sezione III penale; sentenza 19 dicembre 1988; Pres. Gambino, Est. Damasco, P.M. Vitale (concl.diff.); ric. Cerini. Annulla Pret. Milano 30 marzo 1988Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1989), pp.221/222-229/230Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23182721 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 19 di
cembre 1988; Pres. Gambino, Est. Damasco, P.M. Vitale
(conci, diff.); ric. Cerini. Annulla Pret. Milano 30 marzo 1988.
CORTE DI CASSAZIONE; s
Lavoro (rapporto) — Igiene del lavoro — Luoghi di lavoro —
Fumo di sigaretta — Misure contro il fumo — Omissione —
Reato — Insussistenza (D.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, norme
generali per l'igiene del lavoro, art. 20).
Non rientra nell'ipotesi di reato prevista dall'art. 20 d.p.r. 19
marzo 1956 n. 303 il comportamento del datore di lavoro che
ometta di adottare provvedimenti idonei a contenere lo svilup
po e la diffusione del fumo di sigaretta nei luoghi di lavoro. (1)
li
PRETURA DI MILANO; sentenza 30 marzo 1988; Giud. Cu
lotta; imp. Cerini.
Lavoro (rapporto) — Igiene del lavoro — Luoghi di lavoro —
Fumo di sigaretta — Misure contro il fumo — Omissione —
Responsabilità penale del datore di lavoro (D.p.r. 19 marzo
1956 n. 303, art. 20).
Commette il reato di cui all'art. 20 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303
il datore di lavoro che non adotti provvedimenti idonei a con
tenere lo sviluppo e la diffusione del fumo di sigaretta nei luo
ghi di lavoro. (2)
I
Ritenuto in fatto: che con sentenza del 30 marzo 1988, il Pre
tore di Milano dichiarava Cerini Cornelio Elio colpevole del rea
to di cui agli art. 20 e 58, sub a), d.p.r. 19 marzo 1953 n. 303
per avere — nella qualità di legale rappresentante della ditta Uni
sys Italia — omesso di adottare provvedimenti atti ad impedire
o ridurre per quanto possibile lo sviluppo e la diffusione nei loca
li di lavoro del fumo di sigarette prodotto da alcuni dipendenti
operanti a fianco di altri non fumatori e, con la concessione delle
attenuanti generiche, lo condannava alla pena di lire 800 mila
di ammenda;
che, avverso tale sentenza, l'imputato ha proposto ricorso per
cassazione denunciando: a) violazione degli art. 14 e 15 c.c. (pre
leggi) e dell'art. 1 c.p., con riferimento all'art. 20 d.p.r. 303/56
ed agli art. 34 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 e 75 d.p.r. 20 marzo
1956 n. 320, nonché alla L 11 novembre 1975 n. 584; b) violazio
ne dell'art. 20 d.p.r. 303/56 con riferimento all'art. 5 c.p.; c)
violazione dell'art. 479 c.p.p. con riferimento all'art. 162 bis c.p.
ed all'art. 475, n. 3, c.p.p.
(1-2) Il 30 marzo 1988 si era aperta una speranza tra i non fumatori.
Con l'ampia, argomentata sentenza, il Pretore di Milano (in epigrafe) aveva condannato il rappresentante legale di una società, addebitandogli l'omissione di provvedimenti contro il fumo di tabacco nei locali di lavo
ro. L'ipotesi di reato ritenuta dal pretore milanese era quella prevista dall'art. 20 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303 («Nei lavori in cui si svolgono
gas e vapori irrespirabili o tossici o infiammabili, ed in quelli nei quali si sviluppano normalmente odori o fumi di qualunque specie, il datore
di lavoro deve adottare provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne, per
quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione») (per un quadro della
giurisprudenza della Suprema corte sull'art. 20 d.p.r. 303, v. Guariniel
lo, Rischio chimico e massima sicurezza tecnologicamente fattibile nei
luoghi di lavoro, in Foro it., 1987, II, 208). Con inconsueta rapidità, a meno di nove mesi di distanza, quasi a voler spegnere sul nascere inutili
speranze, la Cassazione annulla ora la sentenza del Pretore di Milano:
l'art. 20 d.p.r. 303 «si riferisce (e non può che riferirsi) esclusivamente
alle macchine e ai processi produttivi che generano fumo, e non certo
anche al fumo di sigarette prodotto dai soggetti che adoperano tali mac
chine». Sul problema del fumo di tabacco, v. già, nell'ambito di una
causa civile del lavoro, Pret. Santhià 11 aprile 1986, id., Rep. 1986, voce
Lavoro (rapporto), n. 1753 e Giur. merito, 1988, 353, con nota di Delli
Noci. La sentenza della Cassazione è annotata da R. Guariniello (// fumo
nell'ambiente di lavoro), in Dir. e pratica lav., 1989, 475.
Il Foro Italiano — 1989 — Parte II-9.
Osserva: l'emesso giudizio di colpevolezza si presenta indiscuti
bilmente errato, in quanto il fatto contestato all'imputato (fumo di sigarette in locali nei quali si svolge attività lavorativa) in nes
sun modo può essere fatto rientrare nella ipotesi di reato sanzio
nata dall'art. 20 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303.
Tale norma, infatti, col disporre testualmente che «nei lavori
in cui si svolgono gas e vapori irrespirabili o tossici ed infamma
bili, ed in quelli nei quali si sviluppano normalmente odori o
fumi di qualunque specie, il datore di lavoro deve adottare prov vedimenti atti a impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo
sviluppo o la diffusione», chiaramente si riferisce (e non può che
riferirsi) esclusivamente alle macchine od ai processi produttivi
che generano fumo, e non certo anche al fumo di sigarette pro dotto dai soggetti che adoperano tali macchine.
Né, al riguardo, vale l'osservare che, poiché in base alle odier
ne cognizioni della scienza anche il fumo delle sigarette si presan ta (sia per i fumatori che per i non fumatori che si trovano accanto
ai primi) dannoso per la salute, bisognerebbe interpretare la nor
ma nel senso di ricomprendere in essa anche il fumo cagionato
dalle sigarette, in quanto, cosi ragionando, si applica, attraverso
una inammissibile interpretazione analogica della norma, una non
prevista sanzione penale a fatti che, pur rientrando nella ragione di una determinata incriminazione, non rientrano peraltro nel con
tenuto formale del precetto; si crea, cioè, una arbitraria ipotesi
di reato non prevista dalla legge. Ora è noto che il chiaro disposto dell'art. 1 c.p. e dell'art.
14 preleggi, disponendo rispettivamente che «nessuno può essere
punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come
reato della legge (nullum crimen sine lege)» e che «le leggi pena
li .. . non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati»,
fissano il generale e inderogabile principio del divieto della analo
gia in materia penale. Per mera completezza di esame non può non osservarsi, inol
tre, come la decisione del pretore si presenta comunque non con
divisibile anche perché, oltre che basarsi su di una non consentita
interpretazione analogica, non ha altresì considerato che, in real
tà, la nostra legislazione si è più volte interessata dei pericoli che
possono nascere dal fumo delle sigarette, sia come fatto poten
zialmente idoneo a cagionare incendi od esplosioni, sia come fat
to pericoloso per la salute, dettando specificamente norme al
riguardo. Sotto il primo profilo, giova ricordare l'art. 75 d.p.r. 20 marzo
1956 n. 320 (col quale si sanziona penalmente l'inosservanza del
divieto di fumare nei lavori in sotterraneo ove sia probabile la
presenza di gas infiammabili od esplodenti), nonché l'art. 34 d.p.r.
27 aprile 1955 n. 547 (col quale egualmente si prevede la sanzione
penale per chi fuma nelle aziende o durante le lavorazioni in cui
esistono pericoli di incendi).
Quanto ai danni alla salute che possono derivare dal fumo del
le sigarette, provvede poi la 1. 11 novembre 1975 n. 584 che fissa
una serie di divieti, la cui inosservanza, peraltro, non è stata san
zionata penalmente, ma unicamente con sanzioni amministrative.
In definitiva, pertanto, l'impugnata sentenza deve essere an
nullata senza rinvio per violazione ed erronea applicazione della
legge penale e l'imputato deve essere mandato assolto dalla im
putazione ascrittagli, perché il fatto non è preveduto dalla legge
come reato.
II
Diritto. — La questione che si presenta oggi all'esame del giu
dicante possiede un evidente carattere di indubbia novità ed ap
pare ricca di implicazioni teoriche e pratiche di notevole
importanza. Essa va, pertanto, affrontata con particolare impegno, avendo
riguardo al conflitto di interessi che entrano in gioco e la con
traddistinguono e ai principi generali, di diretta derivazione costi
tuzionale, che ispirano la vigente disciplina in materia di igiene
del lavoro.
Non si può infatti prescindere, nell'interpretazione delle norme
in argomento, dal mutato panorama di conoscenze medico
scientifiche su cui esse finiscono ormai per reagire e della diversa
sensibilità individuale e sociale che si è venuta sviluppando in
questi ultimi anni sul tema della tutela della salute nei luoghi
di lavoro e di vita.
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PARTE SECONDA
Questo pretore è ben consapevole che il legislatore del 1956, allorché ha formulato l'art. 20 d.p.r. n. 303, prescrivendo l'ob
bligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti atti ad im
pedire o a ridurre lo sviluppo e la diffusione di gas, vapori, odori
e fumi di qualunque specie che si sviluppino normalmente nei
luoghi di lavoro, non aveva certo in mente il fumo di tabacco
emesso dagli operatori durante l'attività lavorativa, sia perché il
fenomeno non aveva la diffusione che ha assunto in seguito, sia
perché si ignorava allora la pericolosità di tale vizio. Ma costitui
sce un dato ormai pacificamente acquisito alla nostra cultura giu ridica che qualunque norma di legge, compresa quella penale, va interpretata per quello che oggettivamente essa contiene ed
esprime e nella sua più ampia potenzialità applicativa, a prescin dere da quelle che possono essere state le intenzioni, le conoscen
ze e le finalità di chi l'ha emanata. Ogni norma, infatti, una
volta entrata in vigore, acquista una sua vita autonoma e, se i
termini in cui è stata formulata lo consentono, può e deve essere
interpretata in modo da essere utilmente impiegata anche per re
golamentare situazioni prima non considerate, concorrendo cosi
a colmare le inevitabili lacune legislative che si vengono continua
mente a determinare in conseguenza del rapido evolvere della realtà
sociale, culturale e politica in rapporto alla tradizionale lentezza
con cui questi mutamenti vengono recepiti e regolati dalla legge. li problema, dunque, per l'interprete è quello di saggiare, ogni
volta in dipendenza di eventuali nuove esigenze di intervento e
di tutela che la realtà gli prospetta, quali siano i limiti di elastici
tà delle singole norme in vigore e fino a qual punto esse siano
impiegabili per risolvere questioni prima mai prospettate, senza
però mai sconfinare nell'arbitrio, o nell'interpretazione analogi
ca, che in penale è notoriamente vietata.
Ovviamente questa indagine va condotta, avendo di mira la
ratio fondamentale che ispira l'intera disciplina e tenendo conto
dei principi generali che regolano la materia, cosi come sono stati
enucleati e definiti dalla dottrina e dalla giurisprudenza più auto
revoli.
1 precetti contenuti nel d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, per una
precisa scelta di politica prevenzionale, sono stati concepiti quasi tutti in termini di notevole ampiezza, al fine di realizzare la mas
sima estensione possibile nella difesa della salute dei lavoratori
da qualsiasi fonte di nocività. L'obbligo del datore di lavoro di
apprestare le misure di igiene, prescritte quasi sempre in forma
abbastanza generica proprio per non vincolare e circoscrivere la
doverosa ricerca di soluzioni adeguate, è stato, infatti, sottopo
sto, come è ormai riconosciuto dalla prevalente giurisprudenza anche della Suprema corte, all'unico limite della sola fattibilità
tecnologica. In pratica, la legge impone di fare tutto ciò che è possibile
per eliminare o ridurre al massimo i fattori di nocività suscettibili
di porre in pericolo l'incolumità dei lavoratori durante l'espleta mento della loro attività subordinata e questa pretesa, che si arti cola attraverso la prescrizione al datore di lavoro di tutta una
serie di obblighi e divieti, è tendenzialmente incondizionata, pro prio perché mira a garantire un interesse di primaria rilevanza
costituzionale, qual è appunto il diritto alla salute, riconosciuto e conclamato dall'art. 32 Cost, come bene supremo dell'indivi
duo e interesse della collettività.
Tale priorità di tutela deve costituire, pertanto, l'indispensabile chiave di lettura dell'intera normativa prevenzionale ed il princi
pale criterio-guida capace di orientare l'opera dell'interprete nello
sforzo di adattare la norma al caso concreto e alle mutate condi
zioni storico-culturali su cui essa va ad incidere.
Alla luce delle brevi considerazioni che precedono e tornando,
ora, alla questione in esame, ci sembra di poter tranquillamente affermare, senza alcuna forzatura della lettera della legge, che,
quando l'art. 20 d.p.r. 1956 n. 303 parla di lavori in cui si svilup
pano normalmente odori o fumi di qualunque specie, sia da in
tendere riferito oltre che alle macchine, e agli impianti o ai materiali in lavorazione che producono gas, vapori, odori o fumi, anche ai soggetti che adoperano tali strumenti e mezzi, giacché il termi ne «lavori» è un concetto complesso che abbraccia entrambi gli
aspetti, oggettivi e soggettivi, dell'attività di trasformazione posta in essere dall'uomo, riguardando sia il risultato di essa che chi
10 produce. D'altra parte, se lo scopo della norma è chiaramente quello
di evitare l'assorbimento da parte del lavoratore di gas, vapori,
11 Foro Italiano — 1989.
odori o funi «di qualunque specie» e, quindi, non solo di quelli nocivi ma anche di quelli semplicemente fastidiosi, che si propa
ghino nei posti di lavoro, appare del tutto arbitrario ed ingiustifi cato introdurre nel precetto, a dispetto della sua ampiezza e
latitudine, una distinzione che il legislatore si è ben guardato dal
fare, a seconda della fonte di provenienza di tali fumi, ritenendo
ne vietati alcuni e ammettendone la liceità di altri, solo perché
prodotti non dalle macchine, dagli impianti o dalle sostanze ado
perate nella lavorazione, ma dagli operatori ad essa addetti.
Questo si che condurrebbe ad una forzatura limitativa del di
sposto, priva di qualsiasi fondamento logico e testuale, dando,
quindi, luogo ad una inammissibile interpretazione riduttiva, in
evidente contrasto con la vera ratio del precetto. Né si dica — come pure ha fatto la difesa — che laddove il
legislatore del 1955 e del 1956 ha voluto evitare il fumo del tabac
co nei luoghi di lavoro, lo ha disposto espressamente, come, ad
esempio, con l'art. 34 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 o con l'art.
75 d.p.r. 20 marzo 1956 n. 320, prescriventi il divieto di fumare
nelle aziende o lavorazioni in cui esistano pericoli specifici di in
cendio o nei lavori in sotterraneo, dove sia da ritenersi probabile la presenza di gas infiammabili o esplodenti, sicché deve dedursi
che in tutti gli altri casi sia stata implicitamente ammessa la piena libertà di fumare.
Tale argomentazione, infatti, poggia su errati presupposti e non
tiene conto delle differenti finalità di tutela che le norme di pre venzione infortuni e quelle di igiene del lavoro intendono per
seguire. Con le prime il legislatore si è preoccupato unicamente di evi
tare il rischio dell'incidente istantaneo, quale l'incendio o l'esplo
sione, con le seconde ha inteso, invece, preservare la salute dei
lavoratori da qualunque fonte di nocività, garantendo loro con
dizioni ambientali salubri durante lo svolgimento delle lavorazio
ni. Né vi era motivo di imporre un divieto assoluto di fumare
nei luoghi di lavoro, posto che in tutti gli ambienti aperti o in
quelli in cui praticamente tali emissioni appaiono cosi limitate
e circoscritte da risultare inapprezzabili, esse possono venire tran
quillamente tollerate, al pari di altre esalazioni innocue per la
salute dei dipendenti.
Quel che, invece, il datore di lavoro ha l'obbligo di impedire è lo sviluppo e la produzione normale di detti fumi in locali chiu
si, in cui vi sia una concentrazione di lavoratori che possono rice
verne danno o fastidio.
Egualmente privo di consistenza risulta, poi, l'altro rilievo mosso
dalla difesa, secondo cui la mancanza di un obbligo generalizzato di impedire il fumo di tabacco nei luoghi di lavoro dovrebbe rica
varsi dal fatto che la legge emanata I'll novembre 1975 n. 584,
nell'imporre tale divieto per tutta una serie di ipotesi specifica mente previste, non ha minimamente menzionato i locali adibiti
ad attività lavorativa sia pubblici che privati, con la conseguenza di dover ritenere come liberamente ammesso tutto ciò che non è stato espressamente proibito.
Al riguardo, invero, non possono non valere osservazioni ana
loghe a quelle sviluppate in precedenza, giacché la richiamata 1.
11 novembre 1975 n. 584 si occupa essenzialmente di proteggere
chiunque frequenti scuole, ospedali, biblioteche, musei, locali di
pubblico spettacolo o di pubblica riunione o si avvalga di mezzi
di trasporto di pubblico servizio, trattandosi chiaramente di una
normativa disposta a favore di soggetti privi in proposito di altre
forme di tutuela.
È, pertanto, arbitrario ritenere che questa legge possieda un
carattere di esclusività tale da costituire un limite nell'interpreta zione di altre norme relative alla salvaguardia di ambienti e sog
getti diversi. Anzi, essa costituisce un chiaro indice di un'evidente
tendenza legislativa ad allargare sempre più l'area della tutela della
salute dei cittadini, attraverso una crescente limitazione della li
bertà di fumare, libertà che in tanto può essere riconosciuta e
difesa, in quanto non arrechi danno ai terzi, spesso costretti a
subire passivamente le conseguenze negative dell'altrui piacere. E qui cade a proposito un'ulteriore considerazione, dalla quale
non sembra, nella specie, possa logicamente prescindersi. Come ha giustamente rilevato il denunciarne nell'esposto che
ha dato avvio al presente procedimento, se si dovesse ammettere
che manchi nella vigente disciplina sull'igiene del lavoro una qual siasi disposizione idonea ad impedire o ridurre la diffusione del fumo di tabacco negli ambienti lavorativi, si perverrebbe all'as
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GIURISPRUDENZA PENALE
surda (ed incostituzionale) conclusione che il nostro ordinamen
to, nell'apprestare una adeguata tutela al cittadino che, ad esem
pio, frequenti un locale di pubblico spettacolo, dove peraltro può
scegliere liberamente di andare o non andare e dove, comunque, normalmente si intrattiene per un tempo abbastanza limitato, ha,
invece, completamente dimenticato di provvedere alla salvaguar dia della salute dei lavoratori che, non per divertimento, ma per necessità di vita sono costretti a trascorrere gran parte della loro
giornata, in ambienti chiusi in cui possono svilupparsi e diffon
dersi fumi di tabacco, prodotti da altri lavoratori, senza che esi
sta in chi ha la responsabilità dell'azienda alcun dovere di impedirlo
per un malinteso rispetto di una sorta di tacita ed intangibile «li
bertà di inquinamento». Tutto ciò appare all'evidenza assolutamente irrazionale e inac
cettabile. La verità è che per il datore di lavoro l'obbligo di ri
muovere con tutti i mezzi possibili le fonti di nocività di qualunque
specie, comprese, quindi, quelle prodotte e alimentate dagli stessi
lavoratori, è chiaramente ed inequivocabilmente imposto dalle di
sposizioni del d.p.r. 1956 n. 303 che costituisce, in fondo, come
è noto, null'altro che una più dettagliata e specifica enunciazione
del precetto, di maggiore ampiezza e portata, contenuto nell'art.
2087 c.c.
Non a caso quest'ultima norma è stata opportunamente invo
cata nell'unico precedente giurisprudenziale che risulta edito in
argomento e, precisamente, nella sentenza emessa I'll aprile 1986
dal Pretore di Santhià (Foro it., Rep. 1986, voce Lavoro (rappor
to), n. 1753) che, decidendo la causa civile promossa da un grup
po di dipendenti contro il legale rappresentante della spa Magliola Antonio e figli il quale aveva imposto il divieto di fumare in
tutti i locali della sua azienda, ha riconosciuto legittimo tale di
vieto negli ambienti normalmente affollati e non aerati, essendo
appunto dovere dell'imprenditore adottare tutte le misure e gli
accorgimenti possibili per preservare nel modo più ampio la salu
te psico-fisica dei propri subordinati. Nel presente processo la
questione va riguardata sotto profili diversi, ma la sostanza non
cambia.
Accertata, dunque, la teorica applicabilità, nella specie, del
l'art. 20 d.p.r. 1956 n. 303, occore ora esaminare il merito della
denuncia presentata dal Dalessandro. Attraverso le dichiarazioni
del medesimo rese in dibattimento, da ritenere pienamente atten
dibili, non essendo state validamente contraddette da prove con
trarie, è emerso che l'ampio stanzone di circa 1.000 mq. in cui
egli operava e che conteneva circa novanta posti di lavoro, era
strutturato in forma di open-space e, cioè, era provvisto di tutta
una serie di divisori, aperti in alto e intercomunicanti, sicché i
fumi prodotti in una zona tendevano a diffondersi anche altrove,
spandendosi negli spazi attigui. Ha aggiunto il denunciante che,
poiché il numero dei colleghi fumatori era elevato, fino alla fine
di gennaio del corrente anno, data in cui era stato finalmente
messo in funzione l'impianto di aerazione, l'ambiente di lavoro
era denso di fumo di sigarette che rendeva l'aria irrespirabile e
che impregnava i vestiti a tal punto che la puzza poteva essere
nettamente percepita anche diverse ore dopo l'uscita. Con l'in
stallazione dell'impianto di aerazione forzata la situazione era cer
tamente migliorata, ma non in modo risolutivo, perché l'aria veniva
solo immessa all'interno del locale, senza che vi fosse contempo
raneamente un sistema di estrazione di quella viziata, sicché in
tal modo il fumo finiva per essere disperso ancora di più in ogni
zona.
Concludeva, infine, il teste, asserendo che egli più volte aveva
richiesto alla direzione aziendale di adottare i necessari provvedi
menti per garantire la sua e l'altrui salute, ma aveva sempre rice
vuto risposte elusive, perché i responsabili rifiutavano di imporre
il divieto di fumare negli uffici, sostenendo di non avere né ob
blighi né poteri in tal senso.
Alla stregua eli tali pacifiche risultanze processuali, ritiene il
giudicante che nessun dubbio si ponga circa la realizzazione nella
specie dei presupposti per la sussistenza della contravvenzione con
testata in epigrafe. La difesa ha in contrario sostenuto che l'ampiezza degli spazi,
le ampie finestrature lungo tutti i lati del locale e l'installazione
di un impianto di condizionamento di aria con una capacità di
ricambio negli uffici di un volume/ora costituissero, comunque,
condizioni ambientali idonee ad escludere la ravvisabilità nel caso
in esame della violazione dell'art. 20 d.p.r. 1956 n. 303, avendo
Il Foro Italiano — 1989.
il legale rappresentante della soc. Unisys Italia, ad ogni buon conto, adottato i necessari provvedimenti, se non per impedire, quanto meno per ridurre la diffusione del fumo nei luoghi di lavoro.
E al riguardo si è aggiunto che, anche a voler prendere, in via
analogica, come opportuni parametri di riferimento, i requisiti richiesti dal d.m. 18 maggio 1976 per gli impianti di condiziona mento dell'aria o di ventilazione di cui debbono essere dotati i
locali di pubblica riunione e spettacoli, onde ottenere l'esenzione
dall'obbligo di adottare il divieto di fumare imposto dalla 1. 1975
n. 584, risulterebbe nella specie che tali dati sarebbero stati larga mente osservati, essendo stata assicurata un'immissione d'aria ester
na pari a 73 metri cubi all'ora per persona e quindi una quantità notevolmente superiore ai 20 m3/n per persona prescritti dal men
zionato d.m.
Ora, a parte l'indimostrata correttezza di tali calcoli stante l'ar
bitrarietà di un raffronto fra situazioni che appaiono sotto vari
profili profondamente diverse, vi è comunque da rilevare che l'at
tuazione da parte del datore di lavoro di un efficace sistema di
ricambio d'aria negli ambienti lavorativi non comporta affatto
il soddisfacimento dell'obbligo posto a suo carico dall'art. 20 d.p.r. 1956 n. 303, ma costituisce osservanza solo di quell'altro precetto contenuto nell'art. 9 del medesimo d.p.r., riguardante, appunto, l'aerazione degli ambienti di lavoro.
La norma contestata in epigrafe richiede, invece, ben altri adem
pimenti, poiché impone in via prioritaria il dovere di adottare
provvedimenti atti ad impedire, per quanto possibile, la diffusio
ne dei gas, vapori, odori e fumi di qualunque specie che si svilup
pano durante l'attività lavorativa e, solo se ciò sia tecnicamente
irrealizzabile, scatta il subordinato dovere di ridurre tali emissio
ni nocive o fastidiose nei limiti del possibile. Non si può, dunque, ritenere adempiuto il precetto in argo
mento in tutti i casi, come nella specie, pur avendo il datore di
lavoro la possibilità tecnica di impedire lo sviluppo e la diffusio
ne delle esalazioni nocive o fastidiose negli ambienti di lavoro,
proibendo ai suoi dipendenti di fumare durante l'attività d'uffi
cio, preferisca adottare provvedimenti prevenzionali di assai mi
nore efficacia, intervendo tutt'al più a contenere il ristagno di
tali fumi, mediante il potenziamento dell'impianto di immissione
forzata d'aria.
È questa la ragione per cui, anche se si volesse ammettere co
me proceduralmente corretta l'ipotesi prospettata in via subordi
nata dalla difesa di ritenere, comunque, realizzate nella specie tutte le condizioni per l'accoglimento della domanda di oblazione
ritualmente proposta dall'imputato, ancorché non espressamente reiterata prima della discussione finale, non si potrebbe egual mente dar luogo al suo accoglimento, difettando, ad avviso di
questo pretore, la prova richiesta dall'art. 162 bis c.p. di aver
l'imputato provveduto a rimuovere la violazione di legge conte
statagli, con l'eliminazione delle conseguenze pericolose del reato
commesso.
A questo punto, per l'accertamento della penale responsabilità del prevenuto in ordine all'addebito in rubrica ascrittogli, non
rimane che esaminare la sussistenza dell'elemento psicologico che,
come-è ovvio, deve necessariamente ricorrere anche nelle con
travvenzioni perché esse siano punibili.
Orbene, al riguardo la zelante ed agguerrita difesa del Cerini
ha sviluppato un'ampia argomentazione rivolta a dimostrare che,
se anche fosse stata per assurdo ammessa nella specie l'oggettiva ricorrenza della violazione in discorso, egualmente l'imputato do
vrebbe essere mandato assolto con formula piena, avendo egli
agito in perfetta buona fede, nella ragionevole convinzione della
mancanza di una qualunque norma di legge che lo obbligasse ad imporre il divieto di fumare nei locali della propria azienda,
in ciò confortato dalla assenza di precedenti contrari, dal confor
me e mai contestato comportamento di tutti gli altri imprendito
ri, e cioè da una consolidata prassi ultratrentennale che nessuno
mai si era sognato di mettere in discussione ed infine dalla signi
ficativa circostanza che solo di recente era stato preannunciato
un progetto di legge rivolto ad estendere il divieto di fumare nei
luoghi di lavoro pubblici e privati, ad ulteriore riprova della rite
nuta insussistenza da parte dell'autorevole ministro proponente
di una norma già applicabile in base alla vigente disciplina.
Quindi, a tutto concedere, si dovrebbe comunque riconoscere
al prevenuto la scusabilità dell'errore incidente sul contenuto di
una norma penale, con la conseguenza che, attesa la sua incolpe
vole inconsapevolezza dell'antigiuridicità del proprio comporta
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PARTE SECONDA
mento, egli non potrebbe venire punito e ciò in applicazione del
principio recentemente enunciato nella sentenza della Corte costi
tuzionale n. 364 del 24 marzo 1988 (id., 1988, I, 1385) che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p. nella parte
in cui esclude dalla inescusabilità dell'ignoranza della legge pena
le l'ignoranza inevitabile.
Pur possedendo la tesi difensiva sopra enunciata un indubbio
fascino ed un'insinuante forza di suggestione, ritiene tuttavia il
giudicante che ad un più accurato ed approfondito esame essa
si riveli nella sostanza priva di fondamento.
La stessa Corte costituzionale, nella motivazione della richia
mata sentenza, riserva Un passo, che vai la pena di riportare per
esteso, nel quale praticamente si fa giustizia dell'assunto di fondo
che è qui in discussione.
A scanso di penosi equivoci e fraintendimenti, precisano, in
fatti, i giudici della Consulta ai paragrafi 26 e 27 della predetta
pronuncia che:
«26 - È doveroso, per prima, chiarire che, ove una particolare
conoscenza da parte del soggetto agente consenta al medesimo
la possibilità di conoscere la legge penale, non è legittimo che
10 stesso soggetto si giovi di un (eventuale) errore generale, co
mune, sul divieto. Ciò va rilevato non perché si disconoscono
i tentativi, per tanti aspetti meritevoli di considerazione, della dot
trina mirati, attraverso l'oggettivazione, per quanto possibile, dei
criteri di misura della colpevolezza, a sottolineare l'aspetto, pe
raltro fondamentale, di garanzia delle libere scelte d'azione, ma
perché non è desumibile dalla Costituzione la legittimità di una
concezione della colpevolezza che consenta di non rimproverare 11 soggetto per il fatto commesso (ovviamente, in presenza dei
prescritti elementi subiettivi), quando esista, in concreto, la pos
sibilità, sia pur eccezionale (di fronte ad un generale comune er
rore nel divieto) per il singolo agente di conoscere la legge penale
e, pertanto, la illiceità del fatto. Ammettere, allo stato attuale
della normativa costituzionale e ordinaria, il soggetto agente (che
è in errore sull'illiceità del fatto per ignoranza della legge penale,
pur essendo in grado di conoscere quest'ultima e di non errare
nella predetta illiceità) a giovarsi del comune errore sul divieto,
determinato dall'altrui generale, inevitabile ignoranza della legge
penale, vai quanto riconoscere all'errore comune sul divieto pe nale il valore di consuetudine abrogatrice di incriminazioni penali.
27 - Da quanto innanzi osservato discende, in via generale, che l'inevitabilità dell'errore sul divieto (e conseguentemente l'e
sclusione della colpevolezza) non va misurata alla stregua di cri
teri c.d. soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i dati
influenti sulla conoscenza del precetto esclusivamente alla luce
delle specifiche caratteristiche personali dell'agente), bensì' secon
do criteri oggettivi; ed anzitutto in base a criteri (c.d. oggettivi
puri) secondo i quali l'errore sul precetto è inevitabile nei casi
di impossibilità di conoscenza della legge penale da parte di ogni consociato. Tali casi attengono, per lo più, alla (oggettiva) man
canza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es., as
soluta oscurità del testo legislativo) oppure ad un gravemente caotico (la misura di tale gravità va apprezzata anche in relazione
ai diversi tipi di reato) atteggiamento interpretativo degli organi
giudiziari, ecc. La spersonalizzazione che un giudizio formulato
alla stregua dei criteri oggettivi pur necessariamente comporta, va tuttavia compensata, secondo quanto innanzi avvertito, dall'e
same di eventuali, particolari conoscenze ed «abilità» possedute dal singolo agente: queste ultime, consentendo all'autore del rea
to di cogliere i contenuti ed il significato determinativo della leg
ge penale escludono che la ignoranza della legge penale vada
qualificata come inevitabile. E anche quando, sempre allo scopo di stabilire l'inevitabilità
dell'errore sul divieto, ci si valga di «altri» criteri (c.d. «misti») secondo i quali la predetta inevitabilità può essere determinata
fra l'altro da particolari, positive circostanze di fatto in cui si
è formata la deliberazione criminosa (es. «assicurazioni erronee»
di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da rea
lizzare; precedenti, varie assoluzioni dell'agente per lo stesso fat
to, ecc.) occorre tener conto della «generalizzazione» dell'errore
nel senso che qualunque consociato, in via di massima (salvo quan to aggiungiamo subito), sarebbe caduto nell'errore sul divieto ove
si fosse trovato nelle stesse condizioni dell'agente; ma, ancora
una volta, la spersonalizzazione del giudizio va compensata dal
l'indagine attinente alla particolare posizione del singolo agente
Il Foro Italiano — 1989.
che in generale, ma soprattutto quando eventualmente possegga
specifiche «cognizioni» (ad es. conosca o sia in grado di conosce
re l'origine lassista o compiacente di assicurazioni di organi an
che ufficiali, ecc.) è tenuto a «controllare» le informazioni ricevute.
Il fondamento costituzionale della «scusa» dell'inevitabile igno
ranza della legge penale vale soprattutto per chi versa in condi
zioni soggettive di inferiorità e non può certo essere
strumentalizzata per coprire omissioni di controllo, indifferenze,
ecc. di soggetti dai quali, per la loro elevata condizione sociale
e tecnica, sono esigibili particolari comportamenti realizzativi de
gli obblighi strumentali di diligenza oei conoscere le leggi penali». Come emerge chiaramente dalla lettura.della decisione, per molti
versi profondamente innovativa, del supremo organo di controllo
della legge, nessuna delle condizioni per potere legittimamente
invocare l'ignoranza scusabile della norma penale può esere rav
visabile nella specie. L'imputato, quale legale rappresentante di
una società per azioni di grosse dimensioni, non può certo essere
considerato persona che versi «in condizioni soggettive di inferio
rità» rispetto ad altri cittadini e, quindi, è da lui esigibile un com
portamento di masima diligenza nella conoscenza approfondita
delle norme penali, specialmente di quelle che è tenuto a rispetta
re per ragioni della sua carica.
L'interpretazione dell'art. 20 d.p.r. 1956 n. 303, d'altra parte,
non presenta motivi di incertezza in relazione ad una sua insupe
rabile oscurità di formulazione. Anzi, la portata letterale di esso
è estremamente chiara ed univoca. Né appare utilmente invocabi
le nel caso in esame la generalizzata prassi disapplicativa di tale
precetto con riferimento all'obbligo di adottare provvedimenti per
impedire la diffusione nei luoghi di lavoro del fumo di tabacco
prodotto dai dipendenti operanti in locali chiusi, giacché è pacifi
co, come hanno puntualmente ribadito i giudici costituzionali nella
citata sentenza, che non è assolutamente ammissibile in campo
penale il riconoscimento all'errore comune di un valore sostan
ziale di consuetudine abrogatrice di norme inderogabili. È man
cata, inoltre, a giustificazione del preteso atteggiamento del
prevenuto di scusabile ignoranza circa l'effettiva estensione del
suo obbligo di tutela della salute dei lavoratori, una qualche posi
tiva indicazione dell'autorità sia giudiziaria che amministrativa,
tale da convincerlo della legittimità del suo rifiuto di adottare
il divieto di fumare nei locali chiusi della sua azienda, malgrado
le ripetute richieste in tal senso provenienti da un lavoratore che
giustamente faceva valere il suo diritto a non ricevere danno dal
l'altrui condotta.
È ben vero che, per quanto ci consta, l'art. 20 d.p.r. 1956
n. 303 non risulta essere stato mai applicato in fattispecie simili,
ma ciò non giustifica affatto l'apodittica conclusione della sua
assoluta inutilizzabilità in ipotesi di tal genere, giacché la verità
è che la magistratura non ha avuto finora occasione di pronun
ciarsi sull'argomento perché sono mancate, in conseguenza del
l'ancora scarsa consapevolezza dei gravi rischi connessi
all'assorbimento anche passivo del fumo della sigarette, opportu ne denunce di privati e di organi pubblici di vigilanza che abbia no sollevato il problema nei termini in cui esso è stato prospettato all'esame di questo pretore.
E per quanto riguarda infine la pretesa dell'imputato di essere
stato incolpevolmente indotto a ritenere l'inesistenza di una nor
ma di legge prescrivente l'obbligo di adottare provvedimenti ido
nei ad impedire la diffusione del fumo di tabacco nei luoghi di lavoro dal fatto che era stata recentemente preannunciata la pre
sentazione da parte del ministero della sanità di una proposta di legge rivolta appunto ad estendere il divieto di fumare ai luo
ghi di lavoro pubblici e privati, è agevole obiettare che la formu
lazione di un tale progetto legislativo, intanto non esclude di per
sé la validità dell'interpretazione che si è data dell'art. 20, e, poi, non è per nulla in contrasto con la preesistenza di una norma,
di analogo contenuto, ben potendo il legislatore avvertire la ne
cessità di un intervento successivo, onde meglio regolamentare l'intera materia, con disposizioni più specifiche e dettagliate.
Si può, dunque, concludere in tutta tranquillità che la convin
zione meramente soggettiva dell'imputato di non aver violato al
cuna norma di legge, attenendosi a quanto solitamente ritenuto
doveroso, non trova nessuna valida scusante e non vale quindi ad esonerare da responsabilità il prevenuto che deve essere conse
guentemente condannato, in concorso delle attenuanti generiche
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GIURISPRUDENZA PENALE
di cui il medesimo appare meritevole, tenuto conto del suo com
plessivo comportamento processuale e del suo stato di incensura
tezza, alla pena che si stima adeguata di lire 800.000 di ammenda
(p.b.: lire 1.200.00 di ammenda, diminuita di un terzo ex art.
62 bis c.p.), oltre al conseguenziale pagamento delle spese pro cessuali.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II penale; sentenza 23 gen naio 1987; Pres. Romeo, Est. Cianci, P.M. (conci, conf.); ric.
Cimara. Conferma Trib. Avezzano, ord. 9 maggio 1986.
Impugnazioni penali in genere — Effetto estensivo — Efficacia
sospensiva nei confronti dei coimputati non impugnanti — Esclu
sione (Cod. proc. pen., art. 203).
L'effetto estensivo dell'impugnazione previsto, dall'art. 203 c.p.p. non impedisce il passaggio in giudicato, e quindi l'esecuzione, della sentenza nei confronti degli imputati non impugnanti, salvo, in caso di accoglimento di motivi estensibili, la possibilità di una riforma o di un annullamento a titolo di rimedio straor
dinario. (1)
Il Tribunale di Avezzano, con l'ordinanza indicata in epigrafe,
rigettava l'incidente relativo all'esecuzione dell'ordine di carcera
zione conseguente alla sentenza 24 gennaio 1983, proposto da
Cimara Roberto.
Avverso la predetta ordinanza il Cimara ha proposto ricorso
per cassazione, censurando, con i motivi redatti dal suo difenso
re, la decisione per avere negato che l'effetto estensivo dell'impu
gnazione ha anche efficacia sospensiva della esecuzione della
sentenza a causa del motivo non personale dedotto dal coimputa to impugnante.
La censura è infondata. Invero, è ius receptum che l'effetto
estensivo dell'impugnazione, previsto dall'art. 203 c.p.p., va qua lificato come un rimedio straordinario che non impedisce il pas
saggio in giudicato della sentenza nei confronti degli imputati non
impugnanti e, di conseguenza, non impedisce la sua esecuzione.
Tale effetto, infatti, opera ex post, presupponendo la decisione
sui motivi che si assumono estensibili e il loro accoglimento. Il ricorso, pertanto, va rigettato con le conseguenze di legge.
(1) Giurisprudenza costante: Cass. 13 ottobre 1986, Lai, Foro it., Rep. 1987, voce Impugnazioni penali, n. 148; 14 novembre 1985, Papa, ibid., n. 149; 24 novembre 1983, Di Giorgi, id., Rep. 1985, voce cit-, n. 156; 19 febbraio 1982, Scano, id., Rep. 1983, voce cit., n. 125; 10 luglio 1978, Di Silvestro, id., Rep. 1979, voce cit., n. 102; con la conseguenza che
l'effetto estensivo può anche farsi valere in sede esecutiva (Cass. 18 gen naio 1984, Gandus, id., Rep. 1985, voce cit., n. 158; 28 gennaio 1982,
Bonati, id., Rep. 1983, voce cit., n. 126). La prevalente dottrina ritiene, invece, che l'impugnazione del coimpu
tato impedisce il passaggio in giudicato della sentenza (Cordero, Proce
dura penale, IX ed., Milano, 1987, 577; Giostra, in Commentario breve
al codice di procedura penale, a cura di Conso e Grevi, Padova, 1987, sub art. 203, Vili e sub art. 576, V; C. Massa, L'effetto estensivo del
l'impugnazione nel processo penale, Napoli, 1955 , 241), almeno sino al
momento in cui sono presenti i presupposti per l'esplicazione dell'effetto
estensivo (Conso, La sanatoria delle nullità assolute nell'odierno proces so penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1956, 559).
V., pure, Cass. 18 giugno 1983, Carbonello, Foro it., Rep. 1984, voce
cit., n. 178, e, per esteso, in Cass. pen., 1984, 488, secondo la quale «la possibilità dell'effetto estensivo dell'impugnazione proposta da un coim
putato non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza nei confron
ti del coimputato non impugnante se i motivi sono esclusivamente personali
dell'impugnante», mentre se i motivi non sono esclusivamente personali il giudicato non si forma e «il giudizio in corso per uno è ugualmente in corso per l'altro responsabile dello stesso reato».
Il Foro Italiano — 1989.
TRIBUNALE PER I MINORENNI DI ANCONA; sentenza 16
dicembre 1988; Pres. Perucci, Est. Ramini; imp. Beyer.
TRIBUNALE PER I MINORENNI DI ANCONA;
Imputabilità — Capacità di intendere e di volere — Minore età — Infradiciottenne — Accertamento della capacità in relazione
al reato commesso — Fattispecie di concorso in omicidio e ra
pina (Cod. pen., art. 98, 110, 575, 628). *
Premesso che la valutazione del grado di maturità del minore
infradiciottenne deve essere operata in rapporto alla natura della
violazione commessa — per cui nel caso dei delitti contro la
persona può risultare sufficiente un minimo di sviluppo menta
le ovvero la mancanza di tare psichiche — va riconosciuta la
capacità di intendere e di volere di una ragazza diciassettenne
la quale, rinunciando a un modo autonomo di comportamento
pur di perpetuare una relazione amorosa totalizzante e incondi
zionata, contribuisce a realizzare il progetto ideato dal compa
gno maggiorenne, di uccidere la skipper del catamarano sul
quale si erano imbarcati, onde impossessarsene per realizzare
una fuga d'amore in paesi lontani. (1)
(1) La sentenza, relativa al «giallo del catamarano» del quale hanno
ampiamente e a lungo informato i mass-media, si segnala nella parte con cernente la difficile verifica della capacità di intendere e di volere della diciassettenne Diana Beyer, la ragazza olandese resasi corresponsabile di un assurdo omicidio a causa della forte influenza psicologica esercitata su di lei dal compagno maggiorenne.
Le argomentazioni del tribunale, sfociami nella conclusione che la im maturità psicologica della giovane sarebbe da ricondurre «a quel dato di naturale e imprescindibile immaturità insito in ogni minore» e che la
sua soggezione psicologica all'amante non ne avrebbe compromesso —
contrariamente a quanto sostenuto nel parere peritale — la capacità di
intendere il significato delle proprie azioni e la capacità di autodetermi
narsi in modo sufficientemente autonomo, assumono a coordinate di ri
ferimento i principi elaborati da una giurisprudenza in gran parte consolidata: lo sforzo di Trib. Ancona è perciò consistito nel concretizza
re tali principi applicandoli al complesso caso di specie. Per la tesi che assegna al concetto di imputabilità un carattere relativo,
in quanto la maturità del minore va concretamente accertata in relazione
alla natura della violazione commessa, cfr. Cass. 4 novembre 1985, Prin
cipe, Foro it., Rep. 1987, voce Imputabilità, n. 32; 19 novembre 1984,
A.A., id., Rep. 1986, voce cit., n. 37; 20 gennaio 1984, Valenti, id.,
Rep. 1985, voce cit., n. 46; 5 maggio 1983, Tiscione, id., Rep. 1984, voce cit., n. 26.
La ritenuta necessità di evitare un facile clemenzialismo, contrastante
con esigenze di prevenzione generale e di responsabilità dei minori, spiega altresì l'orientamento secondo cui la capacità di intendere e di volere sa
rebbe compatibile con un limitato o minimo sviluppo mentale ed etico
del soggetto infradiciottenne: cfr. Cass. 19 novembre 1984, cit.; App. min. Roma 20 agosto 1984, Giur. merito, 1986, 1185, con nota di Mane
ra e Foro it.. Rep. 1987, voce cit., n. 34; Trib. min. Catania 25 novem
bre 1983, Giur. it., 1984, II, 254, con nota di Nappi e Foro it., Rep. 1984, voce cit., n. 28.
Per la tesi accentuatamente generalpreventiva secondo cui, nel caso di
imputato prossimo alla maggiore età e di reati (come quelli contro la
persona) dal carattere illecito facilmente percepibile, ai fini della imputa bilità è sufficiente la mancanza di elementi relativi a tare suscettibili di
influire sui processi volitivi ed intellettivi, cfr. Cass. 19 aprile 1985, Tor
nabene, id., Rep. 1986, voce cit., n. 41.
Quanto poi al problema della tecnica di accertamento, la giurispruden za non sembra univoca. In molte pronunce viene riproposto un indirizzo
che concede al giudice la più ampia libertà di apprezzamento, nel senso
appunto che la verifica della maturità del minore non sarebbe vincolata
a specifiche indagini tecniche, ma potrebbe essere compiuta in qualsiasi modo, valorizzando ogni elemento del libero convincimento: v. Cass. 19
aprile 1985, cit.; 18 ottobre 1985, Di Grazia, id., Rep. 1987, voce cit., n. 31; 8 aprile 1986, Chiantaretto, ibid., n. 35. Ma, in proposito, si sono
anche pronunciate le sezioni unite, affermando il diverso principio secon
do cui in sede di accertamento della capacità del minore il giudice non
potrebbe prescindere dalle speciali indagini prescritte dalla legge istitutiva
del tribunale dei minorenni: sent. 26 gennaio 1985, Tommaro, id., Rep.
1985, voce cit., n. 42, e in Cass. pen., 1985, 1333. Senonché le stesse
sezioni unite hanno temperato la portata del principio predetto sostenen
do che, qualora non sussista una totale carenza di motivazione sul punto, la omissione delle speciali indagini non produce alcuna nullità della sen
tenza emessa e, in casi particolarmente evidenti, le suddette indagini ben
possono essere sostituite dalla specifica preparazione del giudice di meri
to, il quale vi supplisce con la diretta osservazione della personalità del
l'imputato. In senso critico, cfr. La Greca, in Cass. pen., 1983, 293 ss.
In dottrina, sul problema specifico dell'imputabilità dei minori di di
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