sezione VI penale; sentenza 18 marzo 1989; Pres. Salafia, Est. Trojano, P.M. (concl. diff.); ric.Proc. gen. App. Bologna c. Mari. Annulla App. Bologna, sez. istr., 19 aprile 1988Source: Il Foro Italiano, Vol. 113, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1990), pp.117/118-121/122Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23183579 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
Una simile forma di protesta non può tuttavia ricollegarsi al
diritto di sciopero. La concessione di un pubblico servizio rientra in quella specia
le categoria di concessioni denominate traslative, in quanto con
esse la pubblica amministrazione trasferisce nel privato un diritto
o una facoltà sua propria: nel caso del pubblico servizio, la fa
coltà di esercitare un servizio di cui essa è titolare e che di norma
esercita direttamente. Il privato in questi casi viene investito dal
l'amministrazione di una parte dei suoi attributi senza per questo trasformarsi in un pubblico amministratore né essere assunto nel
l'organizzazione amministrativa. Fra i doveri del concessionario
v'è quello di organizzare e di fare funzionare regolarmente il ser
vizio assunto. Poiché il rapporto si sostanzia anche di un rappor to patrimoniale, l'astensione collettiva dal lavoro per gli esercenti
di un pubblico servizio è teoricamente possibile e, data la natura
del rapporto, ben può essere considerato sciopero, con il limite,
più volte ribadito dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, della mancata compromissione di servizi pubblici essenziali aventi
carattere di preminente interesse generale ai sensi della Costi
tuzione.
Questi principi non possono trovare applicazione per la catego ria dei farmacisti. Infatti, nell'opera del titolare privato di farma
cia resta pur sempre prevalente — rispetto alla sua attività pro
fessionale, e quindi di organo indiretto della pubblica ammini
strazione — la caratteristica di attività imprenditoriale organizzata alla commercializzazione di prodotti farmaceutici, preconfenzio nati e galenici, nonché di prodotti dietetici, cosmetici, paramedi cali e similari.
Tuttavia, la norma incriminatrice, può ben trovare giustifica zione nella norma scriminante dell'esercizio di un diritto, che non
sia quello del diritto di sciopero, qualora si tratti di un diritto
soggettivo privato «protetto dalla norma in modo diretto e indi
viduale, di cui sia titolare il cittadino uti sìngulus» (sez. I 27 no
vembre 1968, Muther, id., Rep. 1969, voce Esercizio di un dirit
to, n. 2). Tale è senza dubbio quello collegato alla pretesa del
farmacista, vantata nei confronti dell'Usi competente per conto
della quale eroga i prodotti agli assistiti, di ottenere dalla stessa
Usi il rimborso delle prestazioni in tempi ragionevoli. A norma dell'art. 10 dell'accordo nazionale già menzionato,
ogni farmacia deve consegnare le ricette all'ufficio indicato del
l'ente erogatore, con cadenza mensile, entro il giorno quindici del mese successivo a quello di spedizione, con la prevista sanzio
ne del deferimento alla commissione tecnica e di vigilanza qualo ra le ricette siano presentate dalla farmacia con ritardo sistemati
co oltre il mese. L'ente erogatore dal canto suo, entro il giorno
venticinque di ogni mese deve provvedere all'effettivo pagamento alla farmacia dell'importo a saldo delle ricette spedite nel mese
precedente e all'effettivo pagamento a titolo di acconto dell'ef
fettivo numero delle ricette spedite fino al giorno quattordici del
mese corrente.
Orbene, che il diritto del farmacista di pretendere il pagamento di quanto gli è dovuto nel termine stabilito dalla legge o quanto meno in tempi congrui sia un diritto soggettivo, posto che esso
trova il suo fondamento in una norma di legge, si evince dal
fatto che egli può adire l'Usi avanti al giudice ordinario per otte
nere il rimborso.
Naturalmente, perché questo diritto soggettivo si ponga come
causa giustificativa di condotta in sé illecita, è necessario un ina
dempimento gravissimo della pubblica amministrazione, un ina
dempimento cioè che si risolva in grave pregiudizio per l'attività
e la posizione economica del farmacista. Costui infatti non può essere tenuto ad una prestazione indefinita, né è ammissibile che
l'obbligo della gratuità delle medicine si trasferisca a lui dall'Usi.
Perché dunque l'inadempimento sia tale da giustificare l'azione
illecita del farmacista è necessario che costui espleti tutti i mezzi
e gli strumenti di diritto comune atti allo scopo. Poiché nel caso in esame non risulta che i farmacisti odierni
ricorrenti abbiano espletato tutte le attività all'uopo necessarie
né che il ritardo sia talmente grave da giustificare la condotta
illecita, i giudici di merito hanno correttamente ritenuto la putati
vità dell'esercizio del diritto adottando la formula per tale con
clusione prevista. Con il sesto ed ultimo motivo di ricorso si denunzia una prete
sa erroneità della formula di assoluzione.
Si deduce che, essendo stato accertato nella sua materialità il
fatto ascritto ai farmacisti, ma essendo stata riconosciuta la scri
minante dell'art. 51 c.p., la formula di assoluzione avrebbe do
li. Foro Italiano — 1990.
vuto essere quella del «fatto non costituisce reato» e non l'altra,
atipica, adoperata dal tribunale, la quale crea «dubbi nella collet
tività». Il motivo è infondato.
La formula di assoluzione dipendente dalla non punibilità del
la persona è una di quelle che autorevole dottrina definisce «com
plesse», dato che in essa il legislatore penale ha condensato ogni
possibile causa che abbia come conseguenza, immediata o media
ta, la non applicazione della pena. Ed invero, mentre la formula del «fatto non costituisce reato»
si riferisce generalmente al caso in cui risulti inesistente, o alme
no non provato, uno degli elementi richiesti per l'integrazione della fattispecie (il caso tipico è quello nel quale si riscontri la
sussistenza del fatto e la mancanza del dolo o della colpa), l'al
tra, compendiata dall'art. 479 c.p.p. nell'espressione «per un'al
tra ragione», comprende varie ipotesi, una delle quali fa capo alle cause di giustificazione, basate sullo schema: il fatto addebi
tato all'imputato esiste, costui lo ha commesso, il fatto stesso
corrisponde ad un figura di reato prevista dall'ordinamento giu
ridico, ma esiste un altro fatto che integra una causa di giustifi cazione.
Orbene, in tal caso il giudice di merito correttamente specifica la causa di giustificazione ravvisata nella condotta dell'imputato. In mancanza infatti — posto che il giudicato penale deriva dal
dispositivo, che ne determina l'efficacia — dovrebbe poi la for
mula terminativa, anche ai fini di eventuali ripercussioni dal giu dizio penale su quello civile, essere precista e specificata in via
d'interpretazione mediante il coordinamento tra motivazione e di
spositivo. A ragione dunque i giudici molisani — con formula specifica
e consequenziale alla motivazione della sentenza, basata sull'effi
cacia esimente della putatività dell'esercizio del diritto — hanno
assolto gli imputati dichiarandoli non punibili «per avere agito nell'erroneo convincimento dell'esistenza di una causa di giustifi cazione».
CORTE DI CASSAZIONE; sezione VI penale; sentenza 18 mar
zo 1989; Pres. Salafia, Est. Troiano, P.M. (conci, diff.); ric.
Proc. gen. App. Bologna c. Mari. Annulla App. Bologna, sez.
istr., 19 aprile 1988.
Stato di famiglia (delitti contro lo) — Soppressione di stato —
Reato — Estremi — Fattispecie (Cod. pen., art. 566).
L'obbligo di compiere la dichiarazione di nascita incombe anche
sul padre di figli naturali non riconosciuti come tali, poiché il suo adempimento non si traduce necessariamente in un rico
noscimento del rapporto di filiazione, che ha natura discrezio
nale, ma risponde all'esigenza preminente di assicurare al mi
nore il conseguimento di uno stato civile e di una piena perso nalità giuridica, esigenza che integra la ratio della tutela penale
apprestata dall'art. 566 c.p. (1)
(1) La sentenza si segnala, in primo luogo, perché incrementa l'assai
esigua casistica giurisprudenziale in materia di delitti contro lo stato civi
le. Nel senso che l'obbligo di dichiarazione di nascita grava anche sui
genitori naturali, ed in particolare sul padre, cfr. Cass. 18 ottobre 1978, Di Lauro, Foro it., Rep. 1979, voce Stato di famiglia (delitti contro lo), nn. 1-2, citata in motivazione, la quale è, per quanto risulta, il solo pre cedente edito in termini. A sostegno di siffatta tesi, la decisione su ripor tata richiama, infatti, quella giurisprudenza che si è preoccupata di diffe
renziare la dichiarazione di nascita dall'azione di riconoscimento del fi
glio naturale, valendosi di tale differenza come di un argomento a fortiori-. sul punto, in motivazione, Cass. 20 marzo 1987, Bemporad, id., Rep.
1987, voce cit., n. 1 e 6 novembre 1976, n. 4044, id., 1977, I, 412; in
dottrina, circa la distinzione fra stato civile, che si acquista con la dichia
razione di nascita, e stato di famiglia, cfr. Spagnolo, I delitti contro
lo stato di famiglia tra tutela dello stato civile e tutela dello stato di
filiazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, 578; Bricola, Delitti contro
lo stato di famiglia, voce dell' Enciclopedia del diritto, Milano, 1964, XII,
56, riconosce che lo stato di famiglia protetto dall'art. 566 c.p. non è
soltanto quello legittimo, ma anche quello naturale. Un secondo motivo di interesse della sentenza qui riportata è rappre
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PARTE SECONDA
Con rapporto 21 maggio 1982 l'ufficiale di stato civile del co
mune di Rimini riferiva al procuratore della repubblica, a norma
dell'art. 68 r.d. 9 luglio 1939 n. 1238, che in data 17 maggio dello stesso anno si era presentato dinanzi a lui Mari Pietro per denunziare la nascita dei figli Romina e Marco, nati, rispettiva
mente, il 17 novembre 1978 ed il 14 dicembre 1981 dall'unione
naturale con Perugini Maria, anch'essa comparsa per confermare
tale dichiarazione.
Nei confronti del Mari venne, pertanto, promossa l'azione pe nale per il reato di cui all'art. 566, 2° comma, c.p., poiché lo
stesso aveva soppresso lo stato civile dei suddetti minori, omet
tendo di denunziarne la nascita all'anagrafe. Con sentenza 27 marzo 1987 il giudice istruttore presso il Tri
bunale di Rimini assolse l'imputato per non aver commesso il fatto.
Su appello del pubblico ministero la sezione istruttoria della
Corte d'appello di Bologna, con sentenza 19 aprile 1988, confer
mò integralmente la pronunzia impugnata. La corte ritenne che la paternità naturale assume rilevanza giu
ridica soltanto per effetto dell'atto di riconoscimento di cui al
l'art. 250 c.c. o della dichiarazione giudiziale di paternità e che,
pertanto, in mancanza di tali presupposti, il genitore naturale, non potendo essere qualificato padre sotto il profilo giuridico, non è tenuto, a norma dell'art. 70 del citato decreto, a denunzia
re la nascita del figlio. Aggiunse che, altrimenti, l'asserita dove
rosità di tale denunzia comporterebbe l'obbligatorietà del ricono
scimento del rapporto di filiazione naturale che, invece, non è
un atto dovuto.
Contro questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il
procuratore generale presso la corte anzidetta.
Con un'unica censura, incentrata sulla violazione degli art. 566
c.p. e 70 r.d. n. 1238 del 1939, l'ufficio ricorrente assume che
l'imputato, ancorché non obbligato a denunziare la nascita dei
due minori per l'assenza di un riconoscimento volontario o giudi ziale del rapporto di filiazione, si era reso, comunque, responsa bile del reato ascrittogli, a norma dell'art. 48 c.p., poiché, tacen
do agli altri soggetti obbligati a compiere la denunzia di nascita
il suo proposito di non fare tale denunzia, li aveva indotti, con
l'inganno, a porre in essere la condotta omissiva punita dal cit.
art. 566 c.p. Il ricorso è fondato nel senso di seguito precisato. Il proscioglimento di Mari per non aver commesso il fatto si
fonda su di una duplice erronea proposizione: quella secondo cui
lo stato giuridico di filiazione naturale si costituisce, a tutti gli
effetti, soltanto con l'atto di riconoscimento o con la dichiarazio
ne giudiziale di paternità, per cui nel perido anteriore non sussi
sterebbe uno stato di filiazione suscettibile di venire soppresso e l'altra, secondo la quale, nel caso di figlio naturale non ancora
riconosciuto, la dichiarazione di nascita, compiuta all'ufficiale di
stato civile ad opera o, comunque, su impulso del padre impli
cherebbe, in ogni caso, un riconoscimento del rapporto di filia
zione naturale. La prima proposizione comporta, secondo l'avvi
so dei giudici del merito, la conseguenza che, prima del riconosci
mento, il padre naturale del neonato, non essendo ancora divenuto
legalmente tale, non avrebbe l'obbligo di fare la dichiarazione
di nascita. Egli non sarebbe, quindi, destinatario di tale obbligo,
imposto dall'art. 70 r.d. n. 1238 del 1939 in via principale al
padre, che può adempiere anche attraverso un procuratore spe ciale e, in mancanza, al medico, alla levatrice, alla persona che
abbia comunque assistito al parto, ovvero, nel caso in cui la puer
pera abbia partorito fuori dalla propria abitazione, al capo della
famiglia o al delegato dell'istituto in cui il parto ha avuto luogo. Un ulteriore corollario della detta affermazione è che, nell'ipotesi di nascita del figlio naturale nell'abitazione di uno dei genitori, senza l'assistenza di alcun estraneo, l'insussistenza dell'obbligo di denunzia a carico quantomeno del padre priverebbe di ogni
sentato dal fatto che essa conferma l'orientamento della Cassazione ten dente a considerare il riconoscimento del figlio naturale come un atto
giuridico non negoziale con effetti dichiarativi che comporta, per il mino re, l'acquisto del titolo necessario all'esercizio dell'intero complesso dei diritti relativi allo status di figlio naturale, ma che è indipendente dalla dichiarazione di nascita, la quale resta indispensabile al conseguimento di uno stato civile: Cass., sez. un., 16 luglio 1985, n. 4173, Foro it., 1985, I, 2578, con osservazioni di Pardolesi. Per un caso di alterazione di stato civile, v. Cass. 4 dicembre 1986, Ceccarelli, id., Rep. 1988, voce
cit., n. 6.
Il Foro Italiano — 1990.
effettiva tutela il diritto del neonato, non riconosciuto, ad acqui sire uno stato civile qualunque. Tale conseguenza dimostra chia
ramente l'inconsistenza della tesi accolta nella sentenza impugnata. Giova premettere che la formazione dell'atto di nascita integra
un momento essenziale che incide, in senso decisivo, sulla concre
ta esplicazione della personalità giuridica del soggetto. Infatti, solo attraverso l'acquisizione di uno stato civile, conseguente a
quell'atto, il neonato risulta legalmente in vita ed è messo nella
condizione di esercitare i diritti e di adempiere gli obblighi che
gli competono — prima ancora che come componente di un nu
cleo familiare — nella duplice veste di persona fisica o di cittadino.
Il carattere primario dell'interesse pubblico soddisfatto dall'at
to di nascita trova chiaro riscontro nelle diverse norme dell'ordi
namento dello stato civile (art. 67-77 bis) le quali, oltre a rendere
i soggetti indicati destinatari dell'obbligo di rendere la dichiara
zione di nascita, impongono all'ufficiale di stato civile — che
abbia avuto, comunque, notizia di una nascita non dichiarata, od al quale sia stato consegnato un bambino trovato in abbando
no, o sia stata comunicata l'avvenuta consegna del neonato ad
un istituto — l'obbligo di promuovere il complesso meccanismo
diretto alla formazione dell'atto di nascita. Inoltre, la particolare rilevanza dell'interesse in discorso integra la ratio della tutela pe nale assicurata dall'art. 566, 2° comma, c.p., che configura, ap
punto, il delitto di soppressione di stato come la condotta rivolta
ad impedire al neonato l'acquisto di uno stato civile qualunque, facendo in modo che egli non risulti mai nato (Cass., sez. VI, 18 ottobre 1978). Di Lauro, Foro it., Rep. 1979, voce Stato di
famiglia (delitto contro lo), n. 1).
Orbene, tali rilievi — incentrati sulla funzione dell'atto di na
scita e sulla natura dell'interesse protetto — orientano, già di
per se stessi, verso un'interpretazione dell'obbligo del padre di
compiere la dichiarazione di nascita ex art. 70 ord. stato civile, nel senso che esso sussista anche nei confronti del neonato non
riconosciuto. Tale interpretazione, che ovviamente non può pre scindere dalla disciplina civilistica del rapporto di filiazione natu
rale, trova proprio in quest'ultima un'evidente conferma.
A questo riguardo è da rilevare che, secondo la più recente
giurisprudenza di questa corte (Cass., sez. un., 16 luglio 1985, n. 4173, id., 1985, I, 2578; sez. VI 20 marzo 1987, Bemporad,
id., Rep. 1987, voce cit., n. 1). Il riconoscimento di figlio natura
le non ha la natura di un negozio giuridico unilaterale costitutivo
dello status di filiazione, ma si atteggia come un atto non nego ziale con effetti dichiarativi, il quale pone in essere il titolo di
stato necessario per l'esercizio dell'intero complesso dei diritti con
nessi al rapporto giuridico di filiazione naturale. La qualità di
figlio naturale, invero, compete al soggetto non già per effetto
di un atto di autonomia privata del genitore, il quale non può
disporre dello stato familiare del figlio e dei relativi diritti, ma
in quanto ricorra in realtà il rapporto naturale di discendenza.
Il figlio, dunque, è tale sin dalla nascita e da quel momento ac
quista diritti soggettivi, sia pur limitati, quali, a norma degli art.
30 Cost, e 279 c.c., il diritto, se minorenne, al mantenimento, all'istruzione ed all'educazione e, se maggiorenne, agli alimenti, nonché i particolari diritti successori di cui agli art. 580 e 594 c.c.
La natura non negoziale dell'atto di riconoscimento trova, inol
tre, un'ulteriore conferma sia nell'impugnabilità per difetto di ve
ridicità e non soltanto per errore (art. 263 c.c.), sia nella sua
fungibilità rispetto alla declaratoria giudiziale di paternità natu
rale, la quale produce gli stessi effetti del riconoscimento e può essere pronunziata nei soli casi in cui quest'ultimo è consentito
(art. 270 e 277 c.c.). Sulla base di questi rilievi, che il collegio condivide, deve rite
nersi che il riconoscimento in esame integra una dichiarazione
di scienza, rivolta ad attribuire certezza al fatto della procreazio ne ed al correlativo stato di figlio naturale, già precedentemente
acquisito anche se con effeti giuridici limitati, conferendogli, pro
prio in virtù di tale certezze, la pienezza dell'efficacia giuridica
prevista dalla legge. E che tra gli effetti giuridici collegati al solo
fatto della procreazione vi sia anche l'obbligo del genitore natu
rale di denunziare la nascita del figlio, lo si deduce dalla stessa
tutela giuridica accordata dalle citate norme del codice civile ad
interessi certo rilevanti, ma di grado inferiore rispetto a quello
primario e fondamentale garantito dalla formazione dell'atto di
nascita; non essendo logicamente ammissibile che proprio que st'ultimo interesse resti privo, malgrado la sua prevalenza, di un'a
deguata protezione giuridica. Vero è che le richiamate norme ci
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GIURISPRUDENZA PENALE
vili si riferiscono espressamente ai figli naturali non riconoscibili.
Ma, a parte il rilievo che secondo questa corte (Cass. 6 novembre
1976, n. 4044, id., 1977, I, 412; cfr. anche sez. un. 4173/85,
cit.) ad un'accreditata dottrina, quantomeno il diritto al manteni
mento di cui all'art. 279 c.c. compete, anche a mente dell'art.
30 Cost., a tutti i figli naturali non riconosciuti, riconoscibili o
meno, deve rilevarsi che, comunque, gli argomenti deducibili da
tali norme in favore del diritto dei figli non riconoscibili a conse
guire uno stato civile, valgono a fortiori, anche per quelli ricono
scibili. Infine, lo stesso fatto che gli art. 70 e 75 del citato decreto
impongono l'obbligo di dichiarare la nascita o di consegnare il
neonato all'ufficiale di stato civile anche a soggetti collegati con
il bambino da un rapporto del tutto occasionale o fortuito deri
vante dalla mera ospitalità o dal ritrovamento, renderebbe del
tutto illogica un'esenzione dall'obbligo della dichiarazione a fa
vore di un soggetto cui l'atto di procreazione attribuisce specifi che responsabilità, quanto meno morali, nei confronti del figlio ancorché non riconosciuto.
Deve, quindi, concludersi che sia la natura dell'interesse tutela
to dall'atto di nascita, sia la disciplina civilistica del rapporto di filiazione naturale convergono nel risultato comune di dimo
strare la sussistenza dell'obbligo paterno di dichiarare la nascita
anche dei figli naturali non riconosciuti come tali.
Né può ritenersi — e con ciò si contesta la validità della secon
da proposizione dell'impugnata sentenza — che l'adempimento
dell'obbligo del genitore di denunziare la nascita del figlio natu
rale non riconosciuto si traduca necessariamente in un riconosci
mento del rapporto di filiazione e, pertanto, si ponga in contrasto
con la pacifica natura discrezionale di tale atto.
Invero, il padre naturale può adempiere l'obbligo sopra indica
to in vari modi. Innanzi tutto può presentarsi personalmente al
l'ufficiale di stato civile e dichiarare la nascita del bambino come
figlio da lui procreato, ponendo in essere, in tal modo, un atto
di riconoscimento della filiazione naturale. Inoltre, a norma degli art. 47 e 70 del citato decreto, può avvalersi di un procuratore
speciale. In quest'ultimo caso, la fattispecie risulta disciplinata dall'art. 73, 2° comma, dello stesso decreto, a norma del quale, se la nascita è da unione illegittima, l'indicazione nell'atto di na
scita del nome e cognome dei genitori, che non rendano personal mente la dichiarazione in esame, è subordinata all'indeclinabile
presupposto che i medesimi abbiano fatto esplicitamente constare
per atto pubblico il proprio consenso ad essere nominati. In as
senza di siffatta autorizzazione, resa nella forma pubblica richie
sta ad substantiam, l'ufficiale di stato civile dovrà limitarsi a
redigere l'atto di nascita di un neonato procreato da genitori che
non intendono essere nominati. Tale meccanismo mira, appunto, a contemperare l'interesse pubblico al conseguimento, da parte del minore, di uno stato civile con la natura discrezionale dell'at
to di riconoscimento. Inoltre, il padre, ove non intenda denun
ziare la nascita del figlio naturale personalmente o per procura,
potrà sollecitare l'iniziativa degli altri soggetti obbligati in nome
proprio a norma del cit. art. 70 e, comunque, sarà tenuto a non
distoglierli, con l'inganno od in altro illecito modo, dall'adem
piere il loro dovere.
Sulla base di tali rilievi, la sentenza impugnata deve essere an
nullata per violazione di legge, devolvendosi al giudice del rinvio
il compito di riesaminare la fattispecie alla stregua dei principi
sopra enunziati.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II penale; sentenza 17 gen
naio 1989; Pres. ed est. Adami, P.M. Aponte (conci, diff.);
ric. Lepri. Annulla senza rinvio App. Firenze 3 febbraio 1986.
Furto — Furto venatorio — Reato — Esclusione (Cod. pen., art.
624; 1. 27 dicembre 1977 n. 968, principi generali e disposizioni per la protezione e la tutela della fauna e la disciplina della
caccia, art. 1).
Non è configurabile il delitto del furto nel fatto di chi si impos sessa di un capo di fauna selvatica violando la normativa
Il Foro Italiano — 1990.
di cui alla l. 968/77, in quanto nella suddetta condotta difetta il requisito della sottrazione della cosa al detentore, non sussi
stendo tra lo Stato, che ne è proprietario, ed il singolo capo di selvaggina alcun rapporto qualificabile come detenzione. (1)
II
PRETURA DI BIANCA VILLA; sentenza 9 dicembre 1988; Giud.
Cavallaro; imp. Longo ed altro.
Furto — Furto venatorio — Reato — Configurabilità (Cod. pen., art. 624, 625; 1. 27 dicembre 1977 n. 968, art. 1, 8, 31; 1. 24
novembre 1981, n. 689, modifiche al sistema penale, art. 9).
Risponde di furto aggravato chi abbatte e si impossessa di un
capo di selvaggina, in periodo dì caccia non consentita, sia per ché non difetta il requisito della preesistente detenzione della
cosa mobile, che, nel caso di specie, è esercitata «virtualmente»
dallo Stato tramite gli agenti di vigilanza, sia perché non v'è
alcun rapporto di specialità tra il combinato disposto degli art.
8 e 31 l. 968/77 e l'art. 624 c.p. (2)
(1-2) La Cassazione, con la sentenza su riprodotta, ha radicalmente, ed in modo del tutto inatteso, mutato il proprio indirizzo interpretativo in tema di furto di selvaggina. Si tratta, invero, della prima pronuncia della corte ove si esclude la configurabilità del delitto di cui all'art. 624
c.p. nell'illecito abbattimento ed impossessamento di capi di fauna selva
tica: il che è non poco sorprendente, qualora si tenga conto del fatto che il c.d. «furto venatorio» è, come il lettore ricorderà, fattispecie di
creazione eminentemente giurisprudenziale, che aveva avuto larga appli cazione proprio grazie all'avallo della Cassazione.
È, a tal proposito, significativo che le ultime pronunce in materia della
Corte suprema, antecedenti a quella in epigrafe, nel ribadire l'interpreta zione dominante, si limitavano ormai a riprodurre, in modo per lo più apodittico, iter argomentativi cosi ricorrenti che la validità degli stessi
veniva data per acquisita (cfr., ad esempio, l'argomentare per assiomi di Cass. 4 novembre 1985, Serra, Foro it., 1987, II, 212, con osservazioni
critiche di Ingroia). E la stessa Corte costituzionale nella sent. n. 97
del 1987, ove pure si evitava di affrontare ex professo la problematica relativa alla sussistenza della detenzione statuale della selvaggina, perve niva a conclusioni analoghe a quelle dell'orientamento allora dominante, in base alla prassi di recepire il c.d. «diritto vivente» (v. Corte cost. 3
aprile 1987, n. 97, id., 1987, I, 3207, con nota di Ingroia). Vero è che critiche ed obiezioni provenivano ancora sia da una parte
della dottrina che da taluni giudici di merito, ma non è men vero che
l'ossequio «istituzionale» al diritto vivente aveva fatto si che sempre più minoritario, soprattutto presso la giurisprudenza di merito, divenisse l'in
dirizzo contrario alla configurabilità del furto di selvaggina. Qualche spunto di riflessione d'ordine più generale sollecita, pertanto, l'affermazione (dal tono peraltro un po' retorico) contenuta nella motivazione della riportata
pronuncia della Cassazione: «Se il diritto vivente, cui non si è mancato
di far richiamo, nasce cosi, occorre dire che il fatto di vivere non è garan zia della sua verità».
Considerata tale diffusa «pigrizia» della giurisprudenza, spesso fin troppo allineata agli indirizzi della Cassazione, sembra tanto più verosimile che
la pronuncia della Suprema corte in rassegna possa costituire precedente destinato a segnare una svolta.
Peraltro, tale pronuncia, benché apprezzabile per l'organicità dell'ap
proccio all'intera problematica in oggetto, più che fondarsi su argomenti
«originali», sembra recepire talune osservazioni ^critiche già da più parti mosse all'indirizzo prevalente.
Non è nuova, ad esempio (anche se decisiva), l'osservazione secondo
la quale ipotizzare una detenzione, sia pur «virtuale», del singolo capo di selvaggina confliggerebbe con la realtà delle cose, attesa la peculiare natura della fauna selvatica, che tende a sfuggire qualsiasi contatto fisico
che possa preludere ad un rapporto di fatto qualificabile come detenzio
ne. Come si è, invero, più volte rilevato (cfr., ad esempio, App. Venezia
20 aprile 1988 e Pret. Chieti 4 marzo 1988, id., 1989, II, 165, con nota
di commento e richiami di Ingroia), ciò che fa escludere la sussistenza
di tale rapporto non è tanto l'assenza di un attuale e continuativo contat
to corpore et tactu con la selvaggina, quanto l'impossibilità di ripristinare ad libitum un siffatto contatto con il singolo animale, contrariamente
a ciò che è ravvisabile in tutte quelle ipotesi in cui, secondo l'opinione
comune, ricorre il furto pur in difetto dell'attualità di un rapporto mate
riale (si pensi alla detenzione nomine alieno ovvero alla detenzione di
cosa dimenticata). Sicché, se non si vuole, eliminando dalla fattispecie il requisito della detenzione, far venir meno dalla struttura della condotta
tipica anche il momento della sottrazione, non v'è altra via che escludere
la configurabilità del furto venatorio.
La verità è che, come non manca di osservare la corte in motivazione, l'orientamento finora prevalente pretende di sopperire alla carenza, nella
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