sezione VI penale; sentenza 17 febbraio 1988; Pres. Visalli, Est. Troiano, P.M. Vitale (concl.conf.); ric. Proc. gen. App. Venezia in causa Trevisan. Annulla Pret. San Donà del Piave 15aprile 1987Source: Il Foro Italiano, Vol. 112, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1989), pp.479/480-483/484Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23182768 .
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PARTE SECONDA
1°) nullità dei giudizi di primo e di secondo grado, non essen
dosi data dimostrazione del potere della presidente della corte
di assise di rifissare, nella stessa sessione, un processo già rinvia
to a nuovo ruolo, in quanto la formazione del ruolo di assise
è adempimento demandato esclusivamente al primo presidente della
corte di appello).
2°) vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità,
per essere stata questa affermata unicamente sulla base di una
confessione (peraltro ritrattata) resa da persona, le cui capacità
psichiche erano risultate palesemente deficitarie e che aveva fatto
riferimento solo ad elementi di fatto già noti agli inquirenti, la
sciando però insolute tutte le altre circostanze che non erano sta
te chiarite.
Il ricorso deve essere rigettato, con le relative conseguenze, non
essendo riscontrabili nella sentenza impugnata né la denunciata
violazione di legge, né il preteso vizio di motivazione.
È palesemente infondato il primo motivo di annullamento.
Risulta invero accertato in atti che, a seguito di progetto di
ruolo, contenente anche l'attuale procedimento, il presidente del
la Corte di appello di Napoli aveva emesso, in data 14 gennaio 1986 — ai sensi degli art. 405 c.p.p. e 7 1. 10 aprile 1951 n.
287 — il decreto di convocazione della sessione della Corte di
assise di Avellino in piena conformità al ruolo anzidetto; pertan
to, a norma dell'art. 405 c.p.p., il presidente di detta corte di
assise aveva emesso il decreto di citazione a giudizio. Nel conseguente dibattimento, iniziatosi il 17 marzo 1986, era
stato disposto, con ordinanza in data 19 marzo 1986, l'espleta mento di una perizia sullo stato di mente dell'imputata, sicché
il dibattimento era stato rinviato a tempo indeterminato. Esauri
tosi il predetto incombente già alla data del 30 aprile 1986, il
dibattimento era stato nuovamente fissato dinanzi alla stessa cor
te di assise, che era ancora in sessione.
Orbene, rebus sic stantibus, deve giudicarsi incensurabile la de
cisione dei giudici dell'appello, che hanno escluso la sussistenza
della denunciata nullità (già esclusa dai primi giudici), in primo luogo non essendo prevista detta nullità né nell'art. 412 c.p.p., né in altra norma, e in secondo luogo non essendo ravvisabile
neppure la nullità di cui all'art. 185, n. 1, c.p.p. (capacità del
giudice). Quando infatti è stato rifissato il dibattimento, dopo il prece
dente rinvio a tempo indeterminato, la corte di assise era ancora
in sessione, e quindi il suo presidente conservava il potere-dovere di emettere il decreto di citazione per ciascuno dei processi iscritti
nel relativo originario ruolo.
Non occorreva perciò né la formazione di un nuovo ruolo, né
una nuova convocazione.
Infatti, erroneamente la ricorrente parla di «rinvio a nuovo
ruolo», posto che al contrario il codice di rito prevede più preci samente o la sospensione del dibattimento (art. 431 c.p.p.) o il
rinvio del dibattimento a tempo indeterminato (art. 432). Sicché, nel caso di rifissazione di un procedimento di competenza della corte di assise, già in precedenza rinviato a tempo indeterminato, non è richiesto, quando la corte è ancora in sessione, che esso
sia iscritto in un ruolo «nuovo», né che questo ruolo sia anche «diverso» da quello originario.
Perciò, sempreché la corte sia ancora in sessione, ne consegue che ben può il dibattimento essere da questa celebrato, senza la
necessità della convocazione di un'altra corte di assise. Ond'è che,
per escludere la denunciata nullità (art. 185, n. 1, codice di rito), è sufficiente rilevare che, come esattamente rilevato dalla corte di merito, il rinvio a tempo indeterminato non fa venir meno
le condizioni di legittimità delle funzioni giurisdizionali del colle gio giudicante (secondo l'originaria composizione), posto che tali
condizioni derivano proprio dalla convocazione già ordinata dal
primo presidente della corte di appello. (Omissis)
Il Foro Italiano — 1989.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione VI penale; sentenza 17 feb
braio 1988; Pres. Visalli, Est. Troiano, P.M. Vitale (conci,
conf.); ric. Proc. gen. App. Venezia in causa Trevisan. Annul
la Pret. San Donò del Piave 15 aprile 1987.
Alimenti e bevande (igiene e commercio) — Preparazione e som
ministrazione di cibi cotti — Autorizzazione specifica sanitaria — Necessità (L. 30 aprile 1962 n. 283, disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle be
vande, art. 2).
Premesso che è punibile a norma dell'art. 2 l. 283 del 1962 la
produzione di un alimento diverso da quello autorizzato, l'uni
co criterio utilizzabile per delimitare l'ambito dell'attività con
sentita nei pubblici esercizi muniti dell'autorizzazione sanitaria
per «prodotti bar» consiste nell'assenza, nella preparazione de
gli alimenti solidi somministrati nei detti locati, del procedi mento di cottura, che è ben diverso dal semplice riscaldamento
dei panini o di altri alimenti solidi usualmente eseguito nei bar;
infatti, la cottura di alimenti — tipo hamburger, wurstel, pata tine fritte — risolvendosi in una modificazione sostanziale del
la materia prima, mediante impiego di particolari attrezzature
e di sia pure semplici condimenti, comporta, ove non vengano adottate particolari cautele, un non trascurabile pericolo per la salute pubblica. (1)
Svolgimento del processo. — Trevisan Teresina venne tratta
a giudizio dinanzi al Pretore di San Dona del Piave, per rispon dere della contravvenzione prevista nell'art. 2 1. 30 aprile 1962
(1) Per una fattispecie analoga a quella decisa, v. Cass. 1° febbraio
1985, Gambino, Foro it., Rep. 1985, voce Alimenti e bevande, n. 37. Nell'udienza del 17 febbraio 1988 la Cassazione ha annullato un'altra sentenza pronunciata dal Pretore di San Donà di Piave (imp. Marchesin) in fattispecie identica a quella qui riportata. Analogo convincimento era stato espresso all'udienza del 28 gennaio 1988 (imp. Polloni).
Per l'affermazione che l'art. 2 1. 283 del 1962 non distingue tra produ zione ampia o limitata, effettuata cioè su scala industriale o con sistemi
artigianali, v. Cass. 24 giugno 1986, Costato, id., Rep. 1987, voce cit., n. 63; 5 ottobre 1984, Paladini, id.. Rep. 1985, voce cit., n. 31; 4 luglio 1984, Alianelli, ibid., n. 35; 14 ottobre 1983, Bertolucci, id.. Rep. 1984, voce cit., n. 42. Anche i piccoli laboratori annessi ad esercizi di sommini strazione al pubblico di alimenti, compresi i bar e le osterie, sono soggetti all'obbligo dell'autorizzazione sanitaria: in tema, v. Cass. 14 febbraio
1985, Montanucci, id., Rep. 1986, voce cit., n. 24; 2 marzo 1981, Sciarri
ni, id., Rep. 1982, voce cit., n. 52; 1° febbraio 1980, De Merolis, id., Rep. 1981, voce cit., n. 78; 1° febbraio 1980, Miccoli, ibid., n. 79; 20 dicembre 1979, Cutino, ibid., n. 80; 11 luglio 1977, Di Jorio, id., Rep. 1978, voce cit., n. 18; 10 giugno 1974, Ciabattoni, id., Rep. 1975, voce
cit., n. 26. Per l'affermazione che l'autorizzazione va richiesta a prescindere dalla
durata delle operazioni di preparazione e confezionamento delle sostanze alimentari, v. Cass. 12 aprile 1984, Polizzi, id., Rep. 1986, voce cit., n. 25; 20 dicembre 1983, Lombardi, id., Rep. 1985, voce cit., n. 32; 22 marzo 1983, Pavone, id., Rep. 1984, voce cit., nn. 40, 41. Per un'ipo tesi in cui si è ritenuto che il silenzio della pubblica amministrazione alla richiesta di autorizzazione sanitaria fosse da interpretarsi come rifiuto dell'atto e non come implicito assenso allo svolgimento dell'attività, v. Cass. 16 novembre 1984, Perrone id., Rep. 1986, voce cit., n. 65; 11 ottobre 1983, Bassotti, id., Rep. 1985, voce Autorizzazione amministrati va, n. 1. Per il principio che l'autorizzazione sanitaria non può essere sostituita da altri atti autorizzativi rilasciati dalla pubblica amministrazio
ne, v. Cass. 5 ottobre 1984, Paladini, cit.; 30 maggio 1984, Caponetto, id., Rep. 1985, voce Alimenti e bevande, n. 33; 16 ottobre 1980, Consoli, id., Rep. 1983, voce cit., nn. 38, 39; 28 dicembre 1979, Russo id., Rep. 1980, voce cit., n. 22.
Di avviso conforme alla sentenza in epigrafe è anche il ministero della sanità. Infatti, nella circolare n. 79 del 18 ottobre 1980 avente ad oggetto alcune disposizioni del d.p.r 26 marzo 1980 n. 327 costituente il regola mento di esecuzione della legge n. 283, viene ricordato che «in base alla costante giurisprudenza della Corte di cassazione i ristoranti, le trattorie, le mescite, i bar e le osterie sono soggetti all'autorizzazione di cui all'art. 2 della legge n. 283» e viene puntualizzato che «. . . sono esclusi dalla autorizzazione . . . quei locali in cui non si producono né si preparano sostanze alimentari, come ad esempio accade in quei refettori in cui si consumano cibi preparati altrove, ancorché vengano riscaldati, sempre nelle condizioni originali a chiusura ermetica, all'atto della sommini strazione».
In dottrina, sul reato di cui all'art. 2, v. Correrà, Tutela igienico sanitaria degli alimenti e delle bevande, Milano, 1986. In generale, da ultimo, v. Piccinino, Diritto penale alimentare, Torino, 1988.
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GIURISPRUDENZA PENALE
n. 283, perché aveva preparato e somministrato cibi cotti nel
chiosco-bar da lei gestito, senza aver ottenuto l'autorizzazione
sanitaria per questo genere di alimenti.
Il pretore, con sentenza 15 aprile 1987, assolse l'imputata per ché il fatto ascrittole non sussisteva.
Il giudicante premise che l'imputata era in possesso sia dell'au
torizzazione sanitaria per la preparazione dei «prodotti bar», sia
della licenza di pubblico esercizio, rilasciatagli — quanto al con
tenuto merceologico — per la categoria «B» (cui apparteneva il
chiosco anzidetto), secondo la classificazione di cui all'art. 23
d.m. 28 aprile 1976, il quale prevede tre tipi di esercizi per la
somministrazione al pubblico di alimenti e bevande ed espressa mente elenca, quanto alla categoria «B», oltre ai dolciumi, ed
ai generi di pasticceria e di gelateria, anche i «prodotti gastro nomici».
Poiché il fatto contestato all'imputata consisteva nell'aver pre
parato, mediante piastre di cottura, e friggitrici elettriche, ham
burger, wurstel e patatine fritte, occorreva accertare se questi
alimenti fossero compresi nella dizione «prodotti bar», di cui al
l'autorizzazione sanitaria, ovvero se ne fossero esclusi, per cui
la loro preparazione avrebbe dovuto essere preceduta da altro
specifico provvedimento autorizzatorio.
Ad avviso del pretore il significato della dizione anzidetta do
veva essere ricercato facendo riferimento alla denominazione mer
ceologica «prodotti gastronomici» espressamente contemplata
nell'art. 23 del cit. d.m. per gli esercizi di categoria «B». A sua
volta, il contenuto di quest'ultima denominazione andava, poi,
individuato in base alla distinzione introdotta dalla medesima nor
ma, fra gli esercizi di categoria «A» (ristoranti, tavole calde, ecc.),
in cui è consentita la somministrazione di pasti completi o anche
di singole pietanze, contraddistinte da una certa elaborazione, e
gli esercizi di categoria «B», per i quali la somministrazione è
limitata a piccole porzioni di alimenti, caratterizzati da una rapi
da e semplice preparazione e destinati ad una svelta consumazio
ne. E proprio in quest'ultima categoria merceologica rientravano
gli anzidetti alimenti — da considerarsi, quindi, prodotti gastro
nomici — sia perché offerti in porzioni modeste, sia perché ri
chiedono un rapido procedimento di cottura, eseguito, non già
con attrezzature da cucina, ma con le medesime piastre utilizzate
per riscaldare toasts, panini o altri alimenti legalmente sommini
strati nei bar.
Contro questa sentenza il procuratore generale presso la Corte
d'appello di Venezia ha proposto ricorso per cassazione.
Motivi della decisione. — Con l'unica doglianza, incentrata sulla
violazione dell'art. 2 1. n. 283 del 1962, si assume che il discrimi
ne fra gli alimenti somministrabili nei ristoranti e negli esercizi
similari, da un lato, e nei bar, dall'altro, poggia non già sulla
distinzione, necessariamente arbitraria ed elastica, fra le diverse
categorie merceologiche degli alimenti, ma sulla necessità, o me
no, del procedimento di cottura. Quest'ultima invero, compor
tando una sostanziale trasformazione del prodotto, mediante l'uso
di utensili e di metodi ben diversi da quelli impiegati per riscalda re panini e toasts, implica un potenziale pericolo per la salute
pubblica maggiore e ben diverso da quello insito nella prepara
zione e somministrazione degli alimenti offerti nei bar. E da ciò
consegue, a giudizio del ricorrente, la necessità di cautele e di
controlli sanitari distinti e più accurati di quelli previsti per i pub
blici esercizi da ultimo indicati e, quindi, il rilascio di una diversa
e specifica autorizzazione sanitaria.
Il ricorso è fondato. Occorre premettere che l'art. 2 1. 30 aprile
1962 n. 283, nel disporre che gli esercenti di stabilimenti o labo
ratori di produzione o preparazione di sostanze alimentari deb
bono munirsi di autorizzazione sanitaria, non distingue fra
produzione ampia o limitata, effettuata, cioè, su scala industriale
o con sistemi artigianali.
Pertanto, sono soggetti ad autorizzazione anche i piccoli labo
ratori, annessi ad esercizi di somministrazione al pubblico di ali
menti o bevande, ivi compresi i bar (Cass. 24 giugno 1986, Costato,
Foro it., Rep. 1987, voce Alimenti e bevande, n. 63; 30 marzo
1981, Aversano, id., Rep. 1982, voce cit., n. 53; 2 aprile 1973,
Ascione, id., Rep. 1974, voce cit., n. 36). Deve inoltre precisarsi
che, in base al disposto combinato della citata norma e dell'art.
27 del regolamento di esecuzione, approvato con d.p.r. n. 327
del 1980, l'autorizzazione deve contenere l'indicazione delle spe
cifiche sostanze alimentari, per le quali è stata rilasciata, ed è
valida soltanto per gli alimenti in essa indicati. Ne deriva, come
Il Foro Italiano — 1989.
questa corte ha avuto modo di affermare, che la produzione di
un alimento diverso da quello autorizzato integra una violazione
del cit. art. 2, non essendo consentito estendere l'ambito di effi
cacia del provvedimento autorizzatorio (Cass., sez. VI, 18 aprile
1967). Infine, l'autorizzazione in oggetto non può essere sostitui
ta dalla licenza rilasciata dagli organi competenti, ancorché su
parere dell'ufficiale sanitario, per l'esercizio di attività commer
ciali, trattandosi di provvedimenti che operano su piani distinti
e tendono a realizzare fini del tutto diversi (Cass. 30 maggio 1984,
Caporetto, id., Rep. 1985, voce cit., n. 33). Tanto premesso si osserva che, qualora, come nella specie, l'au
torizzazione sanitaria non menzioni in modo analitico i prodotti
per i quali è stata concessa, il suo ambito di efficacia deve essere
determinato facendo riferimento all'attività svolta normalmente
nella categoria di esercizi, cui appartiene quello autorizzato, per
ché solo in ordine a tale genere di attività può ragionevolmente
presumersi che siano stati svolti i controlli igienico-sanitari che
rappresentano il necessario presupposto del provvedimento in esa
me. Ne risulta, allora, che la preparazione degli alimenti rinvenu
ti dai vigili sanitari — hamburger, wurstel e patatine fritte —
non può ritenersi consentita dall'autorizzazione sanitaria «per pro
dotti bar», rilasciata all'imputata, poiché essa esula dall'attività
consueta di tale categoria di pubblici esercizi, per rientrare in quella
dei ristoranti o delle tavole calde. E tale conclusione appare an
cora più corretta ove si rifletta che la cottura di tali alimenti,
risolvendosi in una modificazione sostanziale della materia pri
ma, mediante l'impiego di particolari attrezzature (come, nella
specie, le friggitrici elettriche) e di, sia pur semplici, condimenti
(grasso, olio, ecc.) comporta — ove non vengano adottate parti
colari cautele — un non trascurabile pericolo per la salute pubbli
ca, il quale impone lo svolgimento di particolari controlli sanitari
ed il conseguente rilascio di una specifica autorizzazione. Ne de
riva altresì' che non può condividersi l'assunto del pretore, secon
do il quale la cottura dei suindicati alimenti sarebbe consentita,
sotto il profilo sanitario, soltanto perché caratterizzata da un pro
cedimento semplice e rapido, seguito da una svelta consumazio
ne. Non soltanto, invero, tali modalità non sono tali da escludere
l'anzidetto pericolo e l'adozione di appropriate cautele, ma il cri
terio proposto, per la sua stessa ambiguità e genericità, non è
idoneo a fornire un dato di riferimento preciso ed obiettivo. Sul
la base di esso, invero, dovrebbe ritenersi ammessa, negli esercizi
pubblici adibiti a bar, anche la cottura di alimenti similari a quel
li indicati o caratterizzati da altrettanta semplicità e sveltezza del
la preparazione e del consumo, e con il risultato di dar luogo
ad una casistica infinita e complicata, la cui soluzione sarebbe
affidata a criteri soggettivi e mutevoli. Deve, quindi, concludersi
che l'unico criterio, utilizzabile per delimitare, sotto il profilo sa
nitario, l'ambito della attività consentita nei pubblici esercizi, mu
niti, come quello di specie, dell'autorizzazione sanitaria «per
prodotti bar», consiste nell'assenza, nella preparazione degli ali
menti solidi somministrati nei detti locali, del procedimento di
cottura, che è ben diverso dal semplice riscaldamento di panini,
o di altri alimenti solidi, usualmente eseguito nei bar. Tale crite
rio, infatti, si fonda su di un dato obiettivo di immediata e sicura
percezione e risponde appieno a quelle esigenze di tutela della
salute pubblica perseguite dalla citata 1. n. 283 del 1962.
Deve, inoltre, rilevarsi che il richiamo fatto dal pretore all'e
lencazione dei prodotti consentiti per gli esercizi di somministra
zione al pubblico di alimenti e bevande, contenuta nell'art. 23
d.l. 28 aprile 1986, non è idoneo a sorreggere la conclusione cui
è pervenuta la sentenza impugnata.
È opportuno anzitutto chiarire che questo decreto non è appli
cabile in via diretta alla fattispecie in esame, poiché esso, diversa
mente dalla 1. n. 283 del 1962, non riguarda la tutela della salute
pubblica nel settore alimentare, ma ha una diversa sfera operati
va, costituita dalla razionale pianificazione su territorio degli eser
cizi commerciali. La citata norma, quindi, potrebbe, in ipotesi,
essere utilizzata soltanto quale semplice indice di riferimento, nei
limiti, peraltro, in cui i suoi precetti si armonizzino con le specifi
che finalità della legge anzidetta.
Ma, a parte tale rilievo, è chiaramente erroneo affermare che
il discrimine, posto dall'art. 23 fra «i prodotti gastronomici»,
la cui somministrazione è consentita negli esercizi di categoria
«B» (bar ed esercizi similari) e le pietanze somministrabili in quelli
di categoria «A» (ristoranti, tavole calde, ecc.) riposi sulla mag
giore o minore complessità o sveltezza della preparazione. Soc
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PARTE SECONDA
corrono al riguardo i rilievi suesposti in ordine all'eccessiva lati
tudine ed ambiguità di tale criterio, che condurrebbe ad una am
plificazione difficilmente controllabile, per l'assenza di un dato
obiettivo di riferimento, dell'attività degli esercizi di categoria «B»
a scapito dei locali di categoria «A»; con il risultato di intralcia
re, se non addirittura di vanificare, proprio quella razionale pia nificazione del commercio, sul territorio comunale, perseguita, nell'ambito di una articolata normativa, dal decreto in esame.
Deve quindi ritenersi, che, anche ai fini dell'art. 23 del citato
decreto ministeriale, l'unico criterio affidabile consiste nella cot
tura nello stesso esercizio, consentita per gli alimenti sommini
strabili negli esercizi di categoria «A» ed esclusa per quelli somministrabili negli esercizi di categoria «B» e, di conseguenza, che i prodotti i quali non richiedono di essere riscaldati, ma esi
gono di essere cotti, non possono essere ricompresi nella generica dizione «prodotti gastronomici» di cui alla citata norma, poiché
questa espressione è riferibile ai soli alimenti che non richiedono
un'attività di cottura da parte dell'esercente.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rin
vio ad altro pretore per nuovo giudizio, in base ai principi di
diritto sopra affermati.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 7 otto
bre 1987; Pres. Garella, Est. Morgigni, P.M. Cucco (conci,
diff.); ric. Inguscio. Annulla Trìb. Lecce 7 novembre 1986.
Acque pubbliche e private — Rifiuti liquidi — Attività di scarico
liquami per conto terzi — Reato configurabile (L. 10 maggio 1976 a. 319, norme per la tutela delle acque dall'inquinamento, art. 21; d.p.r. 10 settembre 1982 n. 915, attuazione delle diret
tive (Cee) n. 75/442 relativa ai rifiuti, n. 76/403 relativa allo
smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e n.
78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi, art. 25).
L'attività del titolare dì un'impresa di smaltimento liquami —
purché non tossici e nocivi — che per conto di terzi e mediante
autobotte effettui lo scarico nelle acque o sul suolo è discipli nata dalla l. 10 maggio 1976 n. 319 e non dal d.p.r. 10 settem bre 1982 n. 915. (1)
Svolgimento del processo. — Con sentenza del 7 novembre 1986
il Tribunale di Lecce confermava la decisione con la quale il Pre
tore di Galatina il 6 dicembre 1985 aveva condannato Inguscio
(1) Sulla questione, v. nello stesso senso (ma prima dell'entrata in vi
gore del d.p.r. n. 915) Cass. 25 febbraio 1981, Mucelli, Foro it., Rep. 1983, voce Acque pubbliche, n. 184, e in Cass. peri., 1982, 2076, con nota di F. Giampietro, I requisiti oggettivi e soggettivi dello scarico nella legge Merli e lo smaltimento dei rifiuti solidi nel d.p.r. 915 del 1982\ 6 ottobre 1982, Marzaduri, Foro it., Rep. 1983, voce cit., n. 105 e voce Incolumità pubblica (reati), n. 25. In senso conforme, v. pure Cass. 24 novembre 1987, Nasciuti, Riv. pen., 1988, 1176, in fattispecie relativa a sversamento, a mezzo autobotte, di liquami e sangue di animali.
Sulla questione specifica, v. Picotti, Versamento di rifiuti mediante autobotti: il concetto di scarico e la disciplina dei fatti concorrenti con
l'inquinamento delle acque, in Giur. merito, 1981, 1364. Per la dottrina riguardante la tematica del rapporto tra il d.p.r. 915
e la legge Merli, v. Caccin, Ambiente e sua protezione nella normativa sui rifiuti solidi, Padova, 1984, 305; Mucciarelli, La normativa sullo smaltimento dei rifiuti, dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e dei rifiuti tossici e nocivi e i suoi rapporti con la normativa sull'inquinamen to idrico, in Legislazione pen., 1983, 577 ss.; P. Giampietro, Scarichi idrici e rifiuti solidi, Milano, 1984; F. Giampietro, Smaltimento e scarico di rifiuti nell'ambiente: rapporti tra il d.p.r. 915 e la legge «Merli», in Giur. merito, 1984, 496 ss.; F. e P. Giampietro, Lo smaltimento dei rifiuti: commento al d.p.r. n. 915 del 1982, Rimini, 1985, 49-77; Amen dola, Smaltimento di rifiuti e legge penale, Napoli, 1985, 161-180; Cica la, Rifiuti (smaltimento dei), voce del Novissimo digesto, appendice, Torino, 1986, 789; Cattedra, La nuova disciplina dei rifiuti e la tutela dell'ambiente, Firenze, 1987, 106-115; Barbuto, Reati in materia di edili zia ed inquinamento, Torino, 1987, 345 ss.
Il Foro Italiano — 1989.
Francesco alla pena di mesi due di arresto e lire duecentocin
quantamila di ammenda, ritenendolo colpevole del reato di cui
all'art. 25 d.p.r. 10 settembre 1982 n. 915 per avere smaltito sen
za autorizzazione con il suo autospurgo rifiuti urbani e speciali, in agro di Galatina il 20 aprile 1984.
Ricorre l'imputato, deducendo che nella specie sarebbe confi
gurabile non il reato contestato ma la contravvenzione prevista
dagli art. 1 e 21 1. 10 maggio 1976 n. 319. Motivi della decisione. — Il ricorso è fondato. Viene, per la
prima volta, proposta in questa sede la vexata quaestio dei limiti
di operatività del d.p.r. n. 915 del 1982 e dei suoi rapporti con
la 1. n. 319 del 1976. Il d.p.r. 10 settembre 1982 n. 915 è stato
emesso in base alla 1. 9 febbraio 1982 n. 42, con la quale il gover no veniva delegato a dettare, con decreto avente forza di legge, le norme per dare attuazione alle direttive della Cee n. 75/442
relativa ai rifiuti, n. 76/403 relativa allo smaltimento dei policlo rodifenili e dei policlorotrifenili e n. 78/319 concernente i rifiuti
tossici e nocivi.
Tra le due leggi si inserisce il d.p.r. 24 luglio 1977 n. 616 che
nel trasferire alle regioni le funzioni amministrative precedente mente esercitate dagli organi centrali dello Stato, con riferimento
alla materia dell'igiene del suolo e dell'inquinamento, distingue — nell'art. 101 — i rifiuti solidi da quelli liquidi ed idrosolubili. Dalla terminologia usata nelle due normative (la 1. n. 319 e il
d.p.r. n. 915) non emerge in modo inequivocabile l'area di inter
vento delle stesse. Nella legge del 1976 si tiene presente lo «scari
co», di qualsiasi tipo, pubblico e privato, diretto ed indiretto nelle
acque, in fognatura, nel suolo e nel sottosuolo. Nel d.p.r. n. 915
(art. 1) è stato regolamentato lo «smaltimento» dei «rifiuti» dei
quali si è data una classificazione all'art. 2.
Si potrebbe — alla luce di tali ultime considerazioni — ritenere
che la distinzione tra le due normative vada fondata sulla diffe
renza tra «smaltimento» e «scarico».
I due concetti non sono però chiariti in modo tassativo dal
legislatore: molto discutibile ed incerta è pertanto l'individuazio ne di un criterio — diretto a differenziare le due discipline —
che risulti ancorato soltanto ad una mera contrapposizione di ter
mini, che possono lessicalmente essere anche considerati come si
nonimi.
La materia oggetto di ciascuna legge potrebbe essere delimitata anche in base alla compatibilità tra rifiuto ed ambiente: quando essa sia possibile (e cioè lo scarico possa avvenire nell'ambiente anche se con le necessarie cautele) la regolamentazione sarebbe affidata alla 1. n. 319 del 1976, negli altri casi troverebbe attua zione il d.p.r. n. 915 del 1982. Questo orientamento non sembra
possa essere condiviso, sia perché l'art. 2 d.p.r. n. 915 fa «salva la normativa della 1. 10 maggio 1976 n. 319, per quanto concerne lo smaltimento nelle acque, sul suolo dei liquami e dei fanghi» e quindi evidenzia che parte dello «smaltimento» trova la sua
disciplina in altra legge, sia perché il d.p.r. citato all'art. 10 pre vede pur sempre che per le discariche sia possibile la semplice ricopertura e, pertanto, ammette una compatibilità tra rifiuto ed ambiente.
Né di grande utilità è la nozione legislativa di rifiuto, inteso come «qualsiasi sostanza od oggetto, derivante da attività umane o da cicli naturali, abbandonato o destinato all'abbandono». Con essa si dà una definizione teorica, estremamente ampia, che non tiene conto della qualità o dei caratteri del rifiuto, ma in preva lenza del suo «abbandono».
La impossibilità di accogliere una distinzione teorica è conse
guenza del difettoso coordinamento delle due discipline. Nel caso in esame la corte è chiamata ad occuparsi della quali
ficazione giuridica di uno scarico di liquami compiuto dal pro prietario di un'autobotte per conto terzi.
Nella delibera del comitato dei ministri 4 febbraio 1977 (in G.U. 21 febbraio 1977, n. 48) i liquami venivano definiti «gli scarichi degli insediamenti civili e degli insediamenti produttivi siano essi effettuati mediante propria fognatura o fognatura pubblica».
L'art. 2 d.p.r. n. 915 del 1982 al 7° comma statuisce che «le
disposizioni del presente decreto non si applicano . . . agli scari chi disciplinati dalla I. 10 maggio 1976 n. 319 . . .». In virtù del 6° comma del medesimo articolo «restava salva la normativa det tata dalla 1. 10 maggio 1976 n. 319 per quanto concerne la disci
plina dello smaltimento nelle acque, sul suolo e nel sottosuolo dei liquami e dei fanghi di cui all'art. 2, lett. e), punti 2 e 3, della citata legge, purché non tossici e nocivi ai sensi del presente decreto».
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