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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione V penale; sentenza 25 maggio 1993; Pres....

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Page 1: PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione V penale; sentenza 25 maggio 1993; Pres. Arcidiacono, Est. Malinconico, P.M. Pagliarulo (concl. conf.); ric. Corbosiero e altri. Annulla

sezione V penale; sentenza 25 maggio 1993; Pres. Arcidiacono, Est. Malinconico, P.M. Pagliarulo(concl. conf.); ric. Corbosiero e altri. Annulla senza rinvio e conferma App. Lecce 20 novembre1992Source: Il Foro Italiano, Vol. 117, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1994), pp.87/88-89/90Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23188433 .

Accessed: 28/06/2014 08:21

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PARTE SECONDA

CORTE DI CASSAZIONE; sezione V penale; sentenza 25 mag

gio 1993; Pres. Arcidiacono, Est. Malinconico, P.M. Pa

gliarulo (conci, conf.); ric. Corbosiero e altri. Annulla sen

za rinvio e conferma App. Lecce 20 novembre 1992.

Società — False comunicazioni sociali — Reato — Estremi —

Fattispecie (Cod. civ., art. 2621).

Integra il reato di false comunicazioni sociali, di cui all'art. 2621,

n. 1, c.c., una rivalutazione assolutamente sproporzionata e

non rispondente ai valori di mercato degli immobili, iscritta

nel conto economico a copertura e occultamento della perdita di esercizio (nella specie, si trattava di rivalutazione per quasi tre miliardi degli immobili della società, effettuata sulla base

di una falsa perizia tecnica). (1) Ad integrare il dolo specifico del delitto di false comunicazioni

(1) La sentenza afferma il principio secondo cui il reato di false co

municazioni sociali (art. 2621, n. 1, c.c.) può essere realizzato anche attraverso un'artificiosa rivalutazione degli immobili appartenenti alla

società: cfr., in termini analoghi, App. Napoli 5 dicembre 1988, Foro

it., Rep. 1990, voce Società, n. 928 e Riv. pen. economia, 1990, 7, con nota di Guida, Il reato di falso in bilancio e la valutazione degli immobili, ibid., 183.

Il d.leg. 9 aprile 1991 n. 127, in attuazione della quarta direttiva

comunitaria, ha dettato nuove norme in materia di società, lasciando tuttavia immutate, nella sostanza, quelle poste a fondamento della pre sente decisione.

Ai sensi dell'ex art. 2425, n. 1, c.c. (trasfuso ora nell'art. 2426, n.

1, nuovo testo), gli immobili non potevano essere iscritti in bilancio

per un valore superiore al loro costo di acquisto. Il 3° comma dell'art. 2425 c.c. consentiva, peraltro, ai redattori del

bilancio di derogare a tale criterio di valutazione in presenza di «specia li ragioni»; e l'art. 9 1. 19 marzo 1983 n. 72, con norma di interpreta zione autentica, aveva chiarito: «L'art. 2425, 3° comma, c.c., è da in

tendersi nel senso che può derogarsi ai criteri di valutazione dettati dal

la legge quando l'applicazione di tali criteri contrasta con l'esigenza che il bilancio e la relazione diano un quadro fedele della situazione

patrimoniale (...) della società». Anche tali disposizioni sono state so

stanzialmente riprodotte dalla nuova legge, nell'art. 2423 , 4° comma, c.c. nuovo testo.

Secondo la sentenza in epigrafe, la deroga alle singole disposizioni dettate in tema di formulazione del bilancio di esercizio non può fon darsi su scelte soggettive e politiche discrezionali di bilancio «rappre sentative di esigenze della società».

Questa affermazione appare in linea con l'art. 9 cit., che, «lungi dal l'introdurre il c.d. principio di soggettivizzazione delle norme sul bilan

cio», consente la deroga ai criteri di valutazione previsti dalla legge nei soli casi in cui questa risulti strumentale alla soddisfazione del prin cipio di verità del bilancio.

Deve, pertanto, concludersi che l'esigenza di limitare la discrezionali tà degli amministratori in sede di formazione del bilancio, tenuta pre sente dalla normativa civilistica (v. sul punto R. Rordorf, Il bilancio

di esercizio e il bilancio consolidato, in Foro it., 1992, V, 253), trova analogo riscontro in campo penale. Si tenga presente, tuttavia, che la deviazione dai criteri contabili dettati dalla legge non imposta dalle «spe ciali ragioni» di cui all'art. 2425, 3° comma, c.c., integra la fattispecie di cui all'art. 2621, n. 1, c.c., solo quando sia accompagnata dalla spe cifica intenzione di indurre in errore i soci o i terzi in ordine all'effetti va situazione patrimoniale della società: ai fini della realizzazione del reato di false comunicazioni sociali assume, cioè, rilevanza decisiva l'e

sposizione «fraudolenta» in bilancio di fatti non conformi al vero (cosi App. Milano 18 dicembre 1991, id., Rep. 1992, voce cit., n. 635 e So

cietà, 1992, 951, con nota di Tosato: «La fattispecie penale prevista dall'art. 2621, n. 1, c.c. richiede che la falsa comunicazione sociale sia fraudolentemente esposta, per cui l'avere seguito un criterio diverso di iscrizione in bilancio dei contributi a fondo perduto erogati a favore della società non integra, per ciò solo, gli estremi del reato di cui sopra; per potersi parlare di frode occorre l'intento dei redattori del bilancio di fuorviare il lettore di detto documento inducendo in lui una rappre sentazione non conforme al vero»).

Ciò spiega l'attenzione posta dalla giurisprudenza sui caratteri di «ar bitrarietà» o di «irragionevolezza» delle scelte di bilancio, assunti quali indici sintomatici, sul terreno probatorio, dell'esistenza del dolo specifi co espresso dall'avverbio «fraudolentemente» (cfr. App. Napoli 5 di cembre 1988, cit.: «Nel concetto di 'fatti' di cui all'art. 2621 non rien trano tutte le valutazioni non conformi al vero, ma soltanto quelle che, esorbitando da un equilibrato uso della discrezionalità connessa ad ogni stima e superando ogni soglia di accettabilità, appaiano come irragione voli, artificiose o arbitrarie»).

Il Foro Italiano — 1994.

sociali, di cui all'art. 2621, n. 1, c.c., è sufficiente la volontà

di determinare un errore nei soci o nei terzi allo scopo di

indurli a comportamenti o rapporti nei confronti della società

che diversamente e presumibilmente non terrebbero. (2)

Svolgimento del processo e motivi della decisione. — Corbo

siero Francesco, Onorato Gerarda e Carretta Antonio, a segui to di istruttoria sommaria, furono ritenuti responsabili dal Tri

bunale di Lecce del reato di cui all'art. 2621, n. 1, c.c. per

avere, nelle rispettive qualità di presidente consigliere di ammi

nistrazione e sindaco della s.p.a. Pasbo, fraudolentemente esposto nel bilancio al 31 dicembre 1984, nella relazione al consiglio di amministrazione ed in quella al collegio sindacale, fatti non

corrispondenti al vero sulle condizioni economiche della socie

tà, facendo risultare in pareggio il conto economico di gestione, e cosi occultando la perdita di esercizio di lire 2.735.343.621

formatasi nel 1984, attraverso l'artificio contabile della rivalu

tazione degli immobili della società per un importo pari alla

suddetta perdita e l'imputazione tra gli utili di plusvalenza di

tale rivalutazione che invece violava i criteri di cui all'art. 2425,

1° comma, c.c.

La Corte d'appello di Lecce confermò la sentenza.

I prevenuti hanno proposto ricorso per cassazione con quat tro motivi appresso esaminati nell'ordine, non prima di avere

rilevato che il reato ascritto alla Onorato, la quale ha beneficia

to delle attenuanti generiche, è prescritto perché consumato, in

relazione agli ultimi episodi, il 19 agosto 1985, come indicato

nel capo d'imputazione. 1. - Con l'appello i predetti avevano dedotto la mancata rela

zione tra l'accusa e la sentenza perché, pur essendo stato il rea

to configurato in base all'affermata falsità della perizia giurata dell'ardi. De Querquis sulla stima degli immobili oggetto della

rivalutazione, questo elemento non era stato contestato.

Si denuncia ora l'inosservanza ed erronea applicazione del

l'art. 477 c.p.p. 1930 ed il difetto di motivazione per vizio logi co. Si afferma, in sostanza e al di là dei rilievi in fatto contenu

ti nel motivo, che la corte d'appello, escludendo che la falsità

della perizia esulasse dall'accusa e sostenendo la sufficienza nel

capo d'imputazione del riferimento alla presentazione in bilan

cio di un quadro infedele della situazione patrimoniale e finan

ziaria dell'impresa, ha dato «un'interpretazione del tutto incom

patibile con il testo complessivo dell'addebito» in quanto nu

cleo essenziale del delitto di cui all'art. 2621, n. 1, c.c. non

è l'attribuzione in bilancio di un valore falso agli immobili ma

la deroga fatta dagli imputati ai criteri di valutazione imposti dall'art. 2425 1° comma c.c. come interpretato dall'art. 9 1.

72/83. La censura è manifestamente infondata.

Al fine di rappresentare gli elementi necessari ad assicurare

la corrispondenza tra l'accusa contestata e la sentenza il capo

d'imputazione deve contenere gli elementi sintetici idonei ad in

dicare il fatto come riconducibile nella fattispecie astratta, a

prescindere dagli accidenti che l'hanno deteminato e dalle prove relative. Nel caso lo schema astratto era dato dalla norma citata

che prevede come reato, per quanto qui interessa, l'esposizione, da parte delle persone e nei modi indicati, di circostanze non

rispondenti al vero sulle condizioni economiche della società:

(2) Ai fini della configurabilità del dolo specifico, la sentenza sembra accontentarsi della esistenza della sola volontà di trarre in inganno i titolari degli interessi protetti (negli stessi termini, Cass. 11 dicembre

1991, Scibetta, Foro it., Rep. 1992, voce Società, n. 787). Nel senso che occorre, invece, oltre alla volontà di indurre in errore, anche il

proposito di conseguire un profitto ingiusto (ma non anche la consape volezza del danno), v. Cass. 26 aprile 1990, Einaudi, id., Rep. 1991, voce cit., n. 792 e Cass. pen., 1991, 642: «Il dolo specifico del delitto

previsto dall'art. 2621 indicato con l'avverbio fraudolentemente ricorre

quando il soggetto abbia agito con la volontà di indurre in errore i soci o i terzi in ordine alla effettiva situazione patrimoniale della socie

tà, accompagnata dal proposito del conseguimento di un profitto ingiu sto senza che occorra anche quello di cagionare un danno a terzi, essen do sufficiente la previsione di questo come correlativo al profitto». V. anche Cass. 21 gennaio 1992, Nava, Foro it., Rep. 1992, voce cit., n. 786 e Riv. pen., 1992, 637.

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GIURISPRUDENZA PENALE

ed il «fatto» è stato compiutamente indicato nell'artificio con

tabile della rivalutazione degli immobili della società. Che poi si fosse trattato o meno di artificio contabile, per essere stata

la valutazione desunta da una perizia giurata, e si fosse operato o meno legittimamente ai sensi dell'art. 9 cit. era questione che

esulava dalla contestazione.

La corte d'appello ha applicato correttamente i principi di

diritto di cui innanzi ed ha fornito una motivazione esente da

vizi di qualsiasi specie. 2. - Si denuncia ancora l'erronea applicazione dell'art. 2621,

n. 1, c.c. in relazione agli art. 2425, 1° comma, n. 1, c.c. e

9 1. 72/83 ed il difetto ed il vizio logico della motivazione. Deve premettersi che la motivazione attiene alla formazione

e giustificazione del sillogismo giudiziale che muove dalle circo

stanze di fatto acquisite al processo, dalla loro corretta valuta

zione anche giuridica e quindi dal loro inquadramento nella fat

tispecie astratta; che il giudice di merito per compiutezza di mo

tivazione è tenuto solo ad interpretare la legge e a darne atto,

ma non a dare anche conto del processo all'uopo seguito (es sendo del tutto irrilevanti le ragioni, corrette o errate, che indu

cono ad una data conclusione); che pertanto ogni pretesa caren

za di indagine ai fini della migliore interpretazione della legge,

nella specie dell'art. 9 cit., è assolutamente irrilevante e non

è suscettibile di integrare il difetto di motivazione perché l'ap

plicazione non corretta della legge è autonomamente deducibile

(v. art. 606, 1° comma, lett. b e c, c.p.p. 1988 e art. 524, 1°

comma, n. 1, c.p.p. 1930). È per queste ragioni che tutto l'ar

gomentare del motivo sulle tappe che avrebbe dovuto seguire

il giudice di merito nell'interpretazione della legge non viene

considerato sotto il denunciato profilo del vizio di motivazione.

Sgombrato dagli ampi riferimenti a circostanze di fatto —

anche in ordine al problema della definizione dei beni immobili

nell'ambito dell'impresa e della loro valutazione, correttamente

affrontato e risolto dalla sentenza impugnata — il motivo si

riduce alla denuncia della non corretta applicazione delle norme

innanzi indicate, in special modo avuto riguardo all'incidenza

effettiva dell'art. 9, cit., sui criteri di valutazione nel bilancio

degli elementi dell'attivo ai sensi dell'art. 2425, 1° comma, n.

1, c.c. e quindi sulla nuova portata della norma incriminatrice

contenuta nell'art. 2621, n. 1, c.c. Si sostiene che le «speciali

ragioni» in base alle quali può derogarsi ai criteri di valutazione

dettati dalla legge, considerate dall'art. 9, cit., ai fini dell'inter

pretazione autentica dell'art. 2425, 3° comma, c.c., devono es

sere individuate, in base a scelte e politiche discrezionali e sog

gettive di bilancio, nelle più diverse circostanze rappresentative

di esigenze della società.

L'affermazione deve essere respinta non perché infondata a

priori, ma perché dalla sua ampia valenza i ricorrenti fanno

discendere, per l'applicazione al caso di specie, l'arbitrio totale

nella formazione del bilancio che non è tollerato dal diritto

vigente. Pur dopo l'entrata in vigore della 1. 19 marzo 1983 n. 72,

non sono mutate né le regole né le esigenze generali, desumibili

dagli art. 2423 ss. c.c., che stanno alla base della disciplina del

bilancio delle società per azioni e che si riflettono in particola re: sui criteri di chiarezza e precisione, con i quali deve essere

rappresentata la situazione patrimoniale della società, che pur

avendo carattere strumentale e formale, non possono essere fru

strati dalla sostanziale non conoscibilità del detto stato o dalla

falsità contabile; sulla loro correlazione col principio di verità

perché strumentali alla funzione informativa del bilancio sulla

reale situazione economica e patrimoniale della società; sul ri

spetto del limite alla discrezionalità nell'esposizione delle poste

attive e passive. Siffatta conclusione è confermata proprio dall'art. 9, cit., che,

interpretando autenticamente l'art. 2425, 3° comma, c.c., lungi

dall'introdurre il cosiddetto principio della «soggettivizzazione»

delle norme sul bilancio, ha riaffermato la validità di quelli in

nanzi esposti in quanto consente la deroga ai criteri di valuta

zione dettati dalla legge solo se l'applicazione rigida dei criteri contrasti con l'esigenza che il bilancio e la relazione diano un

quadro fedele della situazione patrimoniale e finanziaria e del

risultato economico della società, con ciò ribadendo la finalità

primaria che sta alla base della disciplina positiva e cioè la sod

disfazione dell'esigenza di verità.

Il Foro Italiano — 1994.

La corte d'appello ha correttamente interpretato la legge in

tal senso e pertanto il motivo si rivela infondato.

3) Si deduce poi la violazione dell'art. 2521, 1° comma, n.

1, c.c. anche come conseguenza dell'omesso esame e del travi

samento delle risultanze processuali. Si afferma che erroneamente è stato individuato il fine frau

dolento della rivalutazione degli immobili nella copertura della

perdita di esercizio mentre proprio l'esigenza di coprire le per dite d'esercizio costituisce ragione legittimante la deroga al prin

cipio della valutazione degli immobili al costo storico. Si ribadi

sce il vizio di motivazione laddove si è censurato il comporta

mento degli imputati sotto il profilo della dissimulazione della

perdita di gestione. Si scende poi all'esposizione analitica delle

perdite indicate in bilancio, concludendosi che la società aveva

subito perdite per lire 2.735.343.621 interamente ripianata me

diante la rivalutazione degli immobili. Si nega poi la sussistenza

dell'elemento soggettivo del dolo.

Anche nella breve esposizione che precede sono stati preter messi tutti i rilievi in fatto che qui non interessano.

La prima proposizione contiene un principio che può essere

corretto ove venga armonizzato con l'esigenza di verità: ma non

può essere assunta come censura produttiva di un qualche effet

to perché in concreto tende a superare siffatta esigenza e a lega lizzare l'arbitrio assoluto nella formazione del bilancio. Anche

su tale punto la sentenza è correttamente motivata e, diversa

mente da quanto sostenuto nel secondo, si limita poi legittima mente a prendere atto del fatto che la rivalutazione degli immo

bili fu iscritta nel conto profitti e perdite a copertura ed occul

tamento della perdita di esercizio.

Con la terza affermazione si replica l'equivoco di fondo che

fa ritenere lecita ogni manipolazione della verità: anche quando

si giunge a pareggiare il conto dei profitti e delle perdite in

base ad elementi assolutamente fittizi, come la rivalutazione,

di cui ha preso atto il giudice di merito, assolutamente spropor

zionata e non rispondente minimamente ai valori di mercato,

degli immobili. Quanto poi all'elemento soggettivo del reato la censura non

va al di là di una mera ed apodittica affermazione, appena con

fortata dal rilievo in fatto che le modalità del pareggio del bi

lancio erano esposte nella relazione onde non poteva sussistere

nessuna fraudolenta finalità. La corrispondente motivazione della

sentenza è sufficiente perché: 1) ispirandosi all'insegnamento giu

risprudenziale, ha esattamente ritenuto che ad integrare il dolo

specifico del delitto di false comunicazioni sociali di cui all'art.

2621 c.c. è sufficiente la volontà di determinare un errore nei

soci o nei terzi allo scopo di indurli a comportamenti o rapporti

nei confronti della società che diversamente e presumibilmente

non terrebbero; 2) ha inteso dire che non bastava far apparire

nella relazione come gli immobili fossero stati rivalutati in de

roga ai criteri di valutazione dettati dalla legge, essendo ciò per

fettamente lecito, quando poi nella specie il dettato della legge

era stato comodamente interpretato nel senso di autorizzazione

all'arbitrio ed alla violazione del principio di verità.

In definitiva il motivo deve essere disatteso.

4) Si denuncia la falsa applicazione dell'art. 62 bis c.p. Si

afferma che l'omesso esame e il travisamento di circostanze de

cisive, come denunciato nei precedenti motivi, hanno compor

tato conclusioni errate in ordine al diniego al Corbosiero e al

Carretta delle attenuanti generiche che, per contro, andavano

concesse attesi gli ottimi precedenti penali dei prevenuti. La censura, per la parte in cui dipende dalla fondatezza dei

primi tre motivi, deve essere ovviamente disattesa; per il resto

esprime giudizi in fatto inidonei comunque a scalfire la specifi

ca motivazione della sentenza impugnata che, ai fini del diniego

di cui innanzi, ha privilegiato la gravità dei fatti ed altri elementi.

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