Sezione I penale; sentenza 23 gennaio 1979; Pres. Vigorita, Est. Bertoni, P. M. Severino (concl.diff.); ric. Paolozzi. Conferma App. Roma 4 aprile 1977Source: Il Foro Italiano, Vol. 103, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1980), pp.247/248-249/250Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23171574 .
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PARTE SECONDA
libertà provvisoria ai minori degli anni diciotto, si deve tener conto che la legge n. 152 del 1975 si inserisce in un ordinamento
che, sotto molti aspetti, nettamente diversifica la posizione dei minori da quella dei maggiorenni, per ciò che riguarda l'appli cazione di misure restrittive della libertà personale e in partico lare di quelle cautelari.
In questo senso, occorre anzitutto rilevare che l'istituto del
perdono giudiziale è previsto soltanto per i minori (art. 169 cod.
pen.); che rispetto ad essi è consentita la sospensione condizio nale di pene notevolmente superiori a quelle per le quali il be neficio è applicabile riguardo ai maggiorenni (art. 163 cod. pen.); che infine la liberazione condizionale dei minori condannati è
ammessa, a differenza di quanto avviene per i maggiorenni, in
qualunque momento dell'esecuzione e qualunque sia la durata della pena inflitta (art. 21 r. d. 1. 20 luglio 1934 n. 1404).
In questo modo, la legge, apprestando per i minori una gam ma di misure alternative alla detenzione, sia pure di natura « de menziale », certamente più ampia di quella prevista per i mag giorenni, mostra chiaramente l'interesse a favorire rispetto ai minori l'impiego di strumenti che possano consentirne, meglio della detenzione, il recupero e il reinserimento sociale. Ed è evi dente come si tratti di un dato che assume, in relazione al pro blema che interessa, rilevante significato; ciò in quanto gli isti tuti prima menzionati e in particolare il perdono giudiziale e la
sospensione condizionale della pena possono essere applicati ai
minorenni, tenuto conto dell'obbligatoria diminuzione di pena conseguente alla diminuente della minore età, con riguardo a molti dei reati per cui l'art. 1 legge n. 152/1975 vieta la libertà
provvisoria (come ad esempio sono quelli concernenti le armi da guerra, quelli di rapina e estorsione aggravata e quelli di cui
agli art. 306, 431 e 432 cod. penale).
D'altra parte, con più specifica attinenza al tema della carce razione preventiva, bisogna anche considerare che l'unica circo stanza attenuante di cui si possa tener conto, per il computo della pena, ai fini dell'applicazione delle misure cautelari, è
quella dell'età (art. 255 cod. proc. pen.); che anche quando si tratti di un reato per cui sia obbligatoria la cattura, il giudice ha sempre la facoltà di sostituire al mandato di cattura il rico vero del minore in un riformatorio giudiziario (art. 246 e 257 cod. proc. pen.); e che infine il giudice è tenuto a procedere agli esami e agli accertamenti necessari per l'individuazione delle mi sure più idonee al riadattamento sociale dei minori sottoposti a detenzione preventiva (art. 8 r. d. 1. n. 1404 del 1934).
Tutte queste norme evidentemente dimostrano come la legge consideri con sfavore la carcerazione preventiva dei minori, ri
spetto a quella dei maggiorenni, e peraltro confermano, nel loro coordinamento con le altre prima menzionate, come la legislazione sostanziale e processuale sia volta nel suo complesso a favorire, attraverso istituti e servizi diversi dalla detenzione, il recupero e il reinserimento sociale dei minori e come quindi nei confronti del minore debba ritenersi residuale l'internamento nei riforma tori e soprattutto nelle carceri (cosi come ha sottolineato la Corte costituzionale nella sua sentenza).
Questa tendenza, come si è visto, già presente da tempo nell'ordinamento, ebbe la sua completa e naturale conclusione nella legge prima citata n. 773 del 1972 che, permettendo in ogni caso la concessione della libertà provvisoria, finiva anche con l'accordare al giudice la facoltà di provvedere, nei modi concre tamente più adeguati, alle esigenze di recupero dei minori im
putati dei più gravi reati, per i quali era in precedenza vietata la libertà provvisoria.
Pertanto, in presenza di una cosi' chiara caratterizzazione e evoluzione dell'ordinamento per quanto attiene alla carcerazione
preventiva degli imputati minori, deve escludersi, data la man canza nell'art. 1 legge n. 152 del 1975 di ogni contraria indica zione letterale, abbia inteso ripudiare quello che rispetto ai mi
nori, per un naturale e logico sviluppo della legislazione, era ormai diventato un principio-cardine dell'ordinamento, e abbia
quindi voluto ripristinare per i minori il divieto, in determinati
casi, della libertà provvisoria.
In effetti, come mette efficacemente in evidenza il procuratore
generale presso questa corte nella sua requisitoria, la legge n. 152 del 1975, nella parte relativa all'istituto della libertà provvi soria, ha finalità molto limitate, dirette a garantire in forme più efficaci l'ordine pubblico, secondo necessità ritenute contingenti e provvisorie, e quindi a reprimere le manifestazioni della cri
minalità che presentino le connotazioni più allarmanti e che per loro natura perciò non possono essere se non quelle riconducibili
all'attività delittuosa di persone maggiorenni minori degli anni diciotto.
Appare dunque chiaro da quanto si è detto che la disposizione dell'art. 1 legge n. 152 del 1975, contrariamente a quanto un ap proccio alla sola lettera del testo normativo potrebbe far rite
nere, ha in effetti, per le ragioni che la ispirano e la giustifica no e per i caratteri del sistema in cui si inserisce, una portata più limitata di quella apparente, come tale circoscritta ai soli reati che risultino commessi da maggiorenni e non da minori
degli anni diciotto. '
Una diversa soluzione del resto sarebbe certamente in contra
sto, cosi come ha rilevato la Corte costituzionale nella sentenza
più volte richiamata, con gli art. 3 e 31, 2° comma, Cost., in
quanto, da una parte, l'aprioristica equiparazione di situazioni
profondamente eterogenee, quali sono quelle di imputati maggio renni e minorenni, comporterebbe una violazione del principio di eguaglianza e, dall'altra parte, l'obbligatorietà della custodia
preventiva per determinati reati non si conformerebbe con il
principio espresso dell'art. 31, 2° comma, Cost., laddove stabili sce che la Repubblica « protegge ... la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo », e quindi anche promuovendo una
legislazione volta al recupero dei minori imputati o condannati.
Le considerazioni ora accennate costituiscono pertanto un'ul
teriore, anche se certo non ultima ragione a sostegno di una so
luzione diretta a interpretare in senso restrittivo l'art. 1 legge n.
152 del 1975, posto che il giudice, tra le varie interpretazioni
possibili di una norma ordinaria, deve sempre scegliere (come bene rileva il procuratore generale presso questa corte) quella che
si adegui ai precetti della Costituzione.
In conclusione, deve perciò ritenersi che l'art. 1, 1° e 2° com
ma, legge n. 152 del 1975, nella parte in cui vieta la concessione
della libertà provvisoria, per determinati reati e in relazione a
determinate fattispecie processuali, è operante soltanto nei con
fronti degli imputati maggiori degli anni diciotto, e non anche
degli imputati minori, per i quali invece resta tuttora in vigore la norma di cui all'art. 2 legge 15 dicembre 1972 n. 773, con la
conseguente possibilità di concessione della libertà provvisoria anche nei casi contemplati nell'art. 1 legge del 1975.
Esattamente pertanto il tribunale ha ritenuto che la legge non
vietasse la concessione della libertà provvisoria al Tiozzo e al
Digati minori degli anni diciotto all'epoca dei fatti e che non
fosse quindi necessario procedere all'esame delle loro condizioni
di salute, in riferimento alla particolare ipotesi prevista dall'ulti
ma parte dell'art. 1 legge n. 152 del 1975.
Nel resto, la motivazione adottata sfugge ad ogni censura, in
questa sede, apparendo adeguatamente articolata in rapporto a
tutti gli ordinari criteri, che, in tema di libertà provvisoria, il giu dice deve assumere in ponderata considerazione.
In pendenza del ricorso, peraltro, il Tiozzo è stato assolto dal
reato ascrittogli, e nei suoi confronti quindi il ricorso del p. m.
deve essere dichiarato inammissibile, per sopravvenuto difetto di
interesse, mentre deve essere rigettato nei confronti del Digati. Per questi motivi, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I penale; sentenza 23 gen naio 1979; Pres. Vigorita, Est. Bertoni, P. M. Severino (conci, diff.); ric. Paolozzi. Conferma App. Roma 4 aprile 1977.
Istigazione a delinquere o a disobbedire e apologia di reato o sovversiva — Apologia di reato — Fatto commesso col mezzo della stampa — Sussistenza — Fattispecie (Cod. pen., art. 57,
414).
L'apologia di reato si concretizza in un pubblico e convinto elo
gio di un fatto delittuoso indicandolo quale esempio o modello da imitare ed in una condotta idonea a provocare, con ragio nevole possibilità, la commissione di delitti; i detti elementi sono ravvisabili nella pubblicazione di articoli che elogiano ed indicano ad esempio specifici fatti criminosi. (1)
(1) Per la sufficienza della sola approvazione del fatto delittuoso per l'integrazione del reato di apologia, v. Cass. 11 marzo 1975, Raspadori, Foro it., Rep. 1976, voce Istigazione a delinquere o a disobbedire e apologia di reato o sovversiva, nn. 8-13; con riguardo al reato di istigazione a delinquere, v. Cass. 27 giugno 1978, id., Rep. 1978, voce cit., n. 4, per la quale il reato di istigazione a de linquere commesso a mezzo della stampa si perfeziona nel momento
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GIURISPRUDENZA PENALE
La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — Con sentenza
del 3 . giugno 1974, il Tribunale di Roma dichiarò colpevole Maria
Letizia Paolozzi del delitto di apologia di reato, commesso a
titolo di colpa, ai sensi degli art. 57 e 414, ult. comma, cod.
pen., condannandola quindi con le attenuanti generiche alla
pena di mesi dieci di reclusione; ciò perché la Paolozzi non
aveva impedito la pubblicazione sul giornale « Il potere operaio del lunedi », del quale era direttrice responsabile, di due articoli
in cui si faceva l'apologia del sequestro di un dirigente della
Siemens e di un attentato dinamitardo e di altri delitti, commessi
a Sulmona nel piazzale antistante la fabbrica « Adriatica compo nenti elettronici».
In seguito al gravame dell'imputata, la Corte d'appello di Roma
con sentenza del 4 aprile 1977 ha integralmente confermato la
decisione impugnata. La Paolozzi ha proposto ricorso per cassazione, presentando
a mezzo del difensore specifici motivi.
Motivi della decisione. — Con i primi due motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, si denuncia la vio
lazione dell'art. 414, ult. comma, cod. pen., e si sostiene che i
giudici di appello non si sarebbero adeguati all'interpretazione data alla suddetta norma dalla Corte costituzionale, nella senten
za n. 65 del 1970 (Foro it., 1970, I, 1545) e che in particolare
non avrebbero tenuto conto che, per la configurabilità dell'apo
logia di reato, sarebbe necessaria l'idoneità dell'azione a provo care la commissione di delitti; con la conseguenza che i giudici avrebbero errato nel ritenere la Paolozzi colpevole del delitto
ascrittole, posto che in nessuno dei due articoli sarebbe stato rav
visabile il requisito suddetto, inteso come un pericolo certo e
attuale e non meramente potenziale.
La censura non è fondata.
La norma dell'art. 414, ult. comma, cod. pen., che punisce
l'apologia di uno o più delitti, prevede una fattispecie criminosa,
che si concreta, come questa corte ha più volte precisato con la
sua costante giurisprudenza, nella pubblica formulazione di un
giudizio favorevole su uno o più specifici episodi delittuosi, tale
da implicare la loro approvazione convinta, in termini di ade
sione intellettuale e psicologica, da parte dell'agente.
Nel ritenere la legittimità costituzionale della norma incrimi
natrice, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 65 del 4 mag
gio 1970, ha opportunamente sottolineato come l'apologia del
delitto costituisca un inammissibile attacco contro le basi stesse
di ogni immaginabile ordinamento; ed è peraltro evidente come
anche lo Stato democratico non possa e non debba rinunciare
a difendere i capisaldi dell'ordine da cui è nato e che può libera
mente mutare, attraverso gli appositi meccanismi costituzionali.
Ma, affinché non risulti compromessa la libertà di manifestazio
ne del pensiero, che è un principio irrinunciabile dello Stato de
mocratico e che trova, nel nostro ordinamento, solenne garanzia
nell'art. 21, 1° comma, Cost., è evidentemente necessario che la
norma incriminatrice dell'apologia di reato venga interpretata in
modo da escludere che essa possa applicarsi a lecite espressioni
di pensiero, quali indubbiamente sono la critica della legge, la
propaganda per ottenerne l'aggiornamento o l'abrogazione, il giu
dizio favorevole sui moventi di determinati delitti. Occorre cioè
fissare una netta distinzione tra la libertà di giudicare e di criti
care, che deve essere senza limiti, e quei comportamenti che, at
traverso la parola o gli scritti, possono provocare pericolosi tur
bamenti dell'ordine democratico, che è un fondamento e una fi
nalità irrinunciabile del sistema costituzionale.
Diversamente perciò da quanto questa corte ha ritenuto in
precedenti ed anche recenti pronunce, per la configurabilità del
reato di apologia non basta il pubblico, convinto elogio di un
in cui la pubblicazione esce dalla tipografia, identificandosi in quel
momento la diffusione seppure potenziale; Cass. 16 gennaio 1978,
Campobello, ibid., n. 3, ancora sul momento di perfezionamento del
reato di istigazione a disobbedire alla legge, ravvisandolo nell'atto
della consegna di uno stampato a contenuto istigatorio, senza che
rilevi l'effettiva conoscenza del contenuto da parte del soggetto che
ricéve la pubblicazione. Nel senso di escludere la sussistenza del rea
to di istigazione a delinquere per l'inidoneità della condotta nel ca
so di diffusione di volantini o di pubblicazione sulla stampa di un
articolo, v. Trib. Pisa 10 ottobre 1975, e Trib. Roma 6 ottobre 1975,
id., 1976, II, 65, con nota di richiami. Sulla costituzionalità del
l'art. 266 cod. pen., v. Corte cost. 5 giugno 1978, n. 71, id., 1978,
I, 1338, con nota di richiami ed osservazioni di Pizzorusso, e 1979,
I, 899, con nota di Stortoni, L'incostituzionalità dei reati di opi
nione: una questione liquidata?
Il Foro Italiano — 1980 — Parte II 17.
fatto oggettivamente delittuoso, ma è altresì' necessario, secondo le stesse indicazioni contenute nella citata sentenza della Corte
costituzionale, che la condotta suddetta sia caratterizzata, sul
piano psicologico e su quello oggettivo, da altri elementi, idonei a distinguerla dalle lecite manifestazioni di pensiero.
A questo fine, anche se non si vuole considerare l'apologia come un'ipotesi di istigazione indiretta, è tuttavia innegabile, cosi come ha da tempo avvertito la più autorevole dottrina, che il discorso apologetico deve essere anzitutto connotato dal c. d.
dolo istigatorio, deve cioè avere una portata suggestiva, tale da
proporre il fatto delittuoso, come un modello o un esempio da
imitare. In termini obiettivi, inoltre, come bene ha chiarito la
Corte costituzionale nella sua sentenza, l'apologia punibile, per differenziarsi dalla pura e semplice manifestazione di pensiero, deve integrare un comportamento che per le sue modalità sia
concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti.
Quest'ultimo requisito però, diversamente da quanto sembra
ritenere la ricorrente, anche se esclude che quello di apologia
possa considerarsi come un reato di pericolo presunto, non può tuttavia intendersi nel senso che la condotta punibile debba avere
la concreta capacità di provocare, nella situazione considerata, l'immediata esecuzione di delitti, e sia pure la probabilità che
essi vengano commessi in un futuro più o meno prossimo; al
contrario, il requisito dell'idoneità, postulato dalla Corte costi*
tuzionale come condizione essenziale per assicurare la conformità
della norma incriminatrice al precetto dell'art. 21, 1° comma,
Cost., non può essere inteso se non in un senso corrispondente
all'identico concetto elaborato dalla dottrina sulla base della
interpretazione dell'art. 49 cod. pen., e cioè come la ragionevole, non insignificante possibilità che alla condotta seguano determi
nati eventi.
In questa prospettiva, di conseguenza, per accertare la concreta
idoneità nel senso accennato dell'azione apologetica, occorre sta
bilire, di volta in volta, se la convinta, pubblica approvazione di specifici episodi delittuosi rechi in sé la possibilità di influire
sulla condotta di terzi, in modo da poterli determinare al delitto.
Ma proprio perché l'idoneità del comportamento è integrata dalla mera possibilità e non dalla probabilità o dalla certezza di
eventi futuri, è anche evidente come la sussistenza dell'accennato
requisito possa essere esclusa, soltanto quando risulti che l'ambien
te, a cui è destinato il discorso apologetico, sia del tutto refrat
tario a recepire l'impulso implicitamente istigatorio.
Nel caso di specie, la corte d'appello, pur accennando nella
sua sentenza alla possibilità di considerare il delitto di apolo
gia come un reato di pericolo presunto, si è poi attenuta, nella
concreta valutazione degli scritti sottoposti al suo esame, ai prin
cipi giuridici prima enunciati, dimostrando come entrambi gli
articoli pubblicati sul giornale diretto dalla Paolozzi presentassero una concreta idoneità a provocare la commissione di delitti. In
particolare, i giudici di appello hanno messo in evidenza, con
un analitico esame dei due articoli, come le espressioni apolo
getiche usate fossero sempre seguite da frasi che attribuivano
carattere di esemplarità alle azioni delittuose e che contenevano
un espresso implicito invito alla loro reiterazione. Con questi
riferimenti, i giudici del merito hanno correttamente dimostrato
come gli articoli incriminati presentassero tutti i requisiti neces
sari, per la configurabilità del delitto di apologia, e la loro deci
sione perciò, essendo fondata su ineccepibili criteri giuridici, si
sottrae alle critiche che le muove la ricorrente. (Omissis)
Per questi motivi, ecc.
TRIBUNALE DI MELFI; sentenza 15 gennaio 1980; Pres. Bar
di, Est. Russo; imp. Casucci e altri. TRIBUNALE DI MELFI;
Ordine pubblico (reati contro) — Pubblicazione e diffusione di
notizie vere — Commento tendenzioso — Insussistenza del
reato — Fattispecie (Cod. pen., art. 656).
La divulgazione di notizie concernenti avvenimenti realmente ve
rificatisi, ancorché, poi, le interpretazioni al riguardo assuma
no, in riferimento alla previsione di sviluppi futuri espressi in
ordine ad essi da colui che le riferisce, una forma tendenziosa,
esclude, di per sé, l'integrazione della fattispecie criminosa di
cui all'art. 656 cod. pen. (nella specie, alcuni tra gli imputati
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