sezione I penale; sentenza 23 marzo 1987; Pres. Carnevale, Est. Dinacci, P.M. Scopelliti (concl.diff.); ric. Esposito e altri. Annulla Assise app. Napoli 27 giugno 1985Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1988), pp.503/504-509/510Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23179749 .
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PARTE SECONDA
CORTE DI CASSAZIONE; sezione V penale; sentenza 12 mag
gio 1987; Pres. Minozzi, Est. Aloisi, P. M. (conci, conf.); ric.
Sabbatini. Annulla Trib. Roma, ord. 19 febbraio 1987.
Libertà personale dell'imputato — Mandato di cattura — Ordine
di cattura del tribunale fallimentare — Richiesta di riesame al
tribunale della libertà — Ammissibilità (Cod. proc. pen., art.
263 bis; r.d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del fallimento,
art. 16).
È ammissibile la richiesta di riesame al tribunale della libertà di
un ordine di cattura emesso dal tribunale fallimentare ai sensi
dall'art. 16, ultimo comma, l. fall. (1)
Sabatini Vincenzo è stato privato della libertà personale con
ordine di cattura emesso dal Tribunale di Roma — sezione falli
mentare — unitamente alla sentenza, dichiarativa di fallimento
in data 22 gennaio 1987, a sensi dell'art. 16, ultimo comma, r.d.
16 marzo 1942 n. 267.
Avverso il provvedimento l'imputato proponeva richiesta di rie
same al c.d. tribunale della libertà il quale, con ordinanza deposi tata il 19 febbraio 1987, ritenuto che avverso il provvedimento
impugnato non è prevista richiesta di riesame e che l'impugnazio
ne poteva convertirsi in ricorso per cassazione, disponeva la tras
missione degli atti alla sezione fallimentare del Tribunale di Roma.
Il Sabatini ha proposto ricorso per cassazione.
Il ricorso è fondato. Si premette in linea generale che l'art.
263 bis c.p.p., come modificato dall'art. 7 1. 12 agosto 1982 n.
532 e dall'art. 19 I. 28 luglio 1984 n. 398, tende a garantire un
controllo su tutti i provvedimenti limitativi della libertà persona
le, in adesione alla esigenza di apprestare una crescente tutela
in materia di difesa di tale libertà
È vero che nella norma non si rinviene alcun richiamo all'ordi
ne di cattura emesso ex art. 16 1. fall, e al regime ad esso appli
cabile. Ma al riguardo si osserva cha la legge ha inteso attribuire al
tribunale fallimentare (che per la conoscenza dei fatti può prov
vedere con la necessaria tempestività) un potere proprio del pub
blico ministero, che, come è stato rilevato in dottrina, ha natura
vicaria e sostitutiva per il compimento di un vero e proprio atto
istruttorio penale, che non può non partecipare della natura e
non avere gli stessi caratteri del potere sostituito. Tanto che, una
volta adottato, il provvedimento sfugge all'organo che lo ha emesso
(1) Dopo cinque anni dall'entrata in vigore della legge istitutiva del
c.d. tribunale della libertà (n. 532/82) finalmente la Corte di cassazione
ha potuto pronunciarsi sul dibattuto problema della assoggettabilità a
riesame dei provvedimenti di cattura eccezionalmente adottati dal tribu
nale fallimentare, ai sensi dell'art. 16 della legge fallimentare, con la stes sa sentenza dichiarativa di fallimento o con successivo decreto. Il problema,
più di natura teorica che di rilevanza pratica atteso l'esiguo numero dei
provvedimenti in esame, è stato in precedenza risolto negativamente dalla
giurisprudenza di merito: v. Trib. Roma 19 febbraio 1987, Cass, pen.,
1987, 1656 (annullata dalla Cassazione con la sentenza che si riporta); Trib. Perugia 8 novembre 1982, Foro it., 1983, II, 174.
La dottrina sul punto è divisa anche se prevale l'orientamento che ritie
ne ammissibile il riesame: v., in tal senso, Beretta, Sull'ammissibilità
della richiesta di riesame avverso l'ordine di cattura del tribunale falli mentare, in Cass, pen., 1983, 1235; Giuliani - Balestrino, La bancarot
ta e gli altri reati concorsuali, Milano, 1983, 181; Illuminati, Modifiche,
integrazioni, e problemi non risolti nella normativa sul tribunale della
libertà, in AA.VV., La nuova disciplina della libertà personale nel pro cesso penale, a cura di Grevi, Padova, 1985, 379 (lo stesso autore in
Legislazione pen., 1983, 102, nota 13, si era espresso, con specifico riferi
mento ai provvedimenti in esame, in termini problematici; la più chiara
presa di posizione dipende dalla modifica all'art. 263 bis, c.p.p. introdot
ta con l'art. 19 1. 398/84); Lemmo, Luci e ombre nei primi orientamenti
giurisprudenziali sul tribunale della libertà, in AA. VV., Tribunale della
libertà e garanzie individuali, a cura di Grevi, Bologna, 1983, 283; Maz
zarra, nota a Trib. Roma 19 febbraio 1987, cit.; contra Chiavario, Tri
bunale della libertà e libertà personale, in AA. VV., Tribunale della libertà,
cit., 147; Filippi, Sull'individuazione dei provvedimenti restrittivi della
libertà personale succettibile di riesame, in Giur. it., 1986, II, 255, i quali
pongono l'accento sulla natura collegiale dell'organo che adotta il prov vedimento.
Circa gli effetti delle modifiche all'art. 263 bis c.p.p. introdotte con
l'art. 19 1. 398/84, v. Cass. 20 gennaio 1988, Vitale, Foro it., 1988, II,
425, con nota di richiami.
Il Foro Italiano — 1988.
in via eccezionale, e torna sotto il controllo dell'organo a ciò
preposto istituzionalmente. Sicché non possono disconoscersi al
fallito catturato gli stessi diritti e gli stessi mezzi di difesa spet tanti ai catturati in esecuzione di un ordine o di un mandato
normali.
D'altronde sulla natura istruttoria dell'atto non sorgono dub
bi; né sembra decisivo il rilievo che ad emetterlo sia un organo
collegiale e che il c.d. tribunale della libertà non è organo supe riore a quello del tribunale fallimentare.
Sotto il primo aspetto, non si rinviene alcuna restrizione nella
norma; ed anzi, sulla base della modifica introdotta con l'art.
19 1. 398/84, deve ritenersi chiara la proponibilità del riesame
anche contro i mandati di cattura emessi da organo collegiale
(come nella specie) quale rimedio generale contro ogni atto di
natura giurisdizionale volto alla privazione della libertà persona le. Non interessa nella specie stabilire se è impugnabile anche l'atto
emesso dopo la chiusura della fase istruttoria.
Né è richiesto, data la specialità e la diversità dell'organo cui
è demandato il riesame, un rapporto gerarchicamente inquadra bile in termine di superiorità nei confronti dell'organo che ha
emesso il provvedimento. Si tratta invece di un criterio di natura
meramente formale, non previsto e non assumibile come valido
metro di distinzione tra i provvedimenti per i quali è ammesso
il riesame e provvedimenti per i quali è preclusa questa particola re forma di controllo.
Pertanto il provvedimento impugnato va annullato, con la tras
missione degli atti al tribunale che l'ha emesso perché provveda sulla istanza di riesame.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I penale; sentenza 23 marzo
1987; Pres. Carnevale, Est. Dinacci, P.M. Scopelliti (conci,
diff.); ric. Esposito e altri. Annulla Assise app. Napoli 27 giu gno 1985.
Imputabilità — Vizio parziale di mente — Valutazione (Cod. pen., art. 88, 89).
Tentativo — Dolo eventuale — Incompatibilità (Cod. pen., art.
43, 56). Prova penale in genere — Chiamata in correità — Valore proba
torio (Cod. proc. pen., art. 348, 348 bis).
Il contenuto dell'infermità, da cui deriva il vizio di mente, va
determinato in base alla ratio legislativa degli art. 88 e 89 c.p.,
per cui possono esservi incluse anche le anomalìe psichiche pri ve di una precisa classificazione nosografica o d'una ben defi nita base organica; insomma, qualsiasi condizione morbosa, ancorché non qualificabile in senso clinico, può configurare il
vizio di mente sempre che si traduca, per le sue connotazioni,
in una esclusione o in una compressione delle facoltà intelletti
ve o volitive (nella specie, la perizia aveva accertato nell'impu tato «gracilità mentale con psicopatia impulsiva»). (1)
(1) Il principio affermato nella massima si inquadra in quel filone giu
risprudenziale, che tende a rivendicare una relativa autonomia della valu tazione giuridico-penale del vizio di mente, rispetto alle concettualizzazioni della scienza psichiatrica: l'accento è infatti posto sulle specifiche esigen ze dell'imputazione penalistica, il soddisfacimento delle quali potrebbe anche giustificare un concetto di imputabilità incentrato sulla capacità del soggetto di avvertire il rimprovero penale e il significato dell'infrazio ne (in motivazione un tale approccio ricostruttivo viene anche ancorato alla dimensione «personalistica» della responsabilità penale alla stregua dei principi costituzionali), a prescindere dalla riconducibilità della altera zione psichica a un preciso quadro nosografico. Per una rassegna critica delle pronunce inquadrabili in un tale indirizzo giurisprudenziale, defini bile «giuridico», cfr. Fioravanti , Il concetto di infermità psichica. L'e
voluzione della giurisprudenza dal codice Rocco agli anni '50, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1987, 334 ss. Sulle tendenze sostanzialmente analo
ghe affioranti in una parte della dottrina (specie di lingua tedesca) favo revole a ricostruire la categoria dell'imputabilità in via autonoma, al fine
di soddisfare esigenze normative del diritto penale, cfr. i rilievi di
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GIURISPRUDENZA PENALE
Il dolo eventuale è logicamente incompatibile col delitto tentato,
in quanto chi, tendendo ad altre «prospettive», accetti il ri
schio del verificarsi d'un certo evento delittuoso, non può rap
presentarsi né può volere gli atti come univocamente diretti alla
realizzazione di quell'evento. (2) La chiamata di correo richiede, ai fini della sua utilizzazione pro
cessuale, una rigorosa e attenta analisi sotto una duplice ango
lazione: da un lato, l'esame della personalità del suo autore
e delle cause che l'hanno determinata (attendibilità intrinseca);
dall'altro, la ricerca dei riscontri oggettivi e cioè di elementi
certi ed univoci che escludono ogni diversa conclusione (atten dibilità estrinseca). (3)
Fatto e diritto. — Secondo gli accertamenti dei giudici del me
rito, verso le ore 16 del 10 gennaio 1981, in Napoli, il personale d'una volante della polizia di Stato (Romolo Schiavina, Rocco
Cipriano e Gennaro Cristiano) notava, in via Emanuele Giantur
co, una autovettura (Fiat/1100, targata NA/501307) ferma di
nanzi all'ingresso d'una ditta di materiale ferroso. Due degli
occupati la volante (e precisamente lo Schiavina ed il Cipriano) scendevano per effettuare gli accertamenti del caso. Senonché tre
individui, usciti dai locali della ditta, esplodevano contro di loro
numerosi colpi di arma da fuoco. Nel corso della sparatoria due
dei malviventi salivano sull'autovettura che era ferma davanti al
l'ingresso della ditta e partivano velocemente. Il terzo si dava
alla fuga a piedi: era inseguito e raggiunto dall'agente Cipriano che ingaggiava una violenta colluttazione, sedata soltanto a se
guito dell'intervento di un'altra volante. Intanto l'autovettura,
su cui avevano preso posto gli altri due malviventi, era inseguita dallo Schiavina e costretta a fermarsi a causa d'uno scontro con
altra macchina. I due occupanti, dopo aver esploso alcuni colpi
di arma da fuoco, si davano alla fuga a piedi per opposte direzio
ni. Uno solo di essi veniva intercettato in via Brin: con l'arma
in pugno faceva fuoco, eclissandosi poi nei pressi d'un muro di
cinta d'un capannone.
Gli accadimenti, anche sulla base delle denunce delle parti lese,
erano così ricostruiti: Ciro Esposito (fermato, nel corso della col
luttazione, dall'agente Cipriano) e altri due complici, identificati
dagli agenti nelle persone di Salvatore Vollaro e Enrico Oriunto,
avevano fatto irruzione negli uffici della ditta di demolizioni na
vali ed industriali (gestita da Luigi Miranda) con il volto coperto
da calza ed armati di pistola. E, mentre due tenevano sotto la
minaccia delle armi i presenti, il terzo provvedeva a depredarli
di quanto avevano addosso.
Si accertava che la macchina utilizzata dai rapinatori era stata
Fiandaca, Colpevolezza e prevenzione, ibid., 855 s.; Id., I presupposti della responsabilità penale tra dogmatica e scienze sociali, in Dei delitti
e delle pene, 1987, 253 s., e letteratura ivi citata.
Nella giurisprudenza è comunque ancora assai diffuso l'indirizzo c.d.
«medico», che inclina invece a identificare, allo scopo di rendere il giudi zio sull'infermità il più possibile certo e rigoroso, il vizio di mente con
una malattia clinicamente accertata e catalogata dalla nosologia psichia trica: cfr. Cass. 29 novembre 1984, Algeri, Foro it., Rep. 1986, voce
Imputabilità, n. 9; 26 novembre 1984, Piccagli, ibid, n. 10; 25 febbraio
1985, Valentino, ibid., n. 15. Per una lucida ed esauriente ricostruzione
dei principali orientamenti giurisprudenziali in materia, e dei modelli
scientifico-culturali di volta in volta presupposti, cfr. ancora Fioravanti,
op. cit., passim; nonché, Bertolino, La crisi del concetto di imputabili tà: prospettive giuridico-penali, in AA.VV., Trattato di psicologia giudi ziaria nel sistema penale, a cura di G. Gulotta, Milano, 1987, 147 ss.
Sui problemi connessi alla perizia psichiatrica tra medicina e giustizia, si vedano i diversi contributi pubblicati nel recente volume collettivo Psi
chiatria, tossicodipendenze, perizia , a cura di M. G. Giannichedda e
F. Ongaro Basaglia, Milano, 1987, 285 ss.
(2) La tesi della incompatibilità era, negli stessi termini, già stata affer
mata sempre dalla sezione I nella precedente sent. 20 ottobre 1986, Amante,
citata in motivazione, Foro it., 1987, II, 509, con nota di richiami.
(3) Anche la massima in questione ripropone un orientamento tipico
della sezione I: cfr. la ormai celebre sent. 3 giugno 1986, Greco e altri,
citata in motivazione, Foro it., 1986, II, 529 con nota di Fiandaca.
Esemplificativa dell'indirizzo giurisprudenziale che si accontenta, inve
ce, di una attendibilità della chiamata di correo liberamente apprezzata dal giudice, pur in assenza di riscontri oggettivi esterni, v., da ultimo, Trib. Verona 26 gennaio 1987, id., 1988, II, 40, con ampia nota di richiami.
Il Foro Italiano — 1988.
sottratta (alcuni giorni prima) a tale Antonio Esposito che aveva
provveduto ad inoltrare regolare denuncia.
In sede di investigazioni di polizia giudiziaria, il Vollaro di chiarava informalmente che si era incontrato con Esposito ed
Oriunto verso le ore 13 del 10 gennaio 1981 in un bar della zona
mercato; che l'Esposito gli aveva proposto di «fare assieme un
lavoro nella ditta Miranda»; che, versando in difficoltà economi
che, aveva aderito all'invito e, con l'Esposito, s'era recato in via
Gianturco per compiere un sopralluogo; che, durante la rapina,
l'Esposito temeva di essere riconosciuto in quanto suo padre era
stato dipendente della ditta. Risentito dal p.m. il Vollaro ritratta
va le precedenti dichiarazioni. L'Esposito ammetteva gli addebiti,
escludendo, però, ogni partecipazione alla rapina da parte del
Vollaro e dell'Oriunto.
Esauritasi l'istruzione, i predetti, per quel che qui interessa, erano tratti dinanzi alla Corte d'assise di Napoli per rispondere di concorsi nei delitti di rapina aggravata, furto aggravato del
l'autovettura Fiat/1100 (in danno di Antonio Esposito), tentato
omicidio in pregiudizio degli agenti Schiavina, Cipriano e Cristia no, detenzione e porto di armi, detenzione di munizioni. L'Espo
sito, inoltre, di resistenza e di lesioni in danno dell'agente Cipriano. L'adita corte, nella udienza del 12 ottobre 1982, disponeva un
accertamento psichiatrico nei confronti dell'Esposito, a cui il pe rito — sul presupposto d'una riscontrata «gracilità mentale con
psicopatia impulsiva» — riconosceva una «capacità d'intendere
e di volere grandemente scemata». Nel corso del dibattimento,
poi, l'Esposito ed il Vollaro ammettevano gli addebiti, ma insi
stevano sulla estraneità ai fatti dell'Oriunto; il quale protestava vivamente la sua innocenza. Chiariva ancora il Vollaro di aver
indicato agli investigatori l'Oriunto per ritorsione, in quanto ave
va creduto che lo stesso fosse stato l'autore della denuncia. Del
terzo complice conosceva soltanto il nome «Peppe» e non era
in grado di fornire particolari atti a farlo identificare.
La corte, all'esito della istruzione dibattimentale (con sentenza
del 14 maggio 1984), giudicava gli imputati (Esposito, Vollaro e Oriunto) responsabili di rapina aggravata, furto aggravato, de
tenzione e porto di armi (oltre che di detenzione di munizioni), resistenza aggravata (cosi modificata l'imputazione di tentato omi
cidio). Riteneva, inoltre, l'Esposito colpevole di resistenza aggra
vata e di lesioni in danno dell'agente Cipriano. Di conseguenza,
previa unificazione dei delitti a norma dell'art. 81 c.p., condan
nava: Esposito alla pena di anni dodici di reclusione, lire 2.300.000
di multa e lire 200.000 di ammenda; Vollaro ed Oriunto alla pena di anni dodici, mesi quattro di reclusione, lire 2.500.000 di multa
e lire 200.000 di ammenda ciascuno.
Proposto rituale gravame (dagli imputati e dal p.m.), la Corte
d'assise d; appello di Napoli, con dicisione del 27 giugno 1985,
riteneva gli imputati responsabili anche di tentato omicidio (deru
bricato dai primi giudici sotto la minore ipotesi di resistenza ag
gravata), rideterminando (con esclusione degli effetti della recidiva
contestata all'Esposito a al Vollaro) le pene nei modi seguenti;
Esposito anni dieci di reclusione, lire 1.300.000 di multa e lire 200.000 di ammenda; Vollaro ed Oriunto anni dieci, mesi otto
di reclusione, lire 1.300.000 di multa e lire 200.000 di ammenda
ciascuno.
Hanno interposto ricorso per cassazione l'Esposito, il Vollaro
e l'Oriunto, deducendo, attraverso i loro difensori, la nullità del
le statuizioni del giudice di appello. Preliminarmente la sentenza impugnata va annullata senza rin
vio nei confronti dell'Esposito quanto ai reati di lesioni e di de
tenzione di munizioni; nonché nei confronti del Vollaro e
dell'Oriunto quanto al reato di detenzione di munizioni (reati tut
ti che si sono estinti a seguito dell'amnistia di cui al d.p.r. 16
ottobre 1986 n. 665). Ne consegue la eliminazione delle pene co
me da dispositivo.
Questo premesso, va detto che i ricorsi, nei modi di cui si dirà,
meritano accoglimento.
Quanto all'Esposito, il primo problema attiene al diniego della
seminfermità mentale (art. 89 c.p.). La sentenza impugnata da
un lato fa leva su proposizioni generali (senza tener conto della
fattispecie processuale concreta) e dall'altro disattende l'elabora
to peritale con rilievi che ne frantumano la logica unitaria. È
vero che il perito ha giudicato l'esame neurologico nei limiti della
norma, accertando la regolarità dell'orientamento spazio-temporale
dell'Esposito, ma è altrettanto vero che ha fatto riferimento ad
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PARTE SECONDA
una «gracilità mentale con psicopatia impulsiva nell'ambito d'u
na pregressa storia di meningismo». Lo stesso perito ha dedotto tali carenze da un deficit di poteri
psichici superiori (ideazione puerile ed oligotematica, scarsa ca
pacità di ragionamento per concetti, flebile capacità di discernere
il bene dal male, ecc.) e da una instabilità emotiva con aggressivi tà latente (conflitti esistenziali con l'ambiente, furore pantoplasti
co, ecc.). Siffatte conclusioni, come si è detto, sono state disattese
dai giudici mediante una motivazione critica delle singole propo sizioni espresse dal perito, con buona pace di ogni forma di logi ca globale derivante proprio dalle connessioni di quelle
proposizioni; e ciò a prescindere dalla motivazione generale basa
ta su concetti astratti desunti da trattati di medicina forense (v. i vari riferimenti bibliografici nella sentenza impugnata). In tal
senso palese è il difetto di motivazione che è causa di nullità
della sentenza. Se da un lato la gracilità mentale implica «un
grado di falsamento di critica senza escludere uno sviluppo di
talune funzioni psichiche» (v. sentenza impugnata), dall'altro es
sa andava esaminata in rapporto a tutte le anomalie specificate nell'elaborato peritale, scoprendosene le connessioni nei termini
spiegati. Al che la corte di merito non ha provveduto, incorrendo
in un vizio di motivazione che appare ancora più rimarchevole
ove si consideri che, in un successivo processo, altri giudici —
alla stregua degli stessi elementi — hanno riconosciuto all'Espo sito la diminuente dell'art. 89 c.p. (v. sentenza del Tribunale di
Napoli in data 30 agosto 1985 allegata agli atti del procedimen
to). Nè può condividersi, sotto il profilo tecnico-giuridico, la pre messa contenuta in sentenza, secondo cui le anomalie psichiche non rientrerebbero nella nozione di infermità, dalla quale deve
dipendere l'alterazione mentale. L'infermità, a cui — a norma
degli art. 88 e 89 c.p. — si lega il vizio di mente, è l'elemento
generico, insuscettibile d'essere inquadrato in una rigorosa con
cettuologia. La ratio delle norme citate (art. 88 e 89 c.p.) è quella di escludere o di diminuire la imputabilità (art. 85, 2° comma,
c.p.) allorquando risultino compromesse le facoltà intellettive o
volitive, sicché il contenuto dell'infermità, da cui deriva il vizio
di mente, va determinato in base alla riferita ratio legislativa, includendovi anche le anomalie psichiche prive d'una precisa clas
sificazione nosografica o d'una ben definita base organica. In
somma qualsiasi condizione morbosa, ancorché non qualificabile in senso clinico (il concetto di infermità dunque non coincide con
il concetto di malattia) può configurare il vizio di mente sempre che si traduca, per le sue connotazioni, in una esclusione o in
una compressione delle facoltà intellettive o volitive. In questo sfondo normativo, che trova significativo riscontro nella norma
costituzionale sulla responsabilità personale (non sembrando pos sibile formulare un rimprovero rispetto a chi non è in grado di
percepire i valori sociali), non può neanche escludersi un rilievo
per quei soggetti privi di adeguato sviluppo mentale per fattori
ambientali (si pensi, ad es., a casi di isolamento socio-culturale) e non già per carenze congenite o per cause patologiche sopravve nute. Per detti soggetti, nei confronti dei quali si coglie la stessa
ratio posta a base delle norme sulla non imputabilità, legittimo è il ricorso all'analogia. Stante l'eadem ratio, rigorosamente de
sunta dalle norme sulla non imputabilità (e dunque senza cedi
menti a fonti sostanziali bandite dal principio di legalità), l'analogia a favore del reo (ossia il logico sviluppo di quelle norme) è qui del tutto legittima.
L'opinione contraria riduce a ridondanze enfatiche molte nor
me costituzionali, oscurando tutta la direttiva personalistica della
responsabilità penale. I presupposti di operatività del rimprovero si legano alla esigenza della percezione dell'infrazione; diversa
mente le previsioni del costituente sul libero sviluppo della perso na umana, sul carattere personale del reato nell'ambito della regola di tassatività e sulla funzione rieducativa (oltre che retributiva) della pena sarebbero private del loro significato logico-sistematico
politico. Per quanto concerne la ritenuta responsabilità per concorso nel
delitto di tentato omicidio, il motivo in ordine alla volontà omici
da, proposto dal Vollaro (oltre che dall'Oriunto), s'estende all'E
sposito a norma dell'art. 203 c.p.p. E tale motivo è fondato per le ragioni che saranno ora indicate.
Come si è visto, i primi giudici avevano derubricato l'imputa zione di tentato omicidio in quella di resistenza sul rilievo che
gli imputati «non spararono per uccidere, non avendo nemmeno
Il Foro Italiano — 1988.
i denuncianti fornito elementi per stabilire il numero dei colpi
esplosi, la distanza dai potenziali bersagli, la direzione dei tiri»
(v. sentenza di primo grado). La corte d'assise di appello, in ac
coglimento del gravame del p.m., è giunta a conclusioni opposte senza chiarire, nella motivazione della sentenza, le riferite circo
stanze (numero dei colpi esplosi, direzione degli stessi, distanza
dai potenziali bersagli); talché la stessa corte non ha dato ragione
dell 'iter logico seguito, inosservando il disposto dell'art. 475, n.
3, c.p.p. D'altronde, in tema di accertamento dell'elemento sog
gettivo (dolo), se occorre da una parte evitare la c.d. probatio
diabolica (che stroncherebbe ogni ipotesi di accusa), bisogna da
un'altra rifuggire da qualsiasi presunzione, alla quale — come
traluce dalla motivazione della sentenza — sembra essersi rap
portato il giudice di appello. Le presunzioni in materia di dolo
non sono consentite per la stessa essenza del dolo (che è coscien
za e volontà dell'offesa), oltre che per il principio (costituzionale) della responsabilità personale; ond'è che il modus procedendi, ai fini in discorso (accertamento della volontà omicida), non può
che consistere in un dettagliato esame delle circostanze innanzi
segnalate. Da esse (per la loro significatività) può evincersi la esi
stenza di una rappresentazione, d'una volizione o d'un movente
alla stregua delle comuni regole di esperienze. Nè può condivider
si l'altra affermazione della sentenza che punta sul dolo eventua
le e ne afferma la compatibilità col delitto tentato. Come questa
corte ha recentemente affermato (sez. I 20 ottobre 1986, Amante,
Foro it., 1987, II, 509), l'art. 56 c.p., nel riferirsi agli atti idonei
diretti in modo non equivoco a commettere il delitto, costituisce
un parametro sintomatico di una volontà immediata e diretta (ag
gressiva degli interessi tutelati). In sostanza, con la sentenza ri
chiamata, questa corte ha rimeditato il delicato tema, pervenendo
alla conclusione (che qui viene ribadita) della incompatibilità tra
dolo eventuale e delitto tentato. L'opinione contraria dà, a ben
vedere, per scontato — in termini assiomatici — che l'elemento
psicologico è identico tanto nelle fattispecie incompiute quanto in quelle consumate, obliterando che l'art. 56 c.p. disciplina una
figura autonoma di reato con un proprio nucleo soggettivo. Il
dolo, nel caso in esame, altro non è che coscienza e volontà di
porre in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a com
mettere il delitto; e pertanto chi, tendendo ad altre «prospettive», accetti il rischio del verificarsi d'un certo evento delittuoso, non
può rappresentarsi né può volere gli atti come univocamente di
retti alla realizzazione di quell'evento. È una inconciliabilità logi
ca, stante la forma dell'art. 56 c.p., quella di pretendere che le
situazioni in cui un evento sia considerato soltanto come possibi le o probabile formino oggetto della volizione dell'agente. L'ac
cettazione del rischio del prodursi di un evento lesivo contrasta
con la rappresentazione e la volontà degli atti univoci. Com'è
detto nella citata sentenza di questa sezione, solo chi mediti un
evento, quale esito certo della sua condotta, sarà in grado di rap
presentarsi gli atti univoci richiesti dalla legge (art. 56 c.p.): di
qui la esigenza del dolo intenzionale o diretto (cosi sez. I 20 otto
bre 1986, cit.). Insomma, nella sua reale significazione, la univo
cità è del tutto incompatibile con lo stato di dubbio. Se può affermarsi che il requisito della idoneità degli atti è compatibile col dolo eventuale (ben potendo accadere che taluno abbia dubbi
sull'adeguatezza della sua condotta ed agisca egualmente: è il ca
so di chi dubiti dell'attitudine dell'arma per colpire il rivale e
ciò nonostante spari allo scopo di ucciderlo), altrettanto non può dirsi del requisito della univocità.
Alla rappresentazione in termini di possibilità si collega una
pluralità di eventi con uno stato di non conoscenza rispetto a
quello che, tra essi, si produrrà. La tesi della compatibilità del
dolo eventuale col delitto tentato — e qui è il punto che ne evi
denzia la profonda illogicità — induce a ritenere che il soggetto
possa rappresentarsi i propri atti come univocamente diretti ad
una pluralità di eventi lesivi, ignorando quale di tali eventi si
verificherà. S'immagina cosi un tentativo sorretto da «atti
equivoci». In conclusione: questa corte non può che ribadire il precedente
pronunciato (sez. I 20 ottobre 1986, cit.), occorrendo, per la pu nibilità del delitto tentato, il dolo intenzionale o diretto.
La sentenza impugnata va annullata sul punto anche nei confron
ti del Vollaro (la cui unica doglianza attiene alla dichiarata volontà
omicida e alla ritenuta compatibilità del dolo eventuale col delitto
tentato) con rinvio ad altro giudice per nuovo giudizio. Dovrà,
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GIURISPRUDENZA PENALE
cioè, il giudice di rinvio farsi carico dei quesiti nei termini spiega
ti, esaminando — nella evenienza di risposte affermative — gli altri motivi dell'Esposito riguardanti il tema delle diminuenti ex
art. 62 bis, 114 e 116 c.p. Va, invece, disatteso il motivo afferen
te alla statuizione di condanna per le violazioni relative alle armi, risultando siffatta statuizione adeguatamente motivata. In realtà,
con la doglianza in discorso, l'Esposito sollecita una indagine di
fatto che travalica i limiti del giudizio di responsabilità.
Quanto all'Oriunto, la difesa prospetta anzitutto una serie di
rilievi critici tesi ad evidenziare la illogicità della motivazione del
le statuizioni in ordine alla ritenuta responsabilità per concorso
in tutti i reati. Si contesta cosi globalmente la logica della moti
vazione della sentenza impugnata, a cominciare dalla omessa ve
rifica dell'attendibilità intrinseca ed estrinseca della chiamata in
correità del Vollaro (successivamente ritrattate dallo stesso Vollaro).
Le censure sono fondate. I giudici hanno, con la sentenza im
pugnata, richiamato acriticamente le dichiarazioni del Vollaro senza
porsi alcun problema di verifica delle stesse. In tal guisa essi si
sono discostati da una recente giurisprudenza di questa corte (sez.
I 3 giugno 1986, Greco, id., 1986, II 529; 9 febbraio 1987, ric.
P.G. Firenze in proc. pen. Graziani ed altri, id., 1987, II, 409),
secondo cui la chiamata di correo, ai fini della utilizzazione pro
cessuale, deve essere vagliata nella sua attendibilità intrinseca ed
estrinseca. La chiamata di correo, in altre parole, richiede una
rigorosa ed attenta analisi sotto una duplice angolazione: da un
lato l'esame della personalità del suo autore e delle cause che
l'anno determinata (attendibilità intrinseca); dall'altro la ricerca
dei riscontri oggettivi e cioè di elementi certi ed univoci che esclu
dono ogni diversa conclusione (attendibilità estrinseca). Simili re
gole sono state ignorate nella sentenza impugnata, la quale si limita
soltanto a ricordare le dichiarazioni accusatorie del Vollaro in
sede di indagini di polizia giudiziaria, incorrendo in un'omissione
che è ancor più rimarchevole ove si consideri che il predetto Vol
laro non ha mancato di ritrattare quelle dichiarazioni (anche in
sede dibattimentale).
Né la motivazione della sentenza impugnata sfugge alle altre
censure formulate con i motivi di ricorso. Non possono, invero,
costituire elementi di responsabilità le circostanze della irreperibi
lità dell'Oriunto e dell'amicizia che lo legava ai coimputati. La
irreperibilità riguarda il comportamento dell'imputato ed ha —
sul piano logico — un significato quanto meno equivoco. Siffat
to comportamento, se può valere per la verifica della sincerità
d'una deduzione difensiva, non può essere posto a fondamento
d'un giudizio di responsabilità. Non si vede, poi, come la circo
stanza dell'amicizia dell'Oriunto con i coimputati possa autono
mamente dispiegare una valenza. Nell'indagine indiziaria, come
è noto, bisogna puntare su elementi che abbiano forza logica,
in quanto da essi deve risalirsi al fatto ignoto, ossia al fatto da
provare. Ecco perchè si richiede che l'indagine sia correlata ad
un procedimento logico di massimo rigore e di assoluta correttez
za. La ricerca degli indizi qualificati (c.d. costellazione di indizi
che equivale alla prova di colpevolezza richiesta per la condanna)
evoca componenti di grande rigore logico. Si deve, secondo la
consolidata giurisprudenza di questa corte, individuare la correla
zione tra gli indizi ed il fatto oggetto di prova in maniera tale
da eliminare la possibilità di ogni altro nesso equivalente. Cosic
ché l'amicizia dell'Oriunto con Esposito e Vollaro di per sé non
ha valore: essa non è una circostanza indiziante, in quanto è logi
camente inidonea alla deduzione e ricostruzione del fatto ignoto,
ossia del fatto oggetto di prova. La decisione impugnata — per quanto precede — va annullata
con rinvio per nuovo giudizio nei confronti dell'Oriunto nei pun
ti concernenti la ritenuta responsabilità del medesimo per concor
so in tutti i reati, dichiarandosi assorbiti i motivi sugli altri punti.
Ovviamente, nel rispetto dei superiori principi, il giudice di rinvio
sarà libero di adottare ogni determinazione di giustizia.
Il Foro Italiano — 1988.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 9 marzo
1987; Pres. Picozzi, Est. Cavallari, P.M. Tranfo (conci, parz.
diff.); ric. Iuliano. Annulla senza rinvio Trib. Salerno 16 di
cembre 1985.
Sanità pubblica — Rifiuti solidi — Condanna per contravvenzio
ne — Sospensione condizionale della pena subordinata — Ille
gittimità (Cod. pen., art. 165; d.p.r. 10 settembre 1982 n. 915, attuazione delle direttive (Cee) n. 75/442 relativa ai rifiuti, n.
76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei poli clorotrifenili e n. 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi, art.
6, 25, 30,).
In caso di condanna per la contravvenzione prevista dall'art. 25
d.p.r. 915/82 non è legittimo subordinare la sospensione con
dizionale della pena all'obbligo dell'adempimento di quanto sta
bilito in sentenza ai sensi dell'art. 165 c.p., risultando tale norma
generale derogata dalla norma speciale di cui all'art. 30 stesso
decreto, benché quest'ultima non comprenda il caso in oggetto tra quelli per i quali è possibile subordinare il beneficio all'ob
bligo anzidetto. (1)
Fatto e diritto. — Il Tribunale di Salerno, in parziale riforma
della sentenza 10 maggio 1985 del Pretore di Salerno, ha condan
nato lo Iuliano alla pena di mesi 2 di arresto e lire 2.000.000
di ammenda con il beneficio della sospensione condizionale, qua le colpevole del reato di cui agli art. 6, 25 d.p.r. 10 settembre
1982 n. 915 per avere, senza autorizzazione, esercitato attività
di smaltimento di rifiuti speciali prodotti da terzi — reato accer
tato fino al 23 ottobre 1984.
I giudici hanno subordinato la sospensione condizionale della
pena, ex art. 165 c.p., al conseguimento della prescritta autoriz
zazione entro trenta giorni dal passaggio in giudicato della
sentenza.
A sostegno del ricorso, lo Iuliano denunzia: 1) violazione di
legge, in quanto, essendovi agli atti un principio di prova circa
la preesistenza dell'attività industriale rispetto alla data di entrata
in vigore della legge speciale, i giudici di secondo grado avrebbe
ro dovuto acquisire sul punto anche d'ufficio i necessari elementi
di giudizio e ravvisare, nella specie, la meno grave violazione di
cui l'art. 31 d.p.r. 915/82; 2) violazione di legge, in quanto la
sospensione della pena non poteva essere subordinata, ex art. 165
c.p., al conseguimento dell'autorizzazione.
La prima censura è infondata. Correttamente, invero, i giudici di appello hanno escluso, nella specie, che l'attività industriale
di cui trattasi preesistesse all'entrata in vigore della legge specia
le, in difetto di qualsiasi prova al riguardo, tale preesistenza non
potendosi presumere per la semplice constatazione dell'opificio
da parte dei verbalizzanti all'atto del loro sopralluogo (12 ottobre
1984), a distanza di tempo, tra l'altro, piuttosto ragguardevole da quella (16 dicembre 1982) di entrata in vigore della legge, né
la stessa preesistenza potendosi ritenere accertata dal certificato
della camera di commercio di Salerno, che è stato unito al ricor
(1) Non risultano precedenti sulla fattispecie. Si esprime in termini problematici sulla questione di cui alla massima,
Correrà, Smaltimento dei rifiuti solidi urbani e dei rifiuti tossici e noci
vi, Milano, 1984, 35-36; aderisce invece alla tesi respinta dalla Cassazio
ne, Amendola, Smaltimento dei rifiuti e legge penale, Napoli, 1985, 83
(l'a. ritiene infatti possibile ricorrere in via generale alla norma dell'art.
165 c.p. anche per quelle condanne per reati previsti dal d.p.r. 915/82
non menzionati nell'art. 30); sul tema, v. pure Caccin, Ambiente e sua
protezione nella normativa sui rifiuti solidi, Padova, 1984, 379 ss. Da
ultimo, cfr. P. Giampietro, I rifiuti nella giurisprudenza penale e ammi
nistrativa, Rimini, 1988, 694-696.
La norma contenuta nell'art. 30 del decreto sui rifiuti riproduce, con
gli adattamenti del caso, l'analoga norma contenuta nell'art. 24, 1° com
ma, della c.d. legge Merli (1. 319/76). Su questa fattispecie, v., da ultimo, Cass. 12 ottobre 1984, Pifferi,
Foro it., Rep. 1985, voce Acque pubbliche, nn. 212, 213; 5 dicembre
1983, Mugan, ibid., voce Sospensione condizionale della pena, nn. 70-72; 2 febbraio 1982, Astori, id., Rep. 1983, voce cit., n. 67. In dottrina,
cfr., da ultimo, Amendola, La tutela penale dell'inquinamento idrico,
Milano, 1987, 87-90; Barbuto, Reati in materia di edilizia e di inquina
mento, Torino, 1987, 369-370; P. e F. Giampietro, Rassegna critica di
giurisprudenza sull'inquinamento delle acque del suolo, Milano, 1985, 1863-1883.
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