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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione I penale; sentenza 15 luglio 1988; Pres. Molinari,...

Date post: 27-Jan-2017
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sezione I penale; sentenza 15 luglio 1988; Pres. Molinari, Est. Pompa, P.M. Delli Paoli (concl. conf.); ric. Coniglio. Conferma Corte mil. appello Napoli 18 dicembre 1987 Source: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp. 185/186-187/188 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23183594 . Accessed: 28/06/2014 08:42 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 193.142.30.178 on Sat, 28 Jun 2014 08:42:22 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione I penale; sentenza 15 luglio 1988; Pres. Molinari, Est. Pompa, P.M. Delli Paoli (concl.conf.); ric. Coniglio. Conferma Corte mil. appello Napoli 18 dicembre 1987Source: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp.185/186-187/188Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183594 .

Accessed: 28/06/2014 08:42

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GIURISPRUDENZA PENALE

183 bis c.p.c che (anche prima della modifica espansiva ad esso

apportata con la recente 1. 23 gennaio 1989 n. 22) esplicitamente

prevedeva che «le parti possono essere restituite in un termine

stabilito a pena di decadenza, se provano di non aver potuto os

servarlo per caso fortuito o per forza maggiore». Ora — qualunque sia il significato che si ritenga di attribuire

ai due menzionati termini isolatamente considerati — è certo che

il legislatore del 1955, affiancando il caso fortuito alla forza mag

giore, ha voluto render chiaro il suo intento di ricomprendere come fonti di restituzione tutte le situazioni in cui la perdita del

termine venga ad essere determinata da una causa estranea al

soggetto interessato al rispetto del termine.

In tale senso infatti si è espressa, oltre alla più autorevole dot

trina, questa stessa corte con le sentenze 7 maggio 1956 e 15 feb

braio 1957, De Vincenzi (id., Rep. 1957, voce Termini processua li penali, n. 42).

Né può sostenersi che, disponendo l'ultimo comma del citato

art. 183 bis che «in caso di condanna la restituzione può essere

conceduta soltanto per proporre l'impugnazione», l'istituto me

desimo dovrebbe trovare applicazione per il solo caso di mancata

impugnazione e non già — come nella specie — per il caso di

mancata notifica dell'impugnazione ritualmente presentata in can

celleria, trattandosi di argomentazione che, ad avviso di questa

corte, si presenta priva di fondamento ove si consideri che a nor

ma del sopracitato art. 95 c.p.p. l'impugnazione della parte civile

diventa efficace solo con l'effettuazione dell'ultima notificazione.

Ora, nel caso in esame, è pacifico e documentato in processo

che, nel termine di decadenza di dieci giorni fissato dal 2° com

ma del citato art. 183 bis, nessuna istanza di restituzione in ter

mini venne avanzata al Tribunale di Bologna; per cui l'adito giu dice di secondo grado non poteva fare altro che dichiarare l'i

nammissibilità del proposto gravame. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato ed il ricorrente con

dannato conseguentemente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di lire 200 mila alla cassa delle

ammende.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I penale; sentenza 15 luglio

1988; Pres. Molinaiu, Est. Pompa, P.M. Delli Paoli (conci,

conf.); ric. Coniglio. Conferma Corte mil. appello Napoli 18

dicembre 1987.

Insubordinazione, rivolta, ammutinamento e disobbedienza — Di

sobbedienza — Reato — Fattispecie (Cod. pen. mil. pace, art.

173).

L'obiettore di coscienza in stato di custodia cautelare, che rifiuti di indossare l'uniforme senza stellette, commette un fatto che

non rimane assorbito nell'originario rifiuto del servizio milita

re, ma assume autonoma rilevanza penalistica risultando ricon

ducibile al parametro dell'art. 173 c.p. mil. pace che prevede e punisce il reato di disobbedienza. (1)

(1) Un obiettore di coscienza in stato di custodia cautelare si era rifiu tato di indossare l'uniforme senza stellette prevista per i militari detenuti, commettendo cosi il reato di disobbedienza. In primo grado (Trib. mil. Palermo 30 settembre 1987, inedita) egli era stato assolto da tale imputa zione «perché il fatto non costituisce reato»; su impugnazione del pubbli co ministero, la Corte militare di appello, sezione distaccata in Napoli, con sentenza 18 dicembre 1987 (Rass. giust. mil., 1987, 135) aveva invece

affermato la responsabilità dell'imputato. Su ricorso di quest'ultimo, la

pronunzia che si riporta ha concluso la vicenda processuale. La decisione contrasta il metro eccessivamente (e immotivatamente) be

nevolo con cui una tendenza giurisprudenziale vorrebbe misurare i reati

commessi, durante la custodia cautelare o l'espiazione della pena, dagli obiettori di coscienza. Tali reati non sarebbero altro che manifestazioni

dell'originario rifiuto del servizio militare, e, pertanto, dovrebbero rite

nersi assorbiti in esso come postfatti non punibili. Simile tendenza, già ampiamente criticata (si veda R. Messina, Una

pronunzia 'figurata' in tema di obiezione di coscienza, nota a Trib. mil.

Roma 26 maggio 1987, ibid., 402 ss.; questa sentenza è stata riformata

da Corte mil. appello 14 ottobre 1987, ibid., 543 ss.), e che non riesce

Il Foro Italiano — 1990.

Fatto e diritto. — Il 30 settembre 1987 il Tribunale militare

di Palermo dichiarava Coniglio Giuseppe colpevole del reato di

rifiuto del servizio militare di leva, di cui all'art. 8 1. 15 dicembre

1972 n. 772 (capo b delle imputazioni), perché, tra il 1° e il 10

marzo 1987, aveva rifiutato, prima di assumerlo, il detto servi

zio, adducendo imprescindibili motivi di coscienza basati su pro fondi convincimenti filosofici; e, ritenuto assorbiti in tale reato

quelli di mancanza alla chiamata e di disobbedienza (rifiuto di

indossare l'uniforme) di cui ai capi a) e d) delle imputazioni, con

la concessione delle attenuanti, di cui agli art. 62 bis c.p. e 48, n. 2, c.p. mil. pace, lo condannava alla pena di un anno e due

mesi di reclusione militare per uguale durata ex art. 27 c.p. mil.

pace. Lo stesso tribunale assolveva il medesimo imputato dai rea

ti di disobbedienza e di insubordinazione, di cui ai capi c) ed e) della rubrica con la formula perché il fatto non costituisce reato.

In punto di fatto il Coniglio, chiamato alle armi di leva con

cartolina di precetto (per l'incorporamento nel 60° battaglione fanteria in Trapani) I'll marzo 1987, non si presentava, rimanen

do assente, senza giusto motivo, fino al 26 agosto 1987, data

in cui veniva arrestato in Catania.

Al Coniglio era stata, appunto, inviata la cartolina di precetto con notifica in data 25 febbraio 1987, ma costui, tra il 1° ed

il 10 marzo 1987, aveva fatto pervenire al distretto militare, al

ministro della difesa ed al 60° battaglione fanteria, una lettera

con la quale dichiarava di rifiutare il servizio militare ed i servizi

a questo alternativi, in quanto anarchico.

Con foglio 3 settembre 1987 il comandante della sezione carce

re giudiziario militare di Palermo aveva riferito alla procura mili

tare della repubblica che il giorno precedente il Coniglio si era

rifiutato di obbedire all'ordine di effettuare le pulizie, nella cella

di isolamento da lui occupata, impartitogli dal serg. magg. Mas

simino Salvatore, affermando che il sottufficiale non poteva dar

gli ordini militari, ma poi, avuto spiegazione che doveva pulire la detta cella perché detenuto, lo aveva fatto. Più tardi egli si

era rifiutato di indossare l'uniforme priva di stellette. Successiva

mente, nello stesso giorno, il Coniglio, ristretto nella cella di iso

lamento, aveva chiesto di telegrafare al suo avvocato, ma gli era

stato detto che non era possibile; a seguito di che, con modi arro

ganti ed a voce alta, aveva affermato che ne avrebbe informato

i giornali. Il Coniglio aveva ammesso i fatti, assumendo che in un primo

momento si era rifiutato di pulire la cella perché egli era molto

debole per lo sciopero della fame che conduceva, precisando che

non gli era stato dato formalmente l'ordine di indossare l'unifor

me e che non aveva offeso il prestigio del serg. magg. Massimino.

Su appello del pubblico ministero e del difensore, la corte mili

tare di appello, con sentenza in data 18 dicembre 1987, in parzia le riforma dichiarava il Coniglio anche colpevole del reato di di

sobbedienza di cui alla lettera d) della rubrica e, ritenuta la conti

nuazione del medesimo reato con quello di rifiuto del servizio

militare di leva, di cui alla lettera b), lo condannava alla pena

aggiuntiva di mesi due di reclusione e, quindi, in totale, a quella di un anno e quattro mesi di reclusione; assolveva il medesimo

imputato dal reato di «insubordinazione» per insufficienza di prove e confermava nel resto la decisione impugnata.

Hanno proposto ricorso per cassazione l'imputato e i suoi due

difensori; deducendo con separati motivi: la violazione di legge,

per avere i giudici di merito erroneamente ritenuto la sussistenza

del reato di disobbedienza nell'atto di rifiuto di indossare l'uni

forme, che sarebbe attività conseguenziale e integrativa del reato

di cui all'art. 8 1. n. 772 del 1972; vizi di motivazione, con travi

samento del fatto, in ordine alla ritenuta sussistenza del rifiuto

di indossare l'uniforme, pur in mancanza di un relativo ordine

formalmente impartitogli; violazione di legge per avere la corte

di merito applicato la diminuzione di pena, come conseguenza della riconosciuta attenuante di cui all'art. 48, n. 2, c.p. mil. pa

ce, in misura inferiore al massimo previsto. Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto. Invero, quanto

al primo motivo dell'impugnazione, i giudici di merito hanno cor

rettamente e con motivazione adeguata escluso l'ipotesi dell'as

a proporre solidi argomenti giuridici, risulta inaccettabile anche perché discrimina in modo stridente gli obiettori dai cittadini in 'normale' servi

zio militare, per i quali, in ordine ai reati commessi durante la custodia cautelare o l'espiazione della pena, non è pensabile alcun assorbimento

delittuoso. [R. Messina]

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PARTE SECONDA

sorbimento in questione, sulla base dell'esatta considerazione che

il Coniglio — il quale non s'era affatto dichiarato contrario all'u

so personale delle armi in senso assoluto e globale — aveva or

mai acquisito uno status di militare in virtù di legge, per cui era

tenuto all'osservanza dei doveri propri di tale status, ed aveva

violato, cosi, un precetto esclusivamente militare anche in rela

zione all'art. 8, 2° comma, 1. 772/72 (che riguarda, appunto, il caso di un arruolato chiamato alle armi che rifiuta il servizio

per ragioni di obiezione di coscienza adducendo i motivi di cui

all'art. 1 stessa legge, fuori dei casi di ammissione ai benefici

previsti per gli obiettori legalmente riconosciuti), nonché sul rilie

vo che — come sostenuto dal pubblico ministro appellante —

la disobbedienza all'ordine di indossare l'uniforme senza le stel

lette, nel corso della detenzione cautelare, non costituisce una

pura e semplice estrinsecazione del rifiuto globale del servizio mi

litare, ma un fatto autonomo e successivo nella sua determinazio

ne e nella sua realizzazione, integrante per se stesso gli estremi

del reato di cui all'art. 173 c.p. mil. pace. Ed infatti, il rifiuto del «militare» arruolato, che si trovi in

custodia cautelare in carcere, di indossare l'uniforme militare senza

stellette, anche nell'ipotesi di cui all'art. 8, 2° comma, 1. n. 772

del 1972, rileva autonomamente quale oggetto, per se stesso, di

un «ordine» dal superiore militare», particolarmente e specifica

mente, intimato all'«inferiore militare», attenendo un siffatto or

dine ad un dato che viene a riguardare la «disciplina militare».

Trattasi, quindi, di fatti diversi e autonomi, anche se consuma

ti per uno stesso motivo dall'agente. Il secondo motivo è chiaramente e conclusivamente resistito dal

rilievo che i giudici di merito di secondo grado hanno accertato

il fatto della disobbedienza di cui al capo d) della rubrica (allo stesso modo in cui lo avevano ritenuto sussistente i giudici di

primo grado, senza che sul punto fosse interposto appello da par te dell'imputato; pur se i predetti giudici, proprio in conseguenza di tale accertamento, lo avevano ritenuto assorbito nel rifiuto c.d.

«globale» del servizio militare di leva) escludendo, con motiva

zione adeguata e immune da vizi logico-giuridici, la dedotta man

canza dei presupposti del reato in questione.

Peraltro, le manifestazioni di volontà del superiore, attinenti

al servizio e alla disciplina, quando escludono per loro stessa na

tura, com'è nella fattispecie, qualsiasi diversa libertà di compor tamento da parte dell'inferiore, devono essere considerati ordini, a nulla rilevando la forma più o meno autoritaria usata dal supe

riore, poiché in ogni caso l'ordine del superiore è indiscutibile.

Anche il terzo e ultimo motivo è destituito di fondamento.

Il ricorrente in sostanza si duole della mancata riduzione della

pena nella misura massima consentita dall'art. 48, n. 2, c.p. mil.

pace.

Questa corte, aderendo al principio della compatibilità di tale

attenuante con la mancanza alla chiamata o con il rifiuto di pre stare servizio di leva ex art. 8, 2° comma, 1. n. 772 del 1972, ritiene che la diminuzione non vada rapportata rigidamente —

come sostiene il ricorrente — al rapporto di durata del tempo del non compiuto servizio di trenta giorni previsto dalla predetta norma.

Invero, quando, ricorrendo una circostanza attenuante, la cor

relativa diminuzione della pena non è specificamente determinata

dalla legge, la pena della reclusione militare è diminuita, a norma

dell'art. 51, n. 4, c.p. mil. pace, in misura non eccedente un ter

zo; entro tale limite compete al giudice di merito determinare

in concreto l'effettiva misura della diminuzione, senza che sia

necessario un ulteriore riferimento a specifici elementi, nella fat

tispecie già valutati nel concedere l'attenuante suddetta; e ciò so

prattutto quando — come nel caso in esame — la diminuzione

della pena, per la predetta attenuante, viene quantificata con ri

guardo alla misura in cui la condotta descritta dalla norma pena le può essere stata influenzata dalla stessa circostanza attenuante

(nella specie, ritenuta in misura minima).

Il Foro Italiano — 1990.

TRIBUNALE DI VERCELLI; ordinanza 3 gennaio 1990; Pres.

Zeoli, Rei. Vignerà; Corti ed altro.

TRIBUNALE DI VERCELLI;

Misure cautelari personali — Impugnazione — Inammissibilità — Fattispecie (Cod. proc. pen. del 1988, art. 310; norme att., coord, e trans, cod. proc. pen. del 1988, art. 91).

È inammissibile l'impugnazione, ex art. 310 c.p.p. del 1988, di

provvedimenti in materia di misure cautelari personali propo sta quando il giudizio direttissimo si sia concluso ed il processo sia pervenuto alla fase post-dibattimentale. (1)

1. - Con ordinanza 13 dicembre 1989 il Pretore di Vercelli con

validava l'arresto in flagranza di Corti Roberto e Piras Marco

(eseguito da agenti della questura di Vercelli in ordine al reato

di furto aggravato e, per il Piras, anche di contravvenzione al

foglio di via obbligatorio), rigettava la richiesta del p.m. di appli care ai predetti la misura della custodia in carcere e disponeva

(ex art. 566, 6° comma, c.p.p.) di procedersi immediatamente

al giudizio, definito a sua volta lo stesso giorno con sentenza

di condanna degli imputati. Con atto depositato in data 15 dicembre 1989 il procuratore

(1) Il provvedimento sembra, a prima vista, ribadire un principio già affermato dalle sezioni unite della Suprema corte in relazione all'art. 505 del codice previgente, riguardante il giudizio direttissimo pretorile (cfr. sent. 21 novembre 1987, Martella, Foro it., 1989, II, 1, con nota di ri

chiami). Al riguardo, si osserva in motivazione che la nuova disciplina degli

istituti del riesame e dell'appello de libertate è perfettamente in linea con

gli analoghi istituti del codice Rocco. Pertanto, nonostante la genericità, sul punto, della formulazione normativa dell'art. 310 del nuovo codice, sarebbe inconcepibile un'impugnazione di provvedimenti in materia di misure cautelari personali, allorché il giudizio sia già pervenuto alla fase

post-dibattimentale. Una diversa soluzione comporterebbe, si sostiene in

motivazione, un'inammissibile invasione, da parte del tribunale della li

bertà, della sfera di competenze esclusivamente riservata al giudice d'ap

pello, con la conseguenza paradossale che il tribunale della libertà po trebbe essere chiamato a pronunciarsi anche su provvedimenti emessi da

organi di pari grado o, addirittura, sovraordinati.

Sembra, però, doveroso rilevare le differenze che intercorrono tra il

caso di specie e quello di cui alla pronuncia citata delle sezioni unite. Ed invero, uno dei principali argomenti, sui quali si fondava la suddetta

sentenza, derivava dall'osservazione che, essendo la convalida dell'arresto una condizione essenziale per l'instaurazione del c.d. giudizio direttissimo

pretorile, introdotto dalla 1. 27 luglio 1984 n. 397, la procedura di conva lida dell'arresto e le modalità del successivo iter processuale erano cosi strettamente correlate che doveva ritenersi inconcepibile un controllo del

decreto di convalida attraverso la procedura di riesame, allorché, perve nuto il processo alla fase post-dibattimentale, poteva essere chiamato a

pronunciarsi il giudice di secondo grado, al quale spettava ogni controllo,

compreso quello inerente allo status libertatis dell'imputato. Per converso, nel caso di specie, è oggetto dell'impugnazione non tan

to il decreto di convalida dell'arresto, quanto il rigetto della richiesta del p.m. della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere.

Ebbene, secondo l'opinione della dottrina, che per prima si è occupata della questione, non v'è alcuna relazione necessaria tra applicazione della misura cautelare ed instaurazione del giudizio direttissimo (cfr. Dubolino

Baglione-Bartolini, Il nuovo codice di procedura penale, Piacenza, 1989, 764 s.). Secondo siffatta impostazione, la condizione, imprescindibile per procedere col rito direttissimo, del mantenimento in vinculis dell'arresta to sarebbe garantita dalla stessa convalida, che, però, una volta emessa l'eventuale sentenza di condanna, non costituirebbe più titolo per il pro trarsi della custodia cautelare. Quest'ultima potrebbe invece essere man tenuta soltanto in forza di un provvedimento di applicazione della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere.

In definitiva, se il giudizio di convalida dell'arresto è certamente inti mamente connesso al giudizio direttissimo, analoga correlazione non sa rebbe ravvisabile tra il provvedimento relativo alle misure cautelari coer citive ed il successivo iter processuale (nel senso, però, che il provvedi mento in materia di misure cautelari andrebbe pronunciato non prima ma all'esito del giudizio, cfr. ancora Dubolino-Baglione-Bartolini, op. cit., 765).

Quanto, infine, alle paradossali conseguenze del tenore letterale degli art. 309 e 310, cfr. Cordero, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1990, 354, ove si accenna ad una competenza del tribunale della libertà non soltanto in materia di riesame ed appello dei provvedimenti de libertate emessi da una corte d'appello, ma addirittura di quelli emessi dalla Cassazione (ipotesi, quest'ultima, ritenuta inconfigurabile da

Dubolino-Baglione-Bartolini, op. cit., 570). Non è da escludere, pertanto, che si riveli necessario un intervento nor

mativo del governo nell'ambito del potere correttivo conferitogli dalla

delega parlamentare. [A. Ingroia]

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