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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione III penale; sentenza 27 febbraio 1992; Pres....

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Page 1: PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione III penale; sentenza 27 febbraio 1992; Pres. Gambino, Est. Accattatis, P.M. Carlucci (concl. conf.); ric. Bergamini e altri. Conferma

sezione III penale; sentenza 27 febbraio 1992; Pres. Gambino, Est. Accattatis, P.M. Carlucci(concl. conf.); ric. Bergamini e altri. Conferma Pret. Lucca 5 luglio 1991Source: Il Foro Italiano, Vol. 115, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1992), pp.347/348-357/358Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23185961 .

Accessed: 25/06/2014 04:11

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PARTE SECONDA

— che di conseguenza un motivo, serio e documentato, che

impedisca l'esercizio del compito difensionale deve essere consi

derato, potenzialmente, come ostativo alla concreta attuazione

di quella funzione di difesa che il legislatore ha ritenuto essen

ziale per un corretto svolgimento dell'intero procedimento. Di contro non può però ritenersi che l'ordinamento rimetta

al difensore ed a lui solo, la scelta di quale procedimento tratta

re e di quale rinviare, rendendolo cosi arbitro assoluto, prospet tando un impedimento professionale, di influire sull'andamento

e l'esito dei procedimenti attraverso il conferimento di una fun

zione sostanzialmente interdittiva.

È da rilevare in proposito che il regolare espletamento della

funzione giurisdizionale è bene costituzionalmente protetto sia

per realizzare una effettiva eguaglianza di trattamento tra tutti

i cittadini sia per garantire la collettività da comportamenti gra vemente lesivi di beni individuali o collettivi. L'ordinamento ha

sempre cercato di realizzare un giusto e razionale contempera mento tra le esigenze di difesa e di libertà dell'imputato da una

parte e le esigenze di affermazione del diritto e della giustizia dall'altro: basti pensare, tra l'altro, al tema della durata della

custodia cautelare da una parte ed alla eventuale sospensione dei termini o della proroga degli stessi; al divieto di procedere in mancanza di estradizione ed alla possibilità di effettuare egual mente il giudizio contumaciale se vi è pericolo di prescrizione.

Ritiéne pertanto il collegio che il giudice a cui è stato richie

sto il rinvio abbia il potere-dovere di valutare e comparare le

esigenze difensive e quelle pubbliche, affinché non si realizzino

né impunità né anticipate liberazioni pericolose per la sicurezza

collettiva né pretestuosi ritardi nella definizione dei processi. Solo una simile interpretazione dell'art. 486, 5° comma, con

sente — come espressamente ha riconosciuto anche il giudice delle leggi — che la norma in questione si sottragga al vizio

di costituzionalità.

Appare pertanto indispensabile:

a) che il difensore, nel prospettare un impedimento professio nale e nel chiedere un rinvio, non si limiti a comunicare e docu

mentare l'esistenza di un contemporaneo impegno professionale ma espliciti le ragioni che rendono essenziale l'espletamento della

sua funzione nell'altro processo per la particolare natura della

attività a cui deve presenziare, l'assenza in detto procedimento di altro condifensore che può validamente difendere l'imputato,

l'impossibilità di avvalersi — data la peculiarità della situazione — della designazione di un sostituto ex art. 102 c.p.p. sia nel

processo a cui si intende partecipare sia in quello in cui si chie

de il rinvio; b) che il difensore comunichi prontamente — e cioè non ap

pena conosciuta la contestualità dei diversi impegni — il suo

impedimento: il 5° comma dell'art. 486 subordina infatti («pur

ché») la sussistenza di un legittimo impedimento a questa im

mediata comunicazione sia per consentire al giudice a cui è chiesto

il rinvio gli accertamenti eventualmente necessari sia per con

sentire che l'eventuale rinvio avvenga in tempo utile per evitare

disagi alle altre parti o disfunzioni giudiziarie;

c) che il giudice accuratamente valuti le documentate dedu

zioni difensive, anche alla luce delle eventuali necessità di un

rapido esaurimento della procedura trattata, e motivi conseguen temente il suo provvedimento di accoglimento o di reiezione

dell'istanza secondo criteri di logicità, evitando comunque che

l'impedimento sia funzionale a manovre dilatorie o possa nuo

cere alla attuazione della giustizia nel caso in esame.

Nel procedimento relativo agli attuali ricorrenti l'avv. Caruso

ha eccepito l'impedimento solo al mattino dell'udienza di trat

tazione dell'appello, pur dovendo essere da tempo a conoscenza

dell'impedimento; si è limitato ad attestare che nello stesso giorno era impegnato in altro procedimento presso la seconda sezione

della corte d'assise, quasi che da ciò dovesse discendere auto

maticamente la necessità del rinvio; non ha neppure specificato se in quella sede era unico difensore o condifensore mentre que sta seconda situazione avrebbe fatto venir meno — ex art. 486, 5° comma, che vale evidentemente anche nel processo prescelto

per la trattazione — una situazione di indispensabilità della sua

presenza in quel procedimento. Ed è, a questo proposito, da rilevare come, dalla documenta

zione esibita in questa sede, risulta che quasi tutti gli imputati coinvolti nel processo avanti alla corte d'assise erano difesi da

altro difensore oltre che dall'avv. Caruso.

La corte d'appello — dal canto suo — ha respinto l'istanza

Il Foro Italiano — 1992.

difensiva peraltro insufficientemente documentata, rilevando che

l'impedimento non poteva ritenersi assoluto sia perché i due

procedimenti si svolgevano nella stessa sede giudiziaria sia per ché il processo da trattare era prossimo alla prescrizione. Que sto secondo argomento — che è da ritenersi assorbente — è

oggettivamente rilevabile (la prescrizione maturaya nel maggio di quest'anno e quindi sussisteva il pericolo, attraverso una im

pugnazione, del trascorrere del periodo prescrizionale) per cui

logica e conforme a diritto è la reiezione dell'istanza difensiva

e la conseguente trattazione del procedimento anche in assenza

del difensore istante. (Omissis)

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 27 feb

braio 1992; Pres. Gambino, Est. Accattatis, P.M. Carluc

ci (conci, conf.); ric. Bergamini e altri. Conferma Pret. Luc

ca 5 luglio 1991.

Lavoro (rapporto) — Violazioni alle norme antinfortunistiche — Diffida dell'ispettore dell'unità sanitaria locale — Ottem

peranza — Improcedibilità dell'azione penale — Esclusione

(D.p.r. 19 marzo 1955 n. 520, riorganizzazione centrale e pe riferica del ministero del lavoro e della previdenza sociale,

art. 9).

Nel caso in cui il datore di lavoro sia stato diffidato dall'ispet tore dell'unità sanitaria locale a regolarizzare determinate vio

lazioni alle norme antinfortunistiche e abbia ottemperato alla

diffida nel termine prescrittogli, l'azione penale per tali viola

zioni deve essere egualmente esercitata. (1)

II

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 14 feb

braio 1992; Pres. Gambino, Est. Morgigni, P.M. Izzo (conci,

conf.); ric. Strazza. Annulla Pret. Arezzo 22 aprile 1991.

Lavoro (rapporto) — Violazioni alle norme antinfortunistiche — Diffida dell'ispettore dell'unità sanitaria locale — Obbligo di denuncia all'autorità giudiziaria — Tempestiva ottempe ranza alla diffida — Improcedibilità dell'azione penale (D.p.r. 19 marzo 1955 n. 520, art. 9).

Qualora l'ispettore dell'unità sanitaria locale, a norma dell'art. 9 d.p.r. 19 marzo 1955 n. 520, diffidi il datore di lavoro a

regolarizzare violazioni alle norme antinfortunistiche entro un

determinato termine, ha egualmente l'obbligo di fare denun

cia ai pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudizia ria, ma il pubblico ministero deve sospendere l'esercizio del

l'azione penale per il termine indicato dalla diffida, e, alla

scadenza del termine, dar corso al procedimento penale solo

in caso d'inottemperanza alla diffida. (2)

(1-2) I. - Due nuove, e contrastanti, decisioni arricchiscono l'ormai tormentata storia giurisprudenziale dei rapporti tra diffida dell'ispetto re dell'unità sanitaria locale e processo penale per contravvenzioni alle norme antinfortunistiche.

Per oltre tre decenni, con una ricca serie di sentenze, la Cassazione aveva escluso ogni alternatività, e ancora il 2 aprile 1990 la terza sezio ne penale si era preoccupata di confermare che «la diffida intimata

dall'ispettore del lavoro a rimuovere le violazioni riscontrate non com

porta alcuna sospensione dell'esercizio dell'azione penale, né l'adempi mento delle prescrizioni nel termine fissato vale ad elidere gli illeciti

penali accertati» (Cass. 2-24 aprile 1990, Diddi, Foro it., Rep. 1990, voce Infortuni sul lavoro, n. 344). Sette giorni dopo, l'inatteso colpo di scena. Con un diverso collegio, la stessa terza sezione ribaltava il

precedente, consolidato indirizzo: «la diffida» — questo il nuovo inse

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GIURISPRUDENZA PENALE

I

Motivi della decisione. — 1. - La questione da affrontare.

La corte deve affrontare il problema se l'art. 9 d.p.r. 19 marzo

1955 n. 520, in relazione all'art. 21 1. 23 dicembre 1978 n. 833,

configuri o meno una condizione di procedibilità. In anticipa zione può essere affermato che questa corte è convinta che il

consolidato insegnamento della Corte di cassazione in materia

debba essere ribadito.

2. - L'interpretazione letterale dell'art. 9 d.p.r. 520/55. Il ri

chiamato articolo dispone: «In caso di constatata inosservanza

gnamento — «rappresenta un ostacolo al proseguimento dell'azione (pe

nale), nel senso che il diritto punitivo dello Stato rimane sospeso fino

alla scadenza del termine e riprende il suo normale decorso nel caso

di inosservanza della medesima» (Cass. 9 aprile-17 maggio 1990, Faso

li, ibid., voce Lavoro (rapporto), n. 1398). Il nuovo insegnamento non otteneva l'adesione dei magistrati di me

rito (Pret. Rovigo 13 gennaio 1992, id., 1992, II, 105; Pret. Parma

22 novembre 1991, ibid.; Pret. Torino 18 luglio 1991, Dir. e pratica

lav., 1991, 2538; Pret. Torino 29 marzo 1991, Foro it., 1991, II, 393; Pret. Pistoia 11 febbraio 1991, ibid., alla cui nota si rinvia per gli op

portuni riferimenti di dottrina); ma era nondimeno ribadito in altre

due concise pronunce della terza sezione nella seconda metà del 1991

(Cass. 18 dicembre 1991, Poli, Dir. e pratica lav., 1992, 977; 15 ottobre

1991, P.m. in c. Casarini e altro, ibid.). V'era, dunque, da supporre che la soluzione inaugurata dalla senten

za Fasoli tendesse a consolidarsi. E in effetti, nella prima in ordine

cronologico delle decisioni che qui riportiamo (emessa il 14 febbraio

1992 e depositata il 3 aprile 1992), per mano dello stesso estensore della

sentenza Fasoli, la terza sezione ne riproduce motivazione e conclusioni

(peraltro, con l'ulteriore chiarimento che «gli ispettori ed i funzionari

Usi, nel momento in cui hanno notizia di un reato, devono fare denun

cia scritta senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia

giudiziaria [art. 331 c.p.p.]» e che «la sospensione dell'azione penale

per il tempo previsto dalla diffida non incide minimamente su tale ob

bligo»). (Da ricordare, in merito a tale chiarimento, è che, a norma

dell'art. 21, 4° comma, 1. 23 dicembre 1978 n. 833, la facoltà di diffida

spetta a quei soli funzionari delle unità sanitarie locali che rivestano

la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria in materia di sicurezza del

lavoro, e che, dunque, in forza dell'art. 347 c.p.p., costoro sono tenuti

a riferire la notizia di reato al pubblico ministero entro quarantotto ore). Il fatto è, però, che, con la documentata decisione sub I (pronunciata

il 27 febbraio 1992 e depositata il 18 marzo 1992), ancora la terza sezio

ne torna sull'argomento, e ridà corda all'insegnamento costantemente

impartito dalla Cassazione fino al 2 aprile 1990. A breve scadenza non

appare prevedibile un chiarimento legislativo (per alcune, autorevoli ri

flessioni sul tema, v., comunque, Smuraglla, La sicurezza e l'igiene

del lavoro: necessità e urgenza di un nuovo testo unico, in Un progetto

per il diritto del lavoro, 1992, Ediesse, Roma, 210 s.; e, in margine

alle sent. 24 aprile 1990, Diddi, e 9 aprile 1990, Fasoli, cit., Bodini

Acantoni-Ricci, I servizi di prevenzione di fronte al nuovo codice di

procedura penale, in Riv. critica dir. lav., 1992, 16, spec. 23); e, quin

di, più che mai da auspicare è un appianamento del dissidio esploso

all'interno della giurisprudenza di legittimità, ove del caso con l'inter

vento delle sezioni unite. II. - Sui compiti degli ispettori delle unità sanitarie locali e, in gene

rale, dei soggetti pubblici incaricati istituzionalmente di svolgere attività

ispettive o di vigilanza, v. l'art. 19, 1° comma, lett. d), 1. 30 dicembre

1991 n. 413 (Le leggi, 1992, I, 83) che ha prescritto a tali soggetti di

comunicare al comando della guardia di finanza territorialmente com

petente i fatti che possono configurarsi come violazioni tributarie di

cui gli stessi siano venuti a conoscenza a causa o nell'esercizio delle

loro funzioni (lo stesso articolo alla lett. e dispone la pena pecuniaria da lire 100.000 a lire 1.000.000 in caso di inosservanza dell'obbligo del

la comunicazione). Per le prime interpretazioni ufficiali di tale normativa, cfr. circ. min.

lav. 21 marzo 1992, n. 42, Corriere trib., 1992, 1329 (che, con riferi

mento ai compiti degli ispettori del lavoro, asserisce che «la conoscenza

dei fatti che possano configurare violazioni tributarie, non implica lo

svolgimento di indagini ad hoc, ma scaturisce in via incidentale dagli

accertamenti finalizzati all'osservanza delle norme di legislazione socia

le. Una diversa interpretazione porterebbe invero allo sconfinamento

nell'area di competenza dell'amministrazione finanziaria, istituzional

mente preposta agli accertamenti ed alla repressione delle violazioni di

natura tributaria»; allegato a tale circolare si rinviene poi un prospetto,

meramente esemplificativo, nel quale sono evidenziate le ipotesi più ri

correnti di violazioni tributarie connesse a violazioni in materia contri

butiva) e circ. Inps 6 maggio 1992, n. 121, ibid., 1721 (ove, tra l'altro,

si afferma che «l'obbligo della segnalazione interessa non solo l'attività

ispettiva, ma anche quella più generale di vigilanza che viene esercitata

dall'istituto sulla documentazione acquisita agli atti, nell'esercizio delle

sue attività istituzionali per verificarne la legittimità e la correttezza

ai fini dei provvedimenti da adottare»).

Il Foro Italiano — 1992.

delle norme di legge, la cui applicazione è affidata alla vigilanza

dell'ispettorato, questo ha facoltà, ove lo ritenga opportuno,

valutate le circostanze del caso, di diffidare, con apposita pre

scrizione, il datore di lavoro, fissando un termine per la regola

rizzazione».

Un primo dato. La lettera dell'art. 9 contraddice la pretesa che ci si trovi in presenza di una causa di non procedibilità

e dà ragione alla giurisprudenza consolidata della Corte di cas

sazione in senso contrario.

3. - La consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione.

Un secondo dato. Fino alla sentenza n. 7016/90, con giurispru

denza costante, la Corte di cassazione ha, infatti, negato che

l'art. 9 in esame configuri una condizione di procedibilità (Cass.

10 marzo 1958, Cafarelli, Foro it., Rep. 1958, voce Infortuni

sul lavoro, n. 303; 9 dicembre 1958, Turiaco, id., Rep. 1959,

voce cit., n. 319; 21 aprile 1961, Priarollo, id., Rep. 1961, voce

Lavoro (rapporto), n. 593; 9 giugno 1962, Mariotti, id., 1963,

II, 186; 7 ottobre 1963; 18 gennaio 1965, Zuppa, id., Rep. 1966,

voce Lavoro (collocamento), n. 22; 8 ottobre 1965, Miscinelli,

id., Rep. 1965, voce Polizia giudiziaria, n. 8; 9 febbraio 1966, Rongoni, id., Rep. 1966, voce Lavoro (rapporto), n. 822; 31

gennaio 1968, Castaldo, id., Rep. 1968, voce Infortuni sul lavo

ro, n. 285; 18 aprile 1970, Rosmino, id., Rep. 1971, voce cit.,

n. 163; 22 novembre 1988, Falchini; 2-24 aprile 1990, Diddi, id., Rep. 1990, voce cit., n. 344).

Un più esteso richiamo meritano alcune sentenze.

1) Cass. 10 marzo 1958. Quando, per l'osservanza delle nor

me dettate per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, gli ispet

tori abbiano diffidato l'imprenditore, il giudice ordinario non

può sindacare il merito del provvedimento amministrativo nel

giudizio penale conseguente alla sua inosservanza da parte del

l'imprenditore.

2) Cass. 9 dicembre 1958. L'azione penale promossa a segui

to di verbale di contravvenzione elevato dall'ispettore del lavo

ro non è subordinata alla condizione che sia precedentemente

intimata dallo stesso ispettore apposita prescrizione con diffida

ad adempiere. L'intimazione di detta prescrizione costituisce,

infatti, una mera facoltà.

3) Cass. 7 ottobre 1963, sulla differenza che intercorre fra

«diffida» e «disposizione». Le diffide e le disposizioni (art. 9 e 10 d.p.r. in esame) si differenziano perché le prime consistono

in intimazioni, ossia in formali avvertimenti, mentre le disposi

zioni sono provvedimenti a carattere autoritativo con i quali

gli ispettori impongono un determinato comportamento in for

za di un precetto legislativo che conferisce all'autorità ammini

strativa una potestà che trova la sua sanzione nell'art. 11 dello

stesso d.p.r. Chi non osserva le diffide di cui all'art. 9 soggiace

invece solo alle sanzioni fissate per l'inosservanza delle norme

penali e non anche alla sanzione penale di cui all'art. 11.

4) Cass. 18 gennaio 1965. Secondo questa importante senten

za, «le diffide... sono formali avvertimenti con i quali si richia

mano i destinatari di una norma all'osservanza dei precetti...

e consistono... in atti che presuppongono un obbligo legislativo

perfetto, senza peraltro condizionare... la sua applicazione». «I decreti presidenziali che elevano gli ispettori del lavoro ad

organi specializzati per la vigilanza nella soggetta materia non

configurano... alcuna speciale condizione di procedibilità... e,

pertanto, i relativi reati possono essere perseguiti per il princi

pio dell'ufficialità dell'azione penale che non soffre eccezioni...».

«Data la natura puramente sollecitatoria della diffida, è evi

dente che essa può eventualmente essere operante per l'avvenire

e cioè può valere, se seguita dal contravventore, a rimuovere

quelle situazioni permanenti tuttora in atto e la cui interruzione

ha un'efficacia strumentale rispetto alla disciplina dell'attività

dell'azienda ed alla tutela del lavoratore... giammai ad influire

su quelle violazioni che siano ormai esaurite o che, pur non

essendo esaurite, costituiscono illecito penale...».

«Riconoscere efficacia diversa alla facoltà di diffida sarebbe

estendere oltre i limiti voluti dalla legge i poteri dell'ispettorato,

organo creato per la vigilanza e l'esecuzione delle leggi sul lavo

ro e della previdenza...non certo per accordare... benevole de

roghe a tassative disposizioni di legge penalmente sanzionate».

5) Cass. 8 ottobre 1965. Gli ispettori del lavoro sono ufficiali di polizia giudiziaria. Ciò significa che se nell'esercizio delle lo

ro funzioni gli ispettori del lavoro vengono a conoscenza di un

fatto costituente reato, devono, di loro iniziativa, prendere no

tizia del reato ed impedire, secondo le norme del codice di pro

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PARTE SECONDA

cedura, che venga portato a conseguenze ulteriori. Devono, inol

tre, assicurare le prove, ricercare i colpevoli, ecc., tenuti presen ti gli art. 219 ss. c.p.p.

6) La facoltà accordata dall'art. 9 — si legge nella sentenza

12738/88 — «non costituisce una causa di esclusione della re

sponsabilità per gli illeciti accertati» essendo finalizzata esclusi

vamente all'interruzione della «permanenza dell'omissione col

pevole». Essa non può risolversi nella sanatoria della condotta

antigiuridica già realizzatasi. «La diffida e la ottemperanza val

gono ad evitare le ulteriori conseguenze del protrarsi della si

tuazione illegittima... senza altro effetto incidente sulla pregres sa responsabilità... ».

4. Le fondamentali proposizioni ricavate dall'analizzata giu

risprudenza. Il giudice ordinario non può sindacare il merito

del provvedimento amministrativo (reciproca autonomia fra giu risdizione ed amministrazione). L'azione penale non è subordi

nata alla condizione che sia precedentemente intimata la diffi

da. Chi non osserva la diffida di cui all'art. 9 non soggiace alla sanzione penale di cui all'art. 11 d.p.r. analizzato, anche

se, mostrando la sua pervicacia nella violazione delle norme di

legge, subisce o può subire conseguenze giuridiche negative per il suo comportamento (non riconoscimento di attenuanti o va

lutazioni della misura della pena con maggior rigore tenuto pre sente l'art. 133 c.p.). La diffida ha natura sollecitoria e preven

tiva, essa serve a rimuovere le situazioni di pericolo e di danno

ancora in atto al momento della diffida, ma essa non incide

sui reati già consumati e perfetti. Riconoscere alla diffida effi

cacia diversa e più estesa (riconoscere cioè ad essa la natura

di condizione di procedibilità) sarebbe estendere i poteri di fun

zionari inseriti nelle gerarchie amministrative oltre i limiti voluti

ed espressi dalla legge. Gli ispettori del lavoro sono stati creati dalla legge per la

più piena realizzazione esecutiva della legislazione sul lavoro e

non per porre condizioni all'esercizio dell'azione penale, sono

stati creati cioè per la più piena realizzazione della legislazione di prevenzione e non per «accordare... benevoli» e discrezionali

deroghe «a tassative disposizioni di legge penalmente sanziona

te». A questa corte le proposizioni di cui sopra sembrano del

tutto piane. Gli ispettori del lavoro sono — è da aggiungere — organi

amministrativi ed ufficiali di polizia giudiziaria con tutti i limiti e gli obblighi degli organi amministrativi e degli ufficiali di po lizia giudiziaria: fra gli obblighi quello di prendere notizia del reato ed impedire che esso venga portato a conseguenze ulteriori.

I decreti ministeriali che hanno elevato gli ispettori del lavoro

ad organi specializzati di vigilanza (e la 1. 833/78 che ha esteso

le funzioni di vigilnza ai dipendenti Usi) non configurano alcu

na speciale condizione di procedibilità e, pertanto, i reati di

cui si discute possono e devono essere perseguiti in forza del

generale principio — di rango costituzionale — dell'obbligato rietà dell'azione penale.

5. - Il problema dell'alternatività fra intimazione e rapporto. Due questioni sono state ampiamente dibattute in dottrina rela

tivamente alla norma in esame: quella della procedibilità e quel la della possibile alternatività fra intimazione ed obbligo di rap

porto. È bene qui ulteriormente approfondire quest'ultima que stione.

L'art. 8 d.p.r. definisce gli ispettori del lavoro ufficiali di

polizia giudiziaria. L'art. 2 c.p.p. (la questione, ovviamente, è stata prevalentemente trattata sotto il vigore del vecchio codi

ce) prevede l'obbligo di rapporto, con sanzione penale in caso

di inadempimento (art. 361 c.p.). L'obbligo di rapporto (e di comunicazione) costituisce un principio generale dell'ordinamento

non soggetto a restrizioni se non a quelle spressamente dettate

al legislatore. L'art. 9 non deroga a questi principi, sicché gli

ispettori del lavoro e gli operatori di vigilanza delle Usi, sono

tenuti al rapporto e alla comunicazione in base alle norme gene rali. L'art. 9 non può certo essere interpretato come causa di

non punibilità per gli ufficiali di polizia giudiziaria che ometta no la dovuta comunicazione.

La norma attribuisce una facoltà agli ispettori del lavoro ma

questa facoltà non può scalfire i principi generali dell'ordi

namento.

L'art. 347 del nuovo c.p.p. impone alla polizia giudiziaria

l'obbligo di riferire al p.m. ogni notizia di reato nel termine

di 48 ore dalla sua acquisizione. In assenza di un'espressa dero

II Foro Italiano — 1992.

ga un tale obbligo incombe anche sugli operatori di vigilanza alle dipendenze delle Usi.

6. - Principio di obbligatorietà dell'azione penale e condizioni di procedibilità. Dato il principio di obbligatorietà dell'azione penale, il p.m. che riceve la notizia di reato e ne deliba la fon

datezza (tutto il discorso viene infatti svolto sul presupposto che reati siano stati consumati) deve iniziare l'azione penale, non può richiedere al giudice l'archiviazione in base ad una pre tesa mancanza di condizione di procedibilità non espressamente

prevista dalla legge. Le condizioni di procedibilità possono essere generali e spe

ciali. Le generali (querela, istanza, ecc.) sono espresse dal c.p.p., le speciali dalle varie leggi; ma perché una condizione di proce dibilità possa essere riconosciuta (possa essere ritenuta sussistente) essa deve risultare chiaramente ed espressamente dalla legge; mentre la pretesa condizione di procedibilità di cui si discute

per nulla è espressa dalla norma in esame: né chiaramente, né

espressamente; dovrebbe essere ritenuta «implicita, ricavata cioè

per via interpretativa; ma proprio perché, comunque, implicita e non esplicitata detta pretesa condizione di procedibilità non

può avere ingresso nel nostro ordinamento giuridico. Le condizioni di improcedibilità devono essere chiaramente

espresse dalla legge ordinaria — si insiste ancora su questo fon

damentale aspetto — perché si risolvono nella restrizione del

principio dell'obbligatorietà dell'azione penale di portata costi

tuzionale (art. 112 Cost.). L'art. 9 prevede la facoltà (discrezionale) degli ispettori del

lavoro di esercitare il potere di cui sopra, ma la norma non

fa riferimento all'azione penale, che rimane, quindi, intatta. In

sostanza, la norma risolve il suo vigore sul piano amministrativo

preventivo senza scalfire il reato già perfetto. Come la giurisprudenza ha insegnato, tenuta presente la lette

ra della legge e la funzione degli ispettori del lavoro (e dei fun

zionari Usi), l'art. 9 è chiaramente finalizzato ad evitare il pro trarsi di situazioni di pericolo e di inosservanza delle leggi in

modo che i pratici risultati possano essere tempestivamente con

seguiti.

Occorre, a questo punto, passare all'esame della sentenza della

Corte di cassazione richiamata dai ricorrenti, per esprimere un

più preciso, argomentato dissenso.

7. - La sentenza n. 7016/90 della Corte di cassazione. La

sentenza n. 7016/90, richiamata dai ricorrenti, si pone in con

trasto con gli orientamenti sopra sintetizzati, ritenuti fondati

da questa corte e, pertanto, deve essere disattesa, con la conse

guenza che il ricorso deve essere rigettato. «Con due precedenti decisioni — si legge nella sentenza

7016/90 (Cass., sez. Ili, 18 gennaio 1965, Ponzi e 27 giugno

1986, Ciari, id., Rep. 1987, voce Lavoro (rapporto), n. 2034)

questa corte ha ritenuto che la «facoltà» di cui all'art. 9 in

esame «non costituisce condizione di procedibilità». «Vi è però da rilevare che la Corte costituzionale, con la decisione n. 105

del 12 luglio 1967 (id., 1967, I, 2493, ribadita con la n. 98 del

25 gennaio del 1980, id., 1980, I, 2355) ha ritenuto che la facol

tà menzionata non è in contrasto con gli art. 3 e 112 Cost,

poiché si muove, rispetto all'obbligo del p.m. di esercitare l'a

zione penale, in campo diverso, in quanto la riaffermazione del

l'obbligatorietà non esclude che... l'ordinamento stabilisca de

terminate condizioni per il promovimento e la prosecuzione del

l'azione penale, anche in considerazione degli interessi pubblici

perseguiti dalla pubblica amministrazione».

«Si tratta di una discrezionalità non priva di limiti, sia sog

gettivi che oggettivi. I primi sono rappresentati dai controlli ge rarchici esistenti nella pubblica amministrazione e che danno

luogo ad una valutazione della rispondenza dell'operato agli in

teressi generali (...). Vi sono poi limiti oggettivi, derivanti dalla disciplina interna che la pubblica amministrazione detta attra verso regolamenti, circolari, ordini di servizio. Questa autolimi

tazione è indispensabile corollario del principio costituzionale

secondo il quale i pubblici ufficiali sono organizzati... in modo

che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'am

ministrazione stessa».

«La facoltà di diffida è quindi espressione del potere discre zionale della pubblica amministrazione...».

«Attraverso il meccanismo de quo il legislatore ha voluto con

ferire agli organi amministrativi competenti non un mero com

pito sollecitatorio privo di concrete conseguenze in caso di spe cifica inottemperanza, ma una funzione molto più ampia...».

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GIURISPRUDENZA PENALE

«La diffida — cosi inquadrata — assolve a scopi di preven zione e serve ad impedire il protrarsi della violazione. Essa quindi costituisce condizione per il promovimento e la prosecuzione dell'azione penale». La diffida rappresenta cioè «un ostacolo

al proseguimento dell'azione... nel senso che il diritto punitivo dello Stato rimane sospeso fino alla scadenza del termine e ri

prende il suo normale decorso nel caso di inosservanza della

medesima». Il p.m. deve, quindi, «astenersi dall'agire durante

la pendenza del termine e nel caso di ottemperanza della diffida

nei suddetti limiti temporali», e il giudice «in ogni istante» deve

«pronunciare una absolutio ab observatione iudicii».

«Questo istituto dai contorni non dettagliati trova collocazio

ne nella vigente legislazione ed è desumibile per via interpretati va attraverso un'attenta lettura delle scelte politiche, che in ta

luni casi mirano a privilegiare interessi di diversa natura rispet to alla elaborazione del processo ed alla conseguente applicazione della pena, ritenuta evidentemente meno vantaggiosa».

Il legislatore ha compiuto «una valutazione degli opposti in

teressi, e, nel bilanciamento, ha considerato prevalente l'inte

resse ad ottenere il rispetto della legalità attraverso la strada

tollerante dell'invito alla regolarizzazione, al termine della qua le v'è pur sempre, dopo la minaccia della sanzione che si ac

compagna al decorso del tempo, l'irrogazione della stessa in

caso di constatata inosservanza». «Né v'é da meravigliarsi se

l'applicazione della pena dipenda dalla volontà dell'agente, poi ché anche in altre ipotesi l'ordinamento affida alla volontà del

soggetto passivo (querela, istanza, richiesta...) l'iniziativa del

l'azione penale». Non vi è contrasto con l'art. 3 Cost., tenuta presente la ri

chiamata sentenza della Corte costituzionale.

8. - La non plausibile conclusione cui giunge la Corte di cas

sazione in sentenza 7016/90. Ad analisi vanno sottoposte anzi

tutto le seguenti proposizioni:

1) L'istituto in questione ha contorni non dettagliati, esso

è desumibile per via interpretativa «attraverso un'attenta lettura

delle scelte politiche». Come già affermato, per il fatto che l'i

stituto preteso sussistente (condizione di procedibilità) non solo

non ha contorni «dettagliati» ma non è espresso esplicitamente dalla norma, non può essere riconosciuto come normativamen

te sussistente.

2) In altre ipotesi l'ordinamento affida alla volontà del sog

getto passivo (querela, istanza, richiesta...) l'iniziativa dell'azio

ne penale. Indubbiamente — è da osservare — l'ordinamento

prevede le condizioni di procedibilità ma esse (come già sottoli

neato) devono risultare espressamente ed in modo chiaro dalla

legge.

3) Il legislatore ha compiuto una valutazione degli opposti

interessi, considerando prevalente quello ad ottenere il rispetto della legalità attraverso la strada tollerante dell'invito alla rego larizzazione. Ma — è da osservare — la precisa volontà del

legislatore nel senso indicato nella sentenza deve essere non solo

asserita ma dimostrata in via interpretativa, con riferimento pun tuale al dettato di legge. Nella sentenza in esame la dimostra

zione convincente in tal senso non è rinvenibile.

Tenuta presente l'interpretazione letterale, logica, sistemati

ca, storica e costituzionale della norma (art. 12 preleggi e prin

cipi costituzionali), convincente conclusione è invece quella op

posta, rinvenibile nella consolidata giurisprudenza della Corte

di cassazione.

Di sopra (nella prima parte della presente sentenza) si è fon

damentalmente argomentato in termini di interpretazione lette

rale, logica, sistematica e costituzionale. Quanto all'interpreta zione storica può essere aggiunto che l'interpretazione consoli

data della giurisprudenza della Corte di cassazione è in perfetta consonanza con tutta la storia della diffida. Si tratta di una

lunga storia che risale alla fondazione dello Stato sociale ed

alla prevenzione degli infortuni sul lavoro ed all'igiene sul lavo

ro. Possono essere qui rapidamente richiamati — una più am

pia analisi è inibita nell'economia di una sentenza — i seguenti

testi normativi: 1. 1361/12, r.d. 431/13, r.d. 530/27, r.d.l.

1684/31, 1. 886/32, convenzione Oil 81/47, ratificata dall'Italia

con 1. 1303/52.

9. - La sentenza della Corte costituzionale 105/67. A questo

punto vanno ancor più approfonditamente analizzate le seguen

ti, ulteriori proposizioni rinvenibili nella sentenza in esame:

1) Il principio di obbligatorietà dell'azione penale non esclu

de che l'ordinamento stabilisca determinate condizioni per il pro

li. Foro Italiano — 1992.

movimento e la prosecuzione dell'azione penale, tenuta presen te la sentenza della Corte costituzionale (richiamata).

2) La discrezionalità di cui all'art. 9 non è priva di limiti, tenuti presenti i controlli gerarchici cui il personale amministra

tivo è soggetto, ecc.

Queste due proposizioni vanno analizzate unitamente all'ana lisi della sentenza della Corte costituzionale.

A questo punto va ricordato che, con la sentenza 105/67 la

Corte costituzionale era chiamata a decidere se l'articolo in que stione potesse ritenersi in contrasto con il principio di egua

glianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3 Cost.) per il fatto

che, non esistendo nel vigente ordinamento alcuna regolamen tazione della indicata «facoltà», i cittadini possono essere inco

stituzionalmente assoggettati a diverso trattamento, pur avendo

essi commesso la stessa infrazione.

La corte era chiamata, inoltre, a decidere (ed è questo l'a

spetto che qui, in particolare, interessa) se l'articolo in questio ne potesse ritenersi in contrasto con il principio di obbligatorie tà dell'azione penale (art. 112 Cost.) per il fatto che l'ispettore del lavoro, quale organo di pubblica amministrazione, e, come

tale, dipendente dal p.m., godrebbe di un potere più ampio ri

spetto a quello attribuito all'organo superiore e, più precisa

mente, godrebbe del potere di porre in essere una condizione

di procedibilità; di paralizzare, a sua discrezione, l'esercizio del

l'azione penale. La corte ha negato il contrasto con l'art. 3 ed anche con

l'art. 112. Con riferimento a questo secondo aspetto la corte

ha affermato che la «facoltatività» di cui all'art. 9 non viola

il principio dell'officiosità e dell'obbligatorietà dell'azione pe nale, visto che detta facoltà e il principio di obbligatorietà «si

muovono... in campi diversi». L'esercizio della facoltà indicata

«non scalfisce» il principio di obbligatorietà, anche se, in gene

rale, è da dire — osserva la corte — che l'art. 112 Cost, «non

esclude che l'ordinamento stabilisca determinate condizioni per il promovimento o la prosecuzione dell'azione penale».

L'affermazione è del tutto ovvia, visto che nell'ordinamento

sono previste le condizioni di procedibilità e nessuno ha mai

ritenuto che esse contrastino con il principio di obbligatorietà. «L'ordinanza di rinvio ha fatto gran caso — prosegue la cor

te — della qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria che l'art. 8 d.p.r. 19 marzo 1955 n. 520, attribuisce all'ispettore del lavo

ro, traendone la conseguenza che la norma impugnata ricono

sce, cosi, a un organo posto dalla legge alle dipendenze del p.m.

(art. 220 c.p.p.) poteri più ampi di quelli assegnati all'organo

superiore. Senonché, l'ispettore del lavoro non è soltanto un

ufficiale di polizia giudiziaria». Esso, in primo luogo, è «un

organo di vigilanza sull'esecuzione della legislazione sociale».

Anche questa affermazione è del tutto ovvia. L'ispettorato del

lavoro — precisa ancora la corte — svolge fondamentalmente

«attività... che si svolgono nell'ambito amministrativo con am

pi poteri discrezionali». È nell'ambito amministrativo che va

inquadrata, quindi, la facoltà di cui all'art. 9, finalizzata alla

eliminazione immediata o entro breve termine del danno o del

pericolo di danno». Affermazione anche questa da condividere

completamente. «Tutto ciò comporta valutazioni di opportunità... rimesse agli

organi amministrativi», inerenti all'attività degli organi ammi

nistrativi. Valutazioni, comunque, non prive di limiti soggettivi ed oggettivi (sono le proposizioni riprese dalla Corte di cassa

zione nella sentenza in esame). L'ispettorato del lavoro è inseri

to, infatti, «in un ordinamento gerarchico, costituendo esso un

ufficio periferico del ministero del lavoro e della previdenza so

ciale, soggetto ad istruzioni e direttive». I limiti oggettivi «si

ricavano dalla... natura delle cose»: la regolarizzazione, ovvia

mente, non può essere ordinata in casi in cui il comportamento del destinatario sia commissivo e non omissivo.

Secondo la Corte costituzionale «quando opera in questo cam

po l'ispettore del lavoro non è un organo di polizia giudizia

ria», ma un organo amministrativo privo di tale qualifica. Vi

è qui un aspetto di dissenso alla consolidata giurisprudenza del

la Corte di cassazione, dissenso che però non è rilevante al fine

di decidere in punto di esistenza o meno della pretesa condizio

ne di procedibilità. 10. - Considerazioni conclusive. Un aspetto è da rimarcare:

argomentando nel senso detto, la Corte costituzionale sgancia al massimo e del tutto la funzione dell'ispettore del lavoro —

al momento dell'esercizio della facoltà di cui si discute — dalla

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PARTE SECONDA

funzione di giustizia; ma ciò vale precisamente come dire che

l'attività dell'organo indicato, «a maggior ragione» non può es

sere vista come condizione di procedibilità. Investita del problema della legittimità costituzionale dell'art.

8 d.p.r. in discussione (secondo l'art. 8 gli ispettori del lavoro

hanno facoltà di visitare in ogni parte, a qualunque ora del

giorno ed anche della notte, i laboratori, gli opifici, ecc.) con

sentenza 10/71 (id., 1971, I, 545), la Corte costituzionale ha

ribadito che non si pone alcun problema di costituzionalità vi

sto che si verte in materia amministrativa.

Un altro aspetto è ancora da rimarcare: nelle due sentenze

richiamate la Corte costituzionale opera in funzione di manteni

mento del controllo dell'organo amministrativo sulle condizioni

del lavoro, a tutela e a salvaguardia dello Stato sociale, e cioè

svolge la stessa funzione svolta dalle norme incriminatrici ri

chiamate, sicché è poco concludente — a parere di questa corte — invocare la sentenza 105/67 al fine di paralizzare il vigore delle norme penali in prevenzione di infortuni.

La tutela di cui all'art. 9 d.p.r. non sostituisce ma si somma

a quella offerta dalle norme penali. Questa è la piana interpre tazione delle norme di legge.

Dell'altro può e deve essere aggiunto: nella misura in cui si

mette l'accento sul fatto che gli ispettori del lavoro (ed i dipen denti Usi) sono inquadrati gerarchicamente nella pubblica am

ministrazione (lo fanno sia la Corte costituzionale, sia la sen

tenza della Corte di cassazione in esame) con ciò stesso si mo

stra la insussistenza della condizione di procedibilità che non

può essere affidata — salvo espressa e chiara dizione di legge — al potere esecutivo; proprio perché l'esercizio dell'azione pe

nale, in via di generale principio, non può e non deve dipendere dalla discrezionalità del potere esecutivo. L'art. 112 Cost, ha

questo preciso significato. L'importanza, il peso ed il valore

del principio di obbligatorietà è sottolineato nella recente sen

tenza 88/91 (id., 1992, I, 1004) della Corte costituzionale.

Le deroghe, si ripete, conclusivamente, devono risultare in

modo chiaro ed espresso; anche il dubbio circa l'esistenza del

l'istituto alla luce dell'art. 112 Cost, si risolve e deve risolversi

nel senso del diniego della pretesa condizione di procedibilità.

II

Motivi della decisione. — Il ricorso è fondato.

L'art. 9 d.p.r. 19 marzo 1955 n. 520 cosi recita: «in caso

di constata inosservanza delle norme di legge, la cui applicazio ne è affidata alla vigilanza dell'ispettorato del lavoro, questo ha la facoltà, ove lo ritenga opportuno, valutate le circostanze

del caso, di diffidare con apposita prescrizione il datore di lavo

ro, fissando un termine per la regolarizzazione». Il problema che va qui esaminato è il valore e gli effetti da

attribuire al menzionato potere di diffida. Con due precedenti decisioni questa corte ha ritenuto che la facoltà suddetta non

costituisce una condizione di procedibilità (Cass., sez. Ili, 18

gennaio 1965, Ponzi; 27 giugno 1986, Ciori, Foro it., Rep. 1987, voce Lavoro (rapporto), n. 2034). V'è pero da rilevare che la

Corte costituzionale con la decisione n. 105 del 12 luglio 1967

(id., 1967, I, 2493) ha ritenuto che la facoltà menzionata non

è in contrasto con gli art. 3 e 112 Cost., poiché si muove, ri

spetto all'obbligo di esercitare l'azione penale, in campo diver

so, in quanto la riaffermazione dell'obbligatorietà non esclude

che... l'ordinamento stabilisca determinate condizioni per il pro movimento e la prosecuzione dell'azione penale anche in consi

derazione degli interessi pubblici perseguiti dalla pubblica am

ministrazione».

L'attività svolta in subiecta materia dall'ispettorato del lavo

ro ha una duplice valenza da un lato di polizia giudiziaria e

dall'altro di polizia amministrativa.

L'ispettorato è, in virtù dell'art. 4 1. 22 luglio 1961 n. 628, un organo di vigilanza sull'esecuzione della legislazione sociale

e la sua prevalente attività si espleta particolarmente nel settore

amministrativo con l'esercizio di vasta discrezionalità, che com

prende la emanazione di disposizioni e di diffide.

Si tratta di una discrezionalità non priva di limiti, sia sogget tivi che oggettivi.

I primi sono rappresentati dai controlli gerarchici esistenti nella

pubblica amministrazione e che danno luogo ad una valutazio

ne della rispondenza dell'operato agli interessi generali. Tale af

1l Foro Italiano — 1992.

fermazione trova riscontro nella stessa terminologia legislativa, che fa riferimento alla opportunità ed all'apprezzamento delle

situazioni concrete («ove lo ritenga opportuno» e «valutate le

circostanze del caso»). Vi sono poi limiti oggettivi, derivanti dalla disciplina interna

che la pubblica amministrazione detta attraverso regolamenti,

circolari, ordini di servizio. Questa autolimitazione è l'indispen sabile corollario del principio costituzionale secondo il quale «i

pubblici uffici sono organizzati... in modo che siano assicurati

il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione» stessa.

Questo sistema non è stato mutato radicalmente a seguito

del trasferimento — alle unità sanitarie locali — delle funzioni, che competevano esclusivamente agli ispettori. Si è trattato di

una estensione della legittimazione effettuata dall'art. 21 1. 23

dicembre 1978 n. 833, che cosi recita: «...all'unità sanitaria lo

cale sono attribuiti... i compiti attualmente svolti dall'ispettora to del lavoro in materia di prevenzione, di igiene e di controllo

sullo stato di salute dei lavoratori... Al personale... è esteso

il potere d'accesso attribuito agli ispettori del lavoro... nonché

la facoltà di diffida prevista dall'art. 9 d.p.r. 19 marzo 1955

n. 520».

La facoltà di diffida è, quindi, espressione del potere discre

zionale della pubblica amministrazione diretto a conseguire in

un campo tanto delicato finalità molto più rilevanti della sem

plice applicazione della pena. Attraverso il meccanismo de quo il legislatore ha voluto conferire agli organi amministrativi com

petenti non un mero compito sollecitatorio privo di concrete

conseguenze in caso di specifica inottemperanza, ma una fun

zione molto più ampia e di effettivo stimolo proprio nell'inte

resse dei lavoratori, ai quali più che l'applicazione di una mo

desta sanzione giova la eliminazione della situazione antigiuridi

ca, spesso fonte di pericolo. La diffida — cosi inquadrata — assolve a scopi di prevenzio

ne e serve ad impedire il protrarsi della violazione.

Essa quindi costituisce condizione per il promovimento e la

prosecuzione dell'azione penale. La diffida cioè rappresenta un ostacolo al proscioglimento

dell'azione stessa, nel senso che il diritto punitivo dello Stato

rimane sospeso fino alla scadenza del termine e riprende il suo

normale decorso nel caso di inosservanza della medesima.

Trattasi cioè di una condizione di validità del processo, poi ché il pubblico ministero deve astenersi dall'agire durante la

pendenza del termine e nel caso di ottemperanza della diffida

nei suddetti limiti temporali il giudice deve, in ogni istante, pro nunciare una absolutìo ab observatione iudicii.

Questo istituto dai contorni non dettagliati trova varia collo

cazione nella vigente legislazione ed è desumibile per via inter

pretativa, attraverso una attenta lettura delle scelte politiche, che in taluni casi mirano a privilegiare interessi di diversa natu

ra rispetto alla celebrazione del processo e alla conseguente ap

plicazione della pena, ritenuta evidentemente meno vantaggio sa. In queste limitate previsioni il legislatore ha compiuto una

valutazione degli opposti interessi e, nel bilanciamento, ha con

siderato prevalente l'interesse ad ottenere il rispetto della legali tà attraverso la strada tollerante dell'invito a regolarizzare, al

termine della quale v'è pur sempre, dopo la minaccia della san

zione che si accompagna al decorso del tempo, l'irrogazione della stessa in caso di constatata inosservanza.

Né v'è da meravigliarsi se l'applicazione della pena dipende dalla volontà dell'agente, poiché anche in altre ipotesi l'ordina

mento affida alla volontà del soggetto passivo (querela, istanza, richiesta: art. 9, 10, 120, 313, ecc.) l'iniziativa dell'azione penale.

Altra possibile obiezione deriva dal contrasto che esisterebbe

tra la norma de qua e l'art. 3 Cost., in quanto la facoltà di

diffida sarebbe operante soltanto nei casi in cui agiscono i fun

zionari delle Usi o gli ispettori del lavoro e non negli altri casi

ed inoltre soltanto quando essi lo ritengono opportuno. A tali osservazioni ha già risposto la Corte costituzionale:

sotto il primo profilo non v'è disparità, perché la facoltà è eser

citarle nei confronti di tutti coloro che si trovino nelle stesse

situazioni di controllo; sotto l'altro aspetto l'inconveniente che

si può verificare in concreto non fa venire meno l'astratta equi

parazione — di fronte alla legge — di tutti i cittadini. Per elimi

nare queste possibili incongruenze dovrebbero essere rimosse dal

l'ordinamento tutte quelle norme che conferiscono discrezionalità.

Appare doverosa a questo punto una precisazione.

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Page 7: PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione III penale; sentenza 27 febbraio 1992; Pres. Gambino, Est. Accattatis, P.M. Carlucci (concl. conf.); ric. Bergamini e altri. Conferma

GIURISPRUDENZA PENALE

L'attività ispettiva e di vigilanza nel settore del lavoro deve

continuare ad essere svolta dagli organi di cui sopra si è detto

e nel rispetto della legislazione antecedente e del nuovo codice, come si desume dal testo dell'art. 220 disp. att.

Gli ispettori ed i funzionari Usi — anche alla luce della legge — sono da considerare pubblici ufficiali. Essi quindi nel mo

mento in cui hanno notizie di un reato devono fare denuncia

scritta senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di

polizia giudiziaria (art. 331 c.p.p.). La sospensione dell'azione

penale per il tempo previsto dalla diffida non incide minima

mente su tale obbligo. Scaduto questo termine il pubblico mini

stero deve infatti verificare se l'agente si è adeguato ai precetti a lui imposti ed in caso di inosservanza dar corso al procedi mento penale. Nella specie, il giudice del merito non si è attenu

to ai principi innanzi evidenziati. Avrebbe dovuto verificare il

rispetto della diffida. Ma invece fermato il suo accertamento

al momento antecedente della iniziale denunzia. È pertanto in

dispensabile rinnovare all'uopo il giudizio.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 8 no

vembre 1991; Pres. Battimelli, Est. Morgigni, P.M. (conci,

diff.); ric. Faticanti. Conferma Pret. Roma 12 aprile 1991.

Pena (applicazione su richiesta) — Consenso — Revoca — Esclu

sione (Cod. proc. pen., art. 446, 447). Pena (applicazione su richiesta) — Reati edilizi — Patteggia

mento — Demolizione — Inderogabilità (Cod. proc. pen., art. 444, 445; 1. 28 febbraio 1985 n. 47, norme in materia

di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupe ro e sanatoria delle opere edilizie, art. 7).

Nel procedimento di applicazione della pena su richiesta, il rag

giungimento dell'accordo vincola irrevocabilmente entrambe

le parti, sicché, la revoca unilaterale o bilaterale del consenso

prestato è priva di ogni efficacia. (1)

(1) I. - Nello stesso senso, v. Cass. 27 aprile 1991, Canzio, Foro

it., 1992, II, 158, con nota di richiami. Contra, Cass. 24 giugno 1991,

Grossi, Arch, nuova proc. pen., 1991, 732. Tra i giudici di merito, aderiscono alla tesi prospettata nella sentenza in epigrafe, Giud. ind.

prel. Pret. Reggio Emilia 1° luglio 1991, id., 1992, 100; Giud. ind.

prel. Pret. Roma 16 aprile 1991, Critica del diritto 1991, fase. 6, 40;

contra, Giud. ind. prel. Pret. Forlì 24 maggio 1990, Foro it., Rep. 1990, voce Pena (applicazione su richiesta), n. 78. Peraltro, secondo Cass.

6 luglio 1990, Filoni e 20 marzo 1991, Lanciotti, Arch, nuova proc. pen., 1992, 70, la richiesta di applicazione della pena non può essere

subordinata ad alcuna condizione diversa dall'unica prevista — per il

solo imputato — dall'art. 444, 3° comma, c.p.p. In particolare, per la seconda delle citate pronunce, il patteggiamento

è un negozio giuridico di natura processuale, caratterizzato da un in

contro di volontà, attuativo dello specifico interesse dello Stato alla

speditezza processuale; perciò, le dichiarazioni delle parti possono esse

re subordinate solo alle condizioni espressamente previste dalla legge, dovendosi ritenere tamquam non esset la condizione non consentita.

Rispetto a dette argomentazioni (tutte «interne» al sistema del nuovo

c.p.p.), la sentenza in epigrafe prospetta, invece, due affinità con la

disciplina contrattualistica ex art. 1321 ss. c.c. Sicché, viene evidenziato

che l'art. 447, 3° comma, c.p.p. prevederebbe un'ipotesi di proposta

irrevocabile, al pari dell'art. 1329 c.c. (in proposito, v. Chiliberti e

Roberti, Manuale pratico dei procedimenti penali, Milano, 1990, 250

ss.) e sarebbe «in linea» con l'art. 1354, 1° comma, c.c.

Orbene, al di là della necessaria cautela nella individuazione di paral lelismi tra la normativa civilistica e quella processualpenalistica in con

siderazione dell'indisponibilità dell'oggetto del procedimento penale (v.

Conso, Accadeva un anno fa, in Giust. pen., 1990, III, 481, spec. 485), non appare del tutto pertinente il riferimento all'art. 1354, 1° comma,

c.c., che statuisce la radicale nullità del contratto, cui sia stata apposta una condizione contraria a norme imperative. Invero, se detto principio

giuridico fosse vigente anche nell'ambito processualpenalistico, il giudi ce dovrebbe ritenere integralmente nullo il patteggiamento caratterizza

li. Foro Italiano — 1992.

L'ordine giudiziale di demolizione delle costruzioni abusive va

adottato anche in caso di pena applicata su richiesta delle

parti, costituendo un provvedimento dovuto e conseguenziale alla decisione di condanna e, come tale, indisponibile dalle

parti (anche) in sede di patteggiamento. (2)

Il 27 febbraio 1991 Faticanti Luca, persona sottoposta ad in

dagini in ordine ai reati di cui all'art. 20 1. 28 febbraio 1985 n. 47 ed art. 1, 2, 4, 13 e 14 1. n. 1086 del 1971, ed il procurato re della repubblica presso la Pretura circondariale di Roma chie

devano congiuntamente che il g.u.p. applicasse ad esso Fatican

ti la pena di un mese e dieci giorni di arresto e lire otto milioni

di ammenda, con il beneficio della sospensione condizionale della

pena. Il 4-5 marzo 1991 il Faticanti rivolgeva istanza di disseque

stro dello stabile. L'11 marzo 1991 il pubblico ministero rigetta va l'istanza.

to da una condizione «atipica» [ed illegittima] rispetto all'unica espres samente ammessa (a favore dell'imputato) ex art. 444, 3° comma, c.p.p.: il che non accade, operando, anzi, la regola contraria (utile per inutile non vitiatur), stando almeno a Cass. 20 marzo 1991, Lanciotti, cit.

(come già evidenziato). II. - In dottrina, oltre ai riferimenti contenuti nella nota redazionale

a Cass. 27 aprile 1991, cit., cfr., conformemente alla sentenza in epi

grafe, Chiliberti e Roberti, op. cit.; Santangelo, Patteggiamento: il pentimento è abnorme?, in Critica del diritto, 1990, fase. 4, 75 ss.; Giustozzi, in AA. VV., Manuale pratico del nuovo processo penale, Padova, 1991, 593; Cordero, Procedura penale, Milano, 1991, 593; contra, Aricò, Applicazione della pena su richiesta delle parti, in AA.

VV., / procedimenti speciali a cura di Dalia, Napoli, 1989, 108 ss.

(2) I. - La pronuncia si conforma ad un consolidato orientamento

di legittimità; nello stesso senso, Cass. 26 novembre 1990, Fozzi, Riv.

pen., 1991, 949; 7 dicembre 1990, Gruosso, Cass. pen., 1991, 2026; 7 gennaio 1991, De Martino e 4 dicembre 1990, Coppola, Giur. it.,

1991, II, 486, con nota di De Roberto; 4 febbraio 1991, Esposito, Arch, nuova proc. pen., 1991, 438; 29 aprile 1991, Cifaratti, 17 maggio 1991, Albanese e 30 aprile 1991, Di Leo, ibid., 782.

È rimasta cosi isolata la posizione di Cass. 9 ottobre 1990, Accanci

rioco, ibid., 277 (criticata dalla sentenza in epigrafe), secondo cui l'ac

cordo ex art. 444 c.p.p. dovrebbe comprendere esplicitamente tutti gli effetti, penali e non, della sentenza; sicché, in assenza dell'espresso con

senso dell'imputato (anche) all'ordine di demolizione de quo, il pretore dovrebbe dare atto del dissenso tra le parti.

II. - La tesi patrocinata nel provvedimento in epigrafe era già stata

recepita da Pret. Catania-Giarre 3 dicembre 1990, Foro it., 1991, II,

307, con nota di Giorgio. In senso contrario, Pret. Caltanissetta-Gela

19 ottobre 1990, Riv. giur. urbanistica, 1991, 87. III. - In dottrina, criticamente rispetto all'evidenziato prevalente filo

ne giurisprudenziale di legittimità, v. Marinari, Patteggiamento e de

molizione: automatismo apparente?, in Cass. pen., 1991, 2027 ss., che, tra l'altro, conferma le perplessità già espresse da Giorgio sub V nella

nota cit. a Pret. Catania-Giarre 3 dicembre 1990. V., inoltre, Aldro

vandi, Natura giuridica dell'ordine di demolizione (...) ed applicazione della pena su richiesta delle parti, in Riv. giur. urbanistica, 1991, 91 ss.

IV. - La natura di sanzione amministrativa dell'ordine ex art. 7, ulti

mo comma, 1. 47/85 è stata ulteriormente ribadita da Cass. 30 gennaio

1991, Radio, Riv. pen., 1992, 77. In dottrina, cfr., approfonditamente, Novarese, Sulla natura giuridica della demolizione della costruzione abusiva ordinata dal giudice se non altrimenti eseguita, in Riv. giur. edilizia, 1990, II, 197 ss.

V. - In ultimo va segnalato che, secondo Cass. 7 gennaio 1991, Ven

tura, Giur. it., 1991, II, 488, (anche) l'ordine di reintegra ex art. 1

sexies 1. 8 agosto 1985 n. 431, costituendo una sanzione amministrativa

irrogabile dal giudice (penale), va adottato con la sentenza ex art. 444

c.p.p. [G. Giorgio]

* * *

L'opportunità di conoscere l'intera produzione giurisprudenziale sul

nuovo codice di rito, nell'impossibilità di pubblicare una quantità or

mai cospicua e sempre crescente di provvedimenti, suggerisce di proce dere a brevi rassegne o schede di giurisprudenza, incentrate di volta

in volta su istituti o profili tematici specifici.

Schede su Corte di cassazione e codice di procedura penale: il proble ma della revocabilità della richiesta di patteggiamento, [a cura di R.

Guariniello]

È proprio vero che — sul problema relativo alla revocabilità, o no, della richiesta o del consenso in materia di patteggiamento — la Corte

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