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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezione VI penale; sentenza 18 marzo 1989; Pres. Salafia,...

Date post: 31-Jan-2017
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sezione VI penale; sentenza 18 marzo 1989; Pres. Salafia, Est. Trojano, P.M. (concl. diff.); ric. Proc. gen. App. Bologna c. Mari. Annulla App. Bologna, sez. istr., 19 aprile 1988 Source: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp. 117/118-121/122 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23183579 . Accessed: 28/06/2014 12:58 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.223.28.163 on Sat, 28 Jun 2014 12:58:51 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione VI penale; sentenza 18 marzo 1989; Pres. Salafia, Est. Trojano, P.M. (concl. diff.); ric.Proc. gen. App. Bologna c. Mari. Annulla App. Bologna, sez. istr., 19 aprile 1988Source: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp.117/118-121/122Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183579 .

Accessed: 28/06/2014 12:58

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GIURISPRUDENZA PENALE

Una simile forma di protesta non può tuttavia ricollegarsi al

diritto di sciopero. La concessione di un pubblico servizio rientra in quella specia

le categoria di concessioni denominate traslative, in quanto con

esse la pubblica amministrazione trasferisce nel privato un diritto

o una facoltà sua propria: nel caso del pubblico servizio, la fa

coltà di esercitare un servizio di cui essa è titolare e che di norma

esercita direttamente. Il privato in questi casi viene investito dal

l'amministrazione di una parte dei suoi attributi senza per questo trasformarsi in un pubblico amministratore né essere assunto nel

l'organizzazione amministrativa. Fra i doveri del concessionario

v'è quello di organizzare e di fare funzionare regolarmente il ser

vizio assunto. Poiché il rapporto si sostanzia anche di un rappor to patrimoniale, l'astensione collettiva dal lavoro per gli esercenti

di un pubblico servizio è teoricamente possibile e, data la natura

del rapporto, ben può essere considerato sciopero, con il limite,

più volte ribadito dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, della mancata compromissione di servizi pubblici essenziali aventi

carattere di preminente interesse generale ai sensi della Costi

tuzione.

Questi principi non possono trovare applicazione per la catego ria dei farmacisti. Infatti, nell'opera del titolare privato di farma

cia resta pur sempre prevalente — rispetto alla sua attività pro

fessionale, e quindi di organo indiretto della pubblica ammini

strazione — la caratteristica di attività imprenditoriale organizzata alla commercializzazione di prodotti farmaceutici, preconfenzio nati e galenici, nonché di prodotti dietetici, cosmetici, paramedi cali e similari.

Tuttavia, la norma incriminatrice, può ben trovare giustifica zione nella norma scriminante dell'esercizio di un diritto, che non

sia quello del diritto di sciopero, qualora si tratti di un diritto

soggettivo privato «protetto dalla norma in modo diretto e indi

viduale, di cui sia titolare il cittadino uti sìngulus» (sez. I 27 no

vembre 1968, Muther, id., Rep. 1969, voce Esercizio di un dirit

to, n. 2). Tale è senza dubbio quello collegato alla pretesa del

farmacista, vantata nei confronti dell'Usi competente per conto

della quale eroga i prodotti agli assistiti, di ottenere dalla stessa

Usi il rimborso delle prestazioni in tempi ragionevoli. A norma dell'art. 10 dell'accordo nazionale già menzionato,

ogni farmacia deve consegnare le ricette all'ufficio indicato del

l'ente erogatore, con cadenza mensile, entro il giorno quindici del mese successivo a quello di spedizione, con la prevista sanzio

ne del deferimento alla commissione tecnica e di vigilanza qualo ra le ricette siano presentate dalla farmacia con ritardo sistemati

co oltre il mese. L'ente erogatore dal canto suo, entro il giorno

venticinque di ogni mese deve provvedere all'effettivo pagamento alla farmacia dell'importo a saldo delle ricette spedite nel mese

precedente e all'effettivo pagamento a titolo di acconto dell'ef

fettivo numero delle ricette spedite fino al giorno quattordici del

mese corrente.

Orbene, che il diritto del farmacista di pretendere il pagamento di quanto gli è dovuto nel termine stabilito dalla legge o quanto meno in tempi congrui sia un diritto soggettivo, posto che esso

trova il suo fondamento in una norma di legge, si evince dal

fatto che egli può adire l'Usi avanti al giudice ordinario per otte

nere il rimborso.

Naturalmente, perché questo diritto soggettivo si ponga come

causa giustificativa di condotta in sé illecita, è necessario un ina

dempimento gravissimo della pubblica amministrazione, un ina

dempimento cioè che si risolva in grave pregiudizio per l'attività

e la posizione economica del farmacista. Costui infatti non può essere tenuto ad una prestazione indefinita, né è ammissibile che

l'obbligo della gratuità delle medicine si trasferisca a lui dall'Usi.

Perché dunque l'inadempimento sia tale da giustificare l'azione

illecita del farmacista è necessario che costui espleti tutti i mezzi

e gli strumenti di diritto comune atti allo scopo. Poiché nel caso in esame non risulta che i farmacisti odierni

ricorrenti abbiano espletato tutte le attività all'uopo necessarie

né che il ritardo sia talmente grave da giustificare la condotta

illecita, i giudici di merito hanno correttamente ritenuto la putati

vità dell'esercizio del diritto adottando la formula per tale con

clusione prevista. Con il sesto ed ultimo motivo di ricorso si denunzia una prete

sa erroneità della formula di assoluzione.

Si deduce che, essendo stato accertato nella sua materialità il

fatto ascritto ai farmacisti, ma essendo stata riconosciuta la scri

minante dell'art. 51 c.p., la formula di assoluzione avrebbe do

li. Foro Italiano — 1990.

vuto essere quella del «fatto non costituisce reato» e non l'altra,

atipica, adoperata dal tribunale, la quale crea «dubbi nella collet

tività». Il motivo è infondato.

La formula di assoluzione dipendente dalla non punibilità del

la persona è una di quelle che autorevole dottrina definisce «com

plesse», dato che in essa il legislatore penale ha condensato ogni

possibile causa che abbia come conseguenza, immediata o media

ta, la non applicazione della pena. Ed invero, mentre la formula del «fatto non costituisce reato»

si riferisce generalmente al caso in cui risulti inesistente, o alme

no non provato, uno degli elementi richiesti per l'integrazione della fattispecie (il caso tipico è quello nel quale si riscontri la

sussistenza del fatto e la mancanza del dolo o della colpa), l'al

tra, compendiata dall'art. 479 c.p.p. nell'espressione «per un'al

tra ragione», comprende varie ipotesi, una delle quali fa capo alle cause di giustificazione, basate sullo schema: il fatto addebi

tato all'imputato esiste, costui lo ha commesso, il fatto stesso

corrisponde ad un figura di reato prevista dall'ordinamento giu

ridico, ma esiste un altro fatto che integra una causa di giustifi cazione.

Orbene, in tal caso il giudice di merito correttamente specifica la causa di giustificazione ravvisata nella condotta dell'imputato. In mancanza infatti — posto che il giudicato penale deriva dal

dispositivo, che ne determina l'efficacia — dovrebbe poi la for

mula terminativa, anche ai fini di eventuali ripercussioni dal giu dizio penale su quello civile, essere precista e specificata in via

d'interpretazione mediante il coordinamento tra motivazione e di

spositivo. A ragione dunque i giudici molisani — con formula specifica

e consequenziale alla motivazione della sentenza, basata sull'effi

cacia esimente della putatività dell'esercizio del diritto — hanno

assolto gli imputati dichiarandoli non punibili «per avere agito nell'erroneo convincimento dell'esistenza di una causa di giustifi cazione».

CORTE DI CASSAZIONE; sezione VI penale; sentenza 18 mar

zo 1989; Pres. Salafia, Est. Troiano, P.M. (conci, diff.); ric.

Proc. gen. App. Bologna c. Mari. Annulla App. Bologna, sez.

istr., 19 aprile 1988.

Stato di famiglia (delitti contro lo) — Soppressione di stato —

Reato — Estremi — Fattispecie (Cod. pen., art. 566).

L'obbligo di compiere la dichiarazione di nascita incombe anche

sul padre di figli naturali non riconosciuti come tali, poiché il suo adempimento non si traduce necessariamente in un rico

noscimento del rapporto di filiazione, che ha natura discrezio

nale, ma risponde all'esigenza preminente di assicurare al mi

nore il conseguimento di uno stato civile e di una piena perso nalità giuridica, esigenza che integra la ratio della tutela penale

apprestata dall'art. 566 c.p. (1)

(1) La sentenza si segnala, in primo luogo, perché incrementa l'assai

esigua casistica giurisprudenziale in materia di delitti contro lo stato civi

le. Nel senso che l'obbligo di dichiarazione di nascita grava anche sui

genitori naturali, ed in particolare sul padre, cfr. Cass. 18 ottobre 1978, Di Lauro, Foro it., Rep. 1979, voce Stato di famiglia (delitti contro lo), nn. 1-2, citata in motivazione, la quale è, per quanto risulta, il solo pre cedente edito in termini. A sostegno di siffatta tesi, la decisione su ripor tata richiama, infatti, quella giurisprudenza che si è preoccupata di diffe

renziare la dichiarazione di nascita dall'azione di riconoscimento del fi

glio naturale, valendosi di tale differenza come di un argomento a fortiori-. sul punto, in motivazione, Cass. 20 marzo 1987, Bemporad, id., Rep.

1987, voce cit., n. 1 e 6 novembre 1976, n. 4044, id., 1977, I, 412; in

dottrina, circa la distinzione fra stato civile, che si acquista con la dichia

razione di nascita, e stato di famiglia, cfr. Spagnolo, I delitti contro

lo stato di famiglia tra tutela dello stato civile e tutela dello stato di

filiazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, 578; Bricola, Delitti contro

lo stato di famiglia, voce dell' Enciclopedia del diritto, Milano, 1964, XII,

56, riconosce che lo stato di famiglia protetto dall'art. 566 c.p. non è

soltanto quello legittimo, ma anche quello naturale. Un secondo motivo di interesse della sentenza qui riportata è rappre

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PARTE SECONDA

Con rapporto 21 maggio 1982 l'ufficiale di stato civile del co

mune di Rimini riferiva al procuratore della repubblica, a norma

dell'art. 68 r.d. 9 luglio 1939 n. 1238, che in data 17 maggio dello stesso anno si era presentato dinanzi a lui Mari Pietro per denunziare la nascita dei figli Romina e Marco, nati, rispettiva

mente, il 17 novembre 1978 ed il 14 dicembre 1981 dall'unione

naturale con Perugini Maria, anch'essa comparsa per confermare

tale dichiarazione.

Nei confronti del Mari venne, pertanto, promossa l'azione pe nale per il reato di cui all'art. 566, 2° comma, c.p., poiché lo

stesso aveva soppresso lo stato civile dei suddetti minori, omet

tendo di denunziarne la nascita all'anagrafe. Con sentenza 27 marzo 1987 il giudice istruttore presso il Tri

bunale di Rimini assolse l'imputato per non aver commesso il fatto.

Su appello del pubblico ministero la sezione istruttoria della

Corte d'appello di Bologna, con sentenza 19 aprile 1988, confer

mò integralmente la pronunzia impugnata. La corte ritenne che la paternità naturale assume rilevanza giu

ridica soltanto per effetto dell'atto di riconoscimento di cui al

l'art. 250 c.c. o della dichiarazione giudiziale di paternità e che,

pertanto, in mancanza di tali presupposti, il genitore naturale, non potendo essere qualificato padre sotto il profilo giuridico, non è tenuto, a norma dell'art. 70 del citato decreto, a denunzia

re la nascita del figlio. Aggiunse che, altrimenti, l'asserita dove

rosità di tale denunzia comporterebbe l'obbligatorietà del ricono

scimento del rapporto di filiazione naturale che, invece, non è

un atto dovuto.

Contro questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il

procuratore generale presso la corte anzidetta.

Con un'unica censura, incentrata sulla violazione degli art. 566

c.p. e 70 r.d. n. 1238 del 1939, l'ufficio ricorrente assume che

l'imputato, ancorché non obbligato a denunziare la nascita dei

due minori per l'assenza di un riconoscimento volontario o giudi ziale del rapporto di filiazione, si era reso, comunque, responsa bile del reato ascrittogli, a norma dell'art. 48 c.p., poiché, tacen

do agli altri soggetti obbligati a compiere la denunzia di nascita

il suo proposito di non fare tale denunzia, li aveva indotti, con

l'inganno, a porre in essere la condotta omissiva punita dal cit.

art. 566 c.p. Il ricorso è fondato nel senso di seguito precisato. Il proscioglimento di Mari per non aver commesso il fatto si

fonda su di una duplice erronea proposizione: quella secondo cui

lo stato giuridico di filiazione naturale si costituisce, a tutti gli

effetti, soltanto con l'atto di riconoscimento o con la dichiarazio

ne giudiziale di paternità, per cui nel perido anteriore non sussi

sterebbe uno stato di filiazione suscettibile di venire soppresso e l'altra, secondo la quale, nel caso di figlio naturale non ancora

riconosciuto, la dichiarazione di nascita, compiuta all'ufficiale di

stato civile ad opera o, comunque, su impulso del padre impli

cherebbe, in ogni caso, un riconoscimento del rapporto di filia

zione naturale. La prima proposizione comporta, secondo l'avvi

so dei giudici del merito, la conseguenza che, prima del riconosci

mento, il padre naturale del neonato, non essendo ancora divenuto

legalmente tale, non avrebbe l'obbligo di fare la dichiarazione

di nascita. Egli non sarebbe, quindi, destinatario di tale obbligo,

imposto dall'art. 70 r.d. n. 1238 del 1939 in via principale al

padre, che può adempiere anche attraverso un procuratore spe ciale e, in mancanza, al medico, alla levatrice, alla persona che

abbia comunque assistito al parto, ovvero, nel caso in cui la puer

pera abbia partorito fuori dalla propria abitazione, al capo della

famiglia o al delegato dell'istituto in cui il parto ha avuto luogo. Un ulteriore corollario della detta affermazione è che, nell'ipotesi di nascita del figlio naturale nell'abitazione di uno dei genitori, senza l'assistenza di alcun estraneo, l'insussistenza dell'obbligo di denunzia a carico quantomeno del padre priverebbe di ogni

sentato dal fatto che essa conferma l'orientamento della Cassazione ten dente a considerare il riconoscimento del figlio naturale come un atto

giuridico non negoziale con effetti dichiarativi che comporta, per il mino re, l'acquisto del titolo necessario all'esercizio dell'intero complesso dei diritti relativi allo status di figlio naturale, ma che è indipendente dalla dichiarazione di nascita, la quale resta indispensabile al conseguimento di uno stato civile: Cass., sez. un., 16 luglio 1985, n. 4173, Foro it., 1985, I, 2578, con osservazioni di Pardolesi. Per un caso di alterazione di stato civile, v. Cass. 4 dicembre 1986, Ceccarelli, id., Rep. 1988, voce

cit., n. 6.

Il Foro Italiano — 1990.

effettiva tutela il diritto del neonato, non riconosciuto, ad acqui sire uno stato civile qualunque. Tale conseguenza dimostra chia

ramente l'inconsistenza della tesi accolta nella sentenza impugnata. Giova premettere che la formazione dell'atto di nascita integra

un momento essenziale che incide, in senso decisivo, sulla concre

ta esplicazione della personalità giuridica del soggetto. Infatti, solo attraverso l'acquisizione di uno stato civile, conseguente a

quell'atto, il neonato risulta legalmente in vita ed è messo nella

condizione di esercitare i diritti e di adempiere gli obblighi che

gli competono — prima ancora che come componente di un nu

cleo familiare — nella duplice veste di persona fisica o di cittadino.

Il carattere primario dell'interesse pubblico soddisfatto dall'at

to di nascita trova chiaro riscontro nelle diverse norme dell'ordi

namento dello stato civile (art. 67-77 bis) le quali, oltre a rendere

i soggetti indicati destinatari dell'obbligo di rendere la dichiara

zione di nascita, impongono all'ufficiale di stato civile — che

abbia avuto, comunque, notizia di una nascita non dichiarata, od al quale sia stato consegnato un bambino trovato in abbando

no, o sia stata comunicata l'avvenuta consegna del neonato ad

un istituto — l'obbligo di promuovere il complesso meccanismo

diretto alla formazione dell'atto di nascita. Inoltre, la particolare rilevanza dell'interesse in discorso integra la ratio della tutela pe nale assicurata dall'art. 566, 2° comma, c.p., che configura, ap

punto, il delitto di soppressione di stato come la condotta rivolta

ad impedire al neonato l'acquisto di uno stato civile qualunque, facendo in modo che egli non risulti mai nato (Cass., sez. VI, 18 ottobre 1978). Di Lauro, Foro it., Rep. 1979, voce Stato di

famiglia (delitto contro lo), n. 1).

Orbene, tali rilievi — incentrati sulla funzione dell'atto di na

scita e sulla natura dell'interesse protetto — orientano, già di

per se stessi, verso un'interpretazione dell'obbligo del padre di

compiere la dichiarazione di nascita ex art. 70 ord. stato civile, nel senso che esso sussista anche nei confronti del neonato non

riconosciuto. Tale interpretazione, che ovviamente non può pre scindere dalla disciplina civilistica del rapporto di filiazione natu

rale, trova proprio in quest'ultima un'evidente conferma.

A questo riguardo è da rilevare che, secondo la più recente

giurisprudenza di questa corte (Cass., sez. un., 16 luglio 1985, n. 4173, id., 1985, I, 2578; sez. VI 20 marzo 1987, Bemporad,

id., Rep. 1987, voce cit., n. 1). Il riconoscimento di figlio natura

le non ha la natura di un negozio giuridico unilaterale costitutivo

dello status di filiazione, ma si atteggia come un atto non nego ziale con effetti dichiarativi, il quale pone in essere il titolo di

stato necessario per l'esercizio dell'intero complesso dei diritti con

nessi al rapporto giuridico di filiazione naturale. La qualità di

figlio naturale, invero, compete al soggetto non già per effetto

di un atto di autonomia privata del genitore, il quale non può

disporre dello stato familiare del figlio e dei relativi diritti, ma

in quanto ricorra in realtà il rapporto naturale di discendenza.

Il figlio, dunque, è tale sin dalla nascita e da quel momento ac

quista diritti soggettivi, sia pur limitati, quali, a norma degli art.

30 Cost, e 279 c.c., il diritto, se minorenne, al mantenimento, all'istruzione ed all'educazione e, se maggiorenne, agli alimenti, nonché i particolari diritti successori di cui agli art. 580 e 594 c.c.

La natura non negoziale dell'atto di riconoscimento trova, inol

tre, un'ulteriore conferma sia nell'impugnabilità per difetto di ve

ridicità e non soltanto per errore (art. 263 c.c.), sia nella sua

fungibilità rispetto alla declaratoria giudiziale di paternità natu

rale, la quale produce gli stessi effetti del riconoscimento e può essere pronunziata nei soli casi in cui quest'ultimo è consentito

(art. 270 e 277 c.c.). Sulla base di questi rilievi, che il collegio condivide, deve rite

nersi che il riconoscimento in esame integra una dichiarazione

di scienza, rivolta ad attribuire certezza al fatto della procreazio ne ed al correlativo stato di figlio naturale, già precedentemente

acquisito anche se con effeti giuridici limitati, conferendogli, pro

prio in virtù di tale certezze, la pienezza dell'efficacia giuridica

prevista dalla legge. E che tra gli effetti giuridici collegati al solo

fatto della procreazione vi sia anche l'obbligo del genitore natu

rale di denunziare la nascita del figlio, lo si deduce dalla stessa

tutela giuridica accordata dalle citate norme del codice civile ad

interessi certo rilevanti, ma di grado inferiore rispetto a quello

primario e fondamentale garantito dalla formazione dell'atto di

nascita; non essendo logicamente ammissibile che proprio que st'ultimo interesse resti privo, malgrado la sua prevalenza, di un'a

deguata protezione giuridica. Vero è che le richiamate norme ci

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GIURISPRUDENZA PENALE

vili si riferiscono espressamente ai figli naturali non riconoscibili.

Ma, a parte il rilievo che secondo questa corte (Cass. 6 novembre

1976, n. 4044, id., 1977, I, 412; cfr. anche sez. un. 4173/85,

cit.) ad un'accreditata dottrina, quantomeno il diritto al manteni

mento di cui all'art. 279 c.c. compete, anche a mente dell'art.

30 Cost., a tutti i figli naturali non riconosciuti, riconoscibili o

meno, deve rilevarsi che, comunque, gli argomenti deducibili da

tali norme in favore del diritto dei figli non riconoscibili a conse

guire uno stato civile, valgono a fortiori, anche per quelli ricono

scibili. Infine, lo stesso fatto che gli art. 70 e 75 del citato decreto

impongono l'obbligo di dichiarare la nascita o di consegnare il

neonato all'ufficiale di stato civile anche a soggetti collegati con

il bambino da un rapporto del tutto occasionale o fortuito deri

vante dalla mera ospitalità o dal ritrovamento, renderebbe del

tutto illogica un'esenzione dall'obbligo della dichiarazione a fa

vore di un soggetto cui l'atto di procreazione attribuisce specifi che responsabilità, quanto meno morali, nei confronti del figlio ancorché non riconosciuto.

Deve, quindi, concludersi che sia la natura dell'interesse tutela

to dall'atto di nascita, sia la disciplina civilistica del rapporto di filiazione naturale convergono nel risultato comune di dimo

strare la sussistenza dell'obbligo paterno di dichiarare la nascita

anche dei figli naturali non riconosciuti come tali.

Né può ritenersi — e con ciò si contesta la validità della secon

da proposizione dell'impugnata sentenza — che l'adempimento

dell'obbligo del genitore di denunziare la nascita del figlio natu

rale non riconosciuto si traduca necessariamente in un riconosci

mento del rapporto di filiazione e, pertanto, si ponga in contrasto

con la pacifica natura discrezionale di tale atto.

Invero, il padre naturale può adempiere l'obbligo sopra indica

to in vari modi. Innanzi tutto può presentarsi personalmente al

l'ufficiale di stato civile e dichiarare la nascita del bambino come

figlio da lui procreato, ponendo in essere, in tal modo, un atto

di riconoscimento della filiazione naturale. Inoltre, a norma degli art. 47 e 70 del citato decreto, può avvalersi di un procuratore

speciale. In quest'ultimo caso, la fattispecie risulta disciplinata dall'art. 73, 2° comma, dello stesso decreto, a norma del quale, se la nascita è da unione illegittima, l'indicazione nell'atto di na

scita del nome e cognome dei genitori, che non rendano personal mente la dichiarazione in esame, è subordinata all'indeclinabile

presupposto che i medesimi abbiano fatto esplicitamente constare

per atto pubblico il proprio consenso ad essere nominati. In as

senza di siffatta autorizzazione, resa nella forma pubblica richie

sta ad substantiam, l'ufficiale di stato civile dovrà limitarsi a

redigere l'atto di nascita di un neonato procreato da genitori che

non intendono essere nominati. Tale meccanismo mira, appunto, a contemperare l'interesse pubblico al conseguimento, da parte del minore, di uno stato civile con la natura discrezionale dell'at

to di riconoscimento. Inoltre, il padre, ove non intenda denun

ziare la nascita del figlio naturale personalmente o per procura,

potrà sollecitare l'iniziativa degli altri soggetti obbligati in nome

proprio a norma del cit. art. 70 e, comunque, sarà tenuto a non

distoglierli, con l'inganno od in altro illecito modo, dall'adem

piere il loro dovere.

Sulla base di tali rilievi, la sentenza impugnata deve essere an

nullata per violazione di legge, devolvendosi al giudice del rinvio

il compito di riesaminare la fattispecie alla stregua dei principi

sopra enunziati.

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione II penale; sentenza 17 gen

naio 1989; Pres. ed est. Adami, P.M. Aponte (conci, diff.);

ric. Lepri. Annulla senza rinvio App. Firenze 3 febbraio 1986.

Furto — Furto venatorio — Reato — Esclusione (Cod. pen., art.

624; 1. 27 dicembre 1977 n. 968, principi generali e disposizioni per la protezione e la tutela della fauna e la disciplina della

caccia, art. 1).

Non è configurabile il delitto del furto nel fatto di chi si impos sessa di un capo di fauna selvatica violando la normativa

Il Foro Italiano — 1990.

di cui alla l. 968/77, in quanto nella suddetta condotta difetta il requisito della sottrazione della cosa al detentore, non sussi

stendo tra lo Stato, che ne è proprietario, ed il singolo capo di selvaggina alcun rapporto qualificabile come detenzione. (1)

II

PRETURA DI BIANCA VILLA; sentenza 9 dicembre 1988; Giud.

Cavallaro; imp. Longo ed altro.

Furto — Furto venatorio — Reato — Configurabilità (Cod. pen., art. 624, 625; 1. 27 dicembre 1977 n. 968, art. 1, 8, 31; 1. 24

novembre 1981, n. 689, modifiche al sistema penale, art. 9).

Risponde di furto aggravato chi abbatte e si impossessa di un

capo di selvaggina, in periodo dì caccia non consentita, sia per ché non difetta il requisito della preesistente detenzione della

cosa mobile, che, nel caso di specie, è esercitata «virtualmente»

dallo Stato tramite gli agenti di vigilanza, sia perché non v'è

alcun rapporto di specialità tra il combinato disposto degli art.

8 e 31 l. 968/77 e l'art. 624 c.p. (2)

(1-2) La Cassazione, con la sentenza su riprodotta, ha radicalmente, ed in modo del tutto inatteso, mutato il proprio indirizzo interpretativo in tema di furto di selvaggina. Si tratta, invero, della prima pronuncia della corte ove si esclude la configurabilità del delitto di cui all'art. 624

c.p. nell'illecito abbattimento ed impossessamento di capi di fauna selva

tica: il che è non poco sorprendente, qualora si tenga conto del fatto che il c.d. «furto venatorio» è, come il lettore ricorderà, fattispecie di

creazione eminentemente giurisprudenziale, che aveva avuto larga appli cazione proprio grazie all'avallo della Cassazione.

È, a tal proposito, significativo che le ultime pronunce in materia della

Corte suprema, antecedenti a quella in epigrafe, nel ribadire l'interpreta zione dominante, si limitavano ormai a riprodurre, in modo per lo più apodittico, iter argomentativi cosi ricorrenti che la validità degli stessi

veniva data per acquisita (cfr., ad esempio, l'argomentare per assiomi di Cass. 4 novembre 1985, Serra, Foro it., 1987, II, 212, con osservazioni

critiche di Ingroia). E la stessa Corte costituzionale nella sent. n. 97

del 1987, ove pure si evitava di affrontare ex professo la problematica relativa alla sussistenza della detenzione statuale della selvaggina, perve niva a conclusioni analoghe a quelle dell'orientamento allora dominante, in base alla prassi di recepire il c.d. «diritto vivente» (v. Corte cost. 3

aprile 1987, n. 97, id., 1987, I, 3207, con nota di Ingroia). Vero è che critiche ed obiezioni provenivano ancora sia da una parte

della dottrina che da taluni giudici di merito, ma non è men vero che

l'ossequio «istituzionale» al diritto vivente aveva fatto si che sempre più minoritario, soprattutto presso la giurisprudenza di merito, divenisse l'in

dirizzo contrario alla configurabilità del furto di selvaggina. Qualche spunto di riflessione d'ordine più generale sollecita, pertanto, l'affermazione (dal tono peraltro un po' retorico) contenuta nella motivazione della riportata

pronuncia della Cassazione: «Se il diritto vivente, cui non si è mancato

di far richiamo, nasce cosi, occorre dire che il fatto di vivere non è garan zia della sua verità».

Considerata tale diffusa «pigrizia» della giurisprudenza, spesso fin troppo allineata agli indirizzi della Cassazione, sembra tanto più verosimile che

la pronuncia della Suprema corte in rassegna possa costituire precedente destinato a segnare una svolta.

Peraltro, tale pronuncia, benché apprezzabile per l'organicità dell'ap

proccio all'intera problematica in oggetto, più che fondarsi su argomenti

«originali», sembra recepire talune osservazioni ^critiche già da più parti mosse all'indirizzo prevalente.

Non è nuova, ad esempio (anche se decisiva), l'osservazione secondo

la quale ipotizzare una detenzione, sia pur «virtuale», del singolo capo di selvaggina confliggerebbe con la realtà delle cose, attesa la peculiare natura della fauna selvatica, che tende a sfuggire qualsiasi contatto fisico

che possa preludere ad un rapporto di fatto qualificabile come detenzio

ne. Come si è, invero, più volte rilevato (cfr., ad esempio, App. Venezia

20 aprile 1988 e Pret. Chieti 4 marzo 1988, id., 1989, II, 165, con nota

di commento e richiami di Ingroia), ciò che fa escludere la sussistenza

di tale rapporto non è tanto l'assenza di un attuale e continuativo contat

to corpore et tactu con la selvaggina, quanto l'impossibilità di ripristinare ad libitum un siffatto contatto con il singolo animale, contrariamente

a ciò che è ravvisabile in tutte quelle ipotesi in cui, secondo l'opinione

comune, ricorre il furto pur in difetto dell'attualità di un rapporto mate

riale (si pensi alla detenzione nomine alieno ovvero alla detenzione di

cosa dimenticata). Sicché, se non si vuole, eliminando dalla fattispecie il requisito della detenzione, far venir meno dalla struttura della condotta

tipica anche il momento della sottrazione, non v'è altra via che escludere

la configurabilità del furto venatorio.

La verità è che, come non manca di osservare la corte in motivazione, l'orientamento finora prevalente pretende di sopperire alla carenza, nella

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