Click here to load reader
Click here to load reader
sezione IV penale; sentenza 12 marzo 1987; Pres. Sebastio, Est. Bianchi, P. M. Manzillo (concl.parz. diff.); ric. De Sanctis. Annulla Trib. Bologna 14 aprile 1986Source: Il Foro Italiano, Vol. 111, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1988), pp.15/16-19/20Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23179625 .
Accessed: 24/06/2014 23:21
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 62.122.79.47 on Tue, 24 Jun 2014 23:21:25 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
A parere di questo giudice, invece, la possibilità di controllare
questa fase intermedia sussiste nei limiti in cui le fasi di deposito, cernita ed ammasso temporaneo di sostanze non destinate all'ab
bandono determinino (il che può benissimo verificarsi) ulteriori
dannosi e pericolosi scarti e residui che non vengono rivenduti
ma o vengono smaltiti presso imprese terze o rimangono sul po sto. Ma ciò, evidentemente, è un problema di accertamento con
creto che trova i suoi principali indizi nell'ampiezza del deposito e nel tempo per il quale le sostanze rimangono ammassate in at
tesa della vendita. In questi casi, ove si dimostri che l'azienda
di fatto, accanto ad una mera attività di commercializzazione,
effettua anche una discarica di scarti residui è questa attività che
andrà regolamentata ed autorizzata con la conseguente applica zione dell'art. 25, 2° e 3° comma, nelle ipotesi di abusivismo.
Sulla base di queste premesse discende che l'attività del Colom
bini, in quanto priva di una diretta destinazione all'abbandono
dei materiali di scarto raccolti per essere rivenduti, può essere
svolta senza l'autorizzazione di cui al d.p.r. 915/82.
Le risultanze processuali in atti escludono, inoltre, che l'impu tato effettuasse alcuna ulteriore attività di smaltimento di sostan
ze derivanti dalla cernita del materiale, cosi come è emerso che
il tempo per il quale i materiali rimanevano depositati nell'area
di proprietà dell'imputato era estremamente ridotto.
Da ultimo si rileva che l'eventuale obiezione, secondo cui se
i materiali cambiano l'area, invece, rimane perennemente adibita
allo stesso scopo, potrà rilevare sempre e solo nei limiti in cui
si accerti la presenza di residui che attribuiscano alla suddetta
area ed attività i connotati di discarica. (Omissis)
[
CORTE DI CASSAZIONE; sezione IV penale; sentenza 12 mar
zo 1987; Pres. Sebastio, Est. Bianchi, P. M. Manzillo (conci,
parz. diff.); ric. De Sanctis. Annulla Trib. Bologna 14 aprile 1986.
Omicidio e lesioni personali colpose — Lesioni personali colpose
provocate da lavorazioni rumorose — Danno uditivo — Ag
gravamento — Valutazione (Cod. pen., art. 583, 590). Omicidio e lesioni personali colpose — Lesioni conseguenti alla
violazione delle norme relative all'igiene del lavoro o determi
nanti una malattia professionale — Aggravante della violazio
ne delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro — Inapplicabilità (Cod. pen., art. 590).
In caso di ipoacusia provocata da lavorazioni rumorose, sussiste
il reato di lesioni personali colpose, se in conseguenza della
esposizione a rumore il lavoratore subisca un aggravamento an
che modico del danno uditivo. (1) Nel reato di lesioni personali colpose commesse con violazione
delle norme relative all'igiene del lavoro o determinanti una
malattia professionale, non è applicabile l'aggravante prevista dall'art. 590, 3° comma, c.p. con esclusivo riguardo alle lesioni
commesse con violazione delle norme per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro. (2)
(1-3) Mai come in questi anni ottanta si sta finalmente sviluppando la giurisprudenza penale in tema di malattie professionali. Questa è la
volta di due pronunce riguardanti casi di ipoacusia da rumore. La senten za in causa De Sanctis — depositata il 22 settembre 1987 — non si limita a ribadire che, in caso di malattia professionale, per individuare il mo mento consumativo del reato di lesione personale colposa, non basta ac certare se e quando il lavoratore abbia subito una malattia, ma occorre verificare se e quando una eventuale, ulteriore, condotta colposa del da tore di lavoro abbia determinato un aggravamento della malattia (cosi, da ultimo, Cass. 9 dicembre 1985, Bazzi, Foro it., 1986, II, 592). Si preoc cupa, infatti, di precisare che un tale aggravamento può essere «anche modestissimo» (per ragguagli sul tema, v. la nota di richiami a Pret. Torino 9 giugno 1984, ibid., 375). Inoltre, per la prima volta, nega l'ap plicabilità della circostanza aggravante prevista dall'art. 590, 3° comma,
c.p. in ipotesi di malattie professionali, in tal guisa ribaltando il proprio precedente, e costante, orientamento (al riguardo, v., in senso conforme alla posizione adesso adottata dal Supremo collegio, e per riferimenti alla
precedente giurisprudenza, Guariniello, Malattie da lavoro e processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1981, 584).
Il Foro Italiano — 1988.
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione IV penale; sentenza 10 mar
zo 1987; Pres. Battimelli, Est. Suriano, P. M. Cucco (conci,
conf.); ric. Tomi. Conferma Trib. Latina 8 luglio 1985.
Omicidio e lesioni personali colpose — Lesioni personali colpose
provocate da lavorazioni rumorose — Obbligo del datore di
lavoro di esigere l'uso dei mezzi di protezione contro il rumore
— Lavoratori riottosi — Mancato ricorso a provvedimenti di
sciplinari — Conseguenze (Cod. pen., art. 590; d.p.r. 19 marzo
1956 n. 303, norme generali per l'igiene del lavoro, art. 4, 24).
In caso di ipoacusie cagionate da lavorazioni rumorose, il datore
di lavoro commette il reato di lesioni personali colpose in dan
no degli operai colpiti da sordità, qualora non esiga l'uso dei
mezzi tecnici e personali di protezione contro il rumore da par
te dei lavoratori, e, in particolare, ometta di adottare nei con
fronti dei lavoratori riottosi i provvedimenti eventualmente
necessari. (3)
I
Ritenuto in fatto ed in diritto. — Per avere, quale direttore
tecnico della ditta «Farmac Zabban» di Calderara di Reno, ca
gionato ai dipendenti Musacci Graziella, Montagnini Bruna, Gui
dicini Franco, Olivieri Angela e Montefiori Luigi una ipoacusia,
con indebolimento permanente dell'organo acustico, avendoli fatti
lavorare nel reparto telai e comunque in ambienti rumorosi senza
aver adottato idonei accorgimenti atti a diminuire l'intensità del
rumore od a proteggere individualmente gli operai addetti, De
Sanctis Bruno veniva ritenuto colpevole dal Pretore di Bologna
del reato di cui agli art. 590 e 583, n. 2, c.p., nonché delle con
travvenzioni di cui all'art. 24 d.p.r. n. 303 del 1956 e condannato
alla pena di mesi sei di reclusione e di lire 800.000 di ammenda.
Su appello dell'imputato il Tribunale di Bologna con sentenza
del 14 aprile 1986, dichiarate le già concesse attenuanti generiche
equivalenti alla aggravante contestata e riconosciuta la continua
zione fra i reati, determinava la pena in lire 1.400.000 di multa.
Ha proposto ricorso per cassazione il prevenuto, con quattro
mezzi di annullamento.
Con il primo di essi si lamenta la violazione dell'art. 314 c.p.p.,
nonché la contraddittorietà della motivazione, per non avere i
giudici di merito disposto a richiesta perizia tecnica volta ad ac
certare il livello di rumorosità esistente nel reparto telai dell'a
zienda.
La doglianza non è fondata, perché l'apprezzamento del giudi
ce di merito sull'opportunità di procedere o meno a perizia tecni
ca (che è un mezzo di prova essenzialmente discrezionale)
costituisce giudizio di fatto insindacabile in questa sede e perchè il tribunale ha motivatamente escluso la necessità di ricorrere ad
una perizia, osservando che «gli accertamenti compiuti dalla Usi
27 e pervenuti in ogni caso al De Sanctis, nei cui confronti veni
vano sollevati addebiti di colpevolezza per la situazione nega
Non meno significativa appare la sentenza in causa Tomi, depositata il 19 giugno 1987. Da sempre, è vero, la Cassazione insegna che il datore
di lavoro è tenuto a vigilare sull'uso effettivo dei mezzi di prevenzione da parte dei lavoratori, allo scopo avvalendosi di «un sufficiente numero
di dirigenti e preposti» (cosi, di recente, Cass. 5 marzo 1987, Bottene,
inedita), e che siffatta vigilanza riveste carattere impositivo, e non mera
mente dispositivo (cosi, ad es., Cass. 12 marzo 1982, Frigerio, Foro it.,
Rep. 1984, voce Infortuni sul lavoro, n. 269, giunge a puntualizzare che, se i lavoratori rifiutino l'uso del mezzo protettivo, il datore di lavoro
è tenuto a «non farli lavorare in posti pericolosi»). Ma ora la Suprema corte approfondisce il tema con specifico riguardo ai mezzi di protezione contro il rumore (cabine protettive, protettori auricolari), e svolge alcuni
chiarimenti destinati a sollevare particolare interesse nel mondo industria
le. In particolare, la Cassazione sottolinea l'esigenza di «rendere effettiva
e non soltanto teorica e velleitaria l'attività di controllo»; e, con accenti
inediti, giunge a ritenere che siffatta attività di controllo comporta «l'im
piego di tutta l'autorità di cui (il datore di lavoro) sia investito», e, quin
di, anche l'esercizio «del potere di provvedere a carico dei lavoratori riottosi, se necessario, all'adozione di mezzi coercitivi e sanzioni disciplinari».
This content downloaded from 62.122.79.47 on Tue, 24 Jun 2014 23:21:25 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA PENALE
tiva riscontrata in fabbrica, non erano stati all'epoca contestati
dall'interessato, il quale non aveva offerto all'organo di preven zione dati tecnici di riscontro diversi» e sottolineando «l'inutilità
dell'incombente in ordine alla conclamata mutazione medio tem
pore delle strutture aziendali in relazione alla proseguita opera di sostituzione dei macchinari».
Parzialmente fondato è il secondo motivo, col quale si deduce
la mancanza e la contraddittorietà della motivazione, nonché il
travisamento del fatto in ordine al ritenuto aggravamento della
ipoacusia nei lavoratori Musacci, Montagnini, Guidicini, Olivieri
e Montefiori.
Al riguardo si osserva che la sentenza impugnata ha disatteso
le contestazioni mosse alle compiute indagini medico-legali, sul
riflesso che le stesse risultavano generiche in rapporto ai riscontri
tecnici esposti dal pretore «con tale dovizia di particolari e di
riferimenti co^mparativi
da rendere superflua ogni ulteriore disa
mina sul punto». Ma tale motivazione, se appare adeguata e corretta per quanto
riguarda il Guidicini, l'Olivieri ed il Montefiori, certamente non
lo è rispetto agli altri due lavoratori, avendo i giudici di appello omesso di prendere in considerazione le conclusioni cui era per venuto il perito d'ufficio dott. Baravelli, il quale, nel riferire che
la Musacci e la Montagnini «presentavano lesioni catarrali croni
che degenerative dell'orecchio medio con compromissione dell'o
recchio interno (sordità di tipo misto)», aveva espresso l'avviso
che «la tecnopatia, in questi due casi, se esisteva, poteva essere
mascherata dalla lesione infiammatoria e non poteva quindi esse
re valutata».
Sussiste perciò il denunziato vizio di motivazione e conseguen
temente, sul punto, l'impugnata sentenza va annullata con rinvio
perché, attraverso un riesame della situazione probatoria, si per
venga ad un giudizio di certezza in ordine alla sussistenza del
nesso eziologico tra il comportamento colposo del prevenuto e
le malattie contratte dalla Musacci e dalla Montagnini. Non merita invece accoglimento il terzo motivo, col quale si
eccepisce l'erronea applicazione dell'art. 24 d.p.r. 19 marzo 1956
n. 303 in relazione all'art. 590, 3° comma, c.p. I giudici di merito hanno infatti accertato che il De Sanctis
— sebbene «propulsore di un'opera di bonifica dell'ambiente di
lavoro mediante la progressiva sostituzione, dal 1973 al 1982, di
telai a navetta con altri ad aria compressa meno rumorosi» —
aveva continuato a mantenere attivi reparti (attrezzati con 71 re
sidui telai a navetta e 108 telai pneumatici) pervasi da un livello
di rumorosità superiore ai limiti massimi (85-90 dB) generalmente riconosciuti come soglia critica della tollerabilità, cosi determi
nando un apprezzabile aggravamento (precipuamente nel periodo
1979-84) dello stato di ipoacusia già sofferto da alcuni dipendenti addetti a tali reparti.
È quindi innegabile che il prevenuto, nella sua qualità di diret
tore tecnico della «Farmac Zabban», ha violato la norma di cui
all'art. 24 citato (per la quale «nelle lavorazioni che producono
scuotimenti, vibrazioni o rumori dannosi ai lavoratori devono adot
tarsi i provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuire l'in
tensità»), essendo comunque privi di rilevanza «il ridottissimo
numero di lavoratori interessati dagli aggravamenti ed il mode
stissimo aggravamento in essi riscontrato».
Fondato è il quarto ed ultimo motivo, col quale si sostiene
che l'aggravante di cui al 3° comma dell'art. 590 c.p. è nella
specie inapplicabile. Nell'affermare la sussistenza di tale aggravante, il tribunale,
per la verità, si è attenuto ad un consolidato orientamento giuris
prudenziale, secondo cui, in tema di reato colposo, per norme
sulla disciplina per la prevenzione degli infortuni sul lavoro van
no intese non solo quelle previste specificamente nella legge, ma
anche tutte le altre che perseguono il fine di evitare incidenti sul
lavoro o malattie professionali in relazione all'ambiente in cui
esso deve svolgersi. Senonché l'art. 92 1. 24 novembre 1981 n. 689, recante modifi
che al sistema penale, ha sostituito l'ultimo comma dell'art. 590
c.p. con il seguente: «Il delitto è punibile a querela della persona
offesa, salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso, li
mitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del la
voro o che abbiano determinato una malattia professionale».
Ora, avuto riguardo alla distinzione operata dalla legge, ai fini
della perseguibilità d'ufficio del reato, tra lesioni colpose com
messe con violazione delle norme antifortunistiche e quelle com
ix. Foro Italiano — 1988.
messe con violazione delle norme relative all'igiene del lavoro o
determinanti una malattia professionale e considerato altresì' che
al testo del 3° comma dell'art. 590 c.p. non è stata apportata
un'analoga modifica, reputa il collegio che non sia più consentito
applicare, mediante una interpretazione estensiva, l'aggravante di
che trattasi alle due ultime ipotesi sopra indicate.
Dovendosi quindi escludere la sussistenza, nel caso in esame, della ripetuta aggravante, la sentenza impugnata va annullata per violazione di legge con rinvio ad altra sezione del Tribunale di
Bologna, che si atterrà al principio sopra enunciato.
II
Fatto. — Tratto a giudizio dal Pretore di Latina, a seguito del rapporto giudiziario in data 9 maggio 1980 dell'ispettorato del lavoro di Latina, che ipotizzava che alcuni casi di ipoacusia verificatisi in danno di alcuni lavoratori nell'ambito dello stabili
mento delle Fonderie e smalterie genovesi s.p.a. di Latina, erano
da attribuirsi all'alta rumorosità dell'ambiente di lavoro, Tomi
Aldo, direttore dello stabilimento, con sentenza in data 20 gen naio 1983, veniva riconosciuto colpevole del reato di lesioni col
pose gravi ed aggravate dalla violazione delle norme relative
all'igiene del lavoro, per non aver adottato i provvedimenti con
sigliati dalla tecnica per diminuire scuotimenti, vibrazioni e ru
mori dannosi ai lavoratori, e condannato alla pena di lire 200.000
di multa, oltre al risarcimento dei danni in favore delle parti civi
li costituite.
Più specificamente il pretore ravvisava la responsabilità del
l'imputato non per il fatto che il Tomi non avesse dotato lo sta
bilimento di strumenti di difesa parsonale per evitare le conseguenze dannose dei rumori e delle vibrazioni previsti dall'art. 24 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303 (tali strumenti anche se con ritardo erano
stati adottati), ma per il fatto che l'imputato, quale direttore del
lo stabilimento, non aveva imposto ai dipendenti l'uso delle cuf
fie e delle cabine protettive, con violazione dell'art. 4 stesso decreto
presidenziale. (Omissis) Motivi della decisione. — (Omissis). Ulteriore censura, sotto
il profilo della sussistenza, nella fattispecie, di un evidente vizio
logico-giuridico, ha mosso la difesa alla sentenza impugnata nella
parte in cui il giudice di appello ha ritenuto che la responsabilità del prevenuto deve individuarsi nella circostanza secondo cui il
medesimo non ha realmente imposto ai propri dipendenti l'uso
dei mezzi di protezione. In proposito, sostiene in primo luogo il deducente che prima
ancora di decidere se l'imputato avesse o meno disposto ed impo sto l'uso dei mezzi protettivi, sarebbe stato necessario accertare
se tali specifici mezzi fossero o meno coincidenti con quelli con
cretamente ritenuti più idonei a diminuire l'intensità dei rumori
secondo le indicazioni della tecnica.
Ma è lo stesso ricorrente ad ammettere — e le sentenze lo han
no riconosciuto — che l'azienda aveva adottato i mezzi protettivi
più sopra indicati uniformandosi a tutte le disposizioni generiche e specifiche impartite dall'ispettorato del lavoro, onde non v'è
dubbio che tali mezzi fossero idonei a ridurre la rumorosità del
l'ambiente di lavoro, o, quanto meno, a diminuirne l'intensità
percebile dai lavoratori nel corso della loro attività: in caso con
trario tali mezzi protettivi non sarebbero stati adottati.
Afferma poi il ricorrente che la sentenza impugnata offre una
motivazione illogica e contraddittoria nella parte in cui ritiene
che un comportamento omissivo punibile a carico dell'imputato è riscontrabile nel fatto che lo stesso non ha mai adottato prov vedimenti disciplinari nei confronti degli operai riottosi all'uso
dei mezzi di protezione messi a loro disposizione. A suo parere tra gli obblighi imposti al datore di lavoro dal
l'art. 4 d.p.r. 303/56 non è compreso quello di adottare provve dimenti disciplinari a carico dei dipendenti che si sottraggano all'uso dei mezzi protettivi, e la contraria tesi espressa nella sen
tenza impugnata va ben oltre il rigoristico principio affermato
dalla giurisprudenza secondo cui l'imprenditore è sempre respon sabile dell'infortunio occorso all'operaio, sia quando ometta di
approntare le idonee misure di sicurezza, sia quando non si ac
certi e vigili che di queste facciano effettivo uso i dipendenti. La censura non è fondata, poiché in realtà i giudici hanno con
dannato l'imputato non già perché avesse violato un non previsto
obbligo di adottare provvedimenti disciplinari nei confronti dei
dipendenti riottosi, bensì perché non aveva svolto quella funzio
This content downloaded from 62.122.79.47 on Tue, 24 Jun 2014 23:21:25 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
ne di vigilanza e controllo, necessaria perché i dipendenti si ade
guassero alle disposizioni impartite dalla direzione in materia di
igiene del lavoro, in forma cosi energica e decisa — e quindi
anche, se necessario, con l'adozione di provvedimenti disciplinari — da rendere effettiva e non soltanto teorica e velleitaria la detta
attività di controllo.
Dispone infatti l'art. 4, lett. d), d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, il quale ricalca l'art. 4, lett. c), d.p.r. 27 gennaio 1955 n. 547, che i datori di lavoro, i dirigenti ed i preposti, devono, nell'ambi
to delle rispettive attribuzioni e competenze, disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme d'igiene ed usino i
mezzi di protezione messi a loro disposizione.
Pertanto, i doveri dei destinatari delle norme sull'igiene del la
voro — come dei destinatari delle norme antinfortunistiche —
non si esauriscono nel disporre, ma anche nel pretendere (esigere) l'osservanza di tali norme, il che comporta l'impiego di tutta l'au
torità di cui essi siano investiti, e quindi anche del potere di prov vedere a carico dei lavoratori riottosi, se necessario, all'adozione
di mezzi coercitivi e sanzioni disciplinari. Nella specie, la sentenza impugnata dà atto che l'uso dei mezzi
di prevenzione «era sostanzialmente lasciato alla discrezionalità
dell'operaio, atteso che, in caso di inosservanza, ci si limitava
ad invitare il dipendente ad adottarli senza tuttavia alcun'altra
conseguenza». Giustamente quindi il tribunale ha ritenuto che l'uso dei mezzi
in questione «non sia stato disposto con la dovuta energia (me
diante, ad esempio, precisi e vincolanti ordini di servizio con pre cise previsioni di sanzioni per i trasgressori) e tanto meno sia
stato imposto (non è tale un semplice 'invito') adottando anche
provvedimenti disciplinari nei confronti dei riottosi»; donde la
responsabilità del Tomi per il reato di lesioni colpose, ritenuta
l'esistenza del rapporto causale tra le omissioni addebitate al To
mi e le infermità riscontrate su alcuni lavoratori.
Per quanto detto, il ricorso è infondato in ogni sua parte e
va quindi integralmente rigettato, con le conseguenze di legge.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I penale; sentenza 4 novem
bre 1985; Pres. Fletzer, Est. Dinacci, P. M. (conci, diff.); ric. Messina. Annulla Trib. Milano, ord. 26 luglio 1985.
Libertà personale dell'imputato — Libertà provvisoria — Perico
lo di inquinamento delle prove — Valutazione (Cod. proc. pen., art. 254, 277).
Libertà personale dell'imputato — Libertà provvisoria — Perico
lo per le esigenze di tutela della collettività — Valutazione (Cod.
proc. pen., art. 254, 277).
Ai fini della libertà provvisoria il pericolo di inquinamento del
materiale probatorio deve essere ancorato alla fattispecie pro cessuale concreta; il magistrato deve cioè esplicitare, sulla base
di circostanze concrete, il ritenuto pericolo per l'acquisizione delle prove o il pericolo di fuga dell'imputato. (1)
Ai fini della libertà provvisoria il parametro della difesa sociale
ha una sua connotazione accessoria rispetto a quello delle ra
gioni processuali e non può quindi operare autonomamente,
ponendosi come elemento concorrente di valutazione. (2)
(1-2) La prima massima è conforme al costante orientamento giurispru denziale, secondo il quale nei provvedimenti sulla libertà personale l'ob
bligo di motivazione non può ritenersi adempiuto con la evocazione di mere formule di stile o con il riferimento a criteri astratti, ma deve fon darsi su elementi concreti ancorati alla fattispecie processuale (Cass. 21 novembre 1985, Ferraro, Foro it., Rep. 1986, voce Libertà personale del
l'imputato, n. 318; 2 settembre 1985, Costanzo, ibid., n. 204; 13 giugno 1985, Ricci, ibid., n. 191; 5 giugno 1984, Guglielmucci, id., Rep. 1985, voce cit., n. 381; 10 febbraio 1984, Bianchi, ibid., n. 385).
La seconda massima, affermando che il parametro della difesa sociale si colloca in un ambito secondario e comunque subordinato rispetto a
quello delle ragioni processuali (cfr. Cass. 10 ottobre 1985, Fabrizi, id., Rep. 1986, voce cit., n. 133), si pone in contrasto con il prevalente indi rizzo giurisprudenziale secondo cui le ragioni processuali e il pericolo per le esigenze di tutela della collettività risultano posti dalla legge sullo stes so piano ed è quindi sufficiente anche una sola delle due condizioni per giustificare la custodia cautelare dell'imputato (Cass. 2 settembre 1985, Costanzo, cit.; 9 aprile 1984, Anesini, id., Rep. 1985, voce cit., n. 383;
Il Foro Italiano — 1988.
Dionisio Messina ricorre avverso l'ordinanza indicata in epi
grafe, con la quale il Tribunale di Milano ha disatteso l'appello volto ad ottenere la rimozione del provvedimento del g.i. relati
vamente al rigetto delle richieste di proscioglimento e di libertà
provvisoria. Deduce il ricorrente, con articolati motivi, il difetto di motiva
zione della impugnata ordinanza nella sua globalità. La prima doglianza, che attiene al negato proscioglimento, ap
pare, però, 'improponibile', essendo il provvedimento del g.i. ex
art. 305 c.p.p. inoppugnabile in tale parte, talché erroneamente
il tribunale si è pronunciato sul punto.
Infondata, poi, è la prospettazione di omessa pronuncia in or
dine al c.d. assorbimento del delitto ex art. 416 c.p. in quello ex art. 416 bis dello stesso codice. Al riguardo occorre premettere che questa sezione, con provvedimento di camera di consiglio del
5 marzo 1985, n. 624 (Foro it., Rep. 1985, voce Libertà persona le dell'imputato, n. 65 e voce Reato in genere, n. 32) nel decidere
altro ricorso del Messina, il quale adduceva la violazione del prin
cipio ne bis in idem (in dipendenza della emissione di due manda
ti di cattura per i delitti ex art. 416 e 416 bis c.p.), escludeva
la denunciata illegittimità. Precisava la corte, con la ricordata
decisione, che ben poteva la 'fattispecie' — per la sua natura
di reato permanente — venir contestata per «segmenti temporali» e con provvedimenti diversi qualora certi aspetti della medesima
fossero apparsi rilevanti nella prospettiva d'un diverso modello
legale (art. 416 bis c.p.). E in tal senso questa corte, al fine di
evitare l'aggiramento del divieto delle c.d. contestazioni a catena, richiamava il disposto dell'art. 271, 3° comma, c.p.p. regolante il caso di emissioni di più misure di rigore per il medesimo acca
dimento, anche se diversamente qualificato. Di qui la decorrenza
dei termini di custodia dal momento d'inizio di esecuzione del
primo provvedimento e la commisurazione dei predetti termini
all'ultima delle imputazioni contestate (art. 416 bis c.p.). Cosic
ché, per effetto di tale decisione, stabilita la decorrenza della cu
stodia il 16 luglio 1984 (data d'inizio di esecuzione del primo
16 giugno 1983, Gamba, id., Rep. 1984, voce cit., n. 248; 12 maggio 1983, Albrigo, ibid., n. 162; 1° dicembre 1983, Cropelli, id., Rep. 1985, voce cit., n. 374).
La dottrina, dal canto suo, pur rilevando che la finalizzazione ad esi
genze di prevenzione pone «problemi di compatibilità con la Costituzio
ne, sia sotto il profilo della presunzione di non colpevolezza sia sotto
quello della determinatezza della fattispecie secondo il principio di tassa
tività», ritiene prevalentemente che il dato normativo non distingue in alcun modo tra pericolo di fuga, pericolo per l'acquisizione delle prove,
pericolosità sociale dell'imputato, con la conseguenza che ciascuno dei
«parametri indicati appare in grado di fornire legittimo fondamento» alle misure di coercizione nei casi previsti dalla legge; cfr. Illuminati, La
pericolosità dell'imputato nella motivazione dei provvedimenti sulla liber tà personale, in Cass, pen., 1985, 2271; analogamente, v. Grevi, Tribu nale della libertà, custodia preventiva e garanzie individuali: una prima svolta oltre l'emergenza, in AA.VV., Tribunale della libertà e garanzie individuali, Bologna, 1983, 14; Manzione, Difettosa motivazione delta convalida dell'arresto ed istanza di scarcerazione: un revival inaspettato, in Cass, pen., 1986, 1581.
Con specifico riferimento alla libertà provvisoria, è stato rilevato in dottrina e giurisprudenza che i criteri in base ai quali l'autorità giudizia ria esercita il potere-dovere di concedere il beneficio sono «cumulativi» ai fini della concessione e «alternativi» per il diniego. In altri termini, nel caso di concessione della libertà provvisoria deve ritenersi necessario
(e sufficiente) «l'accertamento in concreto» dell'inesistenza — o della scom
parsa — sia delle ragioni processuali ostative (pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga), sia della pericolosità dell'imputato. Per
quanto riguarda, invece, la decisione di diniego della libertà provvisoria, può ritenersi sufficiente la persistenza di una soltanto delle fattispecie di periculum libertatis cui l'art. 277, 3° comma, c.p.p. attribuisce l'effet to di impedire la libertà provvisoria (Grevi, Le novelle del luglio 1984: verso un recupero di garanzie in tema di libertà personale nel processo penale, Padova, 1985, 46 s.; Id., in Legislazione pen., 1985, 136 s.; ana
logamente, in giurisprudenza, v. Cass. 12 agosto 1985, Gullace, Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 323; 31 maggio 1985, Smarotta, ibid., n. 324; 12 aprile 1985, Cavallo, ibid., n. 327; 25 febbraio 1985, Fincato, ibid., n. 331; 4 settembre 1984, D'Orazio, ibid., n. 335).
Non è però mancata autorevole dottrina la quale, facendo leva sul di
sposto dell'art. 254 c.p.p. in cui il parametro della prevenzione è legato ai due precedenti dalla congiunzione «nonché» in luogo della disgiuntiva «o», ha rilevato che tale indice deve in ogni caso considerarsi sussidiario
rispetto alle esigenze processuali (Vassalli, Premessa al commento della l. 12 agosto 1982 n. 532, in Legislazione pen., 1983, 63 s.; cui adde Casa
linuovo, Note in tema di libertà personale, in Giust. pen., 1987, III, 372).
This content downloaded from 62.122.79.47 on Tue, 24 Jun 2014 23:21:25 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions