sezione II penale; sentenza 23 giugno 1989; Pres. Caputi, Est. Della Penna, P.M. (concl. diff.);ric. Bernabei. Annulla senza rinvio App. Roma 23 giugno 1988Source: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp.707/708-715/716Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183683 .
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PARTE SECONDA
tassatività della norma ai sensi dell'art. 1 c.p. e 12-14 disp. sulla
legge in generale. Il ricorso è infondato. L'art. 21 1. n. 1060 del 28 luglio 1960,
recepita insieme al contratto collettivo nazionale di lavoro per il settore della ceramica del 31 gennaio 1957 dalla legge recante
sanzioni penali 14 luglio 1959 n. 741, art. 1 e 8, disciplina il trattamento dei lavoratori in caso di malattia o infortunio ed as
sicura la conservazione del posto in base al periodo di malattia
ed all'anzianità di servizio. La conservazione predetta oscilla, pertanto, da un periodo mi
nimo di sette e massimo di nove mesi a seconda dell'anzianità
fino a nove e ad oltre diciannove anni di servizio.
È, pertanto, ben evidente che l'espressione al singolare della
parola malattia (in caso di malattia) non può riferirsi ad un'iden
tica sindrome morbosa essendo inverosimile che una persona si
ammali della medesima malattia in un cosi lungo periodo di tolle
ranza legislativa ovvero di comporto da nove ad oltre diciannove
anni di attività lavorativa.
Vi osterebbe, d'altronde, la riflessione sulla ricorrente diversi
ficazione della diagnosi ovvero della precisazione del nome della
malattia pur di fronte ad una medesima sintomatologia morbosa
da parte dei sanitari. Per esemplificazione è sufficiente ricordare
che una diagnosi generica di «influenza» viene spesso diversa
mente definita con espressioni differenziate quali «laringo-tracheite,
bronchite, sindrome bronco-polmonare, ecc.
Né l'avere il 4° comma ribadito l'espressione al singolare con
le parole «in corso di ricaduta nella stessa malattia» significa iden
tità del quadro morboso, perché tale norma si preoccupa soltanto
di aumentare in caso di recidiva il periodo di conservazione del
posto della metà di quello originario.
Urterebbe, peraltro, con il principio di logicità essenziale, fare
usufruire di detto beneficio il lavoratore affetto da una medesima
malattia per anni e non anche quello soggetto a plurima e quindi
più gravosa morbilità.
vigenza del citato art. 8 anche dopo la nuova normativa sui licenziamenti individuali (1. 15 luglio 1966 n. 604, integrata dall'art. 18 1. 20 maggio 1970 n. 300), e l'onere del dipendente di comunicare al datore di lavoro lo stato di malattia ed il relativo decorso, nonché di fornirne la prova con la prescritta documentazione medica, dovendo, in mancanza, ritener si giustificato il licenziamento.
Per una disamina generale sulla disciplina del comporto per sommato
ria, v. Cass. 12 aprile 1989, n. 1742, id., 1990, I, 1654, con nota di richiami in giurisprudenza e dottrina. [R. Ciquera]
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II penale; sentenza 23 giu
gno 1989; Pres. Caputi, Est. Della Penna, P.M. (conci, diff.); ric. Bernabei. Annulla senza rinvio App. Roma 23 giugno 1988.
Appropriazione indebita — Distrazione di fondi extra-bilancio di
società controllate — Reato — Esclusione (Cod. pen., art. 646).
Benché le attività di appropriazione e di distrazione implichino entrambe la sottrazione del bene alle sue finalità istituzionali, tali condotte si diversificano nella fase successiva della nuova
destinazione, che nell'appropriazione è soggettivamente ed og
gettivamente orientata ad impadronirsi della cosa, cioè ad in
staurare un completo dominio su di essa immettendola nel pa trimonio dell'agente, mentre nella distrazione è rivolta sempli cemente ad un uso arbitrario del bene con impiego per fini diversi da quello cui era destinato; pertanto, l'amministratore
delegato della società capogruppo, che distrae fondi extra
bilancio di società controllate senza vantaggio personale né frau dolente intese con i terzi destinatari dei singoli atti di disposi zione, non realizza alcuna condotta riconducibile al modello
di appropriazione indebita delineato dall'art. 646 c.p. (1)
(1) La decisione — riportata anche in Riv. trim. dir. pen. economia, 1989, 1123, con nota adesiva di Calderone, Il ruolo della Cassazione e la supplenza giudiziaria (a proposito di utilizzazione di fondi non con
II Foro Italiano — 1990.
Fatto e diritto. — Con sentenza in data 3 dicembre 1987 il
giudice istruttore presso il Tribunale di Roma concludeva l'ampia
indagine istruttoria condotta ai fini dell'accertamento di eventua
li responsabilità connesse alla formazione ed alla utilizzazione di
disponibilità extracontabili accantonate da società appartenenti al gruppo Iri dal 1964 al 1974 allorquando erano stati aperti e
gestiti numerosi conti correnti bancari a nome delle società Scai,
(poi Italscai) ed Italstrade presso filiali della Bnl di Roma e di Milano. Precisava al riguardo il decidente, dopo aver premesso che «neppure i periti d'ufficio avevano potuto stabilire con asso
luta certezza l'originaria pertinenza dei fondi in questione» e che
dopo il 1974 la «lievitazione degli stessi era avvenuta esclusiva
mente per autoalimentazione attraverso gli interessi maturati sui
depositi», che autore della formazione dei fondi non contabiliz
zati era stato Antonio Orlandi (deceduto nel 1978) all'epoca am
ministratore unico di Italstrade e presidente della Scai, il quale
nell'agosto del 1976 aveva consegnato le disponibilità «ai vertici
Iri», materialmente affidando in custodia a Spafid, fiduciaria di MedioBanca, il plico che le conteneva contrassegnato dalla sigla
«Gruppo Italstrade»; che il 29 ottobre dello stesso anno detto
plico era stato ritirato da Sergio De Amicis, amministratore di Italstat sino al 1973, poi membro del consiglio di amministrazio ne fino al 20 maggio 1976 della suddetta società, presidente di
tabilizzati per finalità extrasocietarie) — cassa App. Roma 23 giugno 1988, che aveva invece affermato la configurabilità di principio dell'incrimina
zione, pur dichiarando estinto il reato per amnistia: la sentenza è riporta ta in Foro it., 1989, II, 420, con nota di richiami e commento di Mhitel
10, Aspetti penalistici dell'abusiva gestione nei gruppi societari: tra ap propriazione indebita ed infedeltà patrimoniale. In dottrina cfr. pure di recente Flick, Gruppi e monopolio nelle nuove prospettive del diritto
penale, in Riv. società, 1988, 470 s.; Foffani, La responsabilità penale nella gestione dei patrimoni altrui, in Contratto e impresa, 1988, 110
s.; Mangano, L'infedeltà patrimoniale degli amministratori nei gruppi di imprese, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1989, 1003 s. Fra i recenti contributi stranieri vanno segnalati Bouloc, Droit pénal et groupes d'en
treprises, in Revue des sociétés, 1988, 182 s. e, per un profilo particolare, il conflitto d'interessi da parte dei membri di organi sociali di controllo, Tiedemann, Untreue bei Interessenkolflikten, in FS fùr Tróndle, 1989, Berlin-New York, De Gruyter, 319 s.
La distinzione fra le condotte di appropriazione e distrazione, di cui alla prima parte della massima, è ripresa testualmente da un contributo dedicato alla fattispecie di peculato: Severino, Il criterio fra distrazione ed appropriazione nel peculato, in Mass. pen., 1976, 711. Questa impo stazione è stata autorevolmente avallata in giurisprudenza, in relazione al tormentato problema dell'abuso di fido bancario, da Cass., sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet, Foro it., 1987, II, 481, con nota di Giacalone, Vecchio e nuovo nella qualificazione giuridica dell'attività bancaria; Ban
ca, borsa, ecc., 1988, II, 517, con nota di Veneziani, Le qualifiche sog gettive degli operatori bancari secondo le sezioni unite della Cassazione; Riv. it. dir. e proc. pen., 1987, 695, con nota di Paliero, Le sezioni unite invertono la rotta: è «comune» la qualifica giuridico-penale degli operatori bancari. L'importanza del distinguo fra le due specie di condot te è connessa al mutato paradigma nella qualificazione degli operatori bancari: una volta esclusa l'applicabilità dello statuto penale della pubbli ca amministrazione, le forme abusive prima riconducibili alla distrazione di beni rimangono al di fuori dell'incriminazione comune» di appropria zione indebita. In dottrina, a favore di tale conclusione, cfr. Paliero, op. cit., 704; Foffani, Le «mobili frontiere» fra pubblico e privato nello statuto penale degli operatori bancari, in Banca, impresa e società, 1988, 202 s.
Sul punto specifico però vi è stato un significativo mutamento d'opi nione nella stessa giurisprudenza: Cass. 24 marzo 1988, Ferranti, Foro
it., 1988, II, 669, con nota di Rapisarda, La natura giuridica dell'attività bancaria fra «disorientamenti» giurisprudenziali e prospettive di riforma. La possibilità di applicare (in presenza di determinati requisiti) l'art. 646 ha trovato conferma nella successiva pronunzia delle stesse sezioni unite
penali 28 febbraio 1989, Vita, id., 1989, II, 506, con nota di richiami e commento di Cianci, La responsabilità penale degli operatori bancari:
evoluzione giurisprudenziale; Cass. pen., 1989, 2150, con nota di Zan
notti, Banche e diritto penale: la terza pronuncia delle sezioni unite della
Cassazione; Giust. pen., 1989, II, 513, con nota di Lupacchini, Vechio e nuovo nel trattamento sanzionatorio degli operatori bancari; id., 1990, 11, 193, con nota di Mezzetti, L'appropriazione indebita nell'abuso di
fido bancario. Le condizioni di applicabilità dell'appropriazione indebita ai casi di
abuso nel credito sono state pure approfondite da Prosdocimi, Esercizio del credito e responsabilità penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, 996 s.; Flick, Diritto penale e credito: problemi attuali e prospettive di soluzione. Addenda: Dal pubblico servizio all'impresa banca: ritorno al
futuro, Giuffrè, Milano, 1990, 45 s., spec. 66 s.
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GIURISPRUDENZA PENALE
Italscai fino al 1981 e di Italstrade fino al 1982 e dal 1983 consi
gliere di amministrazione di Italstrade e che nello stesso 1983 le
disponibilità in oggetto erano state utilizzate tramite il passaggio di tranches di importo variabile dalle mani del De Amicis a quel le dei coimputati, amministratori, dirigenti e membri di organi sociali dell'Iri e di società compartecipate e collegate. Tra cui
Ettore Bernabei, amministratore delegato dal 1974 della Italstat, società finanziaria leader del gruppo di appartenenza delle men
zionate Scai ed Italstrade, imputato dei reati di appropriazione indebita continuata aggravata ex art. 112, n. 1, 61, n. 7, ed 11
c.p. per essersi a profitto proprio o altrui, in concorso con altri
ed in particolare con il De Amicis e con il presidente dell'In (ca
po n. 8 bis), appropriato, o dato «una destinazione incompatibile con le ragioni che ne giustificano il possesso», di somme costitui
te da fondi non contabilizzati di pertinenza Italscai e Italstrade, nonché di quelli di falso in comunicazioni sociali e nei bilanci annuali delle società Italstat (capo n. 9), Italscai ed Italstrade, concernenti questi ultimi gli anni 1982 e 1983 (capo n. 10), di falso ideologico ex art. 479 c.p., relativamente all'omessa indica
zione in bilancio di poste attive di plusvalenze non contabilizzate
(capo n. 11) e di truffa aggravata continuata in danno dello Sta
to, indotto, mediante fraudolente esposizioni contabili, ad eroga zioni superiori a quelle dovute. In via di principio, affermava il giudice istruttore che la mera «costituzione e la semplice con
servazione di fondi extrabilancio non costituivano di per sé reati
appropriativi, ipotizzabili, invece, quando dalla massa di detti fondi non contabilizzati «vengano sottratte risorse per essere impiegate con modalità o finalità extrasocietarie».
Di conseguenza, assumeva il giudicante, con riferimento alla
posizione del Bernabei in ordine all'appropriazione indebita con
testata nei capo 8 ed 8 bis della rubrica, che detto reato è confi
gurabile «ogniqualvolta le somme extra-bilancio sono state im
piegate per finaltà diverse da quelle della società cui detti fondi
appartengono e, quindi, anche nel caso che beneficiaria delle stesse
sia stata una società facente parte del gruppo o fosse anche la
capogruppo», eppertanto riteneva la correttezza delle suindicate
contestazioni «essendo sufficiente a tal fine fare riferimento alla
natura degli impieghi che di dette somme, sulle quali il Bernabei
non aveva nessun potere legittimo, egli ha fatto per fini certo
non personali ma comunque non propri ed esclusivi di Italstrade
ed Italscai». Cosi disattendendo, senza peraltro procedere a par ticolari verifiche, le indicazioni offerte al riguardo dall'imputato circa le singole erogazioni fatte nel 1983 e nel 1984 costituenti, a suo dire, spese promozionali o strumentali di comune vantag
gio per le società del gruppo che coinvolgevano, pertanto, anche
se talvolta solo indirettamente, gli interessi delle società cui i fon
di appartenevano. Riteneva, invece, il giudicante l'assorbimento
nel reato di appropriazione indebita precisata nel capo 8 bis di
quello di falso nei bilanci Italscai e Italstrade per gli esercizi degli anni 1982 e 1983 di cui al capo n. 10 della rubrica, all'uopo rile
vando che a fronte dell'esclusione di ogni responsabilità del De
Amicis per gli anni successivi al 1981 andava rigettata qualsiasi
ipotesi di colpevolezza a carico del Bernabei, al quale solo nel
1983 era stata resa nota l'esistenza di fondi non contabilizzati
e nel 1984 la consistenza di dette risorse senza che fosse risultato
un suo precedente coinvolgimento nell'attività di conservazione
dei fondi e che, «all'epoca, egli si preoccupò di invitare il De
Amicis ed i legali rappresentanti delle società interessate», nelle
quali non aveva rivestito carica alcuna, «ad effettuare operazioni
per far rientrare direttamente e indirettamente le risorse extra
bilancio nelle società cui appartenevano».
Rilevava, peraltro, il giudice istruttore, che i suddetti reati di
appropriazione indebita come sopra definiti rimanevano coperti dall'amnistia concessa con il d.p.r. 16 dicembre 1986 n. 865, ope
rativa nella specie ex art. 1, lett. B, e 3 del citato decreto, in
considerazione dell'età dell'imputato che aveva compiuto il 65°
anno di età alla data di entrata in vigore del provvedimento di
clemenza.
In ordine alle restanti imputazioni proscioglieva il Bernabei per
ché il fatto non sussiste dal reato di falso nei bilanci Italstat di
cui al capo n. 9 della rubrica, neppure ipotizzabile nella specie
e perché il fatto non costituisce reato da quelli di falso ideologico
e truffa sub nn. 11 e 12 per difetto assoluto di dolo.
Appellava l'impugnata sentenza il Bernabei assumendo che
avrebbe dovuto essere prosciolto con formule diverse e più am
piamente liberatorie di quelle adottate dal giudice istruttore dai
reati di falso documentale e truffa e prosciolto con ampia formu
li. Foro Italiano — 1990.
la e non per amnistia da quelli di appropriazione indebita di cui non ricorrevano nella specie gli estremi né con riferimento all'ele
mento oggettivo né in relazione a quello soggettivo. In data 23 giugno 1988 la sezione istruttoria della Corte d'ap
pello di Roma (Foro it., 1989, II, 420), parzialmente accogliendo
l'interposto gravame, dichiarava non doversi procedere a carico
dell'imputato in ordine al reato di falso ideologico per non aver
commesso il fatto ed a quello di truffa perché il fatto non sussi
ste mentre confermava nel resto l'impugnata sentenza.
Rispondendo alle numerose questioni dedotte dalla difesa in
ordine alle imputazioni di appropriazione indebita, riteneva la se
zione istruttoria che il De Amicis, quale mero consigliere di am
ministazione di una delle società del gruppo, non era autorizzato
senza consenso dei competenti organi sociali ad operare alcun
trasferimento o consegna di fondi e che il Bernabei, seppur am
ministratore unico della capogruppo, non aveva alcuna veste per accettarli sia per rispetto dell'autonomia patrimoniale e finanzia
ria delle società controllate sia per le stesse modalità del trasfe
rimento. Assumeva, inoltre, l'inconcludenza dell'assunto difensivo per
cui il Bernabei nella qualità di amministratore unico della società
capogruppo e, quindi, di titolare della «direzione unica» del gruppo di imprese, di cui è menzione nell'art. 3 1. 3 aprile 1979 n. 95, avrebbe avuto il potere-dovere di gestire discrezionalmente i fon
di in oggetto, dovendosi interpretare restrittivamente la suindica
ta norma che, disciplinando ipotesi particolari, non conteneva al
cun esplicito riconoscimento del gruppo di imprese come entità
giuridica autonoma, di per sé non considerata dall'ordinamento
giuridico, né di un potere di ingerenza dell'amministratore dell'a
zienda leader nell'attività gestionale di quelle controllate, neppu re come amministratore di fatto o «aggiunto». Riteneva, ancora, il collegio, sottoponendo a «breve analisi la destinazione dei fon
di gestiti dal Bernabei», che l'imputato aveva utilizzato le somme
affidategli con criteri ampiamente discrezionali del tutto svincola
ti dalle finalità e dagli interessi della Italscai e della Italstrade
ed in vari casi di quelli di qualsivoglia società del gruppo; che
non ricorreva nella specie l'ipotesi prevista dall'art. 2028 c.c.,
pure adombrata dalla difesa, non riscontrandosi nella condotta
dell'imputato il presupposto richiesto dalla legge dell'aver agito
nell'altrui interesse rimproverandosi al Bernabei «proprio di aver
ignorato gli interessi di Italscai ed Italstrade» e che del tutto «fuor
viarne» risultava «la discussione» sulla differenza fra atto di ap
propriazione ed atto di distrazione introdotta dall'art. 314 c.p., dovendosi nella specie «soltanto stabilire se gli atti di disposizio ne compiuti dal Bernabei rientrassero nella nozione di appropria zione indebita a norma dell'art. 646 c.p.». Come certamente si
era verificato nella specie, in quanto il Bernabei «entrato in pos sesso della somma di circa 30 miliardi di proprietà della società Italstrade ed Italscai, aveva compiuto atti di disposizione che spet tavano unicamente agli organi rappresentativi e di gestione delle
predette società» e neppure nel loro diretto interesse, con conse
guente, ingiustificato depauperamento del rispettivo patrimonio.
Riteneva, infine, l'irrilevanza dell'accertato disinteresse perso nale del Bernabei, essendo configurabile il reato contestatogli an
che quando l'appropriazione risultava posta in essere «a profitto di altri», mentre disattendeva le deduzioni formulate in ordine
all'elemento psicologico del reato dovendosi ritenere per certo che
l'imputato già nel 1983 aveva consapevolezza dell'altruità delle
risorse e che continuò a disporne uti dominus anche dopo il gen naio 1984, data in cui, secondo le sue stesse ammissioni, aveva
appreso nei particolari la proprietà del fondo extra-bilancio.
Ricorreva per cassazione l'imputato e la difesa denunciava vio
lazione e falsa applicazione dell'art. 646 c.p. in relazione agli art.
524, n. 1, e 152 c.p.p. allegando difetto e contraddittorietà di
motivazione in relazione agli art. 524, n. 3, e 475, n. 3, c.p.p. In particolare, negli articolati motivi, lamentavano i difensori il
mancato proscioglimento del Bernabei dalle imputazioni di ap
propriazione indebita per insussistenza del fatto o perchè il fatto
non costituisce reato, in quanto: 1. - la società Italstat svolgeva il ruolo di capogruppo di altre
consociate quali la Italstrade e la Italscai sicché il trasferimento
di utili non registrati nei bilanci di queste ultime e la movimenta
zione dei fondi stessi nell'interesse del gruppo che coinvolgeva
anche quello delle predette società non poteva integrare gli estre
mi del delitto di appropriazione indebta rientrando comunque nelle
mansioni di amministratore delegato della società leader, svolte
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PARTE SECONDA
appunto dal Bernabei, anche il compito di provvedere alla gestio ne dei fondi accantonati. Come risultava dalla più corretta inter
pretazione dell'art. 3 1. n. 95 del 1979 ed in forza del concetto
in detta norma trasfuso e con riferimento alla situazione di obiet
tiva incertezza all'epoca esistente in ordine all'effettiva apparte nenza dei fondi, tanto che si era dovuto far ricorso «a criteri
approssimativi e di massima e persino ad una ripartizione tran
sattiva delle competenze»; 2. - la persona che aveva affidato al Bernabei i fondi doveva
essere considerata come mandataria delle società Italscai e Ital
strade indipendentemente da formali delibere dei rispettivi consi
gli di amministrazione trattandosi di fondi extra-bilancio. Sicché il Bernabei era venuto legittimamente in possesso dei fondi stessi
nell'interesse dell'intero gruppo e delle società che sarebbero ri
sultate effettive titolari dei medesimi;
3. - la sentenza aveva escluso che il ricorrente avesse vantaggi
personali dalla gestione dei suddetti fondi, ma aveva, poi, ritenu
to erroneamente che la destinazione delle somme a terzi fosse
estranea agli interessi del gruppo di società senza considerare che
le erogazioni si riferivano a spese promozionali e strumentali, co
me puntualmente dimostrato dall'imputato e che le stesse, seppur
prive di un diretto ed immediato corrispettivo, avevano sicura
valenza imprenditoriale per i risultati positivi che avevano conse
guito. Donde l'inconcludenza della «breve analisi» condotta al
riguardo dalla sezione istruttoria senza neppure tenere conto del
la consolidata giurisprudenza che aveva sempre affermato «il prin
cipio delle legittimità degli impieghi effettuati da società del gruppo in favore delle società sorelle» con conseguente esclusione del
l'antigiuridicità dell'atto di disposizione; 4. - la destinazione di somme a vantaggio di società diverse
ma sempre appartenenti al gruppo o a terzi ma con la prospettiva di vantaggi indiretti per le stesse società non costituiva apropria zione ma semplice distrazione del bene a fine diverso da quello a cui avrebbe dovuto essere destinato, eppertanto attività che non
rientrava nei parametri normativi dell'art. 646 c.p.; 5. - l'avere il Bernabei gestito i fondi con disinteresse personale
e nella fondata persuasione di agire per conto e nell'interesse del
gruppo escludeva di per sé l'elemento psicologico del delitto con
testato.
Con requisitoria 3 maggio 1989, il p.g. chiedeva il rigetto del
l'interposto ricorso allegandone l'infondatezza. Contestava, in par
ticolare, l'asserita legittimità della ricezione dei fondi da parte del Bernabei avvenuta per mezzo del De Amicis e con l'assenso
del presidente dell'Iri nel cui gruppo erano inserite la Italstat e
le società da questa controllate, confermando che il collegamento funzionale tra le società operative e la Italstat non poteva incide
re in alcun modo sulla completa autonomia gestionale delle pri
me, per cui in assenza di una formale deliberazione autorizzativa
degli organi sociali competenti alcun trasferimento avrebbe potu to essere effettuato. Non consentendo un collegamento di gruppo il depauperamento senza titolo della consistenza patrimoniale delle
stesse nemmeno a vantaggio della società di controllo. Confor
memente, peraltro, all'attuale normativa sui gruppi di imprese, correttamente interpretata dalla sezione istruttoria in coerenza al
l'orientamento seguito dalla giurisprudenza.
Riteneva, inoltre, il deducente, richiamandosi ai limiti dell'in dagine fissati dall'art. 152, 2° comma, c.p.p., che la responsabili tà per il reato di cui all'art. 646 c.p. può venir meno solo quando sia accertato che le somme «avrebbero dovuto essere erogate e
10 furono per raggiungere un risultato rispondente ad un interes
se specifico e documentato della società originariamente proprie
taria», il che nella specie non si era verificato, come rilevato dai
giudici di merito con accertamenti e valutazioni che sfuggivano ad ogni controllo in sede di legittimità. La riscontrata mancanza
di causali corrispondenti agli interessi delle società proprietarie
degli atti di disposizione compiuti dal Bernabei vanificavano, poi, ogni argomentazione relativamente alle distinzioni poste dalla di
fesa in ordine alla configurazione del reato non ricorrendo nella
specie l'ipotesi della distrazione all'uopo richiamata.
Con memoria del 14 giugno 1989 la difesa del ricorrente insi
steva nei già dedotti motivi specificamente confutando tutte le
contrarie osservazioni del p.g. requirente. Rileva preliminarmente il collegio a fronte dell'ampiezza della
verifica sollecitata dalla difesa del ricorrente che a sostegno del
l'interposto gravame ha prospettato una molteplicità di questioni in ordine alla stessa configurabilità e, comunque, alla sussistenza
dei reati di appropriazione indebita di cui ai capi 8 ed 8 bis della
11 Foro Italiano — 1990.
rubrica che a seguito dell'applicazione dell'amnistia concessa con
il d.p.r. n. 865 del 1986 sono rimasti limitati i suoi stessi poteri di piena cognizione sulle questioni proposte con conseguente ri
duzione dell'ambito della relativa indagine. In quanto al giudice
dell'impugnazione è consentita la verifica della sentenza che nel
l'applicare una causa estintiva del reato abbia escluso la ricorren
za delle ipotesi assolutorie previste dall'art. 152 c.p.p. solo se
dalla sentenza stessa risultino prove evidenti che possano giustifi
care la sostituzione della formula di non doversi procedere in
forza di causa di estinzione con una delle formule assolutorie
di merito in detta norma previste. Nel rispetto di tali limiti normativamente fissati dall'art. 152,
2° comma, c.p.p. e chiariti con orientamento uniforme dalla giu
risprudenza va considerato l'interposto ricorso con specifico ed
immediato riferimento alla questione che rispetto a tutte le altre
si presenta decisamente pregiudiziale perché attinente alla stessa
possibilità di incriminazione del fatto ritenuto in sentenza ai sensi
dell'art. 646 c.p. e, quindi, a quella di configurare quale reato
l'ipotesi di mera distrazione nell'altrui interesse di cui l'imputato è stato riconosciuto in concreto responsabile dal giudice istrutto
re. E come risulta sostanzialmente confermato dai giudici di ap
pello e dal p.g. requirente che, nel ritenere la rilevanza penale dell'attività gestionale del Bernabei, ne hanno colto il dato quali ficante ai fini di cui all'art. 646 c.p. nel compimento da parte del predetto di atti di disposizione patrimoniale, spettanti invece agli organi rappresentativi e di gestione di Italscai e di Italstrade
per fini non propri delle società, per cui la «tesi accusatoria»
si risolve, secondo i puntuali rilievi formulati al riguardo dalla
difesa, nell'imputare al Bernabei soltanto «una condotta di mera
distrazione dei fondi extra-contabili» o meglio di «mero abuso
di potere o se si vuole di esercizio arbitrario di detti poteri». In effetti, entrambe le sentenze di merito, coerentemente alla
circostanza emersa durante l'istruttoria che il Bernabei non ha
intascato nulla dei fondi extra-bilancio affidatigli, hanno escluso
con riferimento alle imputazioni ex art. 646 c.p. originariamente contestate nelle forme alternative dell'appropriazione e della di
strazione a profitto proprio o altrui sia la appropriazione che
la distrazione a vantaggio personale dei suddetti fondi da parte
dell'imputato. E, pertanto, le ipotesi che, come già rilevato da
questa Suprema corte nella sentenza 17 maggio 1965 (ric. Gabrie
le, Foro it., Rep. 1966, voce Peculato, n. 31), devono considerar
si eqivalenti perché, pur differendo nelle modalità esecutive, coin
cidono e si connotano in maniera sostanzialmente uniforme sul
dato comune dell'incameramento del bene nel proprio interesse
ad opera dell'agente. Mentre neanche a livello di mera supposizione i giudici di meri
to hanno avanzato l'ipotesi di collusioni intervenute tra il Berna
bei ed i percettori del denaro di cui il predetto era venuto in
possesso. Vale, anzi, precisare al riguardo, in ordine alle relative
modalità di acquisto, che, ai fini della legittimità dello stesso è sufficiente che il possesso, come evidenziato dal sintagna «a qua lisiasi titolo» contenuto nell'art. 646 c.p., sia stato conseguito «senza sottrazione, frode o violenza» (cfr. sez. Ili 4 maggio 1954,
Oiulietti, id., Rep. 1955, voce Appropriazione indebita, n. 12) e, quindi, con connotazioni neppure ravvisabili nella specie ove
si consideri, secondo le indicazioni contenute nelle sentenze di
merito, che i fondi extra-bilancio sono stati ricevuti dal Bernabei
in continuazione di un preesistente rapporto di gestione e custo
dia fiduciaria da parte dell'affidatario con il pieno consenso del
l'organo di vertice dell'ente pubblico al quale erano stati conse
gnati dall'affidatario precedente; che a detto ente facevano capo come partecipate e controllate tutte le società del gruppo e che
nel corso della gestione il Bernabei non ha mancato di contattare
gli organi delle società interessate. Il che smentisce, peraltro, ogni
possibile illazione in ordine alla clandestinità dell'intera operazio
ne, connotata da intuibile riservatezza verso l'esterno.
Risulta allora evidente come la «discussione» aperta dalla dife
sa sulla differenza tra atto di appropriazione ed atto di distrazio
ne con riferimento al disposto dell'art. 646 c.p. sia tutt'altro che
«fuorviarne», come troppo affrettatamente ritenuto nell'impugnata
sentenza, coinvolgendo la stessa, che non si risolve in un'asettica
esercitazione accademica, in maniera obiettivamente determinan
te la posizione dell'imputato perché finalizzata ad individuare lo
stesso ambito applicativo della norma incriminatrice onde stabili
re se quel tipo di condotta distrattiva tenuto dal Bernabei non
per vantaggio personale con fraudolente intese con i terzi destina
tari dei singoli atti di disposizione corrisponda al modello di ap
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GIURISPRUDENZA PENALE
propriazione indebita delineato dall'art. 646 c.p. e se lo stesso, collocandosi fuori della previsione della citata norma, abbia as
sunto connotazioni e realizzato situazioni diversamente apprezza bili sul piano giuridico
La rilevanza della questione che ha costituito oggetto di speci fico motivo di gravame e che, implicando solo la verifica in pun to di diritto di quanto già recepito e valutato in sentenza, eluda
la preclusione stabilita nel 2° comma dell'art. 152 c.p.p., risulta
tanto più evidente ove la si confronti con il disposto dell'art.
I c.p. che, nell'ambito del principio di stretta legalità, sancisce
quello della rigorosa tipicità del reato che di per sé esclude, esi
gendo per ogni figura tipica di reato una «espressa» previsione di legge, il potere del giudice di estendere per via analogica la
norma incriminatrice.
Ed è in questa prospettiva che va inquadrata e letta la sentenza
pronunciata il 23 maggio 1987 (ric. Tuzet, id., 1987, II, 481) dal
le sezioni unite penali di questa Suprema corte che, in tema di
responsabilità penale degli operatori bancari in relazione alla con
cessione di fido, ha affermato che detta condotta, integrando nei
suoi estremi un'ipotesi di distrazione anziché di appropriazione, non realizzava la fattispecie del delitto di appropriazione indebita
che ricomprende nella fattispecie legale prevista dall'art. 646 c.p. solo fatti appropriativi a differnza degli art. 314 e 315 c.p. in
tema di peculato e di malversazione. Sentenza, alla quale corret
tamente si sono richiamati i deducenti e che il collegio condivide, ad essa adeguandosi, proprio in considerazione dell'innegabile di
versità concettuale esistente tra le attività di appropriazione e di
distrazione che, implicando entrambe la sottrazione del bene alle
sue finalità istituzionali, si diversificano, come puntualmente os
servato in dottrina nell'analisi della condotta tipica del reato di
peculato utilmente richiamabile in questa sede, nella fase succes
siva della nuova destinazione che nell'ipotesi di appropriazione «è soggettivamente ed oggettivamente orientata ad impadronirsi della cosa, cioè ad instaurare un completo dominio su di essa
immettendola nel patrimonio dell'agente» mentre in quella della
distrazione «è rivolta semplicemente ad un uso arbitrario del be
ne con impiego per fini diversi da quello cui era destinato».
Donde l'impossibilità concettuale di una considerazione unita
ria delle due condotte ontologicamente diverse e specificamente
contraddistinte, configurate in rapporto di alternatività negli art.
314 e 315 c.p. come sottolineato dagli stessi avverbi «ovvero»
e «comunque» introdotti nel relativo testo che autorizza a disat
tendere la reductio ad unum patrocinata in sede di interpretazio ne dell'art. 646 c.p. nonostante la precisa descrizione della con
dotta tipica del reato di appropriazione indebita.
Diversità ed alternatività delle due condotte di cui v'è riscontro
autentico nell'art. 5, lett. c), d.p.r. 22 maggio 1970 n. 283 che, nel prevedere l'applicazione dell'amnistia anche al reato di pecu
lato, ne esclude esplicitamente l'ipotesi dell'appropriazione limi
tando l'operatività del beneficio a quella della distrazione solo
se compiuta «per finalità non estranee alla pubblica amministra
zione». Il che, peraltro, consente di confutare l'enunciazione im
motivatamete riduttiva del p.g. requirente per cui «la distrazione
presuppone che il denaro abbia avuto una destinazione rispon dente alla sfera degli interessi dell'ente proprietario ma diversa
da quella che avrebbe dovuto essergli data» non esaurendosi in
questa più limitata ipotesi la distrazione penalmente rilevante co
me risulta dal suddetto enunciato normativo che, nel determinare
l'ambito di applicazione del beneficio in ordine al reato di pecu lato alla sola ipotesi cui si è richiamato il requirente, dà per scon
tata (altrimenti non vi sarebbe stato bisogno della precisazione circa le connotazioni del fatto amnistiabile) anche quella della
distrazione per fini estranei alle finalità oltre che agli interessi
dell'ente.
Non sussiste, quindi, ragione a fronte del chiaro dettato legis lativo per considerare ontologicamente diversa l'attività di appro
priazione prevista dall'art. 646 c.p. rispetto a quella descritta ne
gli art. 314 e 315 c.p. dovendosi, infatti, ritenere all'esito dell'in
terpretazione logico-sistematica dell'anzidetta norma ed in
applicazione del noto brocardo dell 'ubi voluit dixit, ubi noluit
tacuit, che, quando il legislatore ha riconosciuto valenza e rile
vanza penale alla condotta di distrazione ed ha inteso reprimerla alla pari con quella di appropriazione, lo ha fatto espressamente in conformità al principio enunciato nell'art. 1 c.p., come, ap
punto, si è verificato nel definire la fattispecie del peculato e del
la malversazione in cui entrambe le condotte sono state esplicita mente contemplate.
II Foro Italiano — 1990.
Né va trascurato in sede di interpretazione della norma in esa
me il tenore letterale delle espressioni usate dal legislatore che
con il verbo «appropriare» ha inteso chiaramente riferirsi al fatto
di per sé concettualmente definito dell'incameramento del bene, realizzato mediante l'immissione diretta dello stesso nel patrimo nio dell'agente (o in quello del concorrente in caso di collusione
tra il predetto ed il terzo beneficiato). L'eterogeneità di significa to dei due termini per cui il «distrarre» non può comunque essere
ricondotto nel paradigma delP«appropriarsi», trova ulteriore con
ferma nei lavori preparatori del codice penale in cui la condotta
descritta dall'art. 646 c.p. è stata intesa nel significato suo pro
prio del termine, come testualmente affermato nella relazione del
presidente della commissione ministeriale per il progetto del codi
ce penale per cui «appropriarsi di una cosa significa appunto far
la entrare nel proprio dominio il che nel delitto in esame si verifi
ca mercé l'inversione del possesso». Ma se anche volesse intendersi, secondo l'orientamento di au
torevoli autori che negano l'autonomia concettuale delle due con
dotte, quella di appropriazione come forma specifica della più
ampia condotta di distrazione non muterebbero le conclusioni espli citate nella surrichiamata sentenza delle sezioni unite proprio in
considerazione della specificità dell'ipotesi di reato descritta nel
l'art. 646 c.p. che non potrebbe ammettere, in quanto tale, dila
tazioni interpretative di sorta. La cui eventuale realizzazione «ec
cederebbe certamente, come avvertito in dottrina, i limiti già di
scussi dell'interpretazione estensiva e travalicherebbe
nell'interpretazione analogica, fondata com'è su un'identità di ratio
alla quale dovrebbe far riscontro una parità di trattamento». Don
de il ricorso ad un «procedimento che sarebbe espressione carat
teristica dell'analogia in malam partem e, quindi, certamente ri
fiutato dal sistema».
Rileva, peraltro, il collegio che la linea seguita al riguardo dalle
sezioni unite con la richiamata sentenza Tuzet del 1987, che cer
tamente ha interpretato in maniera ortodossa la norma incrimi
natrice di cui all'art. 646 c.p., sembra trovare sostanziale confer
ma in quella successivamente pronunciata dalle stesse sezioni uni
te il 28 febbraio 1989 (Cresti ed altro, nota attualmente solo
attraverso la massima provvisoria) per cui è stata ravvisata la
punibilità della distrazione dei fondi di un istituto di credito ope rata da un suo dipendente mediante indebita concessione di fido
avendo costui agito in collusione con il cliente. Laddove proprio l'accordo fraudolento intercorso prima dell'atto di disposizione non dovuto e del definitivo incameramento del denaro da parte del terzo, in concorso, però, con il dipendente infedele, realizza
in concreto una vera e propria iptesi di appropriazione che si
sovrappone all'atto di distrazione, da considerarsi nell'economia
del reato, eclusivamente nella sua valenza strumentale.
Vale, inoltre, rilevare che su questi medesimi indirizzi va alli
neandosi la più recente giurisprudenza che, nell'uniformarsi al
l'insegnamento delle sezioni unite nella menzionata sentenza del
1987, ha ravvisato gli estremi del reato previsto dall'art. 646 c.p. nelle già ricordate ipotesi della distrazione a profitto proprio (cfr. sez. VI 2 ottobre 1987, Peruzzo, id., Rep. 1989, voce cit., n.
10) o di quella realizzata mediante collusione tra l'agente e il ter
zo a vantaggio del quale l'atto di distrazione è stato compiuto (cfr. sez. VI 28 giugno 1988, Centa, id., 1988, II, 669), cosi cor
rettamente ricomprendendo nello spettro di punibilità del reato
previsto dall'art. 646 c.p. le sole ipotesi di distrazione che, diver
samente da quella a profitto altrui, sono assimilabili, come in
precedenza rilevato, all'appropriazione vera e propria. Alla stregua delle considerazioni e delle valutazioni che prece
dono fedelmente ancorate alle sentenze istruttorie che nella con
formità dei contenuti vicendevolmente si integrano e si completa no e sull'evidenza della situazione nelle stesse definita deve, per
tanto, concludersi che il fatto di mera distrazione attribuito
all'imputato non riveste connotazioni penalmente rilevanti, collo
candosi fuori del paradigma del reato previsto dall'art. 646 c.p. In altra e competente sede, che non è quella penale, dovrà essere
eventualmente valutata l'attività gestionale dei fondi extra-bilancio
tenuta dal Bernabei, che, peraltro, neppure appare ispirata da
«volontà di espropriazione», come ha rilevato la difesa con rife
rimento all'asserita mancanza dell'elemento psicologico del reato
ascritto, argomentando da quanto attestato dallo stesso giudice istruttore nella sua sentenza per cui sin dall'inizio il Bernabei si
era mantenuto in contatto con il De Amicis ed i legali rappresen tanti delle società interessate invitandoli anche ad operare attiva
mente per far rientrare direttamente e indirettamente le risorse
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PARTE SECONDA
extra-bilancio nelle società cui appartenevano. In quanto, come
sostenuto da autorevole dottrina, «la volontà di restituire esclude
evidentemente quella di appropriarsi». La natura pregiudiziale della questione già esaminata e le con
clusioni alle quali il collegio è pervenuto in accoglimento delle
deduzioni della difesa precludono l'esame delle altre articolate
tematiche proposte con ampie argomentazioni in fatto e diritto
dal ricorrente per cui, conformemente al coordinato disposto de
gli art. 152, 2° comma, e 539, n. 1, c.p.p., va annullata senza
rinvio l'impugnata sentenza in quanto il fatto ascritto all'impu
gnato, come ritenuto nelle sentenze di merito, non è preveduto dalla legge come reato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 31 mar
zo 1989; Pres. Glinni, Est. Sacchetti, P.M. Guardascione
(conci, diff.); ric. P.m. in causa Piperno. Annulla Trib. Roma
25 gennaio 1988.
Edilizia e urbanistica — Costruzioni abusive — Sanatoria — Obla
zione — Efficacia estintiva (L. 28 febbraio 1985 n. 47, norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzio
ni, recupero e sanatoria delle opere edilizie, art. 31, 34, 35,
38, 39).
L'estinzione del reato di costruzione abusiva per «condono edili
zio» non consegue automaticamente al decorso del termine di
decadenza e prescrizione (di trentasei mesi) entro cui il sindaco
deve decidere in ordine all'istanza di concessione in sanatoria
e valutare anche la congruità della somma versata a titolo di
oblazione, in quanto il giudice deve comunque accertare se nel
detto lasso di tempo l'autorità amministrativa non abbia già esaminato la domanda dell'interessato. (1)
(1) I. - Diversamente da Cass. 25 ottobre 1989, De Matti, Foro it., 1990, II, 483, con nota di richiami, la sentenza in epigrafe attribuisce all'autorità giudiziaria l'obbligo di acquisire pregiudizialmente un'infor mativa presso i competenti uffici comunali, quando risulti — ex actis — l'avvenuto perfezionamento del silenzio-accoglimento di cui all'art. 35 1. 47/85 sulla domanda di «condono edilizio». Peraltro, anche per la pronuncia in rassegna, il giudice penale non può valutare, ex officio, l'effettiva conformità ai parametri legali dell'oblazione versata da parte dell'interessato, spettando tale adempimento esclusivamente alla compe tente autorità amministrativa. In tal senso, si è pronunciata expressis ver bis recentemente Cass. 28 giugno 1989, D'Amato, Riv. pen., 1990, 486, secondo cui, inoltre: a) l'avvenuto decorso del termine (perentorio e di decadenza) biennale dalla data di presentazione della domanda (o dall'e missione del parere di cui all'art. 32 nell'ipotesi di immobili abusivi siti in zone sottoposte a «vincolo») implica che il sindaco non possa chiedere altre somme a titolo di oblazione; b) il termine prescrizionale di trentasei mesi — entro cui l'amministrazione comunale può esigere nei confronti del privato il diritto al conguaglio della somma, dallo stesso «autoliqui data» a titolo di oblazione — rileva solo se entro il detto biennio sia stato già formalmente richiesto il conguaglio. In altri due più recenti ar
resti, la Suprema corte ha (più restrittivamente) affermato che — per stabilire se sia maturato il silenzio - accoglimento — il giudice penale de
ve, comunque, accertare: 1) la tempestività della presentazione dell'istan za di «condono»; 2) la completezza della stessa con riferimento all'esatta individuazione delle opere da sanare ed agli allegati documenti; 3) l'inesi stenza delle situazioni ostative previste ex art. 32 e 33 1. cit.; 4) l'insussi stenza di infedeltà fraudolente; 5) il versamento della somma «autoliqui data» e di quella eventualmente chiesta dall'autorità amministrativa entro il citato biennio, a titolo di conguaglio. Sicché, in assenza di tali (concor renti) condizioni, dovrebbero trovare applicazione le sanzioni penali (co si, Cass. 5 luglio 1989, De Luca e 28 giugno 1989, Pergamo, ibid., 486, 487). Tuttavia — quanto al presupposto indicato sub 3) — non va dimen ticato che — sul piano strettamente penale — l'esistenza di un vincolo sulla zona su cui insiste il manufatto abusivo non impedisce l'estinzione del reato edilizio (come evidenziato dalla sentenza in rassegna ed anche da Cass. 3 giugno 1988, Ricciardo, Foro it., Rep. 1989, voce Edilizia e urbanistica, n. 815), ai sensi dell'art. 39 1. cit., ritenuto peraltro costitu zionalmente non censurabile (Corte cost. 31 marzo 1988, n. 369, id., 1989, I, 3383).
II. - In dottrina, la sussistenza di un ampio potere di sindacato del
giudice penale circa l'integralità (oltre che la tempestività) del versamento
Il Foro Italiano — 1990.
Svolgimento del processo. — Con sentenza in data 25 gennaio 1988 il Tribunale di Roma, in riforma della sentenza in data 12
marzo 1986 del Pretore di Roma, dichiarò — tra l'altro — non
doversi procedere nei confronti di Paola Piperno in ordine al rea
to previsto dall'art. 17, lett. b), 1. 10/77 per abuso edilizio com
messo anteriormente al 1° ottobre 1983 perché estinto per obla
zione a norma dell'art. 38 1. 47/85.
Avverso tale sentenza il p.m. propone ricorso per cassazione, deducendo che erroneamente i giudici di merito avevano fatto
discendere dalla domanda di concessione in sanatoria gli effetti
estintivi del reato, che, invece, si realizzavano solo dopo la deter
minazione in via definitiva da parte del sindaco dell'importo del
l'oblazione, comunque, dopo l'inutile decorso di ventiquattro mesi
dalla presentazione della domanda senza richiesta di conguaglio
(art. 35, 12° comma, 1. 47/85). Motivi della decisione. — È pacifico, in punto di fatto, che
l'imputata presentò domanda di concessione in sanatoria con con
testuale versamento della prevista oblazione — in unica soluzione — il 6 marzo 1986.
Tuttavia, come questa Corte suprema ha più volte affermato, «la presentazione dell'istanza di concessione in sanatoria ed il
versamento della somma calcolata in base alla tabella allegata alla 1. 47/85 non sono sufficienti ad estinguere i reati urbanistici;
occorre, infatti, che la misura dell'oblazione sia determinata in
via definitiva dal sindaco competente al termine del procedimen to previsto dall'art. 35, 9° comma, 1. cit.
Né, nel caso di specie, è applicabile automaticamente l'istituto
del silenzio-assenso previsto dalla citata normativa.
Ed infatti, se è vero che sono trascorsi entrambi i termini di
decadenza e di prescrizione (trentasei mesi) entro i quali la legge
obbliga l'amministrazione ad adottare le proprie determinazioni
in ordine alla domanda di concessione in sanatoria e ad esprime re il giudizio di congruità della somma versata a titolo di oblazio ne, è altrettanto vero che spetta al giudice accertare che, nel lasso
di tempo considerato, l'amministrazione non abbia istruito e ri
scontrato la domanda dell'interessato.
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata
con rinvio per violazione di legge, essendo i giudici di merito
obbligati a sospendere il procedimento penale a norma dell'art.
38 1. 47/85 fino a quando sia pervenuta loro notizia del giudizio di congruità ovvero che l'istanza non sia stata accertata come
dolosamente infedele ai sensi dell'art. 40 1. cit.; salva, in ogni
caso, la facoltà dei giudici di merito di attingere direttamente
dall'autorità sindacale notizia che la domanda di sanatoria non
è stata esaminata entro i trentasei mesi dalla data di presentazio
ne, nel qual caso l'inutile decorrenza dei termini di decadenza
e di prescrizione equivale, indipendentemente dal fatto che la con
cessione in sanatoria non possa essere rilasciata a norma degli art. 33 e 39 1. cit., al venir meno delle condizioni ostative alla
declaratoria di estinzione del reato, che la legge espressamente
prevede anche per le opere non sanabili.
effettuato dal privato a titolo di oblazione, è stata sostenuta da Fortu
na, in Assini-Cicala-Fortuna, Condono edilizio, recupero urbanistico e sanatoria, Padova, 1985, 184 ss., spec. 187 ed anche sub nota (4).
I
TRIBUNALE DI BOLOGNA; sentenza 25 ottobre 1990; Pres.
ed est. Cornia; imp. Bassi.
TRIBUNALE DI BOLOGNA;
Tributi in genere — Reato tributario — Prescrizione — Atti in terrottivi — Constatazione delle violazioni — Estremi (D.l. 10
luglio 1982 n. 429, norme per la repressione della evasione in
materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per age volare la definizione delle pendenze in materia tributaria, art.
9; 1. 7 agosto 1982 n. 516, conversione in legge, con modifica
zioni, del d.l. 10 luglio 1982 n. 429, art. 1).
La constatazione delle violazioni finanziarie, alla quale l'art. 9
l. 516/82 attribuisce efficacia interruttiva del decorso dei termi
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