tutta evi

denza le norme che regolano gli obblighi dei militari costituisco

no il presupposto e determinano il contenuto del comando e del

divieto dell'art. 266 c.p. Non può dubitarsi allora della sussisten

za nella specie del dolo del delitto contestato allo Scuderi e al

riguardo si rammenta che la Corte di cassazione ha statuito che

«l'elemento psicologico del delitto di istigazione di militari a di

sobbedire alle leggi si concreta nel dolo generico, cioè nella vo

lontà e coscienza di commettere il fatto ed è irrilevante il

collegamento dell'azione con particolari finalità pratiche dell'a

gente» (Cass., sez. I, 20 novembre 1980, Canal, id., Rep. 1981, voce Istigazione a delinquere, n. 3) e, analogamente, che «l'ele

mento psicologico del reato di istigazione di militari a disobbedi

re alle leggi si concreta nella coscienza e volontà di commettere

l'azione istigatoria con l'intenzione di provocare i fatti oggetto

dell'istigazione, a nulla rilevando, però, i moventi che l'hanno

determinata» (Cass., sez. I, 22 gennaio 1979, Osterero, id., Rep.

1980, voce cit., n. 1). E poiché, come si è visto, lo Scuderi era

perfettamente cosciente di commettere un'azione di istigazione di

militari a disobbedire alle leggi e poiché a nulla rileverebbe la

sua eventuale convinzione della liceità della disobbedienza, non

si può revocare in dubbio la sussistenza del dolo del reato in esame.

Tutte le osservazioni svolte impongono la conferma della sen

tenza impugnata relativamente all'affermazione di responsabilità dello Scuderi.

Non v'è dubbio peraltro che ad eguale conclusione deve perve nirsi per la Pierattini. Erroneamente infatti si è sostenuto che

la predetta imputata avrebbe agito nell'ambito del diritto di cro

naca. A tale conclusione si sarebbe potuti pervenire soltanto se

il contenuto dell'intervento effettuato dallo Scuderi nella partico lare sede del comitato centrale del Partito marxista leninista ita

liano fosse stato riportato nell'ambito di un resoconto del relativo

dibattito. In sostanza si sarebbe svolto diritto di cronaca se sul

giornale, nel riportare riassuntivamente i temi trattati dai vari

intervenuti durante il comitato centrale, si fosse detto che vi era

stato un intervento dello Scuderi, che lo stesso aveva parlato del

l'ingiustizia e dei rischi di un'eventuale azione di guerra contro

la Libia ed aveva anche pronunziato alcune frasi con le quali

si invitavano i militari, in caso di guerra, a disertare. Così facen

do il giornale avrebbe fatto la cronaca del dibattito ed avrebbe

lasciato al solo Scuderi la responsabilità delle sue affermazioni.

Nel caso che ci occupa, invece, la comunicazione dello Scuderi

è stata riportata integralmente e con grande rilievo tipografico

(si vedano i titoli sulla prima e sull'ultima pagina), in maniera

tale che la stessa si è trasformata in un vero e proprio articolo

il cui contenuto appariva rispecchiare le idee di tutti i responsabi

li del giornale e dello stesso partito del quale quel settimanale

era l'organo ufficiale. Deve escludersi quindi che la Pierattini Po

li possa essere assolta per avere agito nell'ambito del diritto di

cronaca.

Nell'interesse di entrambi gli imputati si è chiesta poi la con

cessione dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 1, c.p., sostenendosi

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PARTE SECONDA

che gli stessi certamente avevano agito per motivi di elevatissimo

e nobilissimo valore morale e sociale, in quanto spinti dalla preoc

cupazione di difendere la pace e la solidarietà tra i popoli. Va osservato subito che la richiesta sopra indicata, quanto alla

Pierattini, contrasta ed è inconciliabile con la linea difensiva del

la predetta imputata, cioè con l'affermazione che non aveva letto

10 scritto in questione, linea difensiva alla quale i primi giudici hanno dato pieno credito ravvisando l'ipotesi colposa prevista dal

l'art. 57 c.p.

Riguardo allo Scuderi poi la corte ritiene che debba escludersi

che lo stesso possa usufruire dell'attenuante in questione. A ben

vedere il discorso dello Scuderi, cosi come si è potuto cogliere anche all'odierna udienza, non è stato e non è dettato da un'idea

universale di pace tra tutti i popoli della terra, ma è stato ed

è un discorso eminentemente di parte. Nessun accenno è stato

fatto in ordine ai gravissimi crimini che si addebitavano ai paesi stranieri la cui sovranità e la cui indipendenza lo Scuderi col suo

scritto diceva di voler difendere. Nessun'accenno ad esempio, al

la strage compiuta all'aeroporto di Fiumicino, alla morte di mol

te persone innocenti, tra cui anche bambini.

E, quanto all'unica reale azione di guerra nella quale lo Stato

italiano era stato coinvolto, ma non come aggressore bensì come

aggredito, cioè al lancio da parte della Libia di due missili contro

l'isola di Lampedusa, ci si limita a dire che gli stessi erano andati

a vuoto e non aveva causato alcun danno alle persone e alle cose, dimenticando che certamente i missili erano stati lanciati con l'in

tenzione di cagionare danni a persone e cose. Se lo Scuderi fosse

stato spinto da nobili ideali, come da lui affermato, il suo discor

so avrebbe dovuto portarlo a condannare tutti gli atti di guerra e non soltanto a lanciare anatemi contro ipotetiche azioni di guerra da parte dell'Italia nei confronti di alcuni paesi arabi, minimiz

zando invece le reali azioni di guerra poste in essere proprio con

tro il nostro territorio da uno di tali paesi. Come si è detto, quindi, 11 discorso dello Scuderi è fazioso e di parte, sicché allo stesso

non può riconoscersi l'attenuante invocata.

In ultimo va detto che non può ulteriormente ridursi la pena alla Pierattini, essendosi i primi giudici basati su una pena al

minimo edittale ed essendo state apportate le massime riduzioni

di legge per effetto degli art. 62 bis e 57 c.p., e che non può concedersi allo Scuderi la sospensione condizionale dell'esecuzio

ne della pena avuto riguardo ai suoi precedenti (ha avuto già concesso due volte tale beneficio, che gli è stato peraltro revocato

a seguito di una terza sentenza di condanna). In definitiva la sentenza di primo grado deve essere integral

mente confermata e gli imputati in solido devono rispondere del

le spese del giudizio di appello. Ai sensi degli art. 6 ss. d.p.r. 865/86 va dichiarata interamente

condonata la pena inflitta allo Scuderi.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 27 gen naio 1988; Pres. Battimelli, Est. Postiglione, P.M. Vitale

(conci, conf.); ric. Scaramuzzi e Fiala. Conferma Pret. Firenze 15 maggio 1987.

Impiegato dello Stato e pubblico — Igiene e sicurezza del lavoro — Dipendenti pubblici — Applicabilità — Fattispecie (D.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, norme generali per l'igiene del lavoro, art. 6, 9, 58).

Si applicano anche ai dipendenti pubblici le norme dettate in te ma di igiene sul lavoro nelle aziende industriali e commerciali o nelle aziende agricole, purché le caratterstiche oggettive e strut

turali degli ambienti di lavoro rientrino nelle ipotesi previste dalla legge (nella specie, altezza dei locali e numero dei dipen denti impegnati). (1)

(1) La sentenza in epigrafe costituisce una novità nell'ambito dell'ap plicazione delle norme in tema dì igiene del lavoro. Si riconosce, infatti, la portata generale, sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo, del d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, in quanto l'indagine testuale sugli art. 1 e 2 per

ii. Foro Italiano — 1989.

Svolgimento del processo. — Il Pretore di Firenze, con senten

za in data 15 maggio 1987, dichiarava Scaramuzzi Franco, retto

re dell'università degli studi di Firenze e Fialà Giuseppe, preposto al servizio tecnico della stessa università, responsabili entrambi

del reato di cui agli art. 6-58, lett. a), d.p.r. 19 marzo 1956 n.

303 per avere adibito a lavorazioni locali insalubri, costituiti da

un deposito per biblioteca e, il primo, anche del reato di cui agli art. 9, 58, lett. a), stessa legge per non avere provveduto a rimuo

vere con mezzi idonei l'aria del locale adibito a «pozzo» librario

e condannava il primo al pagamento di lire 1.200.000 di ammen

da e il secondo alla somma di lire 1.000.000 di ammenda, oltre

al risercimento a favore delle parti civili, liquidate equitativamen te in lire 1.000.000. Concedeva per entrambi gli imputati i benefi

ci di legge. Lo stesso pretore applicava, invece, l'amnistia in relazione a

tre contravvenzioni consistenti: a) nella omessa comunicazione al

l'ispettorato del lavoro della detenzione di rilevatori automatici

di incendio a camere di ionizzazione detenuti presso l'università;

b) nella detenzione degli stessi rilevatori automatici senza previo nulla-osta del dipartimento sicurezza sociale; c) nella omessa ri

chiesta del certificato prevenzione incendi al comando provinciale

vigili del fuoco. Avverso questa sentenza propongono ricorso per cassazione en

trambi gli imputati, deducendo con i primi due motivi l'erronea

applicazione della amnistia in relazione a tre contravvenzioni (a,

b, c), sussistendo prove evidenti di innocenza ex art. 152 c.p.p.; erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta

responsabilità penale per le contravvenzioni indicate ai capi F e G.

Deducono i ricorrenti che mancavano i presupposti per l'appli cazione degli art. 6-58 d.p.r. n. 303 del 1956, poiché un deposito librario non può essere assimilato ad una azienda industriale, te

nuto anche conto che il locale non era destinato abitualmente

al lavoro e che in esso operavano saltuariamente non più di due

operai. Osservano che il luogo (pozzo librario) era sufficiente

mente areato e che gli imputati si attivarono per migliorare la

situazione, non potendo chiudere la biblioteca, paralizzando due

facoltà universitarie (giurisprudenza e scienze politiche) nell'eser

cizio delle normali attività (tesi di laurea, seminari, ricerca scien

tifica, ecc.). Motivi della decisione. — Ritiene la corte che i ricorsi proposti

dagli imputati siano privi di fondamento e, di conseguenza, deb

bano essere rigettati. In ordine ai primi due motivi di ricorso, si osserva che nel

giudizio di cassazione non è consentito il proscioglimento in me

rito se la prova della innocenza non risulta in modo evidente dal

la stessa sentenza impugnata.

mette di ritenere attività soggette alle disposizioni del decreto anche quel le dei dipendenti pubblici, dato che è lo stesso decreto ad indicare esplici tamente le attività escluse. Il fatto che l'art. 6 d.p.r. cit. si riferisca ad aziende industriali è ritenuto elemento non determinante ed anzi la Cas sazione ha affermato che è opportuno e necessario applicare agli enti

pubblici una disciplina almeno uguale a quella dettata in tema di igiene per il rapporto di lavoro privato.

Non si riscontrano precedenti in tal senso, anche se altre volte la Su

prema corte ha evidenziato la portata generale del decreto in questione e di tutta la legislazione di prevenzione degli infortuni sul lavoro, ma, a differenza del caso in epigrafe, la «estensione» è in genere avvenuta sulla base del concetto di lavoro subordinato. Infatti il legislatore ha vo lutamente parlato di lavoratore subordinato in genere e di datore di lavo ro e non di imprenditore. A tal proposito, v. Cass. 9 maggio 1985, Corallo, Foro it., 1986, II, 667; 23 giugno 1980, Trojer, id., Rep. 1981, voce Lavoro (rapporto), n. 1356; 6 dicembre 1961, Montanaro, id., Rep. 1963, voce cit., n. 791.

Per quanto riguarda gli art. 6 e 9 d.p.r. 303/56, contenenti disposizioni circa le caratteristiche strutturali degli ambienti di lavoro e che l'organo giudicante ha ritenuto violati, i problemi che si possono evidenziare ri

guardano l'altezza minima del luogo di lavoro (pozzo librario), reputata insufficiente, ed il concetto di «locale chiuso».

In relazione al problema dell'altezza e della sua misurazione non si riscontrano fattispecie analoghe a quella descritta nella sentenza in epi grafe; per riferimenti, v. Cass. 12 febbraio 1971, Pratesi, id., Rep. 1971, voce cit., n. 503, sulla efficacia imperativa dell'art. 6.

Per quanto riguarda la definizione di «locale chiuso», v. Cass. 5 di cembre 1968, Borghese e 24 marzo 1969, Curto, id., Rep. 1969, voce cit., nn. 830, 831. In dottrina, v. Platé, Alcune annotazioni circa il con cetto di locate chiuso e di locate seminterrato, in Riv. giur. lav., 1984, IV, 395.

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