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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione IV penale; sentenza 12 marzo 1987; Pres. Sebastio,...

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Page 1: PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione IV penale; sentenza 12 marzo 1987; Pres. Sebastio, Est. Bianchi, P. M. Manzillo (concl. parz. diff.); ric. De Sanctis. Annulla Trib.

sezione IV penale; sentenza 12 marzo 1987; Pres. Sebastio, Est. Bianchi, P. M. Manzillo (concl.parz. diff.); ric. De Sanctis. Annulla Trib. Bologna 14 aprile 1986Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1988), pp.15/16-19/20Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23179625 .

Accessed: 24/06/2014 23:21

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PARTE SECONDA

A parere di questo giudice, invece, la possibilità di controllare

questa fase intermedia sussiste nei limiti in cui le fasi di deposito, cernita ed ammasso temporaneo di sostanze non destinate all'ab

bandono determinino (il che può benissimo verificarsi) ulteriori

dannosi e pericolosi scarti e residui che non vengono rivenduti

ma o vengono smaltiti presso imprese terze o rimangono sul po sto. Ma ciò, evidentemente, è un problema di accertamento con

creto che trova i suoi principali indizi nell'ampiezza del deposito e nel tempo per il quale le sostanze rimangono ammassate in at

tesa della vendita. In questi casi, ove si dimostri che l'azienda

di fatto, accanto ad una mera attività di commercializzazione,

effettua anche una discarica di scarti residui è questa attività che

andrà regolamentata ed autorizzata con la conseguente applica zione dell'art. 25, 2° e 3° comma, nelle ipotesi di abusivismo.

Sulla base di queste premesse discende che l'attività del Colom

bini, in quanto priva di una diretta destinazione all'abbandono

dei materiali di scarto raccolti per essere rivenduti, può essere

svolta senza l'autorizzazione di cui al d.p.r. 915/82.

Le risultanze processuali in atti escludono, inoltre, che l'impu tato effettuasse alcuna ulteriore attività di smaltimento di sostan

ze derivanti dalla cernita del materiale, cosi come è emerso che

il tempo per il quale i materiali rimanevano depositati nell'area

di proprietà dell'imputato era estremamente ridotto.

Da ultimo si rileva che l'eventuale obiezione, secondo cui se

i materiali cambiano l'area, invece, rimane perennemente adibita

allo stesso scopo, potrà rilevare sempre e solo nei limiti in cui

si accerti la presenza di residui che attribuiscano alla suddetta

area ed attività i connotati di discarica. (Omissis)

[

CORTE DI CASSAZIONE; sezione IV penale; sentenza 12 mar

zo 1987; Pres. Sebastio, Est. Bianchi, P. M. Manzillo (conci,

parz. diff.); ric. De Sanctis. Annulla Trib. Bologna 14 aprile 1986.

Omicidio e lesioni personali colpose — Lesioni personali colpose

provocate da lavorazioni rumorose — Danno uditivo — Ag

gravamento — Valutazione (Cod. pen., art. 583, 590). Omicidio e lesioni personali colpose — Lesioni conseguenti alla

violazione delle norme relative all'igiene del lavoro o determi

nanti una malattia professionale — Aggravante della violazio

ne delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro — Inapplicabilità (Cod. pen., art. 590).

In caso di ipoacusia provocata da lavorazioni rumorose, sussiste

il reato di lesioni personali colpose, se in conseguenza della

esposizione a rumore il lavoratore subisca un aggravamento an

che modico del danno uditivo. (1) Nel reato di lesioni personali colpose commesse con violazione

delle norme relative all'igiene del lavoro o determinanti una

malattia professionale, non è applicabile l'aggravante prevista dall'art. 590, 3° comma, c.p. con esclusivo riguardo alle lesioni

commesse con violazione delle norme per la prevenzione degli

infortuni sul lavoro. (2)

(1-3) Mai come in questi anni ottanta si sta finalmente sviluppando la giurisprudenza penale in tema di malattie professionali. Questa è la

volta di due pronunce riguardanti casi di ipoacusia da rumore. La senten za in causa De Sanctis — depositata il 22 settembre 1987 — non si limita a ribadire che, in caso di malattia professionale, per individuare il mo mento consumativo del reato di lesione personale colposa, non basta ac certare se e quando il lavoratore abbia subito una malattia, ma occorre verificare se e quando una eventuale, ulteriore, condotta colposa del da tore di lavoro abbia determinato un aggravamento della malattia (cosi, da ultimo, Cass. 9 dicembre 1985, Bazzi, Foro it., 1986, II, 592). Si preoc cupa, infatti, di precisare che un tale aggravamento può essere «anche modestissimo» (per ragguagli sul tema, v. la nota di richiami a Pret. Torino 9 giugno 1984, ibid., 375). Inoltre, per la prima volta, nega l'ap plicabilità della circostanza aggravante prevista dall'art. 590, 3° comma,

c.p. in ipotesi di malattie professionali, in tal guisa ribaltando il proprio precedente, e costante, orientamento (al riguardo, v., in senso conforme alla posizione adesso adottata dal Supremo collegio, e per riferimenti alla

precedente giurisprudenza, Guariniello, Malattie da lavoro e processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1981, 584).

Il Foro Italiano — 1988.

II

CORTE DI CASSAZIONE; sezione IV penale; sentenza 10 mar

zo 1987; Pres. Battimelli, Est. Suriano, P. M. Cucco (conci,

conf.); ric. Tomi. Conferma Trib. Latina 8 luglio 1985.

Omicidio e lesioni personali colpose — Lesioni personali colpose

provocate da lavorazioni rumorose — Obbligo del datore di

lavoro di esigere l'uso dei mezzi di protezione contro il rumore

— Lavoratori riottosi — Mancato ricorso a provvedimenti di

sciplinari — Conseguenze (Cod. pen., art. 590; d.p.r. 19 marzo

1956 n. 303, norme generali per l'igiene del lavoro, art. 4, 24).

In caso di ipoacusie cagionate da lavorazioni rumorose, il datore

di lavoro commette il reato di lesioni personali colpose in dan

no degli operai colpiti da sordità, qualora non esiga l'uso dei

mezzi tecnici e personali di protezione contro il rumore da par

te dei lavoratori, e, in particolare, ometta di adottare nei con

fronti dei lavoratori riottosi i provvedimenti eventualmente

necessari. (3)

I

Ritenuto in fatto ed in diritto. — Per avere, quale direttore

tecnico della ditta «Farmac Zabban» di Calderara di Reno, ca

gionato ai dipendenti Musacci Graziella, Montagnini Bruna, Gui

dicini Franco, Olivieri Angela e Montefiori Luigi una ipoacusia,

con indebolimento permanente dell'organo acustico, avendoli fatti

lavorare nel reparto telai e comunque in ambienti rumorosi senza

aver adottato idonei accorgimenti atti a diminuire l'intensità del

rumore od a proteggere individualmente gli operai addetti, De

Sanctis Bruno veniva ritenuto colpevole dal Pretore di Bologna

del reato di cui agli art. 590 e 583, n. 2, c.p., nonché delle con

travvenzioni di cui all'art. 24 d.p.r. n. 303 del 1956 e condannato

alla pena di mesi sei di reclusione e di lire 800.000 di ammenda.

Su appello dell'imputato il Tribunale di Bologna con sentenza

del 14 aprile 1986, dichiarate le già concesse attenuanti generiche

equivalenti alla aggravante contestata e riconosciuta la continua

zione fra i reati, determinava la pena in lire 1.400.000 di multa.

Ha proposto ricorso per cassazione il prevenuto, con quattro

mezzi di annullamento.

Con il primo di essi si lamenta la violazione dell'art. 314 c.p.p.,

nonché la contraddittorietà della motivazione, per non avere i

giudici di merito disposto a richiesta perizia tecnica volta ad ac

certare il livello di rumorosità esistente nel reparto telai dell'a

zienda.

La doglianza non è fondata, perché l'apprezzamento del giudi

ce di merito sull'opportunità di procedere o meno a perizia tecni

ca (che è un mezzo di prova essenzialmente discrezionale)

costituisce giudizio di fatto insindacabile in questa sede e perchè il tribunale ha motivatamente escluso la necessità di ricorrere ad

una perizia, osservando che «gli accertamenti compiuti dalla Usi

27 e pervenuti in ogni caso al De Sanctis, nei cui confronti veni

vano sollevati addebiti di colpevolezza per la situazione nega

Non meno significativa appare la sentenza in causa Tomi, depositata il 19 giugno 1987. Da sempre, è vero, la Cassazione insegna che il datore

di lavoro è tenuto a vigilare sull'uso effettivo dei mezzi di prevenzione da parte dei lavoratori, allo scopo avvalendosi di «un sufficiente numero

di dirigenti e preposti» (cosi, di recente, Cass. 5 marzo 1987, Bottene,

inedita), e che siffatta vigilanza riveste carattere impositivo, e non mera

mente dispositivo (cosi, ad es., Cass. 12 marzo 1982, Frigerio, Foro it.,

Rep. 1984, voce Infortuni sul lavoro, n. 269, giunge a puntualizzare che, se i lavoratori rifiutino l'uso del mezzo protettivo, il datore di lavoro

è tenuto a «non farli lavorare in posti pericolosi»). Ma ora la Suprema corte approfondisce il tema con specifico riguardo ai mezzi di protezione contro il rumore (cabine protettive, protettori auricolari), e svolge alcuni

chiarimenti destinati a sollevare particolare interesse nel mondo industria

le. In particolare, la Cassazione sottolinea l'esigenza di «rendere effettiva

e non soltanto teorica e velleitaria l'attività di controllo»; e, con accenti

inediti, giunge a ritenere che siffatta attività di controllo comporta «l'im

piego di tutta l'autorità di cui (il datore di lavoro) sia investito», e, quin

di, anche l'esercizio «del potere di provvedere a carico dei lavoratori riottosi, se necessario, all'adozione di mezzi coercitivi e sanzioni disciplinari».

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GIURISPRUDENZA PENALE

tiva riscontrata in fabbrica, non erano stati all'epoca contestati

dall'interessato, il quale non aveva offerto all'organo di preven zione dati tecnici di riscontro diversi» e sottolineando «l'inutilità

dell'incombente in ordine alla conclamata mutazione medio tem

pore delle strutture aziendali in relazione alla proseguita opera di sostituzione dei macchinari».

Parzialmente fondato è il secondo motivo, col quale si deduce

la mancanza e la contraddittorietà della motivazione, nonché il

travisamento del fatto in ordine al ritenuto aggravamento della

ipoacusia nei lavoratori Musacci, Montagnini, Guidicini, Olivieri

e Montefiori.

Al riguardo si osserva che la sentenza impugnata ha disatteso

le contestazioni mosse alle compiute indagini medico-legali, sul

riflesso che le stesse risultavano generiche in rapporto ai riscontri

tecnici esposti dal pretore «con tale dovizia di particolari e di

riferimenti co^mparativi

da rendere superflua ogni ulteriore disa

mina sul punto». Ma tale motivazione, se appare adeguata e corretta per quanto

riguarda il Guidicini, l'Olivieri ed il Montefiori, certamente non

lo è rispetto agli altri due lavoratori, avendo i giudici di appello omesso di prendere in considerazione le conclusioni cui era per venuto il perito d'ufficio dott. Baravelli, il quale, nel riferire che

la Musacci e la Montagnini «presentavano lesioni catarrali croni

che degenerative dell'orecchio medio con compromissione dell'o

recchio interno (sordità di tipo misto)», aveva espresso l'avviso

che «la tecnopatia, in questi due casi, se esisteva, poteva essere

mascherata dalla lesione infiammatoria e non poteva quindi esse

re valutata».

Sussiste perciò il denunziato vizio di motivazione e conseguen

temente, sul punto, l'impugnata sentenza va annullata con rinvio

perché, attraverso un riesame della situazione probatoria, si per

venga ad un giudizio di certezza in ordine alla sussistenza del

nesso eziologico tra il comportamento colposo del prevenuto e

le malattie contratte dalla Musacci e dalla Montagnini. Non merita invece accoglimento il terzo motivo, col quale si

eccepisce l'erronea applicazione dell'art. 24 d.p.r. 19 marzo 1956

n. 303 in relazione all'art. 590, 3° comma, c.p. I giudici di merito hanno infatti accertato che il De Sanctis

— sebbene «propulsore di un'opera di bonifica dell'ambiente di

lavoro mediante la progressiva sostituzione, dal 1973 al 1982, di

telai a navetta con altri ad aria compressa meno rumorosi» —

aveva continuato a mantenere attivi reparti (attrezzati con 71 re

sidui telai a navetta e 108 telai pneumatici) pervasi da un livello

di rumorosità superiore ai limiti massimi (85-90 dB) generalmente riconosciuti come soglia critica della tollerabilità, cosi determi

nando un apprezzabile aggravamento (precipuamente nel periodo

1979-84) dello stato di ipoacusia già sofferto da alcuni dipendenti addetti a tali reparti.

È quindi innegabile che il prevenuto, nella sua qualità di diret

tore tecnico della «Farmac Zabban», ha violato la norma di cui

all'art. 24 citato (per la quale «nelle lavorazioni che producono

scuotimenti, vibrazioni o rumori dannosi ai lavoratori devono adot

tarsi i provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuire l'in

tensità»), essendo comunque privi di rilevanza «il ridottissimo

numero di lavoratori interessati dagli aggravamenti ed il mode

stissimo aggravamento in essi riscontrato».

Fondato è il quarto ed ultimo motivo, col quale si sostiene

che l'aggravante di cui al 3° comma dell'art. 590 c.p. è nella

specie inapplicabile. Nell'affermare la sussistenza di tale aggravante, il tribunale,

per la verità, si è attenuto ad un consolidato orientamento giuris

prudenziale, secondo cui, in tema di reato colposo, per norme

sulla disciplina per la prevenzione degli infortuni sul lavoro van

no intese non solo quelle previste specificamente nella legge, ma

anche tutte le altre che perseguono il fine di evitare incidenti sul

lavoro o malattie professionali in relazione all'ambiente in cui

esso deve svolgersi. Senonché l'art. 92 1. 24 novembre 1981 n. 689, recante modifi

che al sistema penale, ha sostituito l'ultimo comma dell'art. 590

c.p. con il seguente: «Il delitto è punibile a querela della persona

offesa, salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso, li

mitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la

prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del la

voro o che abbiano determinato una malattia professionale».

Ora, avuto riguardo alla distinzione operata dalla legge, ai fini

della perseguibilità d'ufficio del reato, tra lesioni colpose com

messe con violazione delle norme antifortunistiche e quelle com

ix. Foro Italiano — 1988.

messe con violazione delle norme relative all'igiene del lavoro o

determinanti una malattia professionale e considerato altresì' che

al testo del 3° comma dell'art. 590 c.p. non è stata apportata

un'analoga modifica, reputa il collegio che non sia più consentito

applicare, mediante una interpretazione estensiva, l'aggravante di

che trattasi alle due ultime ipotesi sopra indicate.

Dovendosi quindi escludere la sussistenza, nel caso in esame, della ripetuta aggravante, la sentenza impugnata va annullata per violazione di legge con rinvio ad altra sezione del Tribunale di

Bologna, che si atterrà al principio sopra enunciato.

II

Fatto. — Tratto a giudizio dal Pretore di Latina, a seguito del rapporto giudiziario in data 9 maggio 1980 dell'ispettorato del lavoro di Latina, che ipotizzava che alcuni casi di ipoacusia verificatisi in danno di alcuni lavoratori nell'ambito dello stabili

mento delle Fonderie e smalterie genovesi s.p.a. di Latina, erano

da attribuirsi all'alta rumorosità dell'ambiente di lavoro, Tomi

Aldo, direttore dello stabilimento, con sentenza in data 20 gen naio 1983, veniva riconosciuto colpevole del reato di lesioni col

pose gravi ed aggravate dalla violazione delle norme relative

all'igiene del lavoro, per non aver adottato i provvedimenti con

sigliati dalla tecnica per diminuire scuotimenti, vibrazioni e ru

mori dannosi ai lavoratori, e condannato alla pena di lire 200.000

di multa, oltre al risarcimento dei danni in favore delle parti civi

li costituite.

Più specificamente il pretore ravvisava la responsabilità del

l'imputato non per il fatto che il Tomi non avesse dotato lo sta

bilimento di strumenti di difesa parsonale per evitare le conseguenze dannose dei rumori e delle vibrazioni previsti dall'art. 24 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303 (tali strumenti anche se con ritardo erano

stati adottati), ma per il fatto che l'imputato, quale direttore del

lo stabilimento, non aveva imposto ai dipendenti l'uso delle cuf

fie e delle cabine protettive, con violazione dell'art. 4 stesso decreto

presidenziale. (Omissis) Motivi della decisione. — (Omissis). Ulteriore censura, sotto

il profilo della sussistenza, nella fattispecie, di un evidente vizio

logico-giuridico, ha mosso la difesa alla sentenza impugnata nella

parte in cui il giudice di appello ha ritenuto che la responsabilità del prevenuto deve individuarsi nella circostanza secondo cui il

medesimo non ha realmente imposto ai propri dipendenti l'uso

dei mezzi di protezione. In proposito, sostiene in primo luogo il deducente che prima

ancora di decidere se l'imputato avesse o meno disposto ed impo sto l'uso dei mezzi protettivi, sarebbe stato necessario accertare

se tali specifici mezzi fossero o meno coincidenti con quelli con

cretamente ritenuti più idonei a diminuire l'intensità dei rumori

secondo le indicazioni della tecnica.

Ma è lo stesso ricorrente ad ammettere — e le sentenze lo han

no riconosciuto — che l'azienda aveva adottato i mezzi protettivi

più sopra indicati uniformandosi a tutte le disposizioni generiche e specifiche impartite dall'ispettorato del lavoro, onde non v'è

dubbio che tali mezzi fossero idonei a ridurre la rumorosità del

l'ambiente di lavoro, o, quanto meno, a diminuirne l'intensità

percebile dai lavoratori nel corso della loro attività: in caso con

trario tali mezzi protettivi non sarebbero stati adottati.

Afferma poi il ricorrente che la sentenza impugnata offre una

motivazione illogica e contraddittoria nella parte in cui ritiene

che un comportamento omissivo punibile a carico dell'imputato è riscontrabile nel fatto che lo stesso non ha mai adottato prov vedimenti disciplinari nei confronti degli operai riottosi all'uso

dei mezzi di protezione messi a loro disposizione. A suo parere tra gli obblighi imposti al datore di lavoro dal

l'art. 4 d.p.r. 303/56 non è compreso quello di adottare provve dimenti disciplinari a carico dei dipendenti che si sottraggano all'uso dei mezzi protettivi, e la contraria tesi espressa nella sen

tenza impugnata va ben oltre il rigoristico principio affermato

dalla giurisprudenza secondo cui l'imprenditore è sempre respon sabile dell'infortunio occorso all'operaio, sia quando ometta di

approntare le idonee misure di sicurezza, sia quando non si ac

certi e vigili che di queste facciano effettivo uso i dipendenti. La censura non è fondata, poiché in realtà i giudici hanno con

dannato l'imputato non già perché avesse violato un non previsto

obbligo di adottare provvedimenti disciplinari nei confronti dei

dipendenti riottosi, bensì perché non aveva svolto quella funzio

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PARTE SECONDA

ne di vigilanza e controllo, necessaria perché i dipendenti si ade

guassero alle disposizioni impartite dalla direzione in materia di

igiene del lavoro, in forma cosi energica e decisa — e quindi

anche, se necessario, con l'adozione di provvedimenti disciplinari — da rendere effettiva e non soltanto teorica e velleitaria la detta

attività di controllo.

Dispone infatti l'art. 4, lett. d), d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, il quale ricalca l'art. 4, lett. c), d.p.r. 27 gennaio 1955 n. 547, che i datori di lavoro, i dirigenti ed i preposti, devono, nell'ambi

to delle rispettive attribuzioni e competenze, disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme d'igiene ed usino i

mezzi di protezione messi a loro disposizione.

Pertanto, i doveri dei destinatari delle norme sull'igiene del la

voro — come dei destinatari delle norme antinfortunistiche —

non si esauriscono nel disporre, ma anche nel pretendere (esigere) l'osservanza di tali norme, il che comporta l'impiego di tutta l'au

torità di cui essi siano investiti, e quindi anche del potere di prov vedere a carico dei lavoratori riottosi, se necessario, all'adozione

di mezzi coercitivi e sanzioni disciplinari. Nella specie, la sentenza impugnata dà atto che l'uso dei mezzi

di prevenzione «era sostanzialmente lasciato alla discrezionalità

dell'operaio, atteso che, in caso di inosservanza, ci si limitava

ad invitare il dipendente ad adottarli senza tuttavia alcun'altra

conseguenza». Giustamente quindi il tribunale ha ritenuto che l'uso dei mezzi

in questione «non sia stato disposto con la dovuta energia (me

diante, ad esempio, precisi e vincolanti ordini di servizio con pre cise previsioni di sanzioni per i trasgressori) e tanto meno sia

stato imposto (non è tale un semplice 'invito') adottando anche

provvedimenti disciplinari nei confronti dei riottosi»; donde la

responsabilità del Tomi per il reato di lesioni colpose, ritenuta

l'esistenza del rapporto causale tra le omissioni addebitate al To

mi e le infermità riscontrate su alcuni lavoratori.

Per quanto detto, il ricorso è infondato in ogni sua parte e

va quindi integralmente rigettato, con le conseguenze di legge.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I penale; sentenza 4 novem

bre 1985; Pres. Fletzer, Est. Dinacci, P. M. (conci, diff.); ric. Messina. Annulla Trib. Milano, ord. 26 luglio 1985.

Libertà personale dell'imputato — Libertà provvisoria — Perico

lo di inquinamento delle prove — Valutazione (Cod. proc. pen., art. 254, 277).

Libertà personale dell'imputato — Libertà provvisoria — Perico

lo per le esigenze di tutela della collettività — Valutazione (Cod.

proc. pen., art. 254, 277).

Ai fini della libertà provvisoria il pericolo di inquinamento del

materiale probatorio deve essere ancorato alla fattispecie pro cessuale concreta; il magistrato deve cioè esplicitare, sulla base

di circostanze concrete, il ritenuto pericolo per l'acquisizione delle prove o il pericolo di fuga dell'imputato. (1)

Ai fini della libertà provvisoria il parametro della difesa sociale

ha una sua connotazione accessoria rispetto a quello delle ra

gioni processuali e non può quindi operare autonomamente,

ponendosi come elemento concorrente di valutazione. (2)

(1-2) La prima massima è conforme al costante orientamento giurispru denziale, secondo il quale nei provvedimenti sulla libertà personale l'ob

bligo di motivazione non può ritenersi adempiuto con la evocazione di mere formule di stile o con il riferimento a criteri astratti, ma deve fon darsi su elementi concreti ancorati alla fattispecie processuale (Cass. 21 novembre 1985, Ferraro, Foro it., Rep. 1986, voce Libertà personale del

l'imputato, n. 318; 2 settembre 1985, Costanzo, ibid., n. 204; 13 giugno 1985, Ricci, ibid., n. 191; 5 giugno 1984, Guglielmucci, id., Rep. 1985, voce cit., n. 381; 10 febbraio 1984, Bianchi, ibid., n. 385).

La seconda massima, affermando che il parametro della difesa sociale si colloca in un ambito secondario e comunque subordinato rispetto a

quello delle ragioni processuali (cfr. Cass. 10 ottobre 1985, Fabrizi, id., Rep. 1986, voce cit., n. 133), si pone in contrasto con il prevalente indi rizzo giurisprudenziale secondo cui le ragioni processuali e il pericolo per le esigenze di tutela della collettività risultano posti dalla legge sullo stes so piano ed è quindi sufficiente anche una sola delle due condizioni per giustificare la custodia cautelare dell'imputato (Cass. 2 settembre 1985, Costanzo, cit.; 9 aprile 1984, Anesini, id., Rep. 1985, voce cit., n. 383;

Il Foro Italiano — 1988.

Dionisio Messina ricorre avverso l'ordinanza indicata in epi

grafe, con la quale il Tribunale di Milano ha disatteso l'appello volto ad ottenere la rimozione del provvedimento del g.i. relati

vamente al rigetto delle richieste di proscioglimento e di libertà

provvisoria. Deduce il ricorrente, con articolati motivi, il difetto di motiva

zione della impugnata ordinanza nella sua globalità. La prima doglianza, che attiene al negato proscioglimento, ap

pare, però, 'improponibile', essendo il provvedimento del g.i. ex

art. 305 c.p.p. inoppugnabile in tale parte, talché erroneamente

il tribunale si è pronunciato sul punto.

Infondata, poi, è la prospettazione di omessa pronuncia in or

dine al c.d. assorbimento del delitto ex art. 416 c.p. in quello ex art. 416 bis dello stesso codice. Al riguardo occorre premettere che questa sezione, con provvedimento di camera di consiglio del

5 marzo 1985, n. 624 (Foro it., Rep. 1985, voce Libertà persona le dell'imputato, n. 65 e voce Reato in genere, n. 32) nel decidere

altro ricorso del Messina, il quale adduceva la violazione del prin

cipio ne bis in idem (in dipendenza della emissione di due manda

ti di cattura per i delitti ex art. 416 e 416 bis c.p.), escludeva

la denunciata illegittimità. Precisava la corte, con la ricordata

decisione, che ben poteva la 'fattispecie' — per la sua natura

di reato permanente — venir contestata per «segmenti temporali» e con provvedimenti diversi qualora certi aspetti della medesima

fossero apparsi rilevanti nella prospettiva d'un diverso modello

legale (art. 416 bis c.p.). E in tal senso questa corte, al fine di

evitare l'aggiramento del divieto delle c.d. contestazioni a catena, richiamava il disposto dell'art. 271, 3° comma, c.p.p. regolante il caso di emissioni di più misure di rigore per il medesimo acca

dimento, anche se diversamente qualificato. Di qui la decorrenza

dei termini di custodia dal momento d'inizio di esecuzione del

primo provvedimento e la commisurazione dei predetti termini

all'ultima delle imputazioni contestate (art. 416 bis c.p.). Cosic

ché, per effetto di tale decisione, stabilita la decorrenza della cu

stodia il 16 luglio 1984 (data d'inizio di esecuzione del primo

16 giugno 1983, Gamba, id., Rep. 1984, voce cit., n. 248; 12 maggio 1983, Albrigo, ibid., n. 162; 1° dicembre 1983, Cropelli, id., Rep. 1985, voce cit., n. 374).

La dottrina, dal canto suo, pur rilevando che la finalizzazione ad esi

genze di prevenzione pone «problemi di compatibilità con la Costituzio

ne, sia sotto il profilo della presunzione di non colpevolezza sia sotto

quello della determinatezza della fattispecie secondo il principio di tassa

tività», ritiene prevalentemente che il dato normativo non distingue in alcun modo tra pericolo di fuga, pericolo per l'acquisizione delle prove,

pericolosità sociale dell'imputato, con la conseguenza che ciascuno dei

«parametri indicati appare in grado di fornire legittimo fondamento» alle misure di coercizione nei casi previsti dalla legge; cfr. Illuminati, La

pericolosità dell'imputato nella motivazione dei provvedimenti sulla liber tà personale, in Cass, pen., 1985, 2271; analogamente, v. Grevi, Tribu nale della libertà, custodia preventiva e garanzie individuali: una prima svolta oltre l'emergenza, in AA.VV., Tribunale della libertà e garanzie individuali, Bologna, 1983, 14; Manzione, Difettosa motivazione delta convalida dell'arresto ed istanza di scarcerazione: un revival inaspettato, in Cass, pen., 1986, 1581.

Con specifico riferimento alla libertà provvisoria, è stato rilevato in dottrina e giurisprudenza che i criteri in base ai quali l'autorità giudizia ria esercita il potere-dovere di concedere il beneficio sono «cumulativi» ai fini della concessione e «alternativi» per il diniego. In altri termini, nel caso di concessione della libertà provvisoria deve ritenersi necessario

(e sufficiente) «l'accertamento in concreto» dell'inesistenza — o della scom

parsa — sia delle ragioni processuali ostative (pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga), sia della pericolosità dell'imputato. Per

quanto riguarda, invece, la decisione di diniego della libertà provvisoria, può ritenersi sufficiente la persistenza di una soltanto delle fattispecie di periculum libertatis cui l'art. 277, 3° comma, c.p.p. attribuisce l'effet to di impedire la libertà provvisoria (Grevi, Le novelle del luglio 1984: verso un recupero di garanzie in tema di libertà personale nel processo penale, Padova, 1985, 46 s.; Id., in Legislazione pen., 1985, 136 s.; ana

logamente, in giurisprudenza, v. Cass. 12 agosto 1985, Gullace, Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 323; 31 maggio 1985, Smarotta, ibid., n. 324; 12 aprile 1985, Cavallo, ibid., n. 327; 25 febbraio 1985, Fincato, ibid., n. 331; 4 settembre 1984, D'Orazio, ibid., n. 335).

Non è però mancata autorevole dottrina la quale, facendo leva sul di

sposto dell'art. 254 c.p.p. in cui il parametro della prevenzione è legato ai due precedenti dalla congiunzione «nonché» in luogo della disgiuntiva «o», ha rilevato che tale indice deve in ogni caso considerarsi sussidiario

rispetto alle esigenze processuali (Vassalli, Premessa al commento della l. 12 agosto 1982 n. 532, in Legislazione pen., 1983, 63 s.; cui adde Casa

linuovo, Note in tema di libertà personale, in Giust. pen., 1987, III, 372).

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