Sezione V penale; sentenza 24 marzo 1981; Pres. Moscarini, Est. Modigliani, P. M. Minozzi(concl. conf.); ric. Nardiello ed altri. Conferma App. Napoli 1° ottobre 1979Source: Il Foro Italiano, Vol. 105, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1982), pp.423/424-427/428Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23174629 .
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PARTE SECONDA
questi, agendo con più calma e minore precipitazione, avrebbe
potuto esplodere il primo colpo in aria o entrambi i colpi verso il basso.
Ricorre per cassazione la Valle, deducendo con un unico mo
tivo la nullità dell'impugnata sentenza per erronea applicazione della legge penale, e ciò sotto un duplice profilo: in primo luo
go, perché, a fronte delle risultanze processuali che avevano evi denziato l'estrema pericolosità del Mancuso (il quale aveva in
precedenza rotto le costole al suocero, aveva ferito la moglie mentre allattava il figlioletto, era solito andare in giro armato di
coltello e si vantava di frenare un bue) e in considerazione dello
stato di terrore in cui egli teneva la moglie e la suocera, nonché
delle modalità dell'aggressione posta in essere al momento del
fatto delittuoso, non poteva perciò negarsi lo stato di legittima
difesa, in cui era venuta a trovarsi essa Valle; in secondo luogo,
perché in ogni caso la corte di merito aveva errato nell'attribuirle
il concorso in omicidio colposo, dal momento che, siccome era
pacifico che i colpi erano stati esplosi dal Bernaca, l'imprudenza di quest'ultimo nel fare uso dell'arma non era riconducibile ad
essa ricorrente, che peraltro non gli aveva affatto detto di usare
il fucile, ma soltanto di intimidire il Mancuso « qualora se ne
fosse presentata la necessità».
Motivi della decisione. — Non merita alcuna particolare di
samina la prima delle suesposte doglianze, perché, pur essendo
dedotta sotto il profilo dell'erronea applicazione della legge pe nale, essa tende in realtà ad investire la valutazione delle prove,
operata in sede di merito, e comunque perché, cosi come pro
posta, appare del tutto fuori luogo.
È sufficiente infatti il rilievo che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, i giudici di merito non hanno affatto
escluso che nella fattispecie ricorressero gli estremi della legitti ma difesa, tanto vero che hanno poi riconosciuto l'eccesso col
poso, che altrimenti non sarebbe stato configurabile, perché esso
presuppone in ogni caso l'esistenza della causa di giustificazione
(reale o putativa). E invero dalla motivazione dell'impugnata
sentenza, che sul punto si integra perfettamente con quella della
sentenza di primo grado, emerge chiaramente che i giudici del
merito, senza trascurare alcuna delle argomentazioni addotte
dalla ricorrente, hanno riconosciuto la situazione di legittima
difesa, creata dall'aggressione posta in essere dal Mancuso, pun tualmente evidenziandone la sussistenza di tutti i necessari re
quisiti (esistenza ed attualità del pericolo; ingiustizia dell'offesa e conseguente necessità della difesa), ad eccezione di quello ine rente alla proporzione tra difesa ed offesa. E, a quest'ultimo ri
guardo, attraverso una corretta ed ineccepibile valutazione delle risultanze probatorie, e mediante un'altrettanto corretta applica zione di esatti criteri giuridici ai fatti accertati, si è posto in ri salto l'eccesso nell'uso dei mezzi di difesa, riconducibile alla
colpa del Bernaca, dovuta ad imprudenza, leggerezza e precipi tazione. Sicché, risultando congruamente motivata sul punto, la contestata decisione non può essere oggetto di sindacato in que sta sede, essendo pacifico che l'ammissione o l'esclusione della esimente della legittima difesa, e cosi' pure il riconoscimento o
l'esclusione dell'eccesso colposo, cioè lo stabilire in una concreta
fattispecie quaii siano i limiti imposti dalla necessità di difesa
e se gli stessi siano stati, o non, colposamente superati, costitui sce un giudizio di fatto, che sfugge al sindacato del giudice di
legittimità, quando gli elementi di prova della colpa, liberamente
valutati dal giudice di merito, siano posti, come nella specie, in esatta relazione alle norme di diritto.
Quanto alla seconda doglianza, che si appalesa meritevole di
un esame più particolareggiato, osserva la corte che la tesi pro
posta dalla ricorrente sarebbe accettabile, se i fatti si fossero
svolti secondo l'assunto dedotto nel motivo di ricorso, se cioè
la ricorrente, versando, come è pacifico in atti, in stato di legit tima difesa, si fosse limitata ad invocare aiuto. In tal caso è in
dubbio che, se il soccorritore, intervenendo di sua iniziativa in
difesa dell'aggredito, ecceda colposamente dai limiti della difesa, non può tale eccesso attribuirsi anche all'aggredito. Invero le
cause di giustificazione e l'eccesso colposo hanno carattere sog
gettivo (art. 70, n. 2, c.p.) e quindi spiegano effetto soltanto nei
riguardi della persona cui si riferiscono; sicché, nel caso in cui
il fatto sia imputabile a più persone, tale effetto può essere rite
nuto soltanto per alcuni ed escluso per gli altri, e cosi parimenti
può riconoscersi la legittima difesa nel fatto di un coimputato e l'eccesso colposo nel fatto di un altro; con la conseguenza che
nel caso in esame (sempreché i fatti si fossero svolti nel modo
suddetto), una volta riconosciuto lo stato di legittima difesa nei
confronti della Valle, a quest'ultima non potrebbe estendersi
l'eccesso colposo imputabile al Bernaca.
Ma nella concreta fattispecie il fatto asserito dalla ricorrente,
di essersi limitata ad invocare l'aiuto del suo dipendente, è stato
totalmente disatteso dai giudici di merito, e ciò perché comple tamente smentito dalle risultanze del processo. E infatti, dagli insindacabili accertamenti compiuti in sede di merito emerge che
il fatto commesso dal Bernaca deve ritenersi riconducibile al
pregresso accordo intervenuto tra il predetto Bernaca e la Valle, e più precisamente al mandato che quest'ultima gli aveva confe
rito di difenderla, allorché, due giorni prima del fatto, gli aveva
consegnato il fucile del marito e lo aveva peraltro sollecitato a
farne uso (indicandogli pure il luogo dove avrebbe dovuto appo starsi), qualora il genero (che aveva minacciato di fare una strage nei confronti della moglie e dei suoceri) si fosse reso pericoloso.
Ora, anche se è vero che non si è trattato di una licenza ad
uccidere a qualunque costo e indiscriminatamente, ma soltanto
in condizioni di necessità (poi effettivamente verificatesi, come
accertato in atti), non può negarsi che — considerata l'ampiezza del mandato (in quanto non risulta che il fucile sia stato conse
gnato al Bernaca unicamente perché egli lo usasse a solo scopo
intimidatorio) — la Valle ha non solo previsto e voluto l'azione
del Bernaca, di cui in effetti è stata l'istigatrice, ma ne ha anche
previsto e voluto il risultato, come è dimostrato dal fatto che, al
momento dell'aggressione, ebbe più volte a sollecitare il Bernaca
a dare esecuzione al mandato, appunto esortandolo a sparare.
Appare quindi indubbia l'attività concorsuale della Valle ri
spetto all'azione (preventivamente) concordata con il Bernaca e
da questi poi realizzata.
Tuttavia, della successiva imprudenza riscontrata a carico del
Bernaca nell'esecuzione del mandato, non può la Valle essere
chiamata a rispondere (come ritenuto dai giudici di merito) a
titolo di concorso proprio, posto che nel reato colposo, che si
caratterizza rispetto a quello doloso per la mancata volizione
dell'evento, non è concepibile un concorso di volontà rispetto
all'evento.
E d'altra parte, pur riconoscendosi che il reato compiuto per
eccesso di difesa si qualifica come reato colposo soltanto sotto
il profilo giuridico, mentre nella struttura esso rimane doloso,
resta comunque insuperabile il fatto che la Valle, nel program
mare con il Bernaca le modalità dell'azione che questi avrebbe
dovuto eventualmente porre in essere in caso di necessità, ha
però voluto un evento non punibile: e quindi per le suesposte
ragioni non le può essere esteso il fatto colposo del Bernaca.
Senonché, questo stesso fatto che essa non ha voluto, ha però avuto la possibilità di prevedere all'atto del conferimento del
mandato, e anzi, come può evincersi dagli accertamenti com
piuti in sede di merito, ha essa stessa contribuito a cagionare con il proprio comportamento colposo. Invero, l'imprudenza della Valle deriva direttamente dal mandato commesso al Berna
ca, e più precisamente dall'incauto affidamento del fucile ad
una persona inesperta, facilmente suggestionabile e altamente
emotiva (quale appunto è risultato essere il Bernaca), con il con
testuale incarico di farne uso a scopo lesivo e non meramente
intimidatorio, e ciò malgrado che essa Valle fosse perfettamente a conoscenza del carattere mite e timido del giovane Bernaca, fa
cilmente terrorizzabile (come appunto rilevato dai giudici del
merito dalle deposizioni rese in proposito da alcuni dei nume
rosi testi assunti): in tale situazione non era perciò del tutto
imprevedibile un uso irrazionale dell'arma.
Ne deriva pertanto che la Valle, avendo avuto la piena consa
pevolezza di partecipare all'azione del Bernaca, per esserne stata
in definitiva l'istigatrice (il che tuttavia non sarebbe valso, come
si è detto, a farle addebitare il fatto colposo commesso dal Ber
naca), deve ritenersi responsabile, a titolo di concorso improprio
(art. 113 c.p.) anche in ordine al diverso evento (non voluto ma
prevedibile) per avere essa stessa cooperato alla sua produzione con il proprio imprudente comportamento. Trattasi, come ben si
vede, di un caso di cooperazione colposa, analogo a quello ti
pico dell'automobilista che affida la propria autovettura a per sona inesperta nella guida e non esita ad incitare quest'ultima a procedere ad elevata andatura, dalla quale deriva poi un sini
stro: sicché nella fattispecie deve conclusivamente ritenersi che
bene è stata affermata la corresponsabilità della Valle nel reato
colposo attribuito al Bernaca.
Si impone dunque il rigetto del ricorso. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione V penale; sentenza 24
marzo 1981; Pres. Moscarini, Est. Modigliani, P. M. Minozzi
(conci, conf.); ric. Nardiello ed altri. Conferma App. Napoli 1° ottobre 1979.
Impugnazioni penali in genere — Parte civile — (Decisione con
cernente la qualificazione giuridica del fatto-reato — Ricorso
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GIURISPRUDENZA PENALE
per cassazione — Inammissibilità — Fattispecie (Cod. proc.
pen., art. 23, 190, 195).
Responsabile civile e civilmente obbligato per l'ammenda — Re
sponsabile civile citato da altre parti civili — Domanda risar
citoria — Ammissibilità — Termine ultimo (Cod. proc. pen., art. 107, 108).
Parte civile — Fatti connessi a quelli oggetto dell'azione pe nale — Domanda risarcitoria — Rigetto (Cod. proc. pen., art.
22, 91, 185).
È inammissibile il ricorso per cassazione col quale la parte civile
si limiti a dedurre l'erroneità della diversa qualificazione giu ridica del fatto-reato, senza censurare gli accertamenti di fatto
compiuti dal giudice di merito (nella specie, il fatto di aver
indebitamente costretto sul letto di contenzione alcuni ricove
rati nel manicomio giudiziario di A versa era stato qualificato dal tribunale come violenza privata e dalla corte d'appello come abuso di autorità contro detenuti, con applicazione del
l'amnistia). (1) La parte civile può proporre domanda risarcitoria contro il
responsabile civile già presente nel giudizio perché citato da
altre parti civili, ma deve farlo, a pena d'inammissibilità, non
oltre il termine ultimo per la costituzione di parte civile. (2)
(1) La sentenza di primo grado, Trib. S. Maria Capua Vetere 9 maggio 1978 è riportata in Foro it., 1981, II, 169, con nota di M. Scialoja.
In senso sostanzialmente conforme, v. Cass. 13 marzo 1979, Man
danici, id., Rep. 1980, voce Impugnazioni penali, n. 32, secondo cui la parte civile ha facoltà di impugnare la sentenza del giudice penale per i soli interessi civili, cioè solo per quanto attiene alle pretese di diritto privato che non abbia fatto valere mediante l'esercizio del l'azione civile di cui all'art. 23 c. p. p. che, in tutto o in parte, non siano state accolte; non può, invece, invadendo il campo riservato al p. m., proporre impugnazione contro le statuizioni che attengono alla penale responsabilità dell'imputato, anche se l'impugnazione sia limitata alle conseguenze di carattere civile, cioè tenda ad ottenere un maggiore risarcimento; perciò la parte civile non può dolersi della
qualificazione giuridica del fatto, tanto più quando la formula adot tata dal giudice non escluda, di per sé, la riproposizione dell'azione civile nella sede competente. Da Cass. 12 marzo 1980, Marciano, ibid., n. 37, è stato ritenuto sussistente l'interesse della parte civile all'annullamento di una sentenza dichiarativa di una causa di estin zione del reato, chiarendosi che tale interesse, limitato agli effetti
civili, consiste nel perseguimento del fine di ottenere il rinvio al
giudice civile competente per valore in grado di appello. La giurisprudenza della Cassazione si è consolidata nel senso che
la parte civile può impugnare le disposizioni della sentenza penale che, pur non essendo di per sé preclusive dell'azione civile, arrechino
comunque pregiudizio ai suoi interessi, ad esempio escludendo o limitando il risarcimento dei danni morali (tra le altre v. Cass. 24
gennaio 1980, Lenzi, id., Rep. 1981, voce cit-, n. 54; 20 giugno 1978, Forgione, id., 1979, II, 10, con osservazioni di La Greca; 22 marzo
1977, Sabatini, id., Rep. 1980, voce cit., n. 34). Risulta, perciò, abbandonato l'altro orientamento (Cass. 26 aprile
1978, Lo Russo, id., 1979, II, 10) secondo cui è inammissibile, per mancanza di interesse, il ricorso della parte civile avverso una sen tenza di assoluzione o di proscioglimento con formula non preclusiva dell'azione civile.
In dottrina, sul ricorso della parte civile, v., da ultimo, Giarda, in Tommaso Natale, 1978, 745; Lattanzi, in Mass. pen., 1979, 1215.
Sui complessi problemi connessi al manicomio giudiziario, cfr. da ultimo Corte cost. 27 luglio 1982, n. 139 (Foro it., 1982, I, 2109, con nota di richiami) che ha dichiarato illegittimi, per violazione dell'art. 3 Cost., gli art. 222, 1° comma, 204, cpv., e 205, cpv. n. 2, c.p., nella parte in cui non subordinano il provvedimento di rico vero in ospedale psichiatrico giudiziario dell'imputato prosciolto per infermità psichica al previo accertamento da parte del giudice della
cognizione o della esecuzione della persistente pericolosità sociale derivante dalla infermità medesima al tempo dell'applicazione della
misura; e in dottrina Manacorda, Il manicomio giudiziario, De Do
nato, Bari, 1982.
(2) Secondo Cass. 10 novembre 1970, Boero, Foro it., Rep. 1971, voce Responsabile civile, nn. 3, 4, citata in motivazione, l'atto di costituzione di parte civile, che contenga la dichiarazione di rivol
gere gli effetti della costituzione nei confronti del responsabile civile e con cui la parte intervenga nel giudizio già pendente tra altre parti civili e il medesimo responsabile civile, è irrituale giacché la legge,
per la instaurazione della lite nei confronti del responsabile civile, prescrive la formale citazione a giudizio (art. 107, 109 e 110 c.p.p.).
Tuttavia, l'atto suddetto, essendo inequivocabilmente espressivo della
volontà di agire in giudizio contro il responsabile civile, va ritenuto
valido in quanto si consideri la sua idoneità giuridica a conseguire l'ef
fetto cui era diretto (introduzione dell'azione e costituzione del rap porto processuale tra parte civile e responsabile civile); e ciò perché realizza gli stessi caratteri sostanziali della comparizione in udienza con la comparsa di costituzione (art. 267 c. p. c.) con cui può attuarsi l'intervento nel processo civile (art. 105 c. p. c.). In senso contrario, App. L'Aquila 3 ottobre 1970, id., 1971, II, 198, con nota di ri
chiami, ha ritenuto inammissibile la costituzione di parte civile fatta
nei confronti di un responsabile civile, non intervenuto volontariamen
Legittimamente viene rigettata la domanda risarcitoria proposta dalla parte civile in relazione a fatti per i quali non sia stata
esercitata l'azione penale, anche se connessi a quelli oggetto dei reati ascritti ad altri imputati. (3)
Motivi della decisione. — La corte rileva preliminarmente che l'omessa presentazione, nel termine prescritto dall'art. 201 c. p. p., dei motivi del ricorso proposto dal Nardiello rende inammissi
bile l'indicata impugnazione. Deve farsi luogo, perciò, alla re
lativa declaratoria, a norma dell'art. 209 c.p.p. Venendo al ricorso che è stato proposto, e validamente col
tivato, dalle parti civili, va anzitutto considerato il primo mez
zo, con il quale si denunzia la violazione degli art. 608 e 610
c. p. perché è stato ritenuto che i fatti ascritti al Borrelli, con
sistenti nell'abuso, da lui disposto o consentito, del letto di con
tenzione in danno di vari ricoverati, si inquadrino nella fatti
specie legale dell'abuso di autorità contro arrestati o detenuti
anziché in quella della violenza privata. Il convincimento della corte d'appello in tema di qualificazione giuridica di tali fatti si fonderebbe su considerazioni non pertinenti, quali il carattere
generico e sussidiario della figura criminosa prevista dall'art. 610
c. p. e la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della figura
prevista dall'art. 608. Inoltre non sarebbe stato considerato che
l'azione del Borrelli non era consistita nella sola adozione di
misure di rigore non consentite, ma aveva avuto, a carico degli internati, delle conseguenze consistenti nell'annullamento della
loro libertà, e peraltro era stata posta in essere per costringere i soggetti passivi a non protestare e ad accettare con rassegna zione il regime detentivo, sicché dovevano ritenersi realizzati gli elementi propri della violenza privata.
La censura è inammissibile.
È ben vero che le sentenze 22 gennaio 1970, ti. 1 (Foro it.,
1970, I, 376) e 17 febbraio 1972, n. 29 (id., 1972, I, 564) della
Corte costituzionale hanno riconosciuto il diritto della parte ci
vile di ricorrere per cassazione contro le sentenze di proscio
glimento dell'imputato per ottenere, senza che sia intaccata la
pronunzia di carattere penale ed a tutela dei propri interessi ci
vilistici, la verifica della legittimità di tale decisione. Ma tale di
ritto, secondo la portata normativa che sono venuti ad assumere
gli art. 23 e 195 c. p.p., ed in applicazione del principio gene rale posto dal 4° comma dell'art. 190 dello stesso codice, tro
va il suo limite nell'interesse della parte civile al riconoscimento
della legittimità della formula assolutoria, in funzione delle di
verse conseguenze civilistiche che da tale riconoscimento potreb bero derivare.
Nel caso concreto i ricorrenti non muovono alcuna censura
in ordine agli accertamenti di fatto che sono stati compiuti dal
la corte d'appello e che la stessa corte ha posto a base del suo
convincimento circa il realizzarsi della figura criminosa di cui
all'art. 608 c. p.; ed anzi è propro con richiamo a tali accerta
menti che essi denunziano l'errore in cui sarebbero caduti i
giudici del merito nella definizione giuridica del reato ascritto
al Borrelli. È escluso, perciò, che la correzione di tale eventuale
errore possa incidere nella determinazione del danno risarcibile, e che, di conseguenza, ricorrano le condizioni di legge per pro
porre doglianza in questa sede. Basti il dire che l'obbligo di ri
sarcimento del danno è posto a carico dell'autore del fatto ille
cito e ha il medesimo contenuto tanto se il comportamento an
tigiuridico costituisce reato quanto se costituisce un mero illecito
civile, e qualunque sia la figura criminosa che esso eventual
mente rivesta. L'unica eccezione è data dai danni non patrimo niali, che sono risarcibili solo se conseguenza di reato, ma essa
non riguarda il caso concreto, perché la corte d'appello, pur avendo applicato l'amnistia, ha inequivocamente attribuito ai
fatti commessi dal Borrelli la qualità di illeciti penali.
te, ma citato da altra parte. Per Cass. 5 aprile 1976, Casara, id., Rep. 1977, voce cit., nn. 4-6, annotata da Pennisi, in Rìv. it. dir.
proc. pen., 1977, 1194, se la citazione del responsabile civile sia stata effettuata dopo il dibattimento fissato per la prima volta, la condanna pronunciata nei confronti del responsabile civile deve con siderarsi nulla per la mancata costituzione del rapporto processuale. Trib. Catania, ord. 9 ottobre 1980, Foro it., 1981, II, 200, con nota di richiami, ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 108, 1° comma, c. p. p. nella parte in cui prevede che il responsabile civile dev'essere citato al più tardi
per il dibattimento fissato per la prima volta, escludendo la possibilità di citare lo stesso anche nel caso in cui il dibattimento sia stato rin viato prima del compimento delle formalità di apertura del dibatti mento e per motivi diversi dalla mancata citazione del responsabile civile, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost.
Sulla citazione del responsabile civile, da ultimo, v. Pecori, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, 971; Cannizzaro, in Resp. civ., 1978, 196.
(3) Non risultano precedenti in termini.
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PARTE SECONDA
Con il secondo mezzo, che va ora esaminato, e che è propo sto nell'interesse del Candita, dell'Alviani, del Campanile, del
Bruno, del Di Franco, del Pongelli, del Vicco e del Curro, la
difesa denunzia la violazione degli art. 107, 108 e 112 c. p.p.
perché la corte d'appello, in accoglimento della doglianza che
era stata proposta dal ministero di grazia e giustizia avverso
la sentenza del tribunale, ha dichiarato inammissibili le domande
delle predette parti civili contro l'amministrazione, citata ad istan
za del solo Trivini. Si pone in rilievo che la corte d'appello, nel
l'addurre che le domande sono state proposte soltanto con le
conclusioni rassegnate in sede di discussione, ha affermato cosa
inesatta, perché nelle procure, negli atti di costituzione e nei
verbali di udienza la domanda risarcitoria risultava avanzata
nei confronti di tutti i responsabili. Si richiamano, quindi alcune
affermazioni dottrinarie e giurisprudenziali, secondo le quali la
parte civile che non abbia provveduto a chiedere la citazione
del responsabile civile può giovarsi della citazione fatta da al
tre parti civili. Si deduce, infine, che il ministero ha avuto ampio
spazio di svolgere le sue difese anche nei confronti delle parti civili
diverse dal Trivini, e, con il suo comportamento, ha accettato la
contestazione della responsabilità civile che dalle stesse era sta
ta effettuata.
Tale censura è infondata. A tenore degli art. 107 e 108 c. p. p.,
perché si instauri nel processo penale il rapporto giuridico di
natura accessoria facente capo al responsabile civile, è neces
sario che quest'ultimo sia citato ad istanza della parte civile, ed
è richiesto, altresì', che la citazione avvenga, al più tardi, per il dibattimento fissato per la prima volta.
Ora, come questa corte ha già altra volta osservato (Cass. 10
novembre 1970, Boero, id., Rep. 1971, voce Responsabile civile, nn. 3, 4), la formalità della citazione può ritenersi non necessa
ria allorché la parte intervenga nel giudizio già pendente tra al
tre parti civili e il medesimo responsabile civile, realizzandosi, in tale caso, un'ipotesi del tutto corrispondente a quella previ sta dagli art. 105 e 267 c. p. c. per il processo civile. Ma per ché l'azione sia validamente introdotta e sia validamente instau
rato il nuovo rapporto processuale, occorre che l'atto di costi
tuzione di parte civile contenga la dichiarazione inequivoca di
rivolgere gli effetti della costituzione nei confronti del respon sabile civile già presente nel giudizio, o che, comunque, una di
chiarazione in tal senso sia formalmente espressa non oltre il ter
mine utile per la costituzione di parte civile (le formalità di aper tura del dibattimento), perché soltanto in tali condizioni sono
realizzati gli effetti della citazione e sono rispettati i limiti tem
porali di cui all'art. 108 c. p. p. Nel caso concreto i verbali di costituzione di tutte le parti
civili interessate recano l'espressone generica che la costituzione
è fatta « al fine di conseguire l'integrale risarcimento dei danni
morali e materiali subiti ». Né, da parte dei difensori, sono sta
te formulate espresse domande risarcitone nei confronti del mi
nistero di grazia e giustizia prima delle conclusioni finali. Nessun
utile richiamo può farsi al contenuto delle procure, perché il
contenuto della domanda giudiziale non può essere determinato
in relazione ad un atto stragiudiziale, quale è appunto la pro cura. Ad ogni modo neppure le procure recano indicazioni spe cifiche della volontà delle parti civili diverse dal Trivini di
proporre domanda risarcitoria nei confronti dell'amministrazio
ne, essendo state rilasciate « al fine di ottenere la condanna dei
responsabili alle pene di legge e al risarcimento dei danni tutti
subiti e subendi per i fatti denunziati ». Non sono realizzate,
perciò, le condizioni di legge per la valida costituzione del rap
porto processuale tra le dette parti civili e il ministero di gra zia e giustizia, né merita censura la declaratoria di inammissi
bilità delle domande che è stata resa con la sentenza impugnata. Con il terzo ed ultimo mezzo, dedotto nell'interesse del solo
Trivini, la difesa denunzia la violazione degli art. 185 c. p. e
91 c. p. p. perché la corte d'appello ha rigettato la domanda ri
sarcitoria proposta dalla predetta parte civile nei confronti degli
imputati Borrelli e Cardillo, e, di conseguenza, nei confronti del
ministero di grazia e giustizia. Nel considerare che i detti im
putati non sono stati chiamati a rispondere di fatti specifici in
danno del Trivini, ascritti, invece al Ragozzino, la corte di me
rito non avrebbe dato rilievo alla stretta connessione esistente
tra i reati commessi dai due agenti di custodia e quelli com
messi dal direttore del manicomio giudiziario, né al fatto che
il Borrelli ed il Cardillo avevano contributo, con il loro com
portamento, a rendere la vita insopportabile per tutti gli in
ternati.
Neppure questa censura è meritevole di accoglimento. Nei
capi d'imputazione a carico del Borrelli e del Cardillo il nome
del Trivini, come parte offesa, non è specificamente indicato; e se pure, nelle stesse rubriche, i reati si indicano come com
messi anche in danno di vari altri ricoverati, dagli accertamenti
compiuti in sede di merito non risulta che tra questi sia com
preso il Trivini. È escluso, d'altra parte, che la sola «connessio
ne » esistente tra i reati commessi dal Ragozzino e quelli com
messi dal Borrelli e dal Cardillo dia materia per un'azione ci
vile riparatoria nei confronti di questi ultimi. Né, per i limiti
posti dall'art. 22 c. p. p., vi è competenza del giudice penale per la domanda di risarcimento dei danni riferita ad azioni dei due
imputati che siano eventualmente connesse ai reati ascritti al
Ragozzino e in ordine alle quali non sia stata promossa azione
penale. Perciò la pronuncia di rigetto dell'azione risarcitoria pro mossa dal Trivini nei confronti del Borrelli, del Cardillo e del
ministero di grazia e giustizia resta comunque immune da cen
sura.
Dalle esposte considerazioni segue che il ricorso del Trivini, del Candita, dell'Alviani, del Campanile, del Bruno, del Da Fran
co, del Pongelli, del Vicco e del Curro deve essere rigettato.
(Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I penale; sentenza 2 aprile
1980; Pres. Sesti, Est. Pianura, P. M. Lombardi (conci, conf.); ric. Politi. Annulla senza rinvio App. Reggio Calabria 25 giu
gno 1979.
Armi e materie esplodenti — Guardia giurata privata — Li
cenza — Porto dell'arma autorizzata fuori servizio e fuori ter
ritorio — Reato — Insussistenza i(L. 14 ottobre 1974 n. 497,
nuove norme contro la criminalità, art. 12, 14; r. d. 6 maggio 1940 n. 635, regolamento per l'esecuzione del t. u. 18 giugno 1931 n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza, art. 256).
Non costituisce reato il porto da parte di una guardia particolare
giurata, fuori dell'ambito di esercizio del relativo servizio, del
l'arma per la quale abbia ottenuto la speciale licenza rilasciata
dal prefetto. (1)
Ritenuto in fatto. — Con sentenza del Tribunale di Locri in
data 3 gennaio 1979, -Politi Carmelo, guardia particolare giurata alle dipendenze dell'istituto « La Vigilante » di Reggio Calabria,
è stato condannato alla pena di mesi quattro di reclusione e lire
(1) In senso contrario, unico precedente a quel che consta, v. Pret. Genova 8 ottobre 1976, Foro it., 1977, II, 68, con nota di richiami; peraltro Cons. Stato, Sez. I, 25 maggio 1979, n. 543 {id., Rep. 1981, voce Guardia privata, n. 1), ha affermato che le guardie giurate, salvo
particolari limitazioni stabilite nella licenza, possono portare l'arma senza limiti di tempo, e quindi anche allorché non sono in servizio.
Per riferimenti, nel senso che in caso di esercizio dell'attività di
guardia particolare giurata dopo la scadenza della licenza prefettizia annuale, risponde della relativa contravvenzione non solo la persona che tale attività abbia abusivamente esercitato, ma anche il proprie tario o l'imprenditore che abbia predisposto il servizio di vigilanza e custodia di beni mobili o immobili, v. Pret. Rivarolo Canavese 28
maggio 1974, id., 1975, II, 68, con nota di richiami anche di dottrina.
Sulla qualità di pubblico ufficiale delle guardie particolari giurate, v., da ultimo, tra le tante, Cass. 18 febbraio 1980, Salerno, id., Rep. 1981, voce Pubblico ufficiale, n. 26; !2 gennaio 1979, Gallina, id., Rep. 1980, voce Guardia privata, n. 4; 30 ottobre 1974, Magnani, id., Rep. 1975, voce Pubblico ufficiale, nn. 8, 9; 21 ottobre 1970, Floridia, 16 dicembre 1970, Sozzi e 9 marzo 1971, Merler, id., Rep. 1971, voce cit., nn. 19-23; 18 marzo 1970, Aspromonte, id., Rep. 1970, voce
Ufficiale pubblico, n. 14; 8 aprile 1968, Modica e 30 aprile 1968, Verde, id., Rep. 1968, voce cit., nn. 19-21; 26 gennaio 1966, Ruzzi, id., Rep. 1966, voce cit., n. 10; 14 febbraio 1964, Carlino e 26 mag gio 1964, Calabro, id., Rep. 1964, voce cit., nn. 9, 13; 14 novembre
1962, Lizzadro, 14 novembre 1962, Velia, 22 gennaio 1963, Di Mauro, id., Rep. 1963, voce cit., nn. 7-10; 24 novembre 1961, Cucinello, id., Rep. 1962, voce cit., n. 6; 2 aprile 1960, La Quatra, id.. Rep. 1961, voce cit., n. 5; 12 maggio 1960, Orlando, id., Rep. 1960, voce cit., n. 11; in dottrina, Pettinato, in Riv. polizia, 1975, 812.
Il principio di diritto affermato dalla sentenza che si riporta sembra di indubbia esattezza. Infatti, l'art. 256 r. d. 6 maggio 1940 n. 635
dispone, senza prevedere limitazioni di sorta, che, per portare armi, le
guardie particolari devono munirsi della licenza prescritta dall'art. 42 del testo unico e 71 del regolamento. E il predetto art. 42 disciplina la licenza per il porto d'armi che può essere rilasciata a qualsiasi per sona, indipendentemente dalla qualifica eventualmente rivestita. A
ragione è stato ritenuto inconferente il riferimento fatto dai giudici di merito all'art. 74 r. d. 635/1940, dato che la relativa disposi zione non concerne le guardie particolari private, sebbene « talune
categorie di personale civile, dipendente direttamente dallo Stato e addetto permanentemente ad un determinato servizio».
M. Boschi
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