Sezione I penale; sentenza 6 novembre 1981; Pres. Rubino, Est. Franco, P. M. Folino (concl.conf.); ric. Eramo. Conferma Trib. Napoli 29 dicembre 1978Source: Il Foro Italiano, Vol. 105, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1982), pp.417/418-421/422Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23174627 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
CORTE DI CASSAZIONE; CORTE DI CASSAZIONE; Sezioni unite penali; ordinanza 29
maggio 1982; Pres. Severino, Rei. Cersosimo, P. M. (conci,
parz. diff.); Proc. gen. App. Roma e Proc. rep. Trib. Perugia.
Competenza e giurisdizione penale — Procedimenti riguardanti
magistrati — Pretore imputato o parte lesa — Spostamento della competenza territoriale — Esclusione — Questione non
manifestamente infondata di costituzionalità (Cost., art. 3, 97,
101; cod. proc. pen., art. 41 bis).
Non è manifestamente infondata (e se ne rimette quindi l'esame
alla Corte costituzionale) la questione di costituzionalità del
l'art. 41 bis c. p. p., nella parte in cui non prevede lo sposta mento della competenza territoriale anche nell'ipotesi di reato,
commesso da pretori o in loro danno, attribuito alla competenza ordinaria del tribunale nella cui circoscrizione è compreso il
mandamento in cui il pretore, imputato o parte lesa, esercita le
sue funzioni, in riferimento agli art. 3, 97 e 101 Cost. (1)
Il procuratore della repubblica di Roma ha trasmesso al pro curatore della repubblica di Perugia i processi nn. 3209/81 c,
8486/81 c, 5158/81 c e 274/82 aventi ad oggetto violazioni sul
conto del dott. Pietro Federico, pretore di Palestina, nonché gli atti relativi all'esposto del Federico a carico del sen. Giuseppe
Bozzi, ai sensi degli art. 41 bis c. p. p. e 48 ter c. p. p.
Il procuratore della repubblica di Perugia, rilevato che i fatti
potessero integrare reati di competenza del tribunale (concussio ne — diffamazione a mezzo stampa), restituiva gli atti al procu ratore della repubblica di Roma osservando che per i reati di
competenza per materia del tribunale, riferibili a pretori, non
era previsto lo spostamento di competenza territoriale di cui al
l'art. 41 bis c. p. p., avendo la norma ancorato la deroga alla
competenza ordinaria a precisi presupposti, inesistenti nella fat
tispecie, con restrizione dell'ambito di operatività rispetto all'abro
gato art. 60 c. p. p.
Con provvedimento del 9 febbraio 1982 il procuratore generale di Roma, non condividendo la tesi suddetta e rilevata l'esistenza
di un conflitto negativo di competenza, ordinava la trasmissione
degli atti alla Corte di cassazione per la risoluzione del conflitto,
giusto il disposto dell'art. 53, 1° comma, c. p. p.
L'art. 41 bis, inserito nel codice di procedura penale con 1.
22 dicembre 1980 n. 879, ha dettato una nuova disciplina relativa
alla competenza territoriale per i procedimenti penali riguardanti
i magistrati disponendo che i procedimenti in cui un magistrato
assume la qualità di indiziato, di imputato o di persona offesa dal
reato, che sarebbero attribuiti secondo le norme ordinarie — o
potrebbero esserlo in caso di appello — alla competenza dell'uf
ficio giudiziario in cui al momento del fatto il magistrato esercita
va la sua funzione sono di competenza del giudice egualmente
competente per materia, il cui ufficio è situato nel capoluogo del
distretto di corte d'appello più vicino.
La formulazione letterale della norma sembra chiara nel senso
che lo spostamento di competenza territoriale è previsto nelle ipo
tesi in cui il reato, rispetto al quale il magistrato assume una
delle qualità indicate, sarebbe di competenza dell'ufficio giudizia
rio nel quale il magistrato esercitava le sue funzioni al momento
del fatto; assume, infatti, rilevanza la correlazione tra l'esercizio
dell'attività del magistrato in un ufficio giudiziario, a causa della
(1) Per una prima applicazione dell'art. 41 bis c. p.p. cfr. Cass. 2
settembre 1981, Celli, Foro it., 1982, II, 1, con nota di richiami di
Boschi e osservazioni di Orlandi, secondo cui gli effetti della con
nessione sulla competenza territoriale si producono anche rispetto ai
procedimenti riguardanti magistrati, purché per essi non si verifichi
spostamento di competenza a favore dell'ufficio giudiziario in cui il
magistrato svolge le sue funzioni. Nel senso che, vigente l'art. 60 c.p. p.,
deve essere disposta la rimessione del procedimento nell'ipotesi in cui
alcuni magistrati esercitanti le loro funzioni nello stesso distretto
presso cui si svolge il processo possano assumere la veste di imputati
e chi presentò la denunzia-querela esercitava le sue funzioni di ma
gistrato presso la procura della stessa città, anche se successivamente
posto fuori ruolo per l'elezione a senatore, v. Cass., ord. 12 luglio
1979, Magistratura democratica, id., 1979, II, 449, con nota di
richiami.
Sulla 1. 22 dicembre 1980 n. 879, che ha modificato la disciplina
relativa ai procedimenti riguardanti magistrati, eliminando la discre
zionalità della Cassazione nell'indicare il nuovo giudice competente, in aderenza al principio costituzionale del giudice naturale e confor
memente all'art. 11 del progetto di c. p. p. redatto dalla commissione
ministeriale per l'attuazione della legge delega per l'emanazione del
nuovo c. p. p., cfr. Romboli, Il giudice naturale, 1981, 192 ss.; Ru
biola, La nuova disciplina della competenza nei procedimenti relativi
ai magistrati, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, 644; Scaparone, Com
mento alla l. 22 dicembre 1980 n. 879, in Legislazione pen., 1981, 323.
Il Foro Italiano — 1982 — Parte II-29.
destinazione permanente all'ufficio stesso o in virtù di provvedi mento di applicazione o supplenza, e il momento del fatto-reato.
Ne consegue l'esclusione dell'applicabilità dell'art. 41 bis c.p.p. in tutti i casi in cui il magistrato è sottoposto — secondo i cri
teri ordinari — al giudizio di un ufficio giudiziario a cui egli era
funzionalmente estraneo al momento del commesso reato, salvo
che non vi sia stato successivamente destinato; il collegamento
temporale tra esercizio di attività giudiziaria e la commissione del
reato esclude la diversa interpretazione secondo cui per esercizio
di attività giudiziaria in un determinato ufficio deve intendersi, come sostenuto dal procuratore generale di Roma, non solo l'at
tualità ed effettività dell'esercizio delle funzioni ma anche la po tenzialità del medesimo in virtù di provvedimento temporaneo
previsto dall'ordinamento giudiziario. D'altra parte non sembra che
il risultato a cui si perviene utilizzando il criterio ermeneutico
della interpretazione letterale possa esser modificato dalla pretesa considerazione della ratio o mens legis che — quali criteri sussi
diari e spesso opinabili — non sono utilizzabili quando il signifi cato di una norma è fatto palese delle parole adoperate, giusto il
disposto dell'art. 12 preleggi. Ciò posto, va rilevato che una tale disciplina induce a fondati
dubbi sulla legittimità costituzionale dell'art. 41 bis c. p. p. nella
parte in cui non prevede lo spostamento della competenza terri
toriale anche nelle ipotesi di reati — commessi da pretori o in
loro danno — attribuiti alla competenza ordinaria del tribunale
nella cui circoscrizione è compreso il mandamento in cui il pre tore — imputato o parte lesa — esercita le sue funzioni, per con
trasto con gli art. 3, 97 e 101 Cost.
Nonostante la modifica della disciplina di cui all'abrogato art.
60 c.p.p., nata dalla esigenza di escludere l'intervento e la discre
zionalità della Corte di cassazione nella designazione del giudice
competente per una più puntuale osservanza del principio del
giudice naturale, sembra chiaro che la deroga alla ordinaria com
petenza per territorio, introdotta con l'art. 41 bis c.p.p., sia sta ta dettata da una duplice e legittima preoccupazione: a) che sia
salvaguardata la indipendenza di giudizio del giudice, chiamato a decidere, che sarebbe vulnerata da condizionamenti psicolo
gici — favorevoli o sfavorevoli all'imputato o parte lesa — do vuti alla reciproca conoscenza e ai rapporti intersoggettivi che si determinano tra appartenenti al medesimo ufficio giudiziario sia sul piano umano che su quello di servizio; b) che il presti gio dell'organo giudicante non sia offuscato dal sospetto di par zialità stante i rapporti interpersonali tra magistrati operanti nello stesso ufficio.
Orbene questa duplice preoccupazione non trova adeguata salvaguardia nell'ipotesi che ha determinato l'insorgere del con flitto. Si consideri infatti che il pretore del mandamento com
preso nella circoscrizione del tribunale competente per territo rio può essere stato chiamato a svolgervi — o può esserlo —
determinate funzioni in virtù di applicazione o supplenza, con le inevitabili conseguenze nei rapporti con i giudici ivi stabil mente addetti, specialmente quando ciò si verifichi — come di norma — nei tribunali aventi un esiguo organico; che le norme
processuali penali e l'ordinamento giudiziario prevedono rap porti di collaborazione, di controllo, di sorveglianza dei dirigenti dell'ufficio di procura della Repubblica e del tribunale con e
sul pretore. Tali rapporti sono idonei a suscitare — come è di
comune esperienza — atteggiamenti psichici tali da creare il
pericolo di condizionamento della serenità e imparzialità del
giudizio sul fatto-reato attribuito al pretore o commesso in suo danno e da giustificare l'insorgere di sospetto nel pubblico sulla correttezza dell'/ter processuale.
Da ciò consegue da un lato che la diversità di disciplina ri scontrata in situazioni sostanzialmente eguali non trova razio nale giustificazione, in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., e dall'altro che la sottoposizione del pre tore al giudizio del tribunale, nella cui circoscrizione sia incluso il mandamento del pretore stesso, si pone in contrasto con il
principio di imparzialità che, previsto per il buon funzionamen
to della amministrazione pubblica in genere dall'art. 97 Cost., assume una rilevanza assolutamente preminente nell'amministra
zione della giustizia penale.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I penale; sentenza 6 no
vembre 1981; Pres. Rubino, Est. Franco, P. M. Folino (conci, conf.); ric. Eramo. Conferma Trib. Napoli 29 dicembre 1978.
Armi e materie esplodenti — Porto di armi in pubbliche riunio
ni — Persone munite di licenza — Partite di calcio — Divie
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PARTE SECONDA
to — Sussistenza (L. 18 aprile 1975 n. 110, norme integra tive della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi, art. 4).
Ai fini del divieto di portare armi anche per le persone munite di licenza, le partite di calcio debbono considerarsi pubblica riunione. (1)
Premessa e motivi della decisione. — Nel corso di una par tita di calcio svoltasi I'll dicembre 1977 nel campo sportivo di
Calvizza tra due squadre locali, Alfonso Eramo veniva trovato
in possesso, su indicazione di un giocatore che asseriva di essere
stato minacciato, di una pistola cai. 7,65 per il cui porto era
munito di licenza.
Giudicato con rito direttissimo dal Pretore di Marano di Na
poli, l'Eramo veniva riconosciuto colpevole della contravvenzio
ne di porto in una pubblica riunione di un'arma per la quale era stata rilasciata licenza (art. 4, 4° comma, 1. 18 aprile 1975
n. 110) e condannato, con le attenuanti generiche e i benefìci
di legge, alla pena di quattro mesi di arresto e lire 100.000 di
ammenda. Era invece assolto per insufficienza di prove dal de
litto di minaccia con arma.
Su appello dell'imputato il Tribunale di Napoli con sentenza
in data 29 dicembre 1978 dichiarava non doversi procedere per amnistia relativamente al delitto e confermava nel resto la de
cisione del pretore.
Ricorre per cassazione l'Eramo deducendo a mezzo del di
fensore erronea applicazione della legge penale circa la ritenuta
sussistenza di una pubblica riunione nel senso voluto dalla 1.
n. 110/1975 e mancanza di motivazione sulla denegata conces
sione delle attenuanti generiche e sulla misura della pena in
flitta.
Il ricorso è infondato. La sentenza impugnata, nel definire il
concetto di « pubbliche riunioni » secondo l'espressione usata
dall'art. 4, 4° comma, 1. n. 110/1975, ha ritenuto che la norma
sia applicabile tutte le volte che il porto autorizzato dell'arma
avvenga « in luoghi in cui sia concorso o adunanza di persone e
nei quali per la convergenza appunto di una moltitudine di in
dividui, facilmente e frequentemente avvengono disordini ».
Sotto diverso aspetto questa corte ha invece ritenuto, in un
caso analogo a quello di specie (Sez. VI 6 dicembre 1978, ric.
Falcucci, Foro it., Rep. 1979, voce Armi, n. 66), che la riunione
pubblica di cui si occupa la legge predetta è solo quella tenuta
in un luogo pubblico e non anche la riunione che si svolga in
un luogo aperto al pubblico, quale appunto è uno stadio, in cui
l'accesso è consentito a chi paga un biglietto. Questo collegio ritiene di non poter condividere né l'una né
l'altra interpretazione. Non la prima, molto estensiva e indefinita, perché prescinde
dal significato proprio della locuzione « pubblica riunione », pur
cogliendo la finalità perseguita dalla norma.
Il termine « riunione », tanto nella sua comune accezione,
quanto nel significato tecnico usato dal legislatore, non significa infatti semplicemente concorso, presènza contemporanea di più
persone in un determinato luogo, ma l'insieme delle persone riunite di comune accordo per uno scopo stabilito. E difatti, pro
prio in tema di porto d'armi, la circostanza che nel luogo in
cui l'arma è portata vi sia semplice « concorso o adunanza di
persone », mentre è penalmente irrilevante per chi sia munito
di licenza di porto d'armi, è invece circostanza aggravante del
reato di porto senza licenza (art. 699, 3° comma, c.p.). La di
versa locuzione usata dall'art. 4, 4° comma, 1. n. 110/1975 — che
(1) In senso contrario, Cass. 6 dicembre 1978, Falcucci, Foro it., Rep. 1979, voce Armi, n. 66, la quale ha escluso la sussistenza del reato previsto dall'art. 4, 4° comma, 1. 18 aprile 1975 n. 110 nel caso di porto di arma, da parte di persona munita di licenza, in uno stadio durante una partita di calcio, sul rilievo che la locuzione pubbliche riunioni usata dalla predetta norma deve intendersi riferita esclusi vamente alle riunioni che si tengono in luogo pubblico e non anche
agli spettacoli che si svolgono in luoghi aperti al pubblico, nei
quali l'accesso è consentito soltanto a coloro che paghino il biglietto; sul punto v., anche, Pret. Bologna 10 maggio 1978, id., Rep. 1978, voce cit., nn. 59-61. Sulla parziale illegittimità costituzionale dell'art. 18 t. u. leggi di p. s. relativo alle riunioni in luogo aperto al pubblico, ai fini del preavviso all'autorità di p. s., v. Corte cost. 8 aprile 1958, n. 27, id., 1958, I, 506, con nota di richiami.
In dottrina, cons, per riferimenti Brignone, Sugli aspetti ancora controversi in tema di porto illegale di armi, in Mass. pen., 1981, 1374; Fois, Disciplina delle riunioni in luogo aperto al pubblico, in Foro it., 1953, I, 1351, spec. 1355; Mori, La nuova disciplina delle armi, in Giust. pen., 1977, I, 259; Pace, Rapporti civili, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma, 1977, sub art. 17, 163; Vigna-Bellagamba, Armi, munizioni, esplosivi - disciplina penale e
amministrativa, 1981.
ha abrogato, inasprendo la sanzione, l'identica norma contenuta nell'art. 19 t.u. leggi di p.s. approvato con r.d. 18 giugno 1931 n. 773 — sta dunque a significare chiaramente che il legislatore ha inteso tenere i due concetti ben distinti.
D'altra parte non può attribuirsi alla norma del citato art. 4
un significato cosi esteso da ridurre notevolmente il contenuto
pratico della licenza di porto d'armi, la quale viene rilasciata
dopo rigorosi accertamenti sulle qualità personali del richieden te e sul motivo della richiesta.
Neppure può condividersi la seconda interpretazione che, pren dendo in considerazione solo il significato dell'aggettivo ma non anche quello del sostantivo della locuzione « pubbliche riunio ni », restringe il campo di applicazione della norma alla natura
pubblica del luogo della riunione e ritiene inoltre necessario
il concorso di determinate modalità di accesso del pubblico (pa
gamento di un biglietto d'ingresso, che nel caso qui in esame
non sembra fosse richiesto), in realtà del tutto contingenti e irri
levanti per determinare, al fine che interessa, la pubblicità non
già del luogo, ma della riunione.
Questa infatti è considerata pubblica agli effetti della legge
penale anche quando, pur essendo indetta in forma privata, tut
tavia per il luogo in cui è tenuta o per il numero degli interve
nuti o per lo scopo o l'oggetto di essa, abbia carattere di riu
nione non privata (art. 266, 4° comma, n. 3, c.p.; art. 18, 2° com
ma, t.u. leggi di p.s.). Sicché, in base a tale nozione, può in ipo tesi aversi pubblica riunione in qualsiasi luogo, sia esso pubbli co (ad esempio un parco pubblico), aperto al pubblico (cinema,
pubblico esercizio, stadio), o persino privato, come il parco re
cintato di una villa privata. Ne consegue che ai fini della sussistenza della pubblica riu
nione prevista dall'art. 4 1. n. 110/1975 nessuna distinzione è concettualmente operabile tra pubbliche riunioni per le quali l'art. 18 t.u. leggi di p.s. impone il preavviso al questore e quelle che, avendo ad oggetto spettacoli o manifestazioni sportive da
svolgersi in luoghi a ciò destinati, comportano solo il rilascio di una licenza da parte del questore stesso (art. 68 t.u.).
La ragione della diversa disciplina non sta nella diversità on
tologica delle due categorie di riunioni e neppure nella maggiore pericolosità per l'ordine pubblico di quelle per le quali è richie sto il preavviso, rispetto alle altre (si pensi ad una riunione in
luogo pubblico per scopi scientifici o culturali rispetto a una decisiva partita di campionato in uno stadio), ma, semplicemen te, nel fatto che per le prime la valutazione del pericolo deve necessariamente compiersi di volta in volta, secondo l'infinita varietà degli scopi, degli oggetti e delle modalità esecutive delle
singole riunioni, mentre per le altre le esigenze di tutela del l'ordine pubblico già sono delineate dalla natura stessa degli spettacoli o delle manifestazioni sportive, sicché detta valuta zione può compiersi sin dal momento del rilascio della licenza e in ogni manifestazione è possibile assicurare le opportune cautele.
D'altra parte l'art. 4 1. n. 110/1975 si riferisce alle riunioni
pubbliche in genere e non soltanto a quelle per le quali sia ne cessario il preavviso a norma dell'art. 18 del citato t.u. Ed un
collegamento tra le due norme non è richiesto neppure da una
ragione logica, posto che il porto con licenza di un'arma può avvenire anche in una riunione autorizzata dal questore, per la
quale cioè le esigenze di tutela dell'ordine pubblico già sono state in concreto preventivamente valutate, come per i pubblici spettacoli e le manifestazioni sportive.
La distinzione va quindi compiuta non fra le due categorie ma, relativamente a entrambe, in base all'unico, comune criterio della pericolosità per l'ordine pubblico della riunione.
La necessità di un riferimento a questo requisito si evince dalla stessa ratio della norma incriminatrice che è appunto quel la di una più efficace prevenzione, più rigorosamente perseguita dal legislatore del 1975, dei delitti contro l'ordine pubblico, la vita e l'incolumità individuale.
Beni che non in tutte le pubbliche riunioni vengono ugual mente esposti a rischio ma solo in quelle che, per il loro og getto o per circostanze di tempo, di luogo o di persone, facil mente possono dar luogo a disordini. Diversa invero è la situa zione di pericolo che si determina per il pubblico che ascolta un concerto rispetto a quello che assiste e in notevole misura par tecipa a un incontro di calcio, cosi come una diversa situazione
può persino aversi in una stessa sala cinematografica, a seconda che si proietti una normale pellicola oppure altra che, in un
particolare memento di tensione politica o sociale, sia idonea ad accendere gli animi degli spettatori.
È solo in relazione alle pubbliche riunioni che abbiano attitu dine, secondo un comune criterio di prevedibilità, a creare situa zioni di pericolo, che il divieto deve ritenersi operante.
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GIURISPRUDENZA PENALE
Può dunque concludersi, riassumendo, che ad integrare la no
zione di pubblica riunione nel senso voluto dall'art. 4, 4° com
ma, 1. n. 110/1975 debbono concorrere tre requisiti: 1) che si
tratti di una riunione e cioè non di un occasionale concorso di
persone in un determinato luogo, ma di un insieme di persone in detto luogo convenuto per uno scopo comune stabilito; 2) che
si tratti di riunione pubblica, ossia di una riunione che per il
luogo in cui è stata tenuta o per il numero degli intervenuti o
per lo scopo o l'oggetto di essa abbia carattere di riunione non
privata; 3) che per il suo oggetto o per circostanze relative al
tempo, alle persone o al luogo dello svolgimento, la pubblica
riunione abbia attitudine, secondo un criterio di normale preve
dibilità, a determinare disordini.
Requisiti tutti che certamente concorrono nelle pubbliche par
tite di calcio, per loro stessa natura frequenti occasioni di disor
dini e di violenze, secondo la comune esperienza. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I penale; sentenza 26 mag
gio 198!; Pres. Severino, Est. Sibilia, P. M. Amoroso (conci,
conf.); ric. Valle. Conferma Assise app. Milano 24 marzo
197S.
Cause di non punibilità — Difesa legittima — Eccesso colposo
commesso dall'incaricato della difesa di altri — Responsabilità
del conferente — Estremi — Cooperazione colposa — Fatti
specie (Cod. pen., art. 52, 55, 113).
La persona che abbia incaricato altri di difenderla in caso di
necessità, non risponde, per ciò solo, a titolo di concorso pro
prio, del reato commesso con eccesso colposo in legittima di
fesa dal soggetto cui è stato conferito l'incarico, mentre ne
risponde, a titolo di cooperazione, qualora abbia contribuito
alla verificazione dell'evento con il proprio comportamento
imprudente (nella specie, è stata ritenuta sussistente la coo
perazione nell'eccesso colposo in legittima difesa, perché l'in
carico era stato conferito a persona inesperta dell'uso delle
armi, facilmente suggestionabile e molto emotiva). (1)
(1) Secondo una giurisprudenza ormai consolidata, è configurable l'eccesso colposo in legittima difesa allorché, pur sussistendo tutti
gli estremi previsti dall'art. 52 c. p., venga meno quello della pro
porzione fra offesa e difesa per colpa dovuta ad errore inescusabile,
precipitazione, imprudenza, imperizia o altro simile motivo, nel
valutare l'entità del pericolo e l'adeguatezza dei mezzi difensivi ne
cessari per fronteggiarlo (Cass. 11 aprile 1979, Giuffrida, Foro it.,
Rep. 1980, voce Cause di non punibilità, n. 32; 26 giugno 1978, Bosa
telli, id., Rep. 1979, voce cit., n. 32; 30 novembre 1977, Gallo, id.,
Rep. 1978, voce cit., n. 39; 26 novembre 1976, Musano, id., Rep. 1977, voce cit., n. 32; 2 ottobre 1975, Moro, id., Rep. 1976, voce cit., n. 25 a; 2 dicembre 1970, Gusato, id., Rep. 1971, voce cit., n. 50; 5 febbraio 1969, Tedesio, id., Rep. 1970, voce Eccesso colposo, n. 1; 3 aprile 1967, Sezeno, id., 1968, li, 537, con nota di richiami; sul
punto v. pure App. Roma 2 luglio 1980, id., 1981, II, 304, con
nota di richiami). Secondo la giurisprudenza prevalente, nell'eccesso
colposo in legittima difesa l'evento è voluto dall'agente, mentre è
colposo l'eccesso, da considerarsi un quid pluris rispetto a quanto sarebbe stato strettamente necessario alle esigenze difensive, talché
il reato commesso in tale stato non può qualificarsi giuridicamente come reato colposo, ancorché vi sia equiparato quoad poenam (Cass. 29 settembre 1975, Gambatzu, id., Rep. 1976, voce Cause di non
punibilità, n. 28; 28 febbraio 1973, Ottana, id., Rep. 1973, voce
cit., nn. 40, 41; 26 febbraio 1971, Verardi, id., Rep. 1972, voce
cit., nn. 45, 46; 7 febbraio 1969, Maccioni, ibid., n. 47; 21 febbraio
1966, la Barbera, id., Rep. 1966, voce Difesa legittima, nn. 33-35;
15 marzo 1965, Semioli, ibid., voce Eccesso colposo, n. 1). In senso
contrario, Cass. 5 novembre 1968, Di Prima, id., Rep. 1972, voce
Cause di non punibilità, n. 48, secondo cui il delitto commesso per
eccesso colposo, ai sensi dell'art. 55 c. p., presenta tutti i ca
ratteri del delitto colposo, non soltanto quoad poenam, ma anche
quoad substantiam. La sentenza che si riporta sembra aderire a
tale orientamento giurisprudenziale, sinora minoritario. È ricorrente
in giurisprudenza la tesi secondo cui nella cooperazione colposa la
convergenza dei comportamenti, a differenza che nella compartecipa
zione delittuosa, non richiede la volontà di contribuire con il proprio
operato alla realizzazione del reato, perché l'essenza della figura giu
ridica di cui all'art. 113 c. p. consiste nella non volizione dell'evento,
ancorché prevedibile o previsto <Cass. 27 ottobre 1976, Renzi, id.,
Rep. 1977, voce Concorso di persone nel reato, n. 15; 17 dicembre
1975, Esposito, ibid., voce Reato in genere, n. 28); la cooperazione
nel reato colposo consiste in una pluralità di condotte di più per
sone, collegate dalla consapevolezza e dalla volontà di ciascuna per
sona di partecipare e di dare apporto alla condotta dell'altra e tutte
convergenti nella commissione del fatto produttivo dell'evento non
voluto (Cass. 18 luglio 1980, Paione, id., Rep. 1981, voce Concorso
Svolgimento del processo. — Valle Maria Giuseppina, Ber
naca Marcello e Testa Livia Caterina venivano rinviati a giudi zio davanti alla Corte di assise di Milano con l'imputazione di omi
cidio volontario, aggravato dalla premeditazione e dal rapporto di
affinità e parentela, per avere — il Bernaca, quale autore materia
le, la Valle e la Testa, inducendo il predetto all'azione e fornen
dogli l'arma — concorso a cagionare volontariamente la morte
di Mancuso Salvatore (genero della Valle e marito della Testa) con due colpi di arma da fuoco (fucile automatico cai. 12) che
lo attingevano in parti vitali.
Con sentenza 20 dicembre 1976 la Testa veniva assolta per non aver commesso il fatto, mentre il Bernaca e la Valle erano
riconosciuti colpevoli di omicidio colposo (art. 589 c.p.) per ec
cesso di legittima difesa (art. 52-55 c.p.) e condannati alla pena di anni due di reclusione, ciascuno, con i doppi benefìci, oltre
al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese in favore del
le costituite parti civili, ludica Giuseppa e Mancuso Rosa, ma
dre e sorella della vittima.
Proponevano appello i due imputati, ma il Bernaca vi rinun ciava: la Valle invece insisteva nella versione già sostenuta in
primo grado, e cioè di non aver voluto l'evento delittuoso, ma di essersi limitata ad invocare l'aiuto del suo dipendente, Ber
naca, affinché accorresse a difenderla dall'aggressione violenta che stava subendo ad opera del genero; chiedeva quindi di es sere assolta per non aver commesso il fatto o in subordine per legittima difesa.
Con sentenza 24 marzo 1978 la Corte d'assise d'appello di Mi lano respingeva il proposto gravame, osservando che la Valle non si era limitata ad invocare soccorso, ma aveva esplicitamen te sollecitato il Bernaca a far uso del fucile, che essa stessa gli aveva peraltro procurato due giorni prima, allorquando in pre visione di un'eventuale aggressione da parte del Mancuso (che aveva minacciato di fare una strage), gli aveva detto di tenersi
pronto con l'arma « qualora il Mancuso si fosse reso pericoloso »
e addirittura gli aveva indicato il luogo dove avrebbe dovuto ap
postarsi (finestra della cucina). Osservava perciò la corte che, dovendo ritenersi per certo che il Bernaca aveva sparato per effetto della determinante istigazione della Valle, costei era te
nuta a rispondere, a titolo di concorso, del reato ritenuto in sen
tenza. Negava poi la corte l'applicabilità dell'esimente totale
della legittima difesa, condividendo le ragioni addotte dai primi
giudici a sostegno del riconoscimento dell'eccesso colposo nei confronti dell'autore materiale del reato. E infatti, attraverso una diligente e scrupolosa ricostruzione dei fatti, i giudici di
primo grado, dopo avere acclarato che il Bernaca era legittima mente intervenuto in difesa della Valle (e ciò, in considerazione
dell'attualità del pericolo, costituito dall'aggressione violenta po sta in essere dal Mancuso, dell'ingiustizia dell'offesa determinata
dal Mancuso stesso e della necessità della difesa) si erano poi convinti che il Bernaca avesse fatto un uso erroneo del fucile, come era dimostrato dalla reiterazione dei colpi, esplosi a bre
vissima distanza in direzione di parti vitali, e al riguardo avevano
osservato che se ciò non era in contrasto con la legittima difesa, denotava però una colpevole imprudenza del Bernaca, perché
di persone nel reato, n. 21; 14 febbraio 1972, Rizzuto, id., 1973, II, 216, con nota di richiami).
In dottrina, secondo Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1980, 314, 315, l'eccesso colposo nella causa di
giustificazione configura un caso di colpa impropria poiché l'evento è voluto, ma l'agente risponde di reato colposo. Per Mantovani, Di ritto penale, Padova, 1979, 294 s., la tradizionale distinzione fra colpa propria e impropria non ha ragion d'essere perché l'essenza della colpa va ravvisata, non nella mancata volizione dell'evento, bensì nell'aver
agito con leggerezza. La colpa è configurabile non solo quando non è voluto l'evento, ma anche quando il soggetto, pur avendo voluto
l'evento, non si sia rappresentato un qualsiasi altro elemento positivo o negativo, come accade allorché il soggetto è convinto di agire in
presenza di una scriminante che non esiste più perché ne sono stati
superati i limiti. Sulla questione relativa alla natura giuridica del reato commesso in stato di eccesso colposo ai sensi dell'art. 55 c. p., cons, altresì: Manzini, Trattato di diritto penale, Torino, 1981, II
(a cura di Pisapia), 374 ss.; Landi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1971, 987; Sandulli, in Giust. pen., 1933, 1078; Conso, in Ciur. it., 1947,
II, 105; Nuvolone, in Foro pen., 1949, 386; Pannain, in Arch, pen.,
1949, II, 299; M. Gallo, in Giur. it., 1950, II, 59. In tempi, quali quelli che viviamo, in cui è sempre più frequente
il ricorso alle guardie del corpo, altrimenti dette gorilla o guardia spalla, la sentenza che si riporta riveste una particolare importanza anche sotto il profilo pratico. Infatti, i principi di diritto enunciati sono suscettibili di applicazione in tutti i casi di affidamento ad altri della propria difesa personale da rapine, sequestri di persona ed altre evenienze del genere, rientranti nella quasi normalità della vita quo tidiana.
M. Boschi M. Boschi
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