sezione III penale; sentenza 25 febbraio 1994; Pres. Accinni, Est. Accattatis, P.M. Di Toscani(concl. conf.); ric. Ascari. Conferma App. Torino 3 marzo 1993Source: Il Foro Italiano, Vol. 117, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1994), pp.485/486-489/490Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23188507 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 25 feb
braio 1994; Pres. Accinni, Est. Accattatis, P.M. Di Tosca
ni (conci, conf.); ric. Ascari. Conferma App. Torino 3 marzo
1993.
Maltrattamenti in famiglia — Reato — Fattispecie (Cod. pen., art. 572).
Violenza carnale e atti violenti di libidine — Violenza carnale — Rapporto di coniugio — Ammissibilità (Cod. pen., art.
519).
Integra gli estremi del reato di maltrattamenti in famiglia la
condotta di chi, rientrando frequentemente nella dimora co
niugale in stato di ubriachezza, sia solito percuotere e ingiu
riare la moglie e, a volte, anche la figlia minore. (1) Stante l'unicità del concetto di violenza, non suscettibile di con
notazioni diverse nei rapporti tra estranei o nei rapporti tra
i coniugi, risponde del reato di violenza carnale il marito che
schiaffeggi o percuota la moglie per indurla al rapporto ses
suale, ottenendone alla fine un consenso equivalente a una
resa a chi la maltrattava, nella speranza che i maltrattamenti
cessassero. (2)
Svolgimento del processo. — L'Ascari era imputato dei se
guenti reati:
(1) Nel ravvisare nel caso di specie gli estremi del reato di maltratta
menti, la sentenza ribadisce la compatibilità tra la realizzazione dolosa
di esso e lo stato di ubriachezza: cfr. Cass. 8 maggio 1990, Ceccarelli, Foro it., Rep. 1991, voce Maltrattamenti in famiglia, n. 17, secondo
cui il fatto che i singoli episodi costituenti nel loro complesso la condot
ta di maltrattamenti siano commessi durante lo stato di ubriachezza
non implica che essi siano da considerarsi frutto di volizioni episodiche
perché scaturite improvvisamente dalla crisi alcolica e, quindi, non in
seriti in quella unitaria coscienza e volontà di sottoporre i soggetti pas sivi a continui patimenti fisici o morali, che integra il delitto. Viene,
altresì, riaffermata la tesi che identifica l'elemento soggettivo del delitto
nel dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo
continuo ed abituale; quindi un dolo unitario, anche se non è necessa
rio che esso raggiunga quella unicità del disegno criminoso che è pro
pria del reato continuato o che esso tenda al perseguimento di partico lari finalità ovvero sia sorretto dal pravo proposito di far soffrire la
vittima senza plausibile motivo: cfr. Cass. 29 gennaio 1985, Vitello,
id., Rep. 1986, voce cit., n. 3; 19 giugno 1986, Grifoni, id., Rep. 1987, voce cit., n. 6; 2 aprile 1987, Pegoraro, ibid., n. 5; 3 luglio 1990, Soru,
id.. Rep. 1991, voce cit., n. 15.
In punto di dolo, negli stessi termini, si orienta la dottrina dominan
te: cfr., tra altri, Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale,
Torino, 1992,1, 435; Coppi, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciul
li, voce dell 'Enciclopedia del diritto, Milano, 1975, XXV, 253 s.
(2) Nel contesto dei maltrattamenti di cui al caso di specie si inserisce
un episodio di violenza sessuale, che assume autonoma rilevanza penale
potendosi considerare assorbite nella fattispecie di cui all'art. 572 c.p. soltanto le ipotesi minori dell'ingiuria, della minaccia o delle percosse: tutti gli altri reati che il soggetto possa aver realizzato, come quello di violenza carnale, concorrono invece col delitto di maltrattamenti (cfr. Cass. 29 novembre 1974, Lo Conte, Giust. pen., 1976, II, 35, e massi
mata in Foro it., Rep. 1976, voce Maltrattamenti in famiglia, n. 8;
9 giugno 1983, Meduri, id., Rep. 1984, voce cit., n. 4. Analogamente,
Antolisei, cit., 436). Nel ribadire l'autonoma rilevanza penale del reato di violenza sessua
le, la Cassazione riafferma in maniera chiara e inequivoca il principio — riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina più recenti — della
punibilità della violenza tra coniugi, posto che la violenza presenta la
medesima fisionomia sia nei rapporti tra coniugi sia in quelli tra estra
nei: cfr. da ultimo, Cass. 11 giugno 1993, Napoleoni, Foro it., 1993,
II, 685, con nota di richiami.
Per l'orientamento secondo cui è sufficiente, ai fini della coartazione
della volontà del soggetto passivo, che il rapporto sessuale sia consuma
to anche solamente approfittando dello stato di prostrazione, angoscia
o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta, cfr. Cass. 16 novem
bre 1988, Camerini, id., Rep. 1989, voce Violenza carnale, n. 3; 10
dicembre 1990, Moisé, id., Rep. 1991, voce cit., n. 6; 19 novembre
1991, Macrì, id., Rep. 1992, voce cit., n. 1 (fattispecie di violenza eser
citata da un medico). In dottrina, cfr., di recente, Fiandaca, Violenza sessuale, voce del
l'Enciclopedia del diritto, Milano, 1993, XLVI, 953 ss.
Il Foro Italiano — 1994.
a) di cui all'art. 519 c.p. perché, con violenza, costringeva la propria moglie, Abbate Renza, a congiungersi carnalmente
con lui; la violenza è consistita nel trascinare la moglie sul letto — dopo che ella si era esplicitamente rifiutata di avere con lui
rapporti sessuali —, nello schiaffeggiarla e nel percuoterla sul
capo ripetutamente; dalle ore 1 alle ore 4 di notte, è precisato
nell'imputazione;
b) di cui all'art. 572 c.p. perché, rientrando frequentemente nella dimora coniugale in stato di ubriachezza, maltrattava la
moglie; in particolare, percuoteva ed ingiuriava la moglie e, a
volte, anche la figlia minore; danneggiava mobili e suppellettili dell'abitazione coniugale; minacciava la moglie ed il di lei pa
dre, Abbate Carlo, qualora questi lo avesse denunciato; costrin
geva, infine, la Abbate ad allontanarsi dal domicilio coniugale
con la figlia minore e la costringeva al rapporto sessuale di cui
al capo a). Dal Tribunale di Casale Monferrato, l'Ascari è stato assolto
dal reato di cui al capo a) con la formula «perché il fatto non
sussiste», mentre è stato condannato per il reato di cui al capo
b) alla pena di mesi 8 di reclusione. Il p.m. e l'Ascari hanno
impugnato la sentenza. La Corte di appello di Torino ha riget tato l'appello dell'Ascari e, in accoglimento dell'appello del p.m., in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ricono
sciuto l'Ascari colpevole anche del reato di cui al capo a). Ritenuta la continuazione fra i due reati, ha condannato l'im
putato alla complessiva pena di anni 2 e mesi 2 di reclusione.
L'Ascari ha impugnato la sentenza per dedurre:
1) violazione dell'art. 510, 2° comma, c.p.p. per errore di
verbalizzazione nel dibattimento di primo grado e nullità della
sentenza per mancata, parziale rinnovazione del dibattimento;
2) mancanza e manifesta illogicità della motivazione in pun
to consenso della parte offesa;
3) violazione di legge con riferimento al concetto di violenza
fra i coniugi, tenuto presente l'art. 519 c.p.;
4) carenza di motivazione in punto di sussistenza dell'elemento
psicologico del reato di cui all'art. 572 c.p. Motivi della decisione. — Di seguito verranno presi in consi
derazione i motivi di ricorso partendo dalla questione proces
suale e dalla ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza im
pugnata. 1. La questione processuale. Il ricorrente deduce la violazio
ne dell'art. 510 c.p.p., perché, nel dibattimento in primo grado, «tutto incentrato sull'esame della parte offesa dalle cui dichia
razioni il tribunale ha ricavato il convincimento» per assolverlo
dal reato di violenza carnale, le dichiarazioni della parte offesa
non sono state ben verbalizzate. «Il pubblico ministero, nell'im
pugnare» la sentenza — si legge ancora in ricorso — ha richie
sto «la rinnovazione dell'esame della parte offesa».
L'affermazione è inesatta. Il p.m. ha richiesto solo in via
subordinata la rinnovazione parziale del dibattimento ove mai
la corte non si fosse convinta della colpevolezza dell'imputato
in base alle risultanze processuali per il p.m. impugnante già
chiare (e per nulla — è da aggiungere — ha affermato che le
dichiarazioni della parte offesa non sono state ben verbalizzate).
La corte di appello ha condiviso il punto di vista del p.m. circa la chiarezza delle risultanze processuali sicché non doveva
rinnovare l'istruttoria dibattimentale.
2. Le circostanze di fatto come ricostruite dalla sentenza im
pugnata. Basti qui ricordare che il 29 maggio del 1992 Abbate
Renza ha proposto querela contro suo marito Ascari Paolo ed
ha affermato che nella notte tra il 26 ed il 27 maggio, mentre
dormiva accanto alla figlia Annalisa, di anni quattro, suo mari
to era tornato a casa completamente ubriaco ed aveva cercato
di avere rapporti sessuali con lei che li aveva rifiutati. Il marito
— nei cui confronti ella aveva già presentato querela per lesioni
personali, ingiurie e minacce — si era allora infuriato e l'aveva
ripetutamente percossa, per diverse ore, costringendola poi al
rapporto sessuale.
3. L'oggettività del reato di maltrattamenti. La sussistenza
dell'elemento oggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia — afferma la corte in sentenza — dal ricorrente non è contesta
ta. L'oggettività giuridica del reato consiste, come è noto, in
una serie di atti lesivi dell'integrità fisica o morale o del decoro delle persone di famiglia, in modo da rendere abitualmente mor
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PARTE SECONDA
tificanti e dolorose le relazioni fra il soggetto attivo del reato
ed i suoi familiari. 4. L'elemento psicologico nel reato di maltrattamenti in fa
miglia. L'elemento psicologico del reato di maltrattamenti in
famiglia — ricorda la corte in sentenza — è costituito dal dolo
generico che consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il
soggetto passivo (o i soggetti passivi) a sofferenze fisiche e mo
rali continuate.
In tema di maltrattamenti in famiglia — aggiunge corretta
mente la corte — il fatto che i singoli episodi costituenti, nel
loro complesso, la condotta criminosa siano commessi durante
10 stato di ubriachezza è fatto irrilevante. L'ubriachezza, infat
ti, non esclude il dolo (Cass., sez. VI, 8 maggio 1990, Ceccarel
li, Foro it., Rep. 1991, voce Maltrattamenti in famiglia, n. 17). L'«imputato — afferma ancora correttamente la corte di appel lo — non poteva non rendersi conto che con il suo comporta mento sottoponeva la moglie a continue vessazioni».
5. Il motivo di ricorso in punto di dolo relativo al reato di
maltrattamenti in famiglia. Secondo il ricorrente proprio su que sto punto, in sentenza, vi è carenza di motivazione, visto che
in materia di dolo relativo al reato di maltrattamenti in famiglia vi è l'obbligo di rigorosa motivazione, tenuto conto del fatto
che si verte in reato a condotta plurima. Il ricorrente cita Cass., sez. VI, 16 dicembre 1986, Nenna (id., Rep. 1988, voce cit., n. 3).
6. La normativa in materia di dolo. Da osservare, a questo
punto, in via generale, che il problema del dolo non è una lam
biccata metafisica. Si tratta, invece, di un problema di semplice
soluzione, alla luce delle norme espresse. Se il dolo è la coscienza e volontà dell'evento dannoso, risul
tato dell'azione (1° comma dell'art. 43 c.p.), il problema del
dolo si risolve nel verificare se, in concreto, la coscienza e vo
lontà di cui tratta la norma citata abbia o meno investito gli elementi della fattispecie concreta corrispondente alla fattispe cie astratta.
La fattispecie astratta, espressa dall'art. 572 c.p., limitata al
caso che interessa, è questa: maltrattamento di persone della
famiglia. Nel caso concreto, della moglie e della figlia del ricor
rente. Il maltrattare, di cui alla norma, richiede, ovviamente, una reiterazione di condotte. Nella specie, la serie di condotte
è consistita in ingiurie e percosse. Ciò che occorreva allora verificare è se l'Ascari si fosse reso
conto che la serie delle sue condotte — certamente, una ad una
coscienti e volontarie (la cosa non è in contestazione) — si era
risolta in continui episodi dolorosi di vessazioni per la moglie e per la figlia.
Alla luce delle emergenze processuali la corte di appello ha,
motivatamente, dato risposta positiva al quesito, sicché la sussi
stenza del dolo deve essere ritenuta fuori questione. 7. Gli orientamenti giurisprudenziali. In ordine all'elemento
soggettivo del reato è, peraltro, punto fermo giurisprudenziale che non si versa in ipotesi di dolo specifico o di intenzionalità
del tipo di quella descritta dall'art. 81, cpv., c.p. (Cass., sez.
VI, 29 gennaio 1985, Vitello, id., Rep. 1986, voce cit., n. 3; 19 giugno 1986, Grifoni, id., Rep. 1987, voce cit., n. 6), ma, come la corte di appello ha correttamente affermato, in ipotesi di dolo generico.
Per la sussistenza dell'elemento soggettivo — ha precisato an
cora la giurisprudenza — non è necessario che l'agente perse
gua il pravo proposito di infliggere alla vittima, o alle vittime, sofferenze fisiche o morali senza plausibile motivo. Ciò che si
richiede è solo la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto
passivo (o i soggetti passivi) a sofferenze e vessazioni (Cass., sez. VI, 3 luglio 1990, Soru, id., Rep. 1991, voce cit., n. 15).
All'Ascari non è stato imputato il fatto di avere programma to le sofferenze inferte ai suoi familiari per gusto sadico; ma
di averle, in concreto, realizzate con coscienza e volontà.
La necessità del rigore nell'accertamento del dolo — di cui
l'Ascari tratta in ricorso — vale, ovviamente, con riferimento
a tutti i reati che lo richiedono; non, in particolare, con riferi
mento al reato di maltrattamenti in famiglia. 8. Il problema del consenso correttamente posto dal tribuna
le. In punto di consenso della moglie al rapporto sessuale, in
ricorso l'Ascari solleva il problema già posto con chiarezza dal
tribunale ma — come esattamente rilevato dal p.m. impugnante
11 Foro Italiano — 1994.
— dal tribunale mal risolto: «Nessun dubbio — ha affermato
il tribunale — sul fatto che la parte offesa prestò il suo consen
to al rapporto». «Il problema ... si pone» solo sul punto se
il consenso «sia riconducibile alla condizione di mancanza di
volontà conseguente ad uno stato di prostrazione o di incapaci tà fisica a resistere, che più volte la giurisprudenza ha ritenuto
sufficiente per la sussistenza del delitto».
9. La valutazione del contesto. La corte di appello ha risolto
correttamente e motivatamente il problema posto dal tribunale
nel senso che, nel caso di specie, il consenso è stato ottenuto
come effetto della coazione.
La corte è partita da una fondamentale risultanza del tribu
nale del tutto obliterata: l'episodio di violenza carnale non deve
essere considerato avulso dagli episodi di maltrattamento, ma
ne costituisce parte. È l'esito di un continuum di violenze e
di prevaricazioni. Il valore della sentenza sta proprio nella evi
denziazione di questo continuum; sta, in altri termini, nella ca
pacità, dimostrata dal giudice di secondo grado, di collocare
ed analizzare «il fatto specifico» alla luce del «generale contesto».
«Quella notte il marito, come al solito», è ritornato a casa
ubriaco e ha insultato e picchiato la moglie «che aveva manife
stato chiaramente» il proprio dissenso «ad avere rapporti» ses
suali con lui. Alla fine la Abate si è concessa per far cessare
i maltrattamenti. La motivazione è linerare, fondata sulle risul
tanze processuali, e, quindi, inattaccabile.
11.7/ consenso coatto. «Un consenso al coito della vittima»
certamente vi è stato, ma si è trattato di un consenso «viziato
dai maltrattamenti subiti quella notte»; maltrattamenti «che si
cumulavano a tutti quelli subiti» dalla parte offesa in preceden
za, «dando cosi' luogo ad una situazione di prostrazione e di
incapacità a resistere».
«Dal punto di vista soggettivo l'Ascari non poteva non ren
dersi conto che il consenso di sua moglie, strappato con conti
nui maltrattamenti, non valeva alcunché ed era null'altro che
una resa a chi la maltrattava, nella speranza che i maltratta
menti cessassero . . .».
In ricorso, l'Ascari mette in questione tutte queste proposi zioni sol perché parte da un errato e ristretto concetto di violen
za e perché pretende distinguere fra violenza «normale» e vio
lenza «particolare» nel rapporto di coniugio. Sono questi gli
aspetti da analizzare ulterioremente.
12. L'elemento della violenza nel reato di violenza carnale.
L'aspetto fondamentale da rimarcare è che, ai fini della confi
gurabilità del delitto di violenza carnale, non si richiede — co
me l'Ascari pretende in ricorso — che la violenza sia tale da
annullare la volontà del soggetto passivo. Come questa corte
ha ripetutamente affermato, è sufficiente che la volontà risulti
coartata. Neppure è necessario che l'uso della violenza o della
minaccia sia contestuale al rapporto sessuale per tutto il tempo, dall'inizio fino al congiungimento. È sufficiente, invece, che il
rapporto sessuale non voluto dalla parte offesa sia consumato
anche solamente approfittando dello stato di prostrazione, an
goscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta (Cass., sez. Ili, 16 novembre 1988, Camerini, id., Rep. 1989, voce Vio
lenza carnale, n. 3). È questo il concetto tenuto costantemente
presente dalla corte, ragion per cui, sotto questo profilo, la sen
tenza impugnata deve essere confermata.
Il dissenso della vittima — come pure la giurisprudenza ha
precisato — può essere espresso o tacito, esplicito od implicito. Nel caso di specie è stato espresso, ripetuto ed esplicito, come
la corte, con ricostruzione in fatto, non sindacabile in questa
sede, ha precisato. 13. L'unicità del concetto di violenza. Secondo il ricorrente
le sentenze emesse dalla Corte di cassazione in punto di violen
za e di consenso devono essere «adattate alla situazione concre
ta e cioè» al particolare grado di «violenza tra marito e moglie» affinché il reato sia configurabile. Questa affermazione si pone in stridente contrasto con la giurisprudenza di questa corte «che
ha più volte ribadito l'unicità del concetto di violenza, non su
scettibile di connotazioni diverse nei rapporti tra estranei o nei
rapporti tra i coniugi» (Cass., sez. Ili, 11 giugno 1993, Napo
leoni, id., 1993, II, 685). Occorre, peraltro, non dimenticare l'oggettività dei fatti che
non è in contestazione: il ricorrente ha ottenuto un rapporto sessuale dalla moglie dopo averla picchiata per ore ed ore. Il
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GIURISPRUDENZA PENALE
motivo di ricorso del ricorrente si risolve, quindi, nell'afferma zione che, nel rapporto fra i coniugi, questo tipo di comporta mento sessuale dovrebbe essere ritenuto legittimo. Basta porre le cose in questi termini perché il motivo di ricorso, sottoposto ad analisi, si mostri manifestamente infondato anche a termini
del comune buon senso.
14. Un orientamento arcaico da azzerare. Secondo un'antica
opinione dottrinale, la congiunzione carnale violenta realizzata
dal coniuge non ricadrebbe nella disciplina dell'art. 519 c.p. Un simile arcaico orientamento non può essere, ovviamente, se
guito perché neglige il rispetto dovuto alla persona, specie alla
persona del coniuge, come ripetutamente affermato dalla Corte di cassazione (l'art. 519 c.p. tutela, contemporaneamente, il va
lore della persona umana e quello della libera determnazione
del volere). Il rapporto di coniugio non degrada la persona di un coniuge
ad oggetto di possesso dell'altro coniuge. Un rapporto di coniu
gio che si riduca a violenza ai fini del «possesso del corpo», ha già affermato questa corte, è cosa gravemente antigiuridica che non può non trovare la sua sanzione nella norma in esame
(Cass., sez. Ili, 16 novembre 1988, sentenza già citata).
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 19
gennaio 1994; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Lattanzi, P.M. (conci, diff.); ric. Coronato. Conferma App. Torino 19 marzo 1993.
Appello penale — Decisione in camera di consiglio — Assenza
dell'imputato — Contumacia — Esclusione — Difensore non
munito di specifico mandato — Ricorso per cassazione —
Legittimazione (Cod. proc. pen., art. 571, 599).
Nei procedimenti di appello in camera di consiglio ex art. 599
c.p.p., non sono operanti le disposizioni sulla contumacia;
pertanto, il difensore dell'imputato rimasto assente può pro
porre ricorso per cassazione avverso la relativa sentenza pur se privo di specifico mandato. (1)
(1) Nello stesso senso le sezioni unite si sono pronunciate, nella me
desima udienza, in un altro ricorso (ric. Delle Chiaie). Come emerge dalla motivazione della sentenza in epigrafe il contra
sto emerso nella giurisprudenza della Corte di cassazione è stato risolto nel senso dell'orientamento intepretativo che aveva ricevuto minori con
sensi; per la non necessità, nell'ipotesi considerata, dello specifico man dato ad impugnare si era, infatti, espressa Cass. 18 ottobre 1991, La
Rosa, Foro it., Rep. 1992, voce Impugnazioni civili, n. 37; solo implici tamente analoghe conclusioni avrebbero potuto essere desunte da Cass. 6 marzo 1992, Mellace, id., Rep. 1993, voce Appello penale, n. 47, la quale ha escluso che il decreto di citazione per il giudizio di appello da definirsi con la procedura camerale debba contenere l'avvertimento
che, non comparendo, l'imputato sarà giudicato in contumacia. In sen
so contrario era orientata la giurisprudenza prevalente: v. Cass. 2 luglio
1993, Soro, Mass. Cass. pen., 1993, fase. 12, 84; 6 aprile 1993, Carto
lano, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 55; 19 gennaio 1993, Platania, ibid., voce Impugnazioni penali, n. 36; 26 novembre 1992, Derouiche,
ibid., voce Appello penale, n. 56; 26 maggio 1992, Costa, ibid., n.
58; 25 marzo 1992, Carlucci, ibid., n. 59.
In dottrina, solo Randazzo, L'impugnazione del difensore sfornito di mandato speciale nel giudizio di appello di cui all'art. 599 c.p.p., in Cass. pen., 1993, 1456, si è occupato specificamente del problema in esame ritenendo corretta la soluzione ermeneutica cui era pervenuta la giurisprudenza prevalente in base alla considerazione della ratio ga
li Foro Italiano — 1994.
Svolgimento del processo. — Il Tribunale di Torino con sen
tenza del 16 aprile 1992 ha ritenuto ingiustificato il dissenso
espresso dal pubblico ministero sulla richiesta di applicazione della pena formulata da Maurizio Coronato ed ha applicato a questo la pena di un anno e otto mesi di reclusione e di lire
300.000 di multa per i reati, dei quali era imputato, di importa zione e detenzione illecite di armi, una delle quali clandestina, detenzione illecita di munizioni e peculato.
Contro questa decisione il pubblico ministero ha proposto ap
pello sostenendo che per i reati in questione avrebbe dovuto
essere applicata una pena maggiore e che quindi il dissenso espres so dall'organo dell'accusa sulla richiesta dell'imputato era giu stificato.
La Corte di appello di Torino con sentenza del 19 marzo
1993, al termine di un giudizio svoltosi nelle forme dell'art. 599
c.p.p. e in assenza dell'imputato, ha ritenuto fondata l'impu
gnazione e, riformando la decisione del tribunale, ha determi
nato la pena per Coronato in tre anni e sei mesi di reclusione
e in lire 1.000.000 di multa. La corte per la violazione più gra
ve, costituita da un peculato, ha applicato la pena nella misura
minima e l'ha diminuita di un terzo per le attenuanti generiche, come aveva fatto il tribunale, ma per la continuazione ha deter
minato un aumento assai maggiore di quello stabilito dal primo
giudice in accoglimento della richiesta dell'imputato. La senten
za ha messo in evidenza che l'imputato era responsabile di nu
merosi e gravi reati e cioè: «1) di illecita detenzione di tredici
armi comuni da sparo, due delle quali illecitamente importate; di due armi da guerra, una delle quali con la matricola oblitera
ta; di un'arma tipo guerra; di tre caricatori per pistola Bernar
delli cai. 7,65 non adatti alle armi repertate; di altre munizioni
(cai. 7,65 e cai. 38 special) per armi comuni; 2) di peculato, relativamente a tre delle suddette armi, costituenti corpo di rea
to e ricevute, in qualità di perito nominato di ufficio, da diverse
autorità giudiziarie inquirenti, al fine di sottoporle a perizia ba
listica». Il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione.
La sesta sezione penale ha rilevato che la difensore di Coro
nato non era stato conferito lo specifico mandato per proporre
impugnazione, richiesto dall'art. 571, 3° comma, c.p.p., e ha
rimesso il ricorso alle sezioni unite perché ha riscontrato un
contrasto giurisprudenziale sulla necessità del mandato quando
l'impugnazione riguarda sentenze emesse in camera di consiglio a norma dell'art. 599 c.p.p.
Motivi della decisione. — La soluzione della questione pro
posta con l'ordinanza di rimessione alle sezioni unite ha carat
tere pregiudiziale dato che se dovesse ritenersi necessario lo spe cifico mandato la sua mancanza imporrebbe un, pronuncia di
inammissibilità. Il primo orientamento espresso da questa corte sulla questio
ne è stato in senso negativo: si è affermato che la sentenza di
appello pronunciata a norma dell'art. 599 c.p.p., «anche se il
relativo procedimento in camera di consiglio si sia svolto in as
senza degli appellanti, non può considerarsi sentenza contuma
rantista della disciplina normativa di cui all'art. 571, 3° comma, c.p.p. e dell'indubbia analogia esistente tra la situazione dell'imputato contu mace e quella dell'imputato che nel procedimento ex art. 599 dello stes so codice sia rimasto assente.
Più in generale, la dottrina ha posto in rilievo la facoltatività dell'in tervento dell'imputato, il cui legittimo impedimento obbliga il giudice al rinvio solo se abbia manifestato la volontà di partecipare all'udienza, ed il carattere meramente eventuale del contraddittorio nello speciale procedimento camerale in esame, a meno che si debba procedere alla rinnovazione del dibattimento (art. 599, 3° comma): v. Cordero, Pro
cedura penale, 2a ed., Milano, 1993, 939; Ferrante, L'appello inci
dentale ed il procedimento camerale nell'appello penale, Milano, 1991,
134, il quale osserva che le regole stabilite dall'art. 127 c.p.p. prevalgo no su quelle ordinarie, salvo che siano inconciliabili con la struttura
del giudizio di appello e che il decreto di citazione non deve contenere
l'avvertenza che, non comparendo, l'imputato sarà giudicato in contu
macia; Gara velli, in Commento al nuovo codice di procedura penale coordinato da Chiavario, Torino, 1991, VI, 182. Per l'affermazione
che la partecipazione delle parti al procedimento de quo è solo eventua
le, v., in giurisprudenza, Cass. 1° ottobre 1992, Battistini, Foro it.,
Rep. 1993, voce cit., n. 61.
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