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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || Sezione II penale; sentenza 21 ottobre 1980; Pres. Severino,...

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Sezione II penale; sentenza 21 ottobre 1980; Pres. Severino, Est. Petrone, P. M. Valeri (concl. conf.); ric. P. m. c. Consoli. Conferma App. Bologna 9 marzo 1979 Source: Il Foro Italiano, Vol. 105, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1982), pp. 283/284-285/286 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23174599 . Accessed: 25/06/2014 00:58 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.34.79.101 on Wed, 25 Jun 2014 00:58:09 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione II penale; sentenza 21 ottobre 1980; Pres. Severino, Est. Petrone, P. M. Valeri (concl.conf.); ric. P. m. c. Consoli. Conferma App. Bologna 9 marzo 1979Source: Il Foro Italiano, Vol. 105, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1982), pp.283/284-285/286Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23174599 .

Accessed: 25/06/2014 00:58

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PARTE SECONDA

rato unitariamente come parametro della rieducazione del con

dannato, mentre il comportamento che dà luogo alla revoca pos siede tale sintomaticità da rivelare il fallimento dell'intera pro va, cioè l'infondatezza della favorevole prognosi iniziale.

Infine, la dedueibilità del periodo di prova risoltosi negativa mente minerebbe in radice le finalità rieducative della misura,

perché lo stimolo alla conclusione positiva dell'esperimento ne

sarebbe quanto meno attenuato.

5. - Diversa dall'ipotesi sinora considerata è quella dell'an

nullamento. Come si è detto, questa corte ha annullato il prov vedimento della sezione di sorveglianza, viziato, per violazione

di legge, per difetto di un presupposto di ammissibilità della

misura. Certamente si tratta dell'annullamento di un atto di giu

risdizione: la natura giurisdizionale del procedimento di sorve

glianza (art. 71 dell'ordinamento penitenziario), del tutto coe

rente ad una linea di tendenza che investe l'esecuzione penale, è costantemente affermata dalla dottrina e dalla giurisprudenza di questa corte, in base alla rilevazione del principio del con

traddittorio e del contenuto del provvedimento terminativo, ri

corribile in Cassazione per violazione di legge. D'altro canto, l'introduzione di garanzie processuali tipiche dell'esercizio della

giurisdizione è razionalmente correlata alla adozione di provve dimenti direttamente incidenti sulla libertà personale.

Per nozione istituzionale, l'annullamento opera direttamente

sul provvedimento impugnato, distruggendone l'esistenza sin dal

momento in cui è sorto il vizio. L'eliminazione degli effetti, con

decorrenza ex tunc, scaturiti dal provvedimento viziato risponde

dunque alla funzione tipica dell'annullamento, come categoria

giuridica generale. Si tratta di un dato costante, cui non si sot

trae l'annullamento dei provvedimenti del giudice, che sempre

consiste, nella varietà delle sue specificazioni, nella rescissione

della pronuncia impugnata, cioè nella sua eliminazione dal mon

do giuridico. 6. - In questa prospettiva, la soluzione del problema sembra

obbligata: annullato il provvedimento che ammetteva il condan

nato alla misura alternativa, questa si considera come mai adot

tata: il rapporto esecutivo penale recupera l'originaria operati vità, e la espiazione della pena riprende il suo corso per un

tempo eguale alla differenza tra la quantità inflitta e quella pre cedentemente scontata in carcere.

Deve tuttavia ammettersi che il risultato non appaga, per la

immediata constatazione che effetti identici scaturiscono da si

tuazioni profondamente dissimili: revoca e annullamento son

diverse non soltanto per caratteristiche concettuali, ma perché la prima deriva da una condotta del condannato, di segno ne

gativo, che manca del tutto nel secondo. Inoltre, l'esperienza

giuridica riconosce che taluni fatti, perché irreversibilmente ve

rificatisi, resistono alla forza distruttiva dell'annullamento (/ac tum infectum fieri nequit): ne sono esempi scolastici la persi stente validità degli atti amministrativi posti in essere da fun

zionario la cui assunzione in servizio sia stata annullata, o gli effetti del matrimonio putativo, o lo stesso principio della fun

gibilità (pressocché) assoluta della custodia preventiva con la

pena, certamente comprensivo dell'ipotesi in cui il titolo della

custodia preventiva sia stato annullato.

Ma nel caso in esame, il periodo di tempo trascorso in affida

mento non è deducibile dalla durata della pena neppure nel caso

dell'annullamento, perché nella struttura dello stesso art. 47 del

l'ordinamento penitenziario la fungibilità tra misura alternativa

e detenzione è inesorabilmente legata alla conclusione positiva della prova, che ne presuppone l'integrale compimento, e non è

concepibile quando manchino addirittura i presupposti di ammis

sibilità della misura.

Resta cosi inoperante, per volontà di legge, un periodo di tempo che è stato pur vissuto non tanto nel materiale, anonimo trascor

rere del •tempo, ma in un impegno di emenda che non è smen

tito come nel caso della revoca, che è guidato attraverso i con

trolli e gli ausili del servizio sociale, che è sofferto, infine, con

la soggezione alle prescrizioni limitative della libertà del condan

nato, la cui afflittività è intuitivamente rivelata dal loro conte

nuto, descritto nei comma 4° e 5° dell'art. 47.

Da questi rilievi affiora il sospetto di illegittimità costituziona le della disposizione citata, in quanto esclude che valga come

espiazione di pena il periodo di affidamento in caso di annulla mento del provvedimento di ammissione.

La questione è certamente rilevante, perché la corte non può pronunciare sul ricorso sottoposto al suo esame se prima non sia sciolta la riserva sulla costituzionalità delle norme da ap

plicare; e, nei limiti della sommaria delibazione affidata al giu dice a quo, essa non appare manifestamente infondata.

Innanzi tutto, si profila un possibile contrasto con il principio

dell'eguaglianza giuridico-formale affermato nell'art. 3 Cost., sot

to l'aspetto del dovere di imparzialità del legislatore, che vieta

di trattare in modo difforme situazioni soggettive eguali, e, cor

relativamente, di trattare in modo eguale situazioni soggettive tra loro diverse. È vero che il principio in questione va inteso

non meccanicisticamente, ma in modo articolato; tuttavia, non

sembra riconducibile a criteri di razionalità la scelta legislativa che eguaglia negli effetti situazioni radicalmente differenti, come

la revoca e l'annullamento. Per converso, non appare infondato

il giudizio di simiglianza tra la posizione del condannato nei

cui confronti, per il superamento con esito positivo della prova, si verifichi l'estinzione della pena, e quella del condannato il qua le, avendo trascorso in tutto o in parte il periodo di prova in

modo identicamente coerente alle finalità rieducative del tratta

mento, e con modalità altrettante afflittive, non consegua in tut

to o in parte l'effetto dell'estinzione della pena. Altro possibile parametro di verifica di costituzionalità è indi

viduabile nell'art. 13: se l'annullamento dell'ordinanza di affi

damento neutralizza l'idoneità della prova a determinare l'estin

zione della pena, all'annullamento medesimo sembra residuare

un complesso di restrizioni della libertà personale del condan

nato che ingiustificatamente si sovrappone alla pena senza po ter ripetere la sua ammissibilità da un provvedimento del giu dice, essendo stata eliminata l'ordinanza di affidamento.

Un'ultima considerazione induce al raffronto tra l'art. 47 del

l'ordinamento penitenziario e l'art. 27 Cost., che assegna alla

pena la finalità di rieducazione del condannato. La norma costi

tuzionale trova diretta esplicazione nel principio della individua

lizzazione della pena, perché tanto più probabile sarà il rag

giungimento dello scopo rieducativo, quanto più differenziato, e

adeguato alla personalità del condannato, sarà il trattamento

sanzionatorio. 11 principio suaccennato ha trovato significativa anche se non compiuta realizzazione nella riforma penitenziaria del 1975, con la quale sono state apprestate misure alternative

che, privilegiando il fattore risocializzante rispetto a quello re

tributivo (senza tuttavia sopprimere del tutto l'afTlittività della

sanzione), si inseriscono nel vasto disegno di una progressione nel trattamento penitenziario, articolata e personalizzata, dinami

camente operante tra i poli estremi della espiazione della pena secondo modelli tradizionali, a prevalente contenuto retributivo, e della misura alternativa nella quale sia per converso premi nente la funzione di emenda e di recupero sociale del condan

nato.

Come si è detto, l'affidamento in prova al servizio sociale è

l'istituto che più intensamente rispecchia questa linea di tendenza; e non sembra coerente con il precetto costituzionale far deri

vare da un evento del tutto estraneo alla condotta del condan

nato la vanificazione di un risultato rieducativo in tesi già con

seguito attraverso il trattamento alternativo.

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione II penale; sentenza 21 ot tobre 1980; Pres. Severino, Est. Petrone, P. M. Valeri (conci, conf.); ric. P.m. c. Consoli. Conferma App. Bologna 9 marzo 1979.

Cassazione penale — Imputato assolto in primo grado e condan nato in appello — Deducibilità di censure relative al merito delia sentenza di secondo grado — Esclusione — Questione ma nifestamente infondata di costituzionalità (Cost., art. 3, 24, 25; cod. proc. pen., art. 524).

E manifestamente infondata la questione di costituzionalità del l'art. 524 c.p.p.. nella parte in cui non consente al ricorrente in Cassazione avverso sentenza di condanna del giudice di ap pello, pronunciata nei confronti di imputato assolto in primo grado, di dedurre censure relative alla valutazione di merito

effettuata dal giudice di secondo grado, in riferimento agli art. 3, 24, T comma. 25, 1° comma. Cost. (1)

(1) Non si rinvengono precedenti editi sulla questione specifica. Da ultimo, nel senso che il vigente ordinamento processuale prevede

normalmente il doppio grado di giurisdizione di merito, ma al di fuori dei casi eccezionali espressamente contemplati dalla legge, il

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GIURISPRUDENZA PENALE

Svolgimento del processo. — (Omissis). — Hanno proposto ricorso per cassazione il procuratore generale presso la Corte

d'appello di Bologna ed il Consoli. Il primo ha dedotto, nei confronti del solo Consoli, violazione

di legge per erronea determinazione della pena pecuniaria. Il secondo ha dedotto, tramite il proprio difensore, tre distinti

motivi. Col primo viene eccepita la illegittimità costituzionale

dell'art. 524 c. p. p. nella parte in cui non consente che il ricor

rente avverso sentenza di condanna del giudice di appello pro nunciata nei confronti di imputato assolto in primo grado, non

possa dedurre censure relative alla valutazione di merito effet

tuata dal giudice di secondo grado, per contrasto con gli art.

3. 24 e 25 Cost.; per l'ipotesi di accoglimento di tale motivo, il

ricorrente censura la sentenza impugnata per aver omesso una

qualsiasi indagine valida « ed in particolare per non aver verifi

cato l'erroneità delle tesi sostenute dal p.g. in ordine al ricono

scimento da parte della Fervari e degli altri testi ». (Omissis)

Motivi della decisione. — 1) Deve essere preliminarmente esa minata la eccezione di incostituzionalità dell'art. 524 c.p.p., per preteso contrasto con gli art. 3, 24 e 25 Cost., nella parte in cui

esclude che l'imputato assolto in primo grado e condannato in

appello possa dedurre, come motivi di ricorso per cassazione, censure di fatto.

La questione sembra al collegio manifestamente infondata, in

ciascuno dei tre profili prospettati.

Quanto al contrasto con l'art. 3 Cost., deve rilevarsi come non

sussista la pretesa disparità di trattamento tra il condannato in

primo grado ed il condannato solo in secondo grado, dal mo

mento che neanche il primo può dedurre motivi di fatto in Cas

sazione; e, d'altra parte, se ciò fosse possibile, la supposta dispa rità di trattamento sussisterebbe egualmente poiché, dovendo la

suddetta facoltà essere concessa ad ogni ricorrente, il condan

nato nei due gradi precedenti avrebbe a disposizione un secondo

grado di impugnazione nel merito, nel quale contestare la rite

nuta responsabilità, a differenza dell'assolto in primo grado. La

verità si scopre, peraltro, proprio in relazione a tale ultimo ri

lievo: ed infatti, l'imputato assolto in primo grado (salvo il caso

di proscioglimento per ragioni processuali o per estinzione del

reato, su cui ci si fermerà tra breve) e condannato in appello, non è per nulla privato di un grado di giurisdizione di merito,

poiché la sua responsabilità penale è stata già esaminata in tutti

i vari profili, di fatto e di diritto, nel giudizio di primo grado, nel quale, per ciò stesso, ha avuto la possibilità di contestare il

fondamento dell'accusa (cosi da essere stato, appunto, assolto).

Neppure può ritenersi sussistente il contrasto dell'art. 524

c.p.p. (in parte qua) con l'art. 24. 2° comma. Cost., che ricono

sce il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, dal momento che tale diritto, come la Corte costituzionale ha

più volte affermato, consiste nella possibilità effettiva dell'assi

stenza tecnica e professionale nello svolgimento di qualsiasi pro

cesso, in modo che venga assicurato il contraddittorio e venga rimosso ogni ostacolo a far valere le istanze e le ragioni delle

stesse (sent. n. 41 del 31 maggio 1965, Foro it., 1965, I, 1124, ed altre successive); possibilità, questa, che non è certo negata a

chi, assolto in primo grado, venga condannato in grado di ap pello, se pur in sede di ricorso per cassazione gli sia già con sentito di dedurre solo motivi di legittimità. Se, poi, la pretesa violazione dell'art. 24, 2° comma, Cost, si volesse ravvisare nella

perdita del secondo grado di giurisdizione di merito, le conclu sioni non muterebbero.

In primo luogo, infatti, la stessa premessa non appare accetta bile dal momento che, come si è già dimostrato, l'imputato ricor rente per cassazione che sia stato assolto in primo grado e con

dannato in appello, ha già avuto a disposizione due gradi di giu risdizione di merito.

In secondo luogo, va rilevato che, comunque, il principio del

doppio grado di giurisdizione di merito è comunemente inteso, sia dalla giurisprudenza costituzionale (v. ad es., sent. n. 41 del

1965, cit.) che dalla dottrina, non già nel senso che tutte le que stioni di un processo debbano essere decise da due giudici di

diversa istanza, ma nel senso che deve essere data la possibilità di sottoporre tali questioni a due giudici di istanza diversa, an

giudizio di cassazione non è configurabile come terzo grado di giu dizio di merito, né tale può divenire surrettiziamente attraverso la deduzione dei vizi di cui all'art. 524, n. 2, in relazione all'art. 475, n. 3, c.p.p. v. Cass. 30 maggio 1979, Godeas, Foro it., Rep. 1980, voce Cassazione penale, n. 19.

che se il primo non le abbia tutte decise. Ed è proprio in base a

tale concezione che è stata esclusa la violazione dell'art. 24, T

comma, Cost., in una ipotesi in cui addirittura — e ciò diversa

mente da quanto accade nei casi del tipo di quello in esame —

l'indagine di fatto sulla responsabilità dell'imputato potrebbe non

essere stata svolta in primo grado. Nella sentenza n. 41 del 1965,

già pili volte ricordata, infatti, si è dichiarata non fondata, in riferimento alla predetta norma costituzionale, la questione di

legittimità costituzionale dell'art. 522, ult. parte, c. p. p., che attri buisce al giudice di appello la potestà di decidere sul merito,

quando riconosce erronea la sentenza del primo giudice con la

quale si sia dichiarato estinto il reato e sia stato dichiarato che l'azione penale non poteva essere iniziata o proseguita (si veda, in senso analogo, la ordinanza n. 9 del 1971. id., 1971, I, 806).

Ma neanche nel caso di sentenza inappellabile, secondo l'orien

tamento della Corte costituzionale, potrebbe ravvisarsi un contra

sto con l'art. 24, 2° comma (e con l'art. 3, 1° comma) Cost.; ed

infatti, solo per l'ipotesi in cui l'inappellabilità concerna una

sentenza applicativa dell'amnistia a seguito di giudizio di com

parazione, si è pervenuti alla pronuncia di incostituzionalità (si vedano le sentenze n. 70 del 1975, id., 1975, I, 1052 e n. 73 del

1978, id., 1978, 1, 1337).

Quanto, poi, al preteso contrasto dell'art. 524 c.p.p. con l'art.

25 Cost., è appena il caso di rilevare, da un lato, che non ne è

stato neanche precisato il profilo, dall'altro, che tale norma ap

pare del tutto estranea alla questione in esame, dal momento che

l'unica disposizione a contenuto processuale in essa racchiusa

(1° comma) concerne il principio di naturalità del giudice. Concludendo sul punto, ritiene la corte che, a parte le indica

zioni ricavabili dalle pronunce sopra ricordate, l'attribuzione della

facoltà di criticare nel merito il giudizio di colpevolezza all'im

putato condannato solo in grado di appello, risolvendosi nella

introduzione nel sistema addirittura di un terzo grado di giuris dizione di merito, non si può certo considerare imposta dal co

stituente (a meno che non ritenesse comunque di riconoscerla il

legislatore ordinario, col richiedere una sorta di doppia pronuncia conforme nel merito, in analogia con quanto è previsto, se pur in un ben diverso quadro, per taluni casi, dal diritto processuale

canonico) se è vero che esso, come si è già visto, non ha inteso

garantire neanche il principio del doppio grado di giurisdizione di merito, assicurando soltanto, nell'art. Ili della Carta, il con

trollo in sede di legittimità. E non è superfluo rilevare come nel

progetto del nuovo codice di procedura penale — che, come è

noto, si è mosso nella rigorosa direttiva di attuare i principi della

Costituzione, cosi come imposti dalla legge delega (art. 2 1. 3

aprile 1974 n. 108) — una tale esigenza non si è neanche pro

spettata, mentre ci si è orientati in senso diametralmente oppo sto e cioè in quello di uno snellimento de! processo, mantenen

dosi casi di sentenze addirittura inappellabili e prevedendosi la

facoltà — sinora tipica del processo civile — di pervenire subito

al giudizio di legittimità, omisso medio, ossia eliminando l'ap

pello e ricorrendo per saltum in Cassazione. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; Sezioni unite penali; sentenza 14

giugno 1980; Pres. T. Novelli, Est. Mele, P. M. (conci, conf.);

imp. Achilli. Conflitto di giurisdizione.

Competenza e giurisdizione penale — Conflitto positivo di giu risdizione — Denuncia successiva a pronuncia di sentenza ir

revocabile — Inammissibilità (Cod. proc. pen., art. 51).

È inammissibile il conflitto positivo di giurisdizione denunciato

dal giudice militare quando, in merito allo stesso fatto, sia già intervenuta una sentenza irrevocabile del giudice ordinario. (1)

(1) La giurisprudenza della Cassazione è assolutamente costante nel senso che presupposto indefettibile per la sussistenza di un conflitto

positivo di giurisdizione o di competenza è la contemporanea pen denza dinanzi a più giudici ordinari o speciali di distinti procedimenti

per lo stesso fatto-reato (sul punto, da ultimo, v. sent. 6 febbraio 1979, Cederna, Foro it., Rep. 1979, voce Competenza penale, n. 31; 26 otto bre 1977, Guidotto, id., Rep. 1978, voce cit., n. 72; 7 giugno 1977, Savino, ibid., n. 62; 11 agosto 1976, Curcio, ibid., n. 70; 17 dicembre

1977, Aramu, id., 1978. II, 363, con nota di richiami). Del pari co

stante è la giurisprudenza nel senso che rispetto ai reati di insubor dinazione con violenza od ingiuria verso superiori di cui agli art. 186 e 189 c. p. mil. pace ed ai reati di resistenza o di oltraggio a

pubblico ufficiale previsti dagli art. 337 e 341 c. p., non si confi

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