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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione III penale; sentenza 19 dicembre 1988; Pres....

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sezione III penale; sentenza 19 dicembre 1988; Pres. Gambino, Est. Damasco, P.M. Vitale (concl. diff.); ric. Cerini. Annulla Pret. Milano 30 marzo 1988 Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1989), pp. 221/222-229/230 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23182721 . Accessed: 28/06/2014 15:38 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 193.142.30.61 on Sat, 28 Jun 2014 15:38:17 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione III penale; sentenza 19 dicembre 1988; Pres. Gambino, Est. Damasco, P.M. Vitale (concl.diff.); ric. Cerini. Annulla Pret. Milano 30 marzo 1988Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1989), pp.221/222-229/230Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23182721 .

Accessed: 28/06/2014 15:38

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GIURISPRUDENZA PENALE

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 19 di

cembre 1988; Pres. Gambino, Est. Damasco, P.M. Vitale

(conci, diff.); ric. Cerini. Annulla Pret. Milano 30 marzo 1988.

CORTE DI CASSAZIONE; s

Lavoro (rapporto) — Igiene del lavoro — Luoghi di lavoro —

Fumo di sigaretta — Misure contro il fumo — Omissione —

Reato — Insussistenza (D.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, norme

generali per l'igiene del lavoro, art. 20).

Non rientra nell'ipotesi di reato prevista dall'art. 20 d.p.r. 19

marzo 1956 n. 303 il comportamento del datore di lavoro che

ometta di adottare provvedimenti idonei a contenere lo svilup

po e la diffusione del fumo di sigaretta nei luoghi di lavoro. (1)

li

PRETURA DI MILANO; sentenza 30 marzo 1988; Giud. Cu

lotta; imp. Cerini.

Lavoro (rapporto) — Igiene del lavoro — Luoghi di lavoro —

Fumo di sigaretta — Misure contro il fumo — Omissione —

Responsabilità penale del datore di lavoro (D.p.r. 19 marzo

1956 n. 303, art. 20).

Commette il reato di cui all'art. 20 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303

il datore di lavoro che non adotti provvedimenti idonei a con

tenere lo sviluppo e la diffusione del fumo di sigaretta nei luo

ghi di lavoro. (2)

I

Ritenuto in fatto: che con sentenza del 30 marzo 1988, il Pre

tore di Milano dichiarava Cerini Cornelio Elio colpevole del rea

to di cui agli art. 20 e 58, sub a), d.p.r. 19 marzo 1953 n. 303

per avere — nella qualità di legale rappresentante della ditta Uni

sys Italia — omesso di adottare provvedimenti atti ad impedire

o ridurre per quanto possibile lo sviluppo e la diffusione nei loca

li di lavoro del fumo di sigarette prodotto da alcuni dipendenti

operanti a fianco di altri non fumatori e, con la concessione delle

attenuanti generiche, lo condannava alla pena di lire 800 mila

di ammenda;

che, avverso tale sentenza, l'imputato ha proposto ricorso per

cassazione denunciando: a) violazione degli art. 14 e 15 c.c. (pre

leggi) e dell'art. 1 c.p., con riferimento all'art. 20 d.p.r. 303/56

ed agli art. 34 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 e 75 d.p.r. 20 marzo

1956 n. 320, nonché alla L 11 novembre 1975 n. 584; b) violazio

ne dell'art. 20 d.p.r. 303/56 con riferimento all'art. 5 c.p.; c)

violazione dell'art. 479 c.p.p. con riferimento all'art. 162 bis c.p.

ed all'art. 475, n. 3, c.p.p.

(1-2) Il 30 marzo 1988 si era aperta una speranza tra i non fumatori.

Con l'ampia, argomentata sentenza, il Pretore di Milano (in epigrafe) aveva condannato il rappresentante legale di una società, addebitandogli l'omissione di provvedimenti contro il fumo di tabacco nei locali di lavo

ro. L'ipotesi di reato ritenuta dal pretore milanese era quella prevista dall'art. 20 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303 («Nei lavori in cui si svolgono

gas e vapori irrespirabili o tossici o infiammabili, ed in quelli nei quali si sviluppano normalmente odori o fumi di qualunque specie, il datore

di lavoro deve adottare provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne, per

quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione») (per un quadro della

giurisprudenza della Suprema corte sull'art. 20 d.p.r. 303, v. Guariniel

lo, Rischio chimico e massima sicurezza tecnologicamente fattibile nei

luoghi di lavoro, in Foro it., 1987, II, 208). Con inconsueta rapidità, a meno di nove mesi di distanza, quasi a voler spegnere sul nascere inutili

speranze, la Cassazione annulla ora la sentenza del Pretore di Milano:

l'art. 20 d.p.r. 303 «si riferisce (e non può che riferirsi) esclusivamente

alle macchine e ai processi produttivi che generano fumo, e non certo

anche al fumo di sigarette prodotto dai soggetti che adoperano tali mac

chine». Sul problema del fumo di tabacco, v. già, nell'ambito di una

causa civile del lavoro, Pret. Santhià 11 aprile 1986, id., Rep. 1986, voce

Lavoro (rapporto), n. 1753 e Giur. merito, 1988, 353, con nota di Delli

Noci. La sentenza della Cassazione è annotata da R. Guariniello (// fumo

nell'ambiente di lavoro), in Dir. e pratica lav., 1989, 475.

Il Foro Italiano — 1989 — Parte II-9.

Osserva: l'emesso giudizio di colpevolezza si presenta indiscuti

bilmente errato, in quanto il fatto contestato all'imputato (fumo di sigarette in locali nei quali si svolge attività lavorativa) in nes

sun modo può essere fatto rientrare nella ipotesi di reato sanzio

nata dall'art. 20 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303.

Tale norma, infatti, col disporre testualmente che «nei lavori

in cui si svolgono gas e vapori irrespirabili o tossici ed infamma

bili, ed in quelli nei quali si sviluppano normalmente odori o

fumi di qualunque specie, il datore di lavoro deve adottare prov vedimenti atti a impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo

sviluppo o la diffusione», chiaramente si riferisce (e non può che

riferirsi) esclusivamente alle macchine od ai processi produttivi

che generano fumo, e non certo anche al fumo di sigarette pro dotto dai soggetti che adoperano tali macchine.

Né, al riguardo, vale l'osservare che, poiché in base alle odier

ne cognizioni della scienza anche il fumo delle sigarette si presan ta (sia per i fumatori che per i non fumatori che si trovano accanto

ai primi) dannoso per la salute, bisognerebbe interpretare la nor

ma nel senso di ricomprendere in essa anche il fumo cagionato

dalle sigarette, in quanto, cosi ragionando, si applica, attraverso

una inammissibile interpretazione analogica della norma, una non

prevista sanzione penale a fatti che, pur rientrando nella ragione di una determinata incriminazione, non rientrano peraltro nel con

tenuto formale del precetto; si crea, cioè, una arbitraria ipotesi

di reato non prevista dalla legge. Ora è noto che il chiaro disposto dell'art. 1 c.p. e dell'art.

14 preleggi, disponendo rispettivamente che «nessuno può essere

punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come

reato della legge (nullum crimen sine lege)» e che «le leggi pena

li .. . non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati»,

fissano il generale e inderogabile principio del divieto della analo

gia in materia penale. Per mera completezza di esame non può non osservarsi, inol

tre, come la decisione del pretore si presenta comunque non con

divisibile anche perché, oltre che basarsi su di una non consentita

interpretazione analogica, non ha altresì considerato che, in real

tà, la nostra legislazione si è più volte interessata dei pericoli che

possono nascere dal fumo delle sigarette, sia come fatto poten

zialmente idoneo a cagionare incendi od esplosioni, sia come fat

to pericoloso per la salute, dettando specificamente norme al

riguardo. Sotto il primo profilo, giova ricordare l'art. 75 d.p.r. 20 marzo

1956 n. 320 (col quale si sanziona penalmente l'inosservanza del

divieto di fumare nei lavori in sotterraneo ove sia probabile la

presenza di gas infiammabili od esplodenti), nonché l'art. 34 d.p.r.

27 aprile 1955 n. 547 (col quale egualmente si prevede la sanzione

penale per chi fuma nelle aziende o durante le lavorazioni in cui

esistono pericoli di incendi).

Quanto ai danni alla salute che possono derivare dal fumo del

le sigarette, provvede poi la 1. 11 novembre 1975 n. 584 che fissa

una serie di divieti, la cui inosservanza, peraltro, non è stata san

zionata penalmente, ma unicamente con sanzioni amministrative.

In definitiva, pertanto, l'impugnata sentenza deve essere an

nullata senza rinvio per violazione ed erronea applicazione della

legge penale e l'imputato deve essere mandato assolto dalla im

putazione ascrittagli, perché il fatto non è preveduto dalla legge

come reato.

II

Diritto. — La questione che si presenta oggi all'esame del giu

dicante possiede un evidente carattere di indubbia novità ed ap

pare ricca di implicazioni teoriche e pratiche di notevole

importanza. Essa va, pertanto, affrontata con particolare impegno, avendo

riguardo al conflitto di interessi che entrano in gioco e la con

traddistinguono e ai principi generali, di diretta derivazione costi

tuzionale, che ispirano la vigente disciplina in materia di igiene

del lavoro.

Non si può infatti prescindere, nell'interpretazione delle norme

in argomento, dal mutato panorama di conoscenze medico

scientifiche su cui esse finiscono ormai per reagire e della diversa

sensibilità individuale e sociale che si è venuta sviluppando in

questi ultimi anni sul tema della tutela della salute nei luoghi

di lavoro e di vita.

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PARTE SECONDA

Questo pretore è ben consapevole che il legislatore del 1956, allorché ha formulato l'art. 20 d.p.r. n. 303, prescrivendo l'ob

bligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti atti ad im

pedire o a ridurre lo sviluppo e la diffusione di gas, vapori, odori

e fumi di qualunque specie che si sviluppino normalmente nei

luoghi di lavoro, non aveva certo in mente il fumo di tabacco

emesso dagli operatori durante l'attività lavorativa, sia perché il

fenomeno non aveva la diffusione che ha assunto in seguito, sia

perché si ignorava allora la pericolosità di tale vizio. Ma costitui

sce un dato ormai pacificamente acquisito alla nostra cultura giu ridica che qualunque norma di legge, compresa quella penale, va interpretata per quello che oggettivamente essa contiene ed

esprime e nella sua più ampia potenzialità applicativa, a prescin dere da quelle che possono essere state le intenzioni, le conoscen

ze e le finalità di chi l'ha emanata. Ogni norma, infatti, una

volta entrata in vigore, acquista una sua vita autonoma e, se i

termini in cui è stata formulata lo consentono, può e deve essere

interpretata in modo da essere utilmente impiegata anche per re

golamentare situazioni prima non considerate, concorrendo cosi

a colmare le inevitabili lacune legislative che si vengono continua

mente a determinare in conseguenza del rapido evolvere della realtà

sociale, culturale e politica in rapporto alla tradizionale lentezza

con cui questi mutamenti vengono recepiti e regolati dalla legge. li problema, dunque, per l'interprete è quello di saggiare, ogni

volta in dipendenza di eventuali nuove esigenze di intervento e

di tutela che la realtà gli prospetta, quali siano i limiti di elastici

tà delle singole norme in vigore e fino a qual punto esse siano

impiegabili per risolvere questioni prima mai prospettate, senza

però mai sconfinare nell'arbitrio, o nell'interpretazione analogi

ca, che in penale è notoriamente vietata.

Ovviamente questa indagine va condotta, avendo di mira la

ratio fondamentale che ispira l'intera disciplina e tenendo conto

dei principi generali che regolano la materia, cosi come sono stati

enucleati e definiti dalla dottrina e dalla giurisprudenza più auto

revoli.

1 precetti contenuti nel d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, per una

precisa scelta di politica prevenzionale, sono stati concepiti quasi tutti in termini di notevole ampiezza, al fine di realizzare la mas

sima estensione possibile nella difesa della salute dei lavoratori

da qualsiasi fonte di nocività. L'obbligo del datore di lavoro di

apprestare le misure di igiene, prescritte quasi sempre in forma

abbastanza generica proprio per non vincolare e circoscrivere la

doverosa ricerca di soluzioni adeguate, è stato, infatti, sottopo

sto, come è ormai riconosciuto dalla prevalente giurisprudenza anche della Suprema corte, all'unico limite della sola fattibilità

tecnologica. In pratica, la legge impone di fare tutto ciò che è possibile

per eliminare o ridurre al massimo i fattori di nocività suscettibili

di porre in pericolo l'incolumità dei lavoratori durante l'espleta mento della loro attività subordinata e questa pretesa, che si arti cola attraverso la prescrizione al datore di lavoro di tutta una

serie di obblighi e divieti, è tendenzialmente incondizionata, pro prio perché mira a garantire un interesse di primaria rilevanza

costituzionale, qual è appunto il diritto alla salute, riconosciuto e conclamato dall'art. 32 Cost, come bene supremo dell'indivi

duo e interesse della collettività.

Tale priorità di tutela deve costituire, pertanto, l'indispensabile chiave di lettura dell'intera normativa prevenzionale ed il princi

pale criterio-guida capace di orientare l'opera dell'interprete nello

sforzo di adattare la norma al caso concreto e alle mutate condi

zioni storico-culturali su cui essa va ad incidere.

Alla luce delle brevi considerazioni che precedono e tornando,

ora, alla questione in esame, ci sembra di poter tranquillamente affermare, senza alcuna forzatura della lettera della legge, che,

quando l'art. 20 d.p.r. 1956 n. 303 parla di lavori in cui si svilup

pano normalmente odori o fumi di qualunque specie, sia da in

tendere riferito oltre che alle macchine, e agli impianti o ai materiali in lavorazione che producono gas, vapori, odori o fumi, anche ai soggetti che adoperano tali strumenti e mezzi, giacché il termi ne «lavori» è un concetto complesso che abbraccia entrambi gli

aspetti, oggettivi e soggettivi, dell'attività di trasformazione posta in essere dall'uomo, riguardando sia il risultato di essa che chi

10 produce. D'altra parte, se lo scopo della norma è chiaramente quello

di evitare l'assorbimento da parte del lavoratore di gas, vapori,

11 Foro Italiano — 1989.

odori o funi «di qualunque specie» e, quindi, non solo di quelli nocivi ma anche di quelli semplicemente fastidiosi, che si propa

ghino nei posti di lavoro, appare del tutto arbitrario ed ingiustifi cato introdurre nel precetto, a dispetto della sua ampiezza e

latitudine, una distinzione che il legislatore si è ben guardato dal

fare, a seconda della fonte di provenienza di tali fumi, ritenendo

ne vietati alcuni e ammettendone la liceità di altri, solo perché

prodotti non dalle macchine, dagli impianti o dalle sostanze ado

perate nella lavorazione, ma dagli operatori ad essa addetti.

Questo si che condurrebbe ad una forzatura limitativa del di

sposto, priva di qualsiasi fondamento logico e testuale, dando,

quindi, luogo ad una inammissibile interpretazione riduttiva, in

evidente contrasto con la vera ratio del precetto. Né si dica — come pure ha fatto la difesa — che laddove il

legislatore del 1955 e del 1956 ha voluto evitare il fumo del tabac

co nei luoghi di lavoro, lo ha disposto espressamente, come, ad

esempio, con l'art. 34 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 o con l'art.

75 d.p.r. 20 marzo 1956 n. 320, prescriventi il divieto di fumare

nelle aziende o lavorazioni in cui esistano pericoli specifici di in

cendio o nei lavori in sotterraneo, dove sia da ritenersi probabile la presenza di gas infiammabili o esplodenti, sicché deve dedursi

che in tutti gli altri casi sia stata implicitamente ammessa la piena libertà di fumare.

Tale argomentazione, infatti, poggia su errati presupposti e non

tiene conto delle differenti finalità di tutela che le norme di pre venzione infortuni e quelle di igiene del lavoro intendono per

seguire. Con le prime il legislatore si è preoccupato unicamente di evi

tare il rischio dell'incidente istantaneo, quale l'incendio o l'esplo

sione, con le seconde ha inteso, invece, preservare la salute dei

lavoratori da qualunque fonte di nocività, garantendo loro con

dizioni ambientali salubri durante lo svolgimento delle lavorazio

ni. Né vi era motivo di imporre un divieto assoluto di fumare

nei luoghi di lavoro, posto che in tutti gli ambienti aperti o in

quelli in cui praticamente tali emissioni appaiono cosi limitate

e circoscritte da risultare inapprezzabili, esse possono venire tran

quillamente tollerate, al pari di altre esalazioni innocue per la

salute dei dipendenti.

Quel che, invece, il datore di lavoro ha l'obbligo di impedire è lo sviluppo e la produzione normale di detti fumi in locali chiu

si, in cui vi sia una concentrazione di lavoratori che possono rice

verne danno o fastidio.

Egualmente privo di consistenza risulta, poi, l'altro rilievo mosso

dalla difesa, secondo cui la mancanza di un obbligo generalizzato di impedire il fumo di tabacco nei luoghi di lavoro dovrebbe rica

varsi dal fatto che la legge emanata I'll novembre 1975 n. 584,

nell'imporre tale divieto per tutta una serie di ipotesi specifica mente previste, non ha minimamente menzionato i locali adibiti

ad attività lavorativa sia pubblici che privati, con la conseguenza di dover ritenere come liberamente ammesso tutto ciò che non è stato espressamente proibito.

Al riguardo, invero, non possono non valere osservazioni ana

loghe a quelle sviluppate in precedenza, giacché la richiamata 1.

11 novembre 1975 n. 584 si occupa essenzialmente di proteggere

chiunque frequenti scuole, ospedali, biblioteche, musei, locali di

pubblico spettacolo o di pubblica riunione o si avvalga di mezzi

di trasporto di pubblico servizio, trattandosi chiaramente di una

normativa disposta a favore di soggetti privi in proposito di altre

forme di tutuela.

È, pertanto, arbitrario ritenere che questa legge possieda un

carattere di esclusività tale da costituire un limite nell'interpreta zione di altre norme relative alla salvaguardia di ambienti e sog

getti diversi. Anzi, essa costituisce un chiaro indice di un'evidente

tendenza legislativa ad allargare sempre più l'area della tutela della

salute dei cittadini, attraverso una crescente limitazione della li

bertà di fumare, libertà che in tanto può essere riconosciuta e

difesa, in quanto non arrechi danno ai terzi, spesso costretti a

subire passivamente le conseguenze negative dell'altrui piacere. E qui cade a proposito un'ulteriore considerazione, dalla quale

non sembra, nella specie, possa logicamente prescindersi. Come ha giustamente rilevato il denunciarne nell'esposto che

ha dato avvio al presente procedimento, se si dovesse ammettere

che manchi nella vigente disciplina sull'igiene del lavoro una qual siasi disposizione idonea ad impedire o ridurre la diffusione del fumo di tabacco negli ambienti lavorativi, si perverrebbe all'as

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GIURISPRUDENZA PENALE

surda (ed incostituzionale) conclusione che il nostro ordinamen

to, nell'apprestare una adeguata tutela al cittadino che, ad esem

pio, frequenti un locale di pubblico spettacolo, dove peraltro può

scegliere liberamente di andare o non andare e dove, comunque, normalmente si intrattiene per un tempo abbastanza limitato, ha,

invece, completamente dimenticato di provvedere alla salvaguar dia della salute dei lavoratori che, non per divertimento, ma per necessità di vita sono costretti a trascorrere gran parte della loro

giornata, in ambienti chiusi in cui possono svilupparsi e diffon

dersi fumi di tabacco, prodotti da altri lavoratori, senza che esi

sta in chi ha la responsabilità dell'azienda alcun dovere di impedirlo

per un malinteso rispetto di una sorta di tacita ed intangibile «li

bertà di inquinamento». Tutto ciò appare all'evidenza assolutamente irrazionale e inac

cettabile. La verità è che per il datore di lavoro l'obbligo di ri

muovere con tutti i mezzi possibili le fonti di nocività di qualunque

specie, comprese, quindi, quelle prodotte e alimentate dagli stessi

lavoratori, è chiaramente ed inequivocabilmente imposto dalle di

sposizioni del d.p.r. 1956 n. 303 che costituisce, in fondo, come

è noto, null'altro che una più dettagliata e specifica enunciazione

del precetto, di maggiore ampiezza e portata, contenuto nell'art.

2087 c.c.

Non a caso quest'ultima norma è stata opportunamente invo

cata nell'unico precedente giurisprudenziale che risulta edito in

argomento e, precisamente, nella sentenza emessa I'll aprile 1986

dal Pretore di Santhià (Foro it., Rep. 1986, voce Lavoro (rappor

to), n. 1753) che, decidendo la causa civile promossa da un grup

po di dipendenti contro il legale rappresentante della spa Magliola Antonio e figli il quale aveva imposto il divieto di fumare in

tutti i locali della sua azienda, ha riconosciuto legittimo tale di

vieto negli ambienti normalmente affollati e non aerati, essendo

appunto dovere dell'imprenditore adottare tutte le misure e gli

accorgimenti possibili per preservare nel modo più ampio la salu

te psico-fisica dei propri subordinati. Nel presente processo la

questione va riguardata sotto profili diversi, ma la sostanza non

cambia.

Accertata, dunque, la teorica applicabilità, nella specie, del

l'art. 20 d.p.r. 1956 n. 303, occore ora esaminare il merito della

denuncia presentata dal Dalessandro. Attraverso le dichiarazioni

del medesimo rese in dibattimento, da ritenere pienamente atten

dibili, non essendo state validamente contraddette da prove con

trarie, è emerso che l'ampio stanzone di circa 1.000 mq. in cui

egli operava e che conteneva circa novanta posti di lavoro, era

strutturato in forma di open-space e, cioè, era provvisto di tutta

una serie di divisori, aperti in alto e intercomunicanti, sicché i

fumi prodotti in una zona tendevano a diffondersi anche altrove,

spandendosi negli spazi attigui. Ha aggiunto il denunciante che,

poiché il numero dei colleghi fumatori era elevato, fino alla fine

di gennaio del corrente anno, data in cui era stato finalmente

messo in funzione l'impianto di aerazione, l'ambiente di lavoro

era denso di fumo di sigarette che rendeva l'aria irrespirabile e

che impregnava i vestiti a tal punto che la puzza poteva essere

nettamente percepita anche diverse ore dopo l'uscita. Con l'in

stallazione dell'impianto di aerazione forzata la situazione era cer

tamente migliorata, ma non in modo risolutivo, perché l'aria veniva

solo immessa all'interno del locale, senza che vi fosse contempo

raneamente un sistema di estrazione di quella viziata, sicché in

tal modo il fumo finiva per essere disperso ancora di più in ogni

zona.

Concludeva, infine, il teste, asserendo che egli più volte aveva

richiesto alla direzione aziendale di adottare i necessari provvedi

menti per garantire la sua e l'altrui salute, ma aveva sempre rice

vuto risposte elusive, perché i responsabili rifiutavano di imporre

il divieto di fumare negli uffici, sostenendo di non avere né ob

blighi né poteri in tal senso.

Alla stregua eli tali pacifiche risultanze processuali, ritiene il

giudicante che nessun dubbio si ponga circa la realizzazione nella

specie dei presupposti per la sussistenza della contravvenzione con

testata in epigrafe. La difesa ha in contrario sostenuto che l'ampiezza degli spazi,

le ampie finestrature lungo tutti i lati del locale e l'installazione

di un impianto di condizionamento di aria con una capacità di

ricambio negli uffici di un volume/ora costituissero, comunque,

condizioni ambientali idonee ad escludere la ravvisabilità nel caso

in esame della violazione dell'art. 20 d.p.r. 1956 n. 303, avendo

Il Foro Italiano — 1989.

il legale rappresentante della soc. Unisys Italia, ad ogni buon conto, adottato i necessari provvedimenti, se non per impedire, quanto meno per ridurre la diffusione del fumo nei luoghi di lavoro.

E al riguardo si è aggiunto che, anche a voler prendere, in via

analogica, come opportuni parametri di riferimento, i requisiti richiesti dal d.m. 18 maggio 1976 per gli impianti di condiziona mento dell'aria o di ventilazione di cui debbono essere dotati i

locali di pubblica riunione e spettacoli, onde ottenere l'esenzione

dall'obbligo di adottare il divieto di fumare imposto dalla 1. 1975

n. 584, risulterebbe nella specie che tali dati sarebbero stati larga mente osservati, essendo stata assicurata un'immissione d'aria ester

na pari a 73 metri cubi all'ora per persona e quindi una quantità notevolmente superiore ai 20 m3/n per persona prescritti dal men

zionato d.m.

Ora, a parte l'indimostrata correttezza di tali calcoli stante l'ar

bitrarietà di un raffronto fra situazioni che appaiono sotto vari

profili profondamente diverse, vi è comunque da rilevare che l'at

tuazione da parte del datore di lavoro di un efficace sistema di

ricambio d'aria negli ambienti lavorativi non comporta affatto

il soddisfacimento dell'obbligo posto a suo carico dall'art. 20 d.p.r. 1956 n. 303, ma costituisce osservanza solo di quell'altro precetto contenuto nell'art. 9 del medesimo d.p.r., riguardante, appunto, l'aerazione degli ambienti di lavoro.

La norma contestata in epigrafe richiede, invece, ben altri adem

pimenti, poiché impone in via prioritaria il dovere di adottare

provvedimenti atti ad impedire, per quanto possibile, la diffusio

ne dei gas, vapori, odori e fumi di qualunque specie che si svilup

pano durante l'attività lavorativa e, solo se ciò sia tecnicamente

irrealizzabile, scatta il subordinato dovere di ridurre tali emissio

ni nocive o fastidiose nei limiti del possibile. Non si può, dunque, ritenere adempiuto il precetto in argo

mento in tutti i casi, come nella specie, pur avendo il datore di

lavoro la possibilità tecnica di impedire lo sviluppo e la diffusio

ne delle esalazioni nocive o fastidiose negli ambienti di lavoro,

proibendo ai suoi dipendenti di fumare durante l'attività d'uffi

cio, preferisca adottare provvedimenti prevenzionali di assai mi

nore efficacia, intervendo tutt'al più a contenere il ristagno di

tali fumi, mediante il potenziamento dell'impianto di immissione

forzata d'aria.

È questa la ragione per cui, anche se si volesse ammettere co

me proceduralmente corretta l'ipotesi prospettata in via subordi

nata dalla difesa di ritenere, comunque, realizzate nella specie tutte le condizioni per l'accoglimento della domanda di oblazione

ritualmente proposta dall'imputato, ancorché non espressamente reiterata prima della discussione finale, non si potrebbe egual mente dar luogo al suo accoglimento, difettando, ad avviso di

questo pretore, la prova richiesta dall'art. 162 bis c.p. di aver

l'imputato provveduto a rimuovere la violazione di legge conte

statagli, con l'eliminazione delle conseguenze pericolose del reato

commesso.

A questo punto, per l'accertamento della penale responsabilità del prevenuto in ordine all'addebito in rubrica ascrittogli, non

rimane che esaminare la sussistenza dell'elemento psicologico che,

come-è ovvio, deve necessariamente ricorrere anche nelle con

travvenzioni perché esse siano punibili.

Orbene, al riguardo la zelante ed agguerrita difesa del Cerini

ha sviluppato un'ampia argomentazione rivolta a dimostrare che,

se anche fosse stata per assurdo ammessa nella specie l'oggettiva ricorrenza della violazione in discorso, egualmente l'imputato do

vrebbe essere mandato assolto con formula piena, avendo egli

agito in perfetta buona fede, nella ragionevole convinzione della

mancanza di una qualunque norma di legge che lo obbligasse ad imporre il divieto di fumare nei locali della propria azienda,

in ciò confortato dalla assenza di precedenti contrari, dal confor

me e mai contestato comportamento di tutti gli altri imprendito

ri, e cioè da una consolidata prassi ultratrentennale che nessuno

mai si era sognato di mettere in discussione ed infine dalla signi

ficativa circostanza che solo di recente era stato preannunciato

un progetto di legge rivolto ad estendere il divieto di fumare nei

luoghi di lavoro pubblici e privati, ad ulteriore riprova della rite

nuta insussistenza da parte dell'autorevole ministro proponente

di una norma già applicabile in base alla vigente disciplina.

Quindi, a tutto concedere, si dovrebbe comunque riconoscere

al prevenuto la scusabilità dell'errore incidente sul contenuto di

una norma penale, con la conseguenza che, attesa la sua incolpe

vole inconsapevolezza dell'antigiuridicità del proprio comporta

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PARTE SECONDA

mento, egli non potrebbe venire punito e ciò in applicazione del

principio recentemente enunciato nella sentenza della Corte costi

tuzionale n. 364 del 24 marzo 1988 (id., 1988, I, 1385) che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p. nella parte

in cui esclude dalla inescusabilità dell'ignoranza della legge pena

le l'ignoranza inevitabile.

Pur possedendo la tesi difensiva sopra enunciata un indubbio

fascino ed un'insinuante forza di suggestione, ritiene tuttavia il

giudicante che ad un più accurato ed approfondito esame essa

si riveli nella sostanza priva di fondamento.

La stessa Corte costituzionale, nella motivazione della richia

mata sentenza, riserva Un passo, che vai la pena di riportare per

esteso, nel quale praticamente si fa giustizia dell'assunto di fondo

che è qui in discussione.

A scanso di penosi equivoci e fraintendimenti, precisano, in

fatti, i giudici della Consulta ai paragrafi 26 e 27 della predetta

pronuncia che:

«26 - È doveroso, per prima, chiarire che, ove una particolare

conoscenza da parte del soggetto agente consenta al medesimo

la possibilità di conoscere la legge penale, non è legittimo che

10 stesso soggetto si giovi di un (eventuale) errore generale, co

mune, sul divieto. Ciò va rilevato non perché si disconoscono

i tentativi, per tanti aspetti meritevoli di considerazione, della dot

trina mirati, attraverso l'oggettivazione, per quanto possibile, dei

criteri di misura della colpevolezza, a sottolineare l'aspetto, pe

raltro fondamentale, di garanzia delle libere scelte d'azione, ma

perché non è desumibile dalla Costituzione la legittimità di una

concezione della colpevolezza che consenta di non rimproverare 11 soggetto per il fatto commesso (ovviamente, in presenza dei

prescritti elementi subiettivi), quando esista, in concreto, la pos

sibilità, sia pur eccezionale (di fronte ad un generale comune er

rore nel divieto) per il singolo agente di conoscere la legge penale

e, pertanto, la illiceità del fatto. Ammettere, allo stato attuale

della normativa costituzionale e ordinaria, il soggetto agente (che

è in errore sull'illiceità del fatto per ignoranza della legge penale,

pur essendo in grado di conoscere quest'ultima e di non errare

nella predetta illiceità) a giovarsi del comune errore sul divieto,

determinato dall'altrui generale, inevitabile ignoranza della legge

penale, vai quanto riconoscere all'errore comune sul divieto pe nale il valore di consuetudine abrogatrice di incriminazioni penali.

27 - Da quanto innanzi osservato discende, in via generale, che l'inevitabilità dell'errore sul divieto (e conseguentemente l'e

sclusione della colpevolezza) non va misurata alla stregua di cri

teri c.d. soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i dati

influenti sulla conoscenza del precetto esclusivamente alla luce

delle specifiche caratteristiche personali dell'agente), bensì' secon

do criteri oggettivi; ed anzitutto in base a criteri (c.d. oggettivi

puri) secondo i quali l'errore sul precetto è inevitabile nei casi

di impossibilità di conoscenza della legge penale da parte di ogni consociato. Tali casi attengono, per lo più, alla (oggettiva) man

canza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es., as

soluta oscurità del testo legislativo) oppure ad un gravemente caotico (la misura di tale gravità va apprezzata anche in relazione

ai diversi tipi di reato) atteggiamento interpretativo degli organi

giudiziari, ecc. La spersonalizzazione che un giudizio formulato

alla stregua dei criteri oggettivi pur necessariamente comporta, va tuttavia compensata, secondo quanto innanzi avvertito, dall'e

same di eventuali, particolari conoscenze ed «abilità» possedute dal singolo agente: queste ultime, consentendo all'autore del rea

to di cogliere i contenuti ed il significato determinativo della leg

ge penale escludono che la ignoranza della legge penale vada

qualificata come inevitabile. E anche quando, sempre allo scopo di stabilire l'inevitabilità

dell'errore sul divieto, ci si valga di «altri» criteri (c.d. «misti») secondo i quali la predetta inevitabilità può essere determinata

fra l'altro da particolari, positive circostanze di fatto in cui si

è formata la deliberazione criminosa (es. «assicurazioni erronee»

di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da rea

lizzare; precedenti, varie assoluzioni dell'agente per lo stesso fat

to, ecc.) occorre tener conto della «generalizzazione» dell'errore

nel senso che qualunque consociato, in via di massima (salvo quan to aggiungiamo subito), sarebbe caduto nell'errore sul divieto ove

si fosse trovato nelle stesse condizioni dell'agente; ma, ancora

una volta, la spersonalizzazione del giudizio va compensata dal

l'indagine attinente alla particolare posizione del singolo agente

Il Foro Italiano — 1989.

che in generale, ma soprattutto quando eventualmente possegga

specifiche «cognizioni» (ad es. conosca o sia in grado di conosce

re l'origine lassista o compiacente di assicurazioni di organi an

che ufficiali, ecc.) è tenuto a «controllare» le informazioni ricevute.

Il fondamento costituzionale della «scusa» dell'inevitabile igno

ranza della legge penale vale soprattutto per chi versa in condi

zioni soggettive di inferiorità e non può certo essere

strumentalizzata per coprire omissioni di controllo, indifferenze,

ecc. di soggetti dai quali, per la loro elevata condizione sociale

e tecnica, sono esigibili particolari comportamenti realizzativi de

gli obblighi strumentali di diligenza oei conoscere le leggi penali». Come emerge chiaramente dalla lettura.della decisione, per molti

versi profondamente innovativa, del supremo organo di controllo

della legge, nessuna delle condizioni per potere legittimamente

invocare l'ignoranza scusabile della norma penale può esere rav

visabile nella specie. L'imputato, quale legale rappresentante di

una società per azioni di grosse dimensioni, non può certo essere

considerato persona che versi «in condizioni soggettive di inferio

rità» rispetto ad altri cittadini e, quindi, è da lui esigibile un com

portamento di masima diligenza nella conoscenza approfondita

delle norme penali, specialmente di quelle che è tenuto a rispetta

re per ragioni della sua carica.

L'interpretazione dell'art. 20 d.p.r. 1956 n. 303, d'altra parte,

non presenta motivi di incertezza in relazione ad una sua insupe

rabile oscurità di formulazione. Anzi, la portata letterale di esso

è estremamente chiara ed univoca. Né appare utilmente invocabi

le nel caso in esame la generalizzata prassi disapplicativa di tale

precetto con riferimento all'obbligo di adottare provvedimenti per

impedire la diffusione nei luoghi di lavoro del fumo di tabacco

prodotto dai dipendenti operanti in locali chiusi, giacché è pacifi

co, come hanno puntualmente ribadito i giudici costituzionali nella

citata sentenza, che non è assolutamente ammissibile in campo

penale il riconoscimento all'errore comune di un valore sostan

ziale di consuetudine abrogatrice di norme inderogabili. È man

cata, inoltre, a giustificazione del preteso atteggiamento del

prevenuto di scusabile ignoranza circa l'effettiva estensione del

suo obbligo di tutela della salute dei lavoratori, una qualche posi

tiva indicazione dell'autorità sia giudiziaria che amministrativa,

tale da convincerlo della legittimità del suo rifiuto di adottare

il divieto di fumare nei locali chiusi della sua azienda, malgrado

le ripetute richieste in tal senso provenienti da un lavoratore che

giustamente faceva valere il suo diritto a non ricevere danno dal

l'altrui condotta.

È ben vero che, per quanto ci consta, l'art. 20 d.p.r. 1956

n. 303 non risulta essere stato mai applicato in fattispecie simili,

ma ciò non giustifica affatto l'apodittica conclusione della sua

assoluta inutilizzabilità in ipotesi di tal genere, giacché la verità

è che la magistratura non ha avuto finora occasione di pronun

ciarsi sull'argomento perché sono mancate, in conseguenza del

l'ancora scarsa consapevolezza dei gravi rischi connessi

all'assorbimento anche passivo del fumo della sigarette, opportu ne denunce di privati e di organi pubblici di vigilanza che abbia no sollevato il problema nei termini in cui esso è stato prospettato all'esame di questo pretore.

E per quanto riguarda infine la pretesa dell'imputato di essere

stato incolpevolmente indotto a ritenere l'inesistenza di una nor

ma di legge prescrivente l'obbligo di adottare provvedimenti ido

nei ad impedire la diffusione del fumo di tabacco nei luoghi di lavoro dal fatto che era stata recentemente preannunciata la pre

sentazione da parte del ministero della sanità di una proposta di legge rivolta appunto ad estendere il divieto di fumare ai luo

ghi di lavoro pubblici e privati, è agevole obiettare che la formu

lazione di un tale progetto legislativo, intanto non esclude di per

sé la validità dell'interpretazione che si è data dell'art. 20, e, poi, non è per nulla in contrasto con la preesistenza di una norma,

di analogo contenuto, ben potendo il legislatore avvertire la ne

cessità di un intervento successivo, onde meglio regolamentare l'intera materia, con disposizioni più specifiche e dettagliate.

Si può, dunque, concludere in tutta tranquillità che la convin

zione meramente soggettiva dell'imputato di non aver violato al

cuna norma di legge, attenendosi a quanto solitamente ritenuto

doveroso, non trova nessuna valida scusante e non vale quindi ad esonerare da responsabilità il prevenuto che deve essere conse

guentemente condannato, in concorso delle attenuanti generiche

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GIURISPRUDENZA PENALE

di cui il medesimo appare meritevole, tenuto conto del suo com

plessivo comportamento processuale e del suo stato di incensura

tezza, alla pena che si stima adeguata di lire 800.000 di ammenda

(p.b.: lire 1.200.00 di ammenda, diminuita di un terzo ex art.

62 bis c.p.), oltre al conseguenziale pagamento delle spese pro cessuali.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione II penale; sentenza 23 gen naio 1987; Pres. Romeo, Est. Cianci, P.M. (conci, conf.); ric.

Cimara. Conferma Trib. Avezzano, ord. 9 maggio 1986.

Impugnazioni penali in genere — Effetto estensivo — Efficacia

sospensiva nei confronti dei coimputati non impugnanti — Esclu

sione (Cod. proc. pen., art. 203).

L'effetto estensivo dell'impugnazione previsto, dall'art. 203 c.p.p. non impedisce il passaggio in giudicato, e quindi l'esecuzione, della sentenza nei confronti degli imputati non impugnanti, salvo, in caso di accoglimento di motivi estensibili, la possibilità di una riforma o di un annullamento a titolo di rimedio straor

dinario. (1)

Il Tribunale di Avezzano, con l'ordinanza indicata in epigrafe,

rigettava l'incidente relativo all'esecuzione dell'ordine di carcera

zione conseguente alla sentenza 24 gennaio 1983, proposto da

Cimara Roberto.

Avverso la predetta ordinanza il Cimara ha proposto ricorso

per cassazione, censurando, con i motivi redatti dal suo difenso

re, la decisione per avere negato che l'effetto estensivo dell'impu

gnazione ha anche efficacia sospensiva della esecuzione della

sentenza a causa del motivo non personale dedotto dal coimputa to impugnante.

La censura è infondata. Invero, è ius receptum che l'effetto

estensivo dell'impugnazione, previsto dall'art. 203 c.p.p., va qua lificato come un rimedio straordinario che non impedisce il pas

saggio in giudicato della sentenza nei confronti degli imputati non

impugnanti e, di conseguenza, non impedisce la sua esecuzione.

Tale effetto, infatti, opera ex post, presupponendo la decisione

sui motivi che si assumono estensibili e il loro accoglimento. Il ricorso, pertanto, va rigettato con le conseguenze di legge.

(1) Giurisprudenza costante: Cass. 13 ottobre 1986, Lai, Foro it., Rep. 1987, voce Impugnazioni penali, n. 148; 14 novembre 1985, Papa, ibid., n. 149; 24 novembre 1983, Di Giorgi, id., Rep. 1985, voce cit-, n. 156; 19 febbraio 1982, Scano, id., Rep. 1983, voce cit., n. 125; 10 luglio 1978, Di Silvestro, id., Rep. 1979, voce cit., n. 102; con la conseguenza che

l'effetto estensivo può anche farsi valere in sede esecutiva (Cass. 18 gen naio 1984, Gandus, id., Rep. 1985, voce cit., n. 158; 28 gennaio 1982,

Bonati, id., Rep. 1983, voce cit., n. 126). La prevalente dottrina ritiene, invece, che l'impugnazione del coimpu

tato impedisce il passaggio in giudicato della sentenza (Cordero, Proce

dura penale, IX ed., Milano, 1987, 577; Giostra, in Commentario breve

al codice di procedura penale, a cura di Conso e Grevi, Padova, 1987, sub art. 203, Vili e sub art. 576, V; C. Massa, L'effetto estensivo del

l'impugnazione nel processo penale, Napoli, 1955 , 241), almeno sino al

momento in cui sono presenti i presupposti per l'esplicazione dell'effetto

estensivo (Conso, La sanatoria delle nullità assolute nell'odierno proces so penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1956, 559).

V., pure, Cass. 18 giugno 1983, Carbonello, Foro it., Rep. 1984, voce

cit., n. 178, e, per esteso, in Cass. pen., 1984, 488, secondo la quale «la possibilità dell'effetto estensivo dell'impugnazione proposta da un coim

putato non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza nei confron

ti del coimputato non impugnante se i motivi sono esclusivamente personali

dell'impugnante», mentre se i motivi non sono esclusivamente personali il giudicato non si forma e «il giudizio in corso per uno è ugualmente in corso per l'altro responsabile dello stesso reato».

Il Foro Italiano — 1989.

TRIBUNALE PER I MINORENNI DI ANCONA; sentenza 16

dicembre 1988; Pres. Perucci, Est. Ramini; imp. Beyer.

TRIBUNALE PER I MINORENNI DI ANCONA;

Imputabilità — Capacità di intendere e di volere — Minore età — Infradiciottenne — Accertamento della capacità in relazione

al reato commesso — Fattispecie di concorso in omicidio e ra

pina (Cod. pen., art. 98, 110, 575, 628). *

Premesso che la valutazione del grado di maturità del minore

infradiciottenne deve essere operata in rapporto alla natura della

violazione commessa — per cui nel caso dei delitti contro la

persona può risultare sufficiente un minimo di sviluppo menta

le ovvero la mancanza di tare psichiche — va riconosciuta la

capacità di intendere e di volere di una ragazza diciassettenne

la quale, rinunciando a un modo autonomo di comportamento

pur di perpetuare una relazione amorosa totalizzante e incondi

zionata, contribuisce a realizzare il progetto ideato dal compa

gno maggiorenne, di uccidere la skipper del catamarano sul

quale si erano imbarcati, onde impossessarsene per realizzare

una fuga d'amore in paesi lontani. (1)

(1) La sentenza, relativa al «giallo del catamarano» del quale hanno

ampiamente e a lungo informato i mass-media, si segnala nella parte con cernente la difficile verifica della capacità di intendere e di volere della diciassettenne Diana Beyer, la ragazza olandese resasi corresponsabile di un assurdo omicidio a causa della forte influenza psicologica esercitata su di lei dal compagno maggiorenne.

Le argomentazioni del tribunale, sfociami nella conclusione che la im maturità psicologica della giovane sarebbe da ricondurre «a quel dato di naturale e imprescindibile immaturità insito in ogni minore» e che la

sua soggezione psicologica all'amante non ne avrebbe compromesso —

contrariamente a quanto sostenuto nel parere peritale — la capacità di

intendere il significato delle proprie azioni e la capacità di autodetermi

narsi in modo sufficientemente autonomo, assumono a coordinate di ri

ferimento i principi elaborati da una giurisprudenza in gran parte consolidata: lo sforzo di Trib. Ancona è perciò consistito nel concretizza

re tali principi applicandoli al complesso caso di specie. Per la tesi che assegna al concetto di imputabilità un carattere relativo,

in quanto la maturità del minore va concretamente accertata in relazione

alla natura della violazione commessa, cfr. Cass. 4 novembre 1985, Prin

cipe, Foro it., Rep. 1987, voce Imputabilità, n. 32; 19 novembre 1984,

A.A., id., Rep. 1986, voce cit., n. 37; 20 gennaio 1984, Valenti, id.,

Rep. 1985, voce cit., n. 46; 5 maggio 1983, Tiscione, id., Rep. 1984, voce cit., n. 26.

La ritenuta necessità di evitare un facile clemenzialismo, contrastante

con esigenze di prevenzione generale e di responsabilità dei minori, spiega altresì l'orientamento secondo cui la capacità di intendere e di volere sa

rebbe compatibile con un limitato o minimo sviluppo mentale ed etico

del soggetto infradiciottenne: cfr. Cass. 19 novembre 1984, cit.; App. min. Roma 20 agosto 1984, Giur. merito, 1986, 1185, con nota di Mane

ra e Foro it.. Rep. 1987, voce cit., n. 34; Trib. min. Catania 25 novem

bre 1983, Giur. it., 1984, II, 254, con nota di Nappi e Foro it., Rep. 1984, voce cit., n. 28.

Per la tesi accentuatamente generalpreventiva secondo cui, nel caso di

imputato prossimo alla maggiore età e di reati (come quelli contro la

persona) dal carattere illecito facilmente percepibile, ai fini della imputa bilità è sufficiente la mancanza di elementi relativi a tare suscettibili di

influire sui processi volitivi ed intellettivi, cfr. Cass. 19 aprile 1985, Tor

nabene, id., Rep. 1986, voce cit., n. 41.

Quanto poi al problema della tecnica di accertamento, la giurispruden za non sembra univoca. In molte pronunce viene riproposto un indirizzo

che concede al giudice la più ampia libertà di apprezzamento, nel senso

appunto che la verifica della maturità del minore non sarebbe vincolata

a specifiche indagini tecniche, ma potrebbe essere compiuta in qualsiasi modo, valorizzando ogni elemento del libero convincimento: v. Cass. 19

aprile 1985, cit.; 18 ottobre 1985, Di Grazia, id., Rep. 1987, voce cit., n. 31; 8 aprile 1986, Chiantaretto, ibid., n. 35. Ma, in proposito, si sono

anche pronunciate le sezioni unite, affermando il diverso principio secon

do cui in sede di accertamento della capacità del minore il giudice non

potrebbe prescindere dalle speciali indagini prescritte dalla legge istitutiva

del tribunale dei minorenni: sent. 26 gennaio 1985, Tommaro, id., Rep.

1985, voce cit., n. 42, e in Cass. pen., 1985, 1333. Senonché le stesse

sezioni unite hanno temperato la portata del principio predetto sostenen

do che, qualora non sussista una totale carenza di motivazione sul punto, la omissione delle speciali indagini non produce alcuna nullità della sen

tenza emessa e, in casi particolarmente evidenti, le suddette indagini ben

possono essere sostituite dalla specifica preparazione del giudice di meri

to, il quale vi supplisce con la diretta osservazione della personalità del

l'imputato. In senso critico, cfr. La Greca, in Cass. pen., 1983, 293 ss.

In dottrina, sul problema specifico dell'imputabilità dei minori di di

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