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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione II penale; sentenza 23 giugno 1989; Pres. Caputi,...

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sezione II penale; sentenza 23 giugno 1989; Pres. Caputi, Est. Della Penna, P.M. (concl. diff.); ric. Bernabei. Annulla senza rinvio App. Roma 23 giugno 1988 Source: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp. 707/708-715/716 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23183683 . Accessed: 25/06/2014 10:47 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.44.78.156 on Wed, 25 Jun 2014 10:47:58 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione II penale; sentenza 23 giugno 1989; Pres. Caputi, Est. Della Penna, P.M. (concl. diff.); ric. Bernabei. Annulla senza rinvio App. Roma

sezione II penale; sentenza 23 giugno 1989; Pres. Caputi, Est. Della Penna, P.M. (concl. diff.);ric. Bernabei. Annulla senza rinvio App. Roma 23 giugno 1988Source: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp.707/708-715/716Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183683 .

Accessed: 25/06/2014 10:47

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PARTE SECONDA

tassatività della norma ai sensi dell'art. 1 c.p. e 12-14 disp. sulla

legge in generale. Il ricorso è infondato. L'art. 21 1. n. 1060 del 28 luglio 1960,

recepita insieme al contratto collettivo nazionale di lavoro per il settore della ceramica del 31 gennaio 1957 dalla legge recante

sanzioni penali 14 luglio 1959 n. 741, art. 1 e 8, disciplina il trattamento dei lavoratori in caso di malattia o infortunio ed as

sicura la conservazione del posto in base al periodo di malattia

ed all'anzianità di servizio. La conservazione predetta oscilla, pertanto, da un periodo mi

nimo di sette e massimo di nove mesi a seconda dell'anzianità

fino a nove e ad oltre diciannove anni di servizio.

È, pertanto, ben evidente che l'espressione al singolare della

parola malattia (in caso di malattia) non può riferirsi ad un'iden

tica sindrome morbosa essendo inverosimile che una persona si

ammali della medesima malattia in un cosi lungo periodo di tolle

ranza legislativa ovvero di comporto da nove ad oltre diciannove

anni di attività lavorativa.

Vi osterebbe, d'altronde, la riflessione sulla ricorrente diversi

ficazione della diagnosi ovvero della precisazione del nome della

malattia pur di fronte ad una medesima sintomatologia morbosa

da parte dei sanitari. Per esemplificazione è sufficiente ricordare

che una diagnosi generica di «influenza» viene spesso diversa

mente definita con espressioni differenziate quali «laringo-tracheite,

bronchite, sindrome bronco-polmonare, ecc.

Né l'avere il 4° comma ribadito l'espressione al singolare con

le parole «in corso di ricaduta nella stessa malattia» significa iden

tità del quadro morboso, perché tale norma si preoccupa soltanto

di aumentare in caso di recidiva il periodo di conservazione del

posto della metà di quello originario.

Urterebbe, peraltro, con il principio di logicità essenziale, fare

usufruire di detto beneficio il lavoratore affetto da una medesima

malattia per anni e non anche quello soggetto a plurima e quindi

più gravosa morbilità.

vigenza del citato art. 8 anche dopo la nuova normativa sui licenziamenti individuali (1. 15 luglio 1966 n. 604, integrata dall'art. 18 1. 20 maggio 1970 n. 300), e l'onere del dipendente di comunicare al datore di lavoro lo stato di malattia ed il relativo decorso, nonché di fornirne la prova con la prescritta documentazione medica, dovendo, in mancanza, ritener si giustificato il licenziamento.

Per una disamina generale sulla disciplina del comporto per sommato

ria, v. Cass. 12 aprile 1989, n. 1742, id., 1990, I, 1654, con nota di richiami in giurisprudenza e dottrina. [R. Ciquera]

CORTE DI CASSAZIONE; sezione II penale; sentenza 23 giu

gno 1989; Pres. Caputi, Est. Della Penna, P.M. (conci, diff.); ric. Bernabei. Annulla senza rinvio App. Roma 23 giugno 1988.

Appropriazione indebita — Distrazione di fondi extra-bilancio di

società controllate — Reato — Esclusione (Cod. pen., art. 646).

Benché le attività di appropriazione e di distrazione implichino entrambe la sottrazione del bene alle sue finalità istituzionali, tali condotte si diversificano nella fase successiva della nuova

destinazione, che nell'appropriazione è soggettivamente ed og

gettivamente orientata ad impadronirsi della cosa, cioè ad in

staurare un completo dominio su di essa immettendola nel pa trimonio dell'agente, mentre nella distrazione è rivolta sempli cemente ad un uso arbitrario del bene con impiego per fini diversi da quello cui era destinato; pertanto, l'amministratore

delegato della società capogruppo, che distrae fondi extra

bilancio di società controllate senza vantaggio personale né frau dolente intese con i terzi destinatari dei singoli atti di disposi zione, non realizza alcuna condotta riconducibile al modello

di appropriazione indebita delineato dall'art. 646 c.p. (1)

(1) La decisione — riportata anche in Riv. trim. dir. pen. economia, 1989, 1123, con nota adesiva di Calderone, Il ruolo della Cassazione e la supplenza giudiziaria (a proposito di utilizzazione di fondi non con

II Foro Italiano — 1990.

Fatto e diritto. — Con sentenza in data 3 dicembre 1987 il

giudice istruttore presso il Tribunale di Roma concludeva l'ampia

indagine istruttoria condotta ai fini dell'accertamento di eventua

li responsabilità connesse alla formazione ed alla utilizzazione di

disponibilità extracontabili accantonate da società appartenenti al gruppo Iri dal 1964 al 1974 allorquando erano stati aperti e

gestiti numerosi conti correnti bancari a nome delle società Scai,

(poi Italscai) ed Italstrade presso filiali della Bnl di Roma e di Milano. Precisava al riguardo il decidente, dopo aver premesso che «neppure i periti d'ufficio avevano potuto stabilire con asso

luta certezza l'originaria pertinenza dei fondi in questione» e che

dopo il 1974 la «lievitazione degli stessi era avvenuta esclusiva

mente per autoalimentazione attraverso gli interessi maturati sui

depositi», che autore della formazione dei fondi non contabiliz

zati era stato Antonio Orlandi (deceduto nel 1978) all'epoca am

ministratore unico di Italstrade e presidente della Scai, il quale

nell'agosto del 1976 aveva consegnato le disponibilità «ai vertici

Iri», materialmente affidando in custodia a Spafid, fiduciaria di MedioBanca, il plico che le conteneva contrassegnato dalla sigla

«Gruppo Italstrade»; che il 29 ottobre dello stesso anno detto

plico era stato ritirato da Sergio De Amicis, amministratore di Italstat sino al 1973, poi membro del consiglio di amministrazio ne fino al 20 maggio 1976 della suddetta società, presidente di

tabilizzati per finalità extrasocietarie) — cassa App. Roma 23 giugno 1988, che aveva invece affermato la configurabilità di principio dell'incrimina

zione, pur dichiarando estinto il reato per amnistia: la sentenza è riporta ta in Foro it., 1989, II, 420, con nota di richiami e commento di Mhitel

10, Aspetti penalistici dell'abusiva gestione nei gruppi societari: tra ap propriazione indebita ed infedeltà patrimoniale. In dottrina cfr. pure di recente Flick, Gruppi e monopolio nelle nuove prospettive del diritto

penale, in Riv. società, 1988, 470 s.; Foffani, La responsabilità penale nella gestione dei patrimoni altrui, in Contratto e impresa, 1988, 110

s.; Mangano, L'infedeltà patrimoniale degli amministratori nei gruppi di imprese, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1989, 1003 s. Fra i recenti contributi stranieri vanno segnalati Bouloc, Droit pénal et groupes d'en

treprises, in Revue des sociétés, 1988, 182 s. e, per un profilo particolare, il conflitto d'interessi da parte dei membri di organi sociali di controllo, Tiedemann, Untreue bei Interessenkolflikten, in FS fùr Tróndle, 1989, Berlin-New York, De Gruyter, 319 s.

La distinzione fra le condotte di appropriazione e distrazione, di cui alla prima parte della massima, è ripresa testualmente da un contributo dedicato alla fattispecie di peculato: Severino, Il criterio fra distrazione ed appropriazione nel peculato, in Mass. pen., 1976, 711. Questa impo stazione è stata autorevolmente avallata in giurisprudenza, in relazione al tormentato problema dell'abuso di fido bancario, da Cass., sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet, Foro it., 1987, II, 481, con nota di Giacalone, Vecchio e nuovo nella qualificazione giuridica dell'attività bancaria; Ban

ca, borsa, ecc., 1988, II, 517, con nota di Veneziani, Le qualifiche sog gettive degli operatori bancari secondo le sezioni unite della Cassazione; Riv. it. dir. e proc. pen., 1987, 695, con nota di Paliero, Le sezioni unite invertono la rotta: è «comune» la qualifica giuridico-penale degli operatori bancari. L'importanza del distinguo fra le due specie di condot te è connessa al mutato paradigma nella qualificazione degli operatori bancari: una volta esclusa l'applicabilità dello statuto penale della pubbli ca amministrazione, le forme abusive prima riconducibili alla distrazione di beni rimangono al di fuori dell'incriminazione comune» di appropria zione indebita. In dottrina, a favore di tale conclusione, cfr. Paliero, op. cit., 704; Foffani, Le «mobili frontiere» fra pubblico e privato nello statuto penale degli operatori bancari, in Banca, impresa e società, 1988, 202 s.

Sul punto specifico però vi è stato un significativo mutamento d'opi nione nella stessa giurisprudenza: Cass. 24 marzo 1988, Ferranti, Foro

it., 1988, II, 669, con nota di Rapisarda, La natura giuridica dell'attività bancaria fra «disorientamenti» giurisprudenziali e prospettive di riforma. La possibilità di applicare (in presenza di determinati requisiti) l'art. 646 ha trovato conferma nella successiva pronunzia delle stesse sezioni unite

penali 28 febbraio 1989, Vita, id., 1989, II, 506, con nota di richiami e commento di Cianci, La responsabilità penale degli operatori bancari:

evoluzione giurisprudenziale; Cass. pen., 1989, 2150, con nota di Zan

notti, Banche e diritto penale: la terza pronuncia delle sezioni unite della

Cassazione; Giust. pen., 1989, II, 513, con nota di Lupacchini, Vechio e nuovo nel trattamento sanzionatorio degli operatori bancari; id., 1990, 11, 193, con nota di Mezzetti, L'appropriazione indebita nell'abuso di

fido bancario. Le condizioni di applicabilità dell'appropriazione indebita ai casi di

abuso nel credito sono state pure approfondite da Prosdocimi, Esercizio del credito e responsabilità penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, 996 s.; Flick, Diritto penale e credito: problemi attuali e prospettive di soluzione. Addenda: Dal pubblico servizio all'impresa banca: ritorno al

futuro, Giuffrè, Milano, 1990, 45 s., spec. 66 s.

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GIURISPRUDENZA PENALE

Italscai fino al 1981 e di Italstrade fino al 1982 e dal 1983 consi

gliere di amministrazione di Italstrade e che nello stesso 1983 le

disponibilità in oggetto erano state utilizzate tramite il passaggio di tranches di importo variabile dalle mani del De Amicis a quel le dei coimputati, amministratori, dirigenti e membri di organi sociali dell'Iri e di società compartecipate e collegate. Tra cui

Ettore Bernabei, amministratore delegato dal 1974 della Italstat, società finanziaria leader del gruppo di appartenenza delle men

zionate Scai ed Italstrade, imputato dei reati di appropriazione indebita continuata aggravata ex art. 112, n. 1, 61, n. 7, ed 11

c.p. per essersi a profitto proprio o altrui, in concorso con altri

ed in particolare con il De Amicis e con il presidente dell'In (ca

po n. 8 bis), appropriato, o dato «una destinazione incompatibile con le ragioni che ne giustificano il possesso», di somme costitui

te da fondi non contabilizzati di pertinenza Italscai e Italstrade, nonché di quelli di falso in comunicazioni sociali e nei bilanci annuali delle società Italstat (capo n. 9), Italscai ed Italstrade, concernenti questi ultimi gli anni 1982 e 1983 (capo n. 10), di falso ideologico ex art. 479 c.p., relativamente all'omessa indica

zione in bilancio di poste attive di plusvalenze non contabilizzate

(capo n. 11) e di truffa aggravata continuata in danno dello Sta

to, indotto, mediante fraudolente esposizioni contabili, ad eroga zioni superiori a quelle dovute. In via di principio, affermava il giudice istruttore che la mera «costituzione e la semplice con

servazione di fondi extrabilancio non costituivano di per sé reati

appropriativi, ipotizzabili, invece, quando dalla massa di detti fondi non contabilizzati «vengano sottratte risorse per essere impiegate con modalità o finalità extrasocietarie».

Di conseguenza, assumeva il giudicante, con riferimento alla

posizione del Bernabei in ordine all'appropriazione indebita con

testata nei capo 8 ed 8 bis della rubrica, che detto reato è confi

gurabile «ogniqualvolta le somme extra-bilancio sono state im

piegate per finaltà diverse da quelle della società cui detti fondi

appartengono e, quindi, anche nel caso che beneficiaria delle stesse

sia stata una società facente parte del gruppo o fosse anche la

capogruppo», eppertanto riteneva la correttezza delle suindicate

contestazioni «essendo sufficiente a tal fine fare riferimento alla

natura degli impieghi che di dette somme, sulle quali il Bernabei

non aveva nessun potere legittimo, egli ha fatto per fini certo

non personali ma comunque non propri ed esclusivi di Italstrade

ed Italscai». Cosi disattendendo, senza peraltro procedere a par ticolari verifiche, le indicazioni offerte al riguardo dall'imputato circa le singole erogazioni fatte nel 1983 e nel 1984 costituenti, a suo dire, spese promozionali o strumentali di comune vantag

gio per le società del gruppo che coinvolgevano, pertanto, anche

se talvolta solo indirettamente, gli interessi delle società cui i fon

di appartenevano. Riteneva, invece, il giudicante l'assorbimento

nel reato di appropriazione indebita precisata nel capo 8 bis di

quello di falso nei bilanci Italscai e Italstrade per gli esercizi degli anni 1982 e 1983 di cui al capo n. 10 della rubrica, all'uopo rile

vando che a fronte dell'esclusione di ogni responsabilità del De

Amicis per gli anni successivi al 1981 andava rigettata qualsiasi

ipotesi di colpevolezza a carico del Bernabei, al quale solo nel

1983 era stata resa nota l'esistenza di fondi non contabilizzati

e nel 1984 la consistenza di dette risorse senza che fosse risultato

un suo precedente coinvolgimento nell'attività di conservazione

dei fondi e che, «all'epoca, egli si preoccupò di invitare il De

Amicis ed i legali rappresentanti delle società interessate», nelle

quali non aveva rivestito carica alcuna, «ad effettuare operazioni

per far rientrare direttamente e indirettamente le risorse extra

bilancio nelle società cui appartenevano».

Rilevava, peraltro, il giudice istruttore, che i suddetti reati di

appropriazione indebita come sopra definiti rimanevano coperti dall'amnistia concessa con il d.p.r. 16 dicembre 1986 n. 865, ope

rativa nella specie ex art. 1, lett. B, e 3 del citato decreto, in

considerazione dell'età dell'imputato che aveva compiuto il 65°

anno di età alla data di entrata in vigore del provvedimento di

clemenza.

In ordine alle restanti imputazioni proscioglieva il Bernabei per

ché il fatto non sussiste dal reato di falso nei bilanci Italstat di

cui al capo n. 9 della rubrica, neppure ipotizzabile nella specie

e perché il fatto non costituisce reato da quelli di falso ideologico

e truffa sub nn. 11 e 12 per difetto assoluto di dolo.

Appellava l'impugnata sentenza il Bernabei assumendo che

avrebbe dovuto essere prosciolto con formule diverse e più am

piamente liberatorie di quelle adottate dal giudice istruttore dai

reati di falso documentale e truffa e prosciolto con ampia formu

li. Foro Italiano — 1990.

la e non per amnistia da quelli di appropriazione indebita di cui non ricorrevano nella specie gli estremi né con riferimento all'ele

mento oggettivo né in relazione a quello soggettivo. In data 23 giugno 1988 la sezione istruttoria della Corte d'ap

pello di Roma (Foro it., 1989, II, 420), parzialmente accogliendo

l'interposto gravame, dichiarava non doversi procedere a carico

dell'imputato in ordine al reato di falso ideologico per non aver

commesso il fatto ed a quello di truffa perché il fatto non sussi

ste mentre confermava nel resto l'impugnata sentenza.

Rispondendo alle numerose questioni dedotte dalla difesa in

ordine alle imputazioni di appropriazione indebita, riteneva la se

zione istruttoria che il De Amicis, quale mero consigliere di am

ministazione di una delle società del gruppo, non era autorizzato

senza consenso dei competenti organi sociali ad operare alcun

trasferimento o consegna di fondi e che il Bernabei, seppur am

ministratore unico della capogruppo, non aveva alcuna veste per accettarli sia per rispetto dell'autonomia patrimoniale e finanzia

ria delle società controllate sia per le stesse modalità del trasfe

rimento. Assumeva, inoltre, l'inconcludenza dell'assunto difensivo per

cui il Bernabei nella qualità di amministratore unico della società

capogruppo e, quindi, di titolare della «direzione unica» del gruppo di imprese, di cui è menzione nell'art. 3 1. 3 aprile 1979 n. 95, avrebbe avuto il potere-dovere di gestire discrezionalmente i fon

di in oggetto, dovendosi interpretare restrittivamente la suindica

ta norma che, disciplinando ipotesi particolari, non conteneva al

cun esplicito riconoscimento del gruppo di imprese come entità

giuridica autonoma, di per sé non considerata dall'ordinamento

giuridico, né di un potere di ingerenza dell'amministratore dell'a

zienda leader nell'attività gestionale di quelle controllate, neppu re come amministratore di fatto o «aggiunto». Riteneva, ancora, il collegio, sottoponendo a «breve analisi la destinazione dei fon

di gestiti dal Bernabei», che l'imputato aveva utilizzato le somme

affidategli con criteri ampiamente discrezionali del tutto svincola

ti dalle finalità e dagli interessi della Italscai e della Italstrade

ed in vari casi di quelli di qualsivoglia società del gruppo; che

non ricorreva nella specie l'ipotesi prevista dall'art. 2028 c.c.,

pure adombrata dalla difesa, non riscontrandosi nella condotta

dell'imputato il presupposto richiesto dalla legge dell'aver agito

nell'altrui interesse rimproverandosi al Bernabei «proprio di aver

ignorato gli interessi di Italscai ed Italstrade» e che del tutto «fuor

viarne» risultava «la discussione» sulla differenza fra atto di ap

propriazione ed atto di distrazione introdotta dall'art. 314 c.p., dovendosi nella specie «soltanto stabilire se gli atti di disposizio ne compiuti dal Bernabei rientrassero nella nozione di appropria zione indebita a norma dell'art. 646 c.p.». Come certamente si

era verificato nella specie, in quanto il Bernabei «entrato in pos sesso della somma di circa 30 miliardi di proprietà della società Italstrade ed Italscai, aveva compiuto atti di disposizione che spet tavano unicamente agli organi rappresentativi e di gestione delle

predette società» e neppure nel loro diretto interesse, con conse

guente, ingiustificato depauperamento del rispettivo patrimonio.

Riteneva, infine, l'irrilevanza dell'accertato disinteresse perso nale del Bernabei, essendo configurabile il reato contestatogli an

che quando l'appropriazione risultava posta in essere «a profitto di altri», mentre disattendeva le deduzioni formulate in ordine

all'elemento psicologico del reato dovendosi ritenere per certo che

l'imputato già nel 1983 aveva consapevolezza dell'altruità delle

risorse e che continuò a disporne uti dominus anche dopo il gen naio 1984, data in cui, secondo le sue stesse ammissioni, aveva

appreso nei particolari la proprietà del fondo extra-bilancio.

Ricorreva per cassazione l'imputato e la difesa denunciava vio

lazione e falsa applicazione dell'art. 646 c.p. in relazione agli art.

524, n. 1, e 152 c.p.p. allegando difetto e contraddittorietà di

motivazione in relazione agli art. 524, n. 3, e 475, n. 3, c.p.p. In particolare, negli articolati motivi, lamentavano i difensori il

mancato proscioglimento del Bernabei dalle imputazioni di ap

propriazione indebita per insussistenza del fatto o perchè il fatto

non costituisce reato, in quanto: 1. - la società Italstat svolgeva il ruolo di capogruppo di altre

consociate quali la Italstrade e la Italscai sicché il trasferimento

di utili non registrati nei bilanci di queste ultime e la movimenta

zione dei fondi stessi nell'interesse del gruppo che coinvolgeva

anche quello delle predette società non poteva integrare gli estre

mi del delitto di appropriazione indebta rientrando comunque nelle

mansioni di amministratore delegato della società leader, svolte

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PARTE SECONDA

appunto dal Bernabei, anche il compito di provvedere alla gestio ne dei fondi accantonati. Come risultava dalla più corretta inter

pretazione dell'art. 3 1. n. 95 del 1979 ed in forza del concetto

in detta norma trasfuso e con riferimento alla situazione di obiet

tiva incertezza all'epoca esistente in ordine all'effettiva apparte nenza dei fondi, tanto che si era dovuto far ricorso «a criteri

approssimativi e di massima e persino ad una ripartizione tran

sattiva delle competenze»; 2. - la persona che aveva affidato al Bernabei i fondi doveva

essere considerata come mandataria delle società Italscai e Ital

strade indipendentemente da formali delibere dei rispettivi consi

gli di amministrazione trattandosi di fondi extra-bilancio. Sicché il Bernabei era venuto legittimamente in possesso dei fondi stessi

nell'interesse dell'intero gruppo e delle società che sarebbero ri

sultate effettive titolari dei medesimi;

3. - la sentenza aveva escluso che il ricorrente avesse vantaggi

personali dalla gestione dei suddetti fondi, ma aveva, poi, ritenu

to erroneamente che la destinazione delle somme a terzi fosse

estranea agli interessi del gruppo di società senza considerare che

le erogazioni si riferivano a spese promozionali e strumentali, co

me puntualmente dimostrato dall'imputato e che le stesse, seppur

prive di un diretto ed immediato corrispettivo, avevano sicura

valenza imprenditoriale per i risultati positivi che avevano conse

guito. Donde l'inconcludenza della «breve analisi» condotta al

riguardo dalla sezione istruttoria senza neppure tenere conto del

la consolidata giurisprudenza che aveva sempre affermato «il prin

cipio delle legittimità degli impieghi effettuati da società del gruppo in favore delle società sorelle» con conseguente esclusione del

l'antigiuridicità dell'atto di disposizione; 4. - la destinazione di somme a vantaggio di società diverse

ma sempre appartenenti al gruppo o a terzi ma con la prospettiva di vantaggi indiretti per le stesse società non costituiva apropria zione ma semplice distrazione del bene a fine diverso da quello a cui avrebbe dovuto essere destinato, eppertanto attività che non

rientrava nei parametri normativi dell'art. 646 c.p.; 5. - l'avere il Bernabei gestito i fondi con disinteresse personale

e nella fondata persuasione di agire per conto e nell'interesse del

gruppo escludeva di per sé l'elemento psicologico del delitto con

testato.

Con requisitoria 3 maggio 1989, il p.g. chiedeva il rigetto del

l'interposto ricorso allegandone l'infondatezza. Contestava, in par

ticolare, l'asserita legittimità della ricezione dei fondi da parte del Bernabei avvenuta per mezzo del De Amicis e con l'assenso

del presidente dell'Iri nel cui gruppo erano inserite la Italstat e

le società da questa controllate, confermando che il collegamento funzionale tra le società operative e la Italstat non poteva incide

re in alcun modo sulla completa autonomia gestionale delle pri

me, per cui in assenza di una formale deliberazione autorizzativa

degli organi sociali competenti alcun trasferimento avrebbe potu to essere effettuato. Non consentendo un collegamento di gruppo il depauperamento senza titolo della consistenza patrimoniale delle

stesse nemmeno a vantaggio della società di controllo. Confor

memente, peraltro, all'attuale normativa sui gruppi di imprese, correttamente interpretata dalla sezione istruttoria in coerenza al

l'orientamento seguito dalla giurisprudenza.

Riteneva, inoltre, il deducente, richiamandosi ai limiti dell'in dagine fissati dall'art. 152, 2° comma, c.p.p., che la responsabili tà per il reato di cui all'art. 646 c.p. può venir meno solo quando sia accertato che le somme «avrebbero dovuto essere erogate e

10 furono per raggiungere un risultato rispondente ad un interes

se specifico e documentato della società originariamente proprie

taria», il che nella specie non si era verificato, come rilevato dai

giudici di merito con accertamenti e valutazioni che sfuggivano ad ogni controllo in sede di legittimità. La riscontrata mancanza

di causali corrispondenti agli interessi delle società proprietarie

degli atti di disposizione compiuti dal Bernabei vanificavano, poi, ogni argomentazione relativamente alle distinzioni poste dalla di

fesa in ordine alla configurazione del reato non ricorrendo nella

specie l'ipotesi della distrazione all'uopo richiamata.

Con memoria del 14 giugno 1989 la difesa del ricorrente insi

steva nei già dedotti motivi specificamente confutando tutte le

contrarie osservazioni del p.g. requirente. Rileva preliminarmente il collegio a fronte dell'ampiezza della

verifica sollecitata dalla difesa del ricorrente che a sostegno del

l'interposto gravame ha prospettato una molteplicità di questioni in ordine alla stessa configurabilità e, comunque, alla sussistenza

dei reati di appropriazione indebita di cui ai capi 8 ed 8 bis della

11 Foro Italiano — 1990.

rubrica che a seguito dell'applicazione dell'amnistia concessa con

il d.p.r. n. 865 del 1986 sono rimasti limitati i suoi stessi poteri di piena cognizione sulle questioni proposte con conseguente ri

duzione dell'ambito della relativa indagine. In quanto al giudice

dell'impugnazione è consentita la verifica della sentenza che nel

l'applicare una causa estintiva del reato abbia escluso la ricorren

za delle ipotesi assolutorie previste dall'art. 152 c.p.p. solo se

dalla sentenza stessa risultino prove evidenti che possano giustifi

care la sostituzione della formula di non doversi procedere in

forza di causa di estinzione con una delle formule assolutorie

di merito in detta norma previste. Nel rispetto di tali limiti normativamente fissati dall'art. 152,

2° comma, c.p.p. e chiariti con orientamento uniforme dalla giu

risprudenza va considerato l'interposto ricorso con specifico ed

immediato riferimento alla questione che rispetto a tutte le altre

si presenta decisamente pregiudiziale perché attinente alla stessa

possibilità di incriminazione del fatto ritenuto in sentenza ai sensi

dell'art. 646 c.p. e, quindi, a quella di configurare quale reato

l'ipotesi di mera distrazione nell'altrui interesse di cui l'imputato è stato riconosciuto in concreto responsabile dal giudice istrutto

re. E come risulta sostanzialmente confermato dai giudici di ap

pello e dal p.g. requirente che, nel ritenere la rilevanza penale dell'attività gestionale del Bernabei, ne hanno colto il dato quali ficante ai fini di cui all'art. 646 c.p. nel compimento da parte del predetto di atti di disposizione patrimoniale, spettanti invece agli organi rappresentativi e di gestione di Italscai e di Italstrade

per fini non propri delle società, per cui la «tesi accusatoria»

si risolve, secondo i puntuali rilievi formulati al riguardo dalla

difesa, nell'imputare al Bernabei soltanto «una condotta di mera

distrazione dei fondi extra-contabili» o meglio di «mero abuso

di potere o se si vuole di esercizio arbitrario di detti poteri». In effetti, entrambe le sentenze di merito, coerentemente alla

circostanza emersa durante l'istruttoria che il Bernabei non ha

intascato nulla dei fondi extra-bilancio affidatigli, hanno escluso

con riferimento alle imputazioni ex art. 646 c.p. originariamente contestate nelle forme alternative dell'appropriazione e della di

strazione a profitto proprio o altrui sia la appropriazione che

la distrazione a vantaggio personale dei suddetti fondi da parte

dell'imputato. E, pertanto, le ipotesi che, come già rilevato da

questa Suprema corte nella sentenza 17 maggio 1965 (ric. Gabrie

le, Foro it., Rep. 1966, voce Peculato, n. 31), devono considerar

si eqivalenti perché, pur differendo nelle modalità esecutive, coin

cidono e si connotano in maniera sostanzialmente uniforme sul

dato comune dell'incameramento del bene nel proprio interesse

ad opera dell'agente. Mentre neanche a livello di mera supposizione i giudici di meri

to hanno avanzato l'ipotesi di collusioni intervenute tra il Berna

bei ed i percettori del denaro di cui il predetto era venuto in

possesso. Vale, anzi, precisare al riguardo, in ordine alle relative

modalità di acquisto, che, ai fini della legittimità dello stesso è sufficiente che il possesso, come evidenziato dal sintagna «a qua lisiasi titolo» contenuto nell'art. 646 c.p., sia stato conseguito «senza sottrazione, frode o violenza» (cfr. sez. Ili 4 maggio 1954,

Oiulietti, id., Rep. 1955, voce Appropriazione indebita, n. 12) e, quindi, con connotazioni neppure ravvisabili nella specie ove

si consideri, secondo le indicazioni contenute nelle sentenze di

merito, che i fondi extra-bilancio sono stati ricevuti dal Bernabei

in continuazione di un preesistente rapporto di gestione e custo

dia fiduciaria da parte dell'affidatario con il pieno consenso del

l'organo di vertice dell'ente pubblico al quale erano stati conse

gnati dall'affidatario precedente; che a detto ente facevano capo come partecipate e controllate tutte le società del gruppo e che

nel corso della gestione il Bernabei non ha mancato di contattare

gli organi delle società interessate. Il che smentisce, peraltro, ogni

possibile illazione in ordine alla clandestinità dell'intera operazio

ne, connotata da intuibile riservatezza verso l'esterno.

Risulta allora evidente come la «discussione» aperta dalla dife

sa sulla differenza tra atto di appropriazione ed atto di distrazio

ne con riferimento al disposto dell'art. 646 c.p. sia tutt'altro che

«fuorviarne», come troppo affrettatamente ritenuto nell'impugnata

sentenza, coinvolgendo la stessa, che non si risolve in un'asettica

esercitazione accademica, in maniera obiettivamente determinan

te la posizione dell'imputato perché finalizzata ad individuare lo

stesso ambito applicativo della norma incriminatrice onde stabili

re se quel tipo di condotta distrattiva tenuto dal Bernabei non

per vantaggio personale con fraudolente intese con i terzi destina

tari dei singoli atti di disposizione corrisponda al modello di ap

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GIURISPRUDENZA PENALE

propriazione indebita delineato dall'art. 646 c.p. e se lo stesso, collocandosi fuori della previsione della citata norma, abbia as

sunto connotazioni e realizzato situazioni diversamente apprezza bili sul piano giuridico

La rilevanza della questione che ha costituito oggetto di speci fico motivo di gravame e che, implicando solo la verifica in pun to di diritto di quanto già recepito e valutato in sentenza, eluda

la preclusione stabilita nel 2° comma dell'art. 152 c.p.p., risulta

tanto più evidente ove la si confronti con il disposto dell'art.

I c.p. che, nell'ambito del principio di stretta legalità, sancisce

quello della rigorosa tipicità del reato che di per sé esclude, esi

gendo per ogni figura tipica di reato una «espressa» previsione di legge, il potere del giudice di estendere per via analogica la

norma incriminatrice.

Ed è in questa prospettiva che va inquadrata e letta la sentenza

pronunciata il 23 maggio 1987 (ric. Tuzet, id., 1987, II, 481) dal

le sezioni unite penali di questa Suprema corte che, in tema di

responsabilità penale degli operatori bancari in relazione alla con

cessione di fido, ha affermato che detta condotta, integrando nei

suoi estremi un'ipotesi di distrazione anziché di appropriazione, non realizzava la fattispecie del delitto di appropriazione indebita

che ricomprende nella fattispecie legale prevista dall'art. 646 c.p. solo fatti appropriativi a differnza degli art. 314 e 315 c.p. in

tema di peculato e di malversazione. Sentenza, alla quale corret

tamente si sono richiamati i deducenti e che il collegio condivide, ad essa adeguandosi, proprio in considerazione dell'innegabile di

versità concettuale esistente tra le attività di appropriazione e di

distrazione che, implicando entrambe la sottrazione del bene alle

sue finalità istituzionali, si diversificano, come puntualmente os

servato in dottrina nell'analisi della condotta tipica del reato di

peculato utilmente richiamabile in questa sede, nella fase succes

siva della nuova destinazione che nell'ipotesi di appropriazione «è soggettivamente ed oggettivamente orientata ad impadronirsi della cosa, cioè ad instaurare un completo dominio su di essa

immettendola nel patrimonio dell'agente» mentre in quella della

distrazione «è rivolta semplicemente ad un uso arbitrario del be

ne con impiego per fini diversi da quello cui era destinato».

Donde l'impossibilità concettuale di una considerazione unita

ria delle due condotte ontologicamente diverse e specificamente

contraddistinte, configurate in rapporto di alternatività negli art.

314 e 315 c.p. come sottolineato dagli stessi avverbi «ovvero»

e «comunque» introdotti nel relativo testo che autorizza a disat

tendere la reductio ad unum patrocinata in sede di interpretazio ne dell'art. 646 c.p. nonostante la precisa descrizione della con

dotta tipica del reato di appropriazione indebita.

Diversità ed alternatività delle due condotte di cui v'è riscontro

autentico nell'art. 5, lett. c), d.p.r. 22 maggio 1970 n. 283 che, nel prevedere l'applicazione dell'amnistia anche al reato di pecu

lato, ne esclude esplicitamente l'ipotesi dell'appropriazione limi

tando l'operatività del beneficio a quella della distrazione solo

se compiuta «per finalità non estranee alla pubblica amministra

zione». Il che, peraltro, consente di confutare l'enunciazione im

motivatamete riduttiva del p.g. requirente per cui «la distrazione

presuppone che il denaro abbia avuto una destinazione rispon dente alla sfera degli interessi dell'ente proprietario ma diversa

da quella che avrebbe dovuto essergli data» non esaurendosi in

questa più limitata ipotesi la distrazione penalmente rilevante co

me risulta dal suddetto enunciato normativo che, nel determinare

l'ambito di applicazione del beneficio in ordine al reato di pecu lato alla sola ipotesi cui si è richiamato il requirente, dà per scon

tata (altrimenti non vi sarebbe stato bisogno della precisazione circa le connotazioni del fatto amnistiabile) anche quella della

distrazione per fini estranei alle finalità oltre che agli interessi

dell'ente.

Non sussiste, quindi, ragione a fronte del chiaro dettato legis lativo per considerare ontologicamente diversa l'attività di appro

priazione prevista dall'art. 646 c.p. rispetto a quella descritta ne

gli art. 314 e 315 c.p. dovendosi, infatti, ritenere all'esito dell'in

terpretazione logico-sistematica dell'anzidetta norma ed in

applicazione del noto brocardo dell 'ubi voluit dixit, ubi noluit

tacuit, che, quando il legislatore ha riconosciuto valenza e rile

vanza penale alla condotta di distrazione ed ha inteso reprimerla alla pari con quella di appropriazione, lo ha fatto espressamente in conformità al principio enunciato nell'art. 1 c.p., come, ap

punto, si è verificato nel definire la fattispecie del peculato e del

la malversazione in cui entrambe le condotte sono state esplicita mente contemplate.

II Foro Italiano — 1990.

Né va trascurato in sede di interpretazione della norma in esa

me il tenore letterale delle espressioni usate dal legislatore che

con il verbo «appropriare» ha inteso chiaramente riferirsi al fatto

di per sé concettualmente definito dell'incameramento del bene, realizzato mediante l'immissione diretta dello stesso nel patrimo nio dell'agente (o in quello del concorrente in caso di collusione

tra il predetto ed il terzo beneficiato). L'eterogeneità di significa to dei due termini per cui il «distrarre» non può comunque essere

ricondotto nel paradigma delP«appropriarsi», trova ulteriore con

ferma nei lavori preparatori del codice penale in cui la condotta

descritta dall'art. 646 c.p. è stata intesa nel significato suo pro

prio del termine, come testualmente affermato nella relazione del

presidente della commissione ministeriale per il progetto del codi

ce penale per cui «appropriarsi di una cosa significa appunto far

la entrare nel proprio dominio il che nel delitto in esame si verifi

ca mercé l'inversione del possesso». Ma se anche volesse intendersi, secondo l'orientamento di au

torevoli autori che negano l'autonomia concettuale delle due con

dotte, quella di appropriazione come forma specifica della più

ampia condotta di distrazione non muterebbero le conclusioni espli citate nella surrichiamata sentenza delle sezioni unite proprio in

considerazione della specificità dell'ipotesi di reato descritta nel

l'art. 646 c.p. che non potrebbe ammettere, in quanto tale, dila

tazioni interpretative di sorta. La cui eventuale realizzazione «ec

cederebbe certamente, come avvertito in dottrina, i limiti già di

scussi dell'interpretazione estensiva e travalicherebbe

nell'interpretazione analogica, fondata com'è su un'identità di ratio

alla quale dovrebbe far riscontro una parità di trattamento». Don

de il ricorso ad un «procedimento che sarebbe espressione carat

teristica dell'analogia in malam partem e, quindi, certamente ri

fiutato dal sistema».

Rileva, peraltro, il collegio che la linea seguita al riguardo dalle

sezioni unite con la richiamata sentenza Tuzet del 1987, che cer

tamente ha interpretato in maniera ortodossa la norma incrimi

natrice di cui all'art. 646 c.p., sembra trovare sostanziale confer

ma in quella successivamente pronunciata dalle stesse sezioni uni

te il 28 febbraio 1989 (Cresti ed altro, nota attualmente solo

attraverso la massima provvisoria) per cui è stata ravvisata la

punibilità della distrazione dei fondi di un istituto di credito ope rata da un suo dipendente mediante indebita concessione di fido

avendo costui agito in collusione con il cliente. Laddove proprio l'accordo fraudolento intercorso prima dell'atto di disposizione non dovuto e del definitivo incameramento del denaro da parte del terzo, in concorso, però, con il dipendente infedele, realizza

in concreto una vera e propria iptesi di appropriazione che si

sovrappone all'atto di distrazione, da considerarsi nell'economia

del reato, eclusivamente nella sua valenza strumentale.

Vale, inoltre, rilevare che su questi medesimi indirizzi va alli

neandosi la più recente giurisprudenza che, nell'uniformarsi al

l'insegnamento delle sezioni unite nella menzionata sentenza del

1987, ha ravvisato gli estremi del reato previsto dall'art. 646 c.p. nelle già ricordate ipotesi della distrazione a profitto proprio (cfr. sez. VI 2 ottobre 1987, Peruzzo, id., Rep. 1989, voce cit., n.

10) o di quella realizzata mediante collusione tra l'agente e il ter

zo a vantaggio del quale l'atto di distrazione è stato compiuto (cfr. sez. VI 28 giugno 1988, Centa, id., 1988, II, 669), cosi cor

rettamente ricomprendendo nello spettro di punibilità del reato

previsto dall'art. 646 c.p. le sole ipotesi di distrazione che, diver

samente da quella a profitto altrui, sono assimilabili, come in

precedenza rilevato, all'appropriazione vera e propria. Alla stregua delle considerazioni e delle valutazioni che prece

dono fedelmente ancorate alle sentenze istruttorie che nella con

formità dei contenuti vicendevolmente si integrano e si completa no e sull'evidenza della situazione nelle stesse definita deve, per

tanto, concludersi che il fatto di mera distrazione attribuito

all'imputato non riveste connotazioni penalmente rilevanti, collo

candosi fuori del paradigma del reato previsto dall'art. 646 c.p. In altra e competente sede, che non è quella penale, dovrà essere

eventualmente valutata l'attività gestionale dei fondi extra-bilancio

tenuta dal Bernabei, che, peraltro, neppure appare ispirata da

«volontà di espropriazione», come ha rilevato la difesa con rife

rimento all'asserita mancanza dell'elemento psicologico del reato

ascritto, argomentando da quanto attestato dallo stesso giudice istruttore nella sua sentenza per cui sin dall'inizio il Bernabei si

era mantenuto in contatto con il De Amicis ed i legali rappresen tanti delle società interessate invitandoli anche ad operare attiva

mente per far rientrare direttamente e indirettamente le risorse

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Page 6: PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione II penale; sentenza 23 giugno 1989; Pres. Caputi, Est. Della Penna, P.M. (concl. diff.); ric. Bernabei. Annulla senza rinvio App. Roma

PARTE SECONDA

extra-bilancio nelle società cui appartenevano. In quanto, come

sostenuto da autorevole dottrina, «la volontà di restituire esclude

evidentemente quella di appropriarsi». La natura pregiudiziale della questione già esaminata e le con

clusioni alle quali il collegio è pervenuto in accoglimento delle

deduzioni della difesa precludono l'esame delle altre articolate

tematiche proposte con ampie argomentazioni in fatto e diritto

dal ricorrente per cui, conformemente al coordinato disposto de

gli art. 152, 2° comma, e 539, n. 1, c.p.p., va annullata senza

rinvio l'impugnata sentenza in quanto il fatto ascritto all'impu

gnato, come ritenuto nelle sentenze di merito, non è preveduto dalla legge come reato.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 31 mar

zo 1989; Pres. Glinni, Est. Sacchetti, P.M. Guardascione

(conci, diff.); ric. P.m. in causa Piperno. Annulla Trib. Roma

25 gennaio 1988.

Edilizia e urbanistica — Costruzioni abusive — Sanatoria — Obla

zione — Efficacia estintiva (L. 28 febbraio 1985 n. 47, norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzio

ni, recupero e sanatoria delle opere edilizie, art. 31, 34, 35,

38, 39).

L'estinzione del reato di costruzione abusiva per «condono edili

zio» non consegue automaticamente al decorso del termine di

decadenza e prescrizione (di trentasei mesi) entro cui il sindaco

deve decidere in ordine all'istanza di concessione in sanatoria

e valutare anche la congruità della somma versata a titolo di

oblazione, in quanto il giudice deve comunque accertare se nel

detto lasso di tempo l'autorità amministrativa non abbia già esaminato la domanda dell'interessato. (1)

(1) I. - Diversamente da Cass. 25 ottobre 1989, De Matti, Foro it., 1990, II, 483, con nota di richiami, la sentenza in epigrafe attribuisce all'autorità giudiziaria l'obbligo di acquisire pregiudizialmente un'infor mativa presso i competenti uffici comunali, quando risulti — ex actis — l'avvenuto perfezionamento del silenzio-accoglimento di cui all'art. 35 1. 47/85 sulla domanda di «condono edilizio». Peraltro, anche per la pronuncia in rassegna, il giudice penale non può valutare, ex officio, l'effettiva conformità ai parametri legali dell'oblazione versata da parte dell'interessato, spettando tale adempimento esclusivamente alla compe tente autorità amministrativa. In tal senso, si è pronunciata expressis ver bis recentemente Cass. 28 giugno 1989, D'Amato, Riv. pen., 1990, 486, secondo cui, inoltre: a) l'avvenuto decorso del termine (perentorio e di decadenza) biennale dalla data di presentazione della domanda (o dall'e missione del parere di cui all'art. 32 nell'ipotesi di immobili abusivi siti in zone sottoposte a «vincolo») implica che il sindaco non possa chiedere altre somme a titolo di oblazione; b) il termine prescrizionale di trentasei mesi — entro cui l'amministrazione comunale può esigere nei confronti del privato il diritto al conguaglio della somma, dallo stesso «autoliqui data» a titolo di oblazione — rileva solo se entro il detto biennio sia stato già formalmente richiesto il conguaglio. In altri due più recenti ar

resti, la Suprema corte ha (più restrittivamente) affermato che — per stabilire se sia maturato il silenzio - accoglimento — il giudice penale de

ve, comunque, accertare: 1) la tempestività della presentazione dell'istan za di «condono»; 2) la completezza della stessa con riferimento all'esatta individuazione delle opere da sanare ed agli allegati documenti; 3) l'inesi stenza delle situazioni ostative previste ex art. 32 e 33 1. cit.; 4) l'insussi stenza di infedeltà fraudolente; 5) il versamento della somma «autoliqui data» e di quella eventualmente chiesta dall'autorità amministrativa entro il citato biennio, a titolo di conguaglio. Sicché, in assenza di tali (concor renti) condizioni, dovrebbero trovare applicazione le sanzioni penali (co si, Cass. 5 luglio 1989, De Luca e 28 giugno 1989, Pergamo, ibid., 486, 487). Tuttavia — quanto al presupposto indicato sub 3) — non va dimen ticato che — sul piano strettamente penale — l'esistenza di un vincolo sulla zona su cui insiste il manufatto abusivo non impedisce l'estinzione del reato edilizio (come evidenziato dalla sentenza in rassegna ed anche da Cass. 3 giugno 1988, Ricciardo, Foro it., Rep. 1989, voce Edilizia e urbanistica, n. 815), ai sensi dell'art. 39 1. cit., ritenuto peraltro costitu zionalmente non censurabile (Corte cost. 31 marzo 1988, n. 369, id., 1989, I, 3383).

II. - In dottrina, la sussistenza di un ampio potere di sindacato del

giudice penale circa l'integralità (oltre che la tempestività) del versamento

Il Foro Italiano — 1990.

Svolgimento del processo. — Con sentenza in data 25 gennaio 1988 il Tribunale di Roma, in riforma della sentenza in data 12

marzo 1986 del Pretore di Roma, dichiarò — tra l'altro — non

doversi procedere nei confronti di Paola Piperno in ordine al rea

to previsto dall'art. 17, lett. b), 1. 10/77 per abuso edilizio com

messo anteriormente al 1° ottobre 1983 perché estinto per obla

zione a norma dell'art. 38 1. 47/85.

Avverso tale sentenza il p.m. propone ricorso per cassazione, deducendo che erroneamente i giudici di merito avevano fatto

discendere dalla domanda di concessione in sanatoria gli effetti

estintivi del reato, che, invece, si realizzavano solo dopo la deter

minazione in via definitiva da parte del sindaco dell'importo del

l'oblazione, comunque, dopo l'inutile decorso di ventiquattro mesi

dalla presentazione della domanda senza richiesta di conguaglio

(art. 35, 12° comma, 1. 47/85). Motivi della decisione. — È pacifico, in punto di fatto, che

l'imputata presentò domanda di concessione in sanatoria con con

testuale versamento della prevista oblazione — in unica soluzione — il 6 marzo 1986.

Tuttavia, come questa Corte suprema ha più volte affermato, «la presentazione dell'istanza di concessione in sanatoria ed il

versamento della somma calcolata in base alla tabella allegata alla 1. 47/85 non sono sufficienti ad estinguere i reati urbanistici;

occorre, infatti, che la misura dell'oblazione sia determinata in

via definitiva dal sindaco competente al termine del procedimen to previsto dall'art. 35, 9° comma, 1. cit.

Né, nel caso di specie, è applicabile automaticamente l'istituto

del silenzio-assenso previsto dalla citata normativa.

Ed infatti, se è vero che sono trascorsi entrambi i termini di

decadenza e di prescrizione (trentasei mesi) entro i quali la legge

obbliga l'amministrazione ad adottare le proprie determinazioni

in ordine alla domanda di concessione in sanatoria e ad esprime re il giudizio di congruità della somma versata a titolo di oblazio ne, è altrettanto vero che spetta al giudice accertare che, nel lasso

di tempo considerato, l'amministrazione non abbia istruito e ri

scontrato la domanda dell'interessato.

Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata

con rinvio per violazione di legge, essendo i giudici di merito

obbligati a sospendere il procedimento penale a norma dell'art.

38 1. 47/85 fino a quando sia pervenuta loro notizia del giudizio di congruità ovvero che l'istanza non sia stata accertata come

dolosamente infedele ai sensi dell'art. 40 1. cit.; salva, in ogni

caso, la facoltà dei giudici di merito di attingere direttamente

dall'autorità sindacale notizia che la domanda di sanatoria non

è stata esaminata entro i trentasei mesi dalla data di presentazio

ne, nel qual caso l'inutile decorrenza dei termini di decadenza

e di prescrizione equivale, indipendentemente dal fatto che la con

cessione in sanatoria non possa essere rilasciata a norma degli art. 33 e 39 1. cit., al venir meno delle condizioni ostative alla

declaratoria di estinzione del reato, che la legge espressamente

prevede anche per le opere non sanabili.

effettuato dal privato a titolo di oblazione, è stata sostenuta da Fortu

na, in Assini-Cicala-Fortuna, Condono edilizio, recupero urbanistico e sanatoria, Padova, 1985, 184 ss., spec. 187 ed anche sub nota (4).

I

TRIBUNALE DI BOLOGNA; sentenza 25 ottobre 1990; Pres.

ed est. Cornia; imp. Bassi.

TRIBUNALE DI BOLOGNA;

Tributi in genere — Reato tributario — Prescrizione — Atti in terrottivi — Constatazione delle violazioni — Estremi (D.l. 10

luglio 1982 n. 429, norme per la repressione della evasione in

materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per age volare la definizione delle pendenze in materia tributaria, art.

9; 1. 7 agosto 1982 n. 516, conversione in legge, con modifica

zioni, del d.l. 10 luglio 1982 n. 429, art. 1).

La constatazione delle violazioni finanziarie, alla quale l'art. 9

l. 516/82 attribuisce efficacia interruttiva del decorso dei termi

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