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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || sezioni unite penali: sentenza 1° ottobre 1991; Pres....

Date post: 30-Jan-2017
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sezioni unite penali: sentenza 1° ottobre 1991; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Marvulli, P.M. Aponte (concl. conf.); ric. Proc. gen. App. Firenze in procedimento Biz. Conferma Trib. Lucca 17 dicembre 1990 Source: Il Foro Italiano, Vol. 115, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1992), pp. 15/16-19/20 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23185883 . Accessed: 28/06/2014 09:20 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.238.114.227 on Sat, 28 Jun 2014 09:20:17 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezioni unite penali: sentenza 1° ottobre 1991; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Marvulli, P.M.Aponte (concl. conf.); ric. Proc. gen. App. Firenze in procedimento Biz. Conferma Trib. Lucca17 dicembre 1990Source: Il Foro Italiano, Vol. 115, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1992), pp.15/16-19/20Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23185883 .

Accessed: 28/06/2014 09:20

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PARTE SECONDA

del detenuto, determinando, attraverso un provvedimento giuris dizionale, una situazione meno restrittiva della condizione car

ceraria, si situano nella categoria dei diritti di libertà costituzio

nalmente garantiti, sicché, ove in base alle medesime si siano

create delle situazioni più favorevoli all'imputato, permane l'ef

fetto dei provvedimenti legittimamente adottati essendo la nuo

va normativa, più restrittiva, applicabile solo alle vicende pro cessuali aperte.

Il principio, invero, dell'irretroattività delle leggi impone per i soggetti interessati il rispetto dello status, esistente al momen

to della loro entrata in vigore, e vieta che i rapporti e gli obbli

ghi costituiti sotto l'impero del diritto anteriore, con specifico titolo giuridico, possano essere automaticamente pregiudicati o

aggravati per effetto della semplice successione temporale delle

norme che li regolano. L'istanza proposta — che, peraltro, nei particolari confronti

di Salvatore Cucuzza è superata dal provvedimento di questa corte del 20 settembre 1991 che ha disposto il ripristino della

custodia cautelare in carcere a seguito dell'annullamento, da parte della Corte suprema di cassazione, dell'ordinanza concessiva degli arresti domiciliari — non può essere, pertanto, accolta.

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali: sentenza 1°

ottobre 1991; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. Marvulli, P.M. Aponte (conci, conf.); ric. Proc. gen. App. Firenze in

procedimento Biz. Conferma Trib. Lucca 17 dicembre 1990.

Pena (applicazione su richiesta) — Diminuzione di pena — Ap

plicazione (Cod. pen., art. 70, 81; cod. proc. pen., art. 444).

La diminuente prevista dall'art. 444 c.p.p. non può essere com

presa nel novero delle circostanze attenuanti del reato; la sua

connotazione processuale importa che la relativa riduzione di

pena debba essere operata sulla pena ritenuta concretamente

applicabile avuto riguardo al contenuto complessivo della con

testazione e, quindi, dopo aver tenuto conto dell'aumento per l'eventuale continuazione. (1)

(1) La sentenza ribadisce anzitutto — come evidenziato nella motiva zione — quanto già le sezioni unite avevano affermato nella decisione del 24 marzo 1990, Borzaghini (Foro it., 1990, II, 413), circa l'impossi bilità di ricomprendere la diminuente di cui all'art. 444 del codice di rito vigente nel novero delle circostanze attenuanti del reato in senso tecnico «perché non correlabile ad alcuno degli elementi tipici conside rati dall'art. 70 c.p. proprio perché prescinde dal reato e dalla persona lità dell'imputato incentrandosi esclusivamente sulla 'meritorietà pro cessuale' dello stesso...».

Nel mentre sembra utile ricordare che anche con riguardo alla dimi nuzione di pena prevista per il giudizio abbreviato dall'art. 442, 2° com ma, c.p.p. le sezioni unite hanno escluso l'«assimilabilità» alle circo stanze del reato (v. Cass. 31 maggio 1991, Volpe, id., 1991, II, 642), è, poi, da notare come il problema specifico affrontato nella decisione de qua, ossia quello relativo al momento in cui la riduzione di pena ex art. 444 debba essere operata, ed in particolare se prima o dopo l'aumento per l'eventuale continuazione, abbia trovato soluzione con forme all'orientamento già prevalso nella giurisprudenza delle sezioni

semplici della corte. In proposito possono menzionarsi, tra le altre, Cass. 10 dicembre 1990, Alfano, Arch, nuova proc. pen., 1991, 617 (secondo la quale «in tema di patteggiamento, ai fini della determinazione della

pena nell'ipotesi di reato continuato, è necessario prima individuare la violazione più grave...; quindi la pena determinata in concreto per il reato base deve essere aumentata per la ritenuta continuazione e, suc cessivamente, ridotta fino ad un terzo ai sensi dell'art. 444, 1° comma, c.p.p., attesa la natura premiale e non circostanziale della diminuzione di pena prevista da tale norma») e Cass. 4 settembre 1990, Mugnai, Cass. pen., 1991, II, 452 (ove si sostiene che la riduzione fino ad un terzo è una «diminuente sui generis, applicabile in ogni caso per il solo fatto della scelta del rito speciale previsto dagli art. 444 s.», la quale «non può, nell'ottica di questo speciale meccanismo processuale, che essere calcolata solo dopo aver determinato... il quantum della pena concretamente comminabile...», sicché «alla mitigazione della pena... occorre quindi giungere dopo e non prima di aver calcolato l'aumento

per la continuazione»).

11 Foro Italiano — 1992.

Svolgimento del processo. — Il Tribunale di Lucca con sen

tenza in data 17 dicembre 1990, a conclusione del procedimento

speciale previsto dall'art. 444 c.p.p., applicava a Biz Paolo, ac

cusato del reato di violenza carnale continuata, la pena di un

anno e mesi otto di reclusione. Nella determinazione della pe

na, concordata tra le parti, l'aumento per la continuazione ve

niva calcolato prima della diminuzione prevista dal 1° comma

dell'art. 444 c.p.p. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il

procuratore generale presso la Corte d'appello di Firenze ed

ha denunciato, con un unico motivo, l'errata applicazione di

quella norma, sostenendo che la riduzione della pena di cui al

1° comma dell'art. 444 c.p.p., perché assimilabile al riconosci

Gli assunti della Suprema corte in ordine alla natura della diminuente in esame trovano ampia convergenza in dottrina. F. Bricola (Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Indice pen., 1989, 330), ad esempio, ha appunto osservato, con riferimento alle ri duzioni di pena previste per i riti «alternativi», che «il nuovo processo offre... al diritto penale sostanziale una nuova forma di diminuzione della pena, difficilmente inquadrabile nella già disomogenea categoria delle circostanze del reato»; analogamente E. Dolcini (Razionalità del la commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, 800) ha sostenuto che «l'art. 444, 1° comma, c.p.p. non individua una vera e propria circostanza del reato».

Sempre proseguendo nell'esemplificazione, ma stavolta avendo riguardo anche alla problematica relativa alle modalità di applicazione della ri duzione di pena, è da rilevare come T. Padovani (// nuovo codice di

procedura penale e la riforma del codice penale, id., 1989, 932), trat tando dei riti alternativi, dopo aver premesso che «sembra... evidente che le diminuzioni di pena correlate alla scelta di tali riti non siano e non possano essere "circostanze" del reato» giacché «a tacer d'altro, esse intervengono dopo che la pena sia determinata (nel giudizio abbre

viato) o patteggiata (nell'applicazione su richiesta), tenendo conto, pre cisa la legge, di "tutte le circostanze"», concluda affermando che «è chiaro dunque che la loro operatività presuppone la definizione della

pena secondo i parametri consueti e non viceversa» e che «d'altro can

to, proprio per quest'ultima ragione, appare evidente... che la pena diminuita in conseguenza della 'scelta del rito' non corrisponde più, per difetto, né alla gravità del reato, né alle esigenze di prevenzione speciale...».

Il rilievo di Padovani da ultimo riportato offre poi l'occasione per evidenziare come varie perplessità siano state avanzate in dottrina in ordine alla «compatibilità» della diminuente de qua (e, per vero, delle riduzioni di pena «funzional-processualjstiche» in genere) non solo con il perseguimento delle finalità di prevenzione generale e speciale proprie della pena, ma altresì, più in generale, con vari principi di rango costi

tuzionale; perplessità sulle quali solo in minima parte può ritenersi aver inciso la «rilettura» dell'art. 444, 2° comma, c.p.p. operata da Corte cost. 2 luglio 1990, n. 313 (Foro it., 1990, I, 2385, con note di G.

Fiandaca, Pena «patteggiata» e principio rieducativo; un arduo com

promesso tra logica di parte e controllo giudiziale, e G. Tranchina, «Patteggiamento» e principi costituzionali: una convivenza piuttosto dif fìcile) che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della predetta nor ma nella parte in cui non prevede che, ai fini e nei limiti di cui all'art.

27, 3° comma, Cost., il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole va lutazione.

Mentre per un'analisi più approfondita delle succennate perplessità si rinvia, tra gli altri, ai menzionati «lavori» di Padovani, Dolcini, Fian

daca, Tranchina, cui possono aggiungersi (ma l'elencazione non è ov viamente esaustiva) V. Fanchiotti, Il «nuovo patteggiamento» alla ri cerca di un'identità, in Cass, pen., 1991, II, 29; A. Pagliaro, Riflessi del nuovo processo sul diritto processuale sostanziale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, 36; G. Lozzi, La legittimità costituzionale del c.d.

patteggiamento, ibid., 1600; G. Lozzi, L'applicazione della pena su ri chiesta delle parti, id., 1989, 27, conviene ancora sottolineare come nel la sentenza che si riporta si tragga argomento a favore della tesi della

«praticabilità» dell'aumento per la continuazione prima dell'applicazio ne della riduzione ex art. 444, 1° comma, c.p.p., dal disposto dell'art. 137 delle norme di attuazione del codice, dal cui tenore conseguirebbe che «la disciplina del patteggiamento non solo non è... incompatibile con il rapporto... espresso dalla continuazione..., ma rende possibile all'imputato di fruirne degli effetti favorevoli anche quando non per tutti i reati unificabili sotto il profilo della continuazione sia stato pos sibile il ricorso a quel procedimento», aggiungendosi che «infatti, una volta che la pena richiesta dalle parti si esaurisca nell'indicazione del solo aumento per la continuazione, è proprio su quest'ultimo che dovrà essere calcolata la riduzione prevista dal 10 comma dell'art. 444 c.p.p.», sicché sarebbe stato «lo stesso legislatore ad aver dissipato ogni possibi le dubbio sulla legittimità dell'applicazione di quella riduzione dopo la determinazione dell'aumento per la continuazione».

Orbene è da dire che la portata del 2° comma dell'art. 137 delle

disposizioni di attuazione (norma che ha subito nel passaggio dal pro

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GIURISPRUDENZA PENALE

mento di una circostanza attenuante, doveva essere calcolata

soltanto sulla pena-base, determinata per la più grave delle ipo tesi contestate e, quindi, prima dell'aumento per la continuazione.

Il ricorso, assegnato alla terza sezione della corte, è stato da

questa rimesso, ex art. 618 c.p.p., alle sezioni unite, in quanto si è ritenuto che in ordine alle modalità di applicazione della

riduzione della pena prevista dal 1° comma dell'art. 444 c.p.c.,

allorquando si sia in presenza di un reato continuato, potrebbe ro essere adottate soluzioni contrastanti.

Motivi della decisione. — Il problema sottoposto all'esame

delle sezioni unite ha già formato oggetto di alcune decisioni

da parte delle sezioni di questa Suprema corte, tutte concordi

nel ritenere che la riduzione della pena di cui al 10 comma del

l'art. 444 c.p.p. dev'essere calcolata soltanto dopo aver indivi

duato la pena concretamente applicabile in relazione al conte

nuto complessivo della contestazione e, quindi, dopo aver tenu

to conto dell'aumento per la continazione (cfr. sez. I 13 marzo

1991, Alfano; sez. II 11 luglio 1991, Fornaciari; sez. VI 28 giu

gno 1991, Vanni; sez. fer. 30 ottobre 1990, Mugnai). Il collegio ritiene di condividere tale orientamento perché, ol

tre ad essere più consono alla struttura ed alle finalità del pro cedimento nel quale ha luogo l'applicazione di quella diminu

zione di pena, nonché alla natura giuridica di quest'ultima, è

anche sorretto da una corretta interpretazione della normativa

vigente. Il procedimento speciale previsto dagli art. 444-448 c.p.p. si

caratterizza per il rilievo determinante che il legislatore ha attri

buito all'accordo tra imputato e pubblico miistero sulla pena concretamente applicabile e per la correlativa modificazione del

rito che, semplificandosi, si conclude, con una decisione, la cui

origine ed il cui contenuto non la rendono partecipe di tutti

gli aspetti tipici di una sentenza di condanna.

E poiché l'intesa tra le parti deve riguardare non solo l'assog

gettamento alla sanzione, ma anche la specie e la misura della

stessa, è evidente che tale accordo, anche ai fini dell'ammissibi

lità del procedimento, non può essere incompleto, ma deve com

prendere tutti gli elementi che possono comunque concorrere

nel complesso processo di determinazione della pena. La stessa interpretazione della norma, cosi come formulata,

depone a favore della tesi condivisa da questa corte. Infatti, se le parti possono chiedere al giudice l'applicazione di una pe na detentiva quando questa, «tenuto conto delle circostanze», e diminuita sino ad un terzo, non supera i due anni di reclusio

ne o di arresto, ciò significa solo che non vi sono preclusioni all'ammissibilità del procedimento, diverse da quelle riflettenti

i limiti di contenimento della sanzione concretamente applicabi

le, ma anche che la riduzione della pena deve riguardare non

già una parte, bensì' tutta quella che è stata concretamente indi

viduata.

È, quindi, la stessa norma ad attribuire a quella diminuzione

della pena una spiccata autonomia rispetto a tutte le altre circo

stanze del reato, se vero è che essa dev'essere applicata quando

getto preliminare al testo definitivo una radicale trasformazione, in quanto nel progetto essa era formulata come segue: «la disciplina del concorso formale e del reato continuato non è applicabile quando concorrono reati per i quali la pena è applicata su richiesta delle parti e altri reati»; sul punto, v. A. Gaito, Concorso formale e reato continuato nella fase dell'esecuzione penale, ibid., 1003) non sembra del tutto chiara, almeno

per quel che attiene alle implicazioni che la corte ha ritenuto di poter trarre dal relativo disposto, atteso che, per un verso, la norma, se rife rita al processo di cognizione, parrebbe superflua e, per l'altro, se rife rita alla fase esecutiva, sembrerebbe solo significare che il giudice del l'esecuzione può applicare la disciplina del reato continuato o del con corso formale ex art. 671 c.p.p. anche quando per taluni dei reati che

vengono in rilievo si sia fatto luogo a patteggiamento, senza, peraltro, che ciò importi il potere di operare «riduzioni pattizie» di pena.

Al riguardo pare comunque opportuno rilevare come Cass. 30 gen naio 1991, Barbone, Arch, nuova proc. pen., 1991, 440, abbia sostenu to che «l'applicazione del giudizio ex art. 444 s. c.p.p. a fatti-reato

legati dal vincolo della continuazione e sottoposti a distinti e separati

procedimenti è ammissibile in ogni caso solo ove le pene unitariamente

considerate ed unificate non superino due anni di reclusione o di arre

sto, soli o congiunti a pena pecuniaria» aggiungendo che «tale limite

non può ritenersi superabile sul rilievo che di esso non si fa menzione nel 2° comma, dell'art. 137 disp. att. c.p.p. giacché questa norma signi fica soltanto che può essere applicato l'istituto della continuazione an

che quando concorrono reati per i quali sia stata applicata la pena su richiesta delle parti, con il rispetto del limite suddetto, ed altri ai quali tale pena non sia stata applicata». [A. Ferraro]

Il Foro Italiano — 1992.

ogni altra circostanza ha esaurito i suoi effetti in relazione alla

determinazione della sanzione: nel sottrarsi al giudizio di com

parazione, previsto dall'art. 69 c.p., non solo esalta la sua in

trinseca ed autonoma capacità riduttiva della pena, ma eviden

zia, anche per tale aspetto, il suo carattere processuale.

Va, peraltro, rilevato che il termine «circostanze», usato dal

legislatore nel 1° comma dell'art. 444 c.p.p., proprio perché evocato agli effetti esclusivi del processo di determinazione del

la pena, è comprensivo di tutti quegli elementi che, benché non

identificabili in vere e proprie circostanze del reato, sono parte

cipi, al pari di queste, di quel processo: e tale è, indubbiamente, la continuazione tra due o più reati.

Affermare il contrario equivarrebbe sostenere che l'aumento

di pena, conseguente alla ritenuta continuazione, debba essere

sottratto all'accordo delle parti, o quanto meno alla determina

zione del limite massimo entro il quale la pena proposta rende

ammissibile quel procedimento, conclusioni queste assolutamente

incompatibili con il palese contenuto della norma. L'art. 444

c.p.p. non solo non contiene, in relazione all'ammissibilità del

procedimento, alcuna preclusione quanto all'oggetto della con

testazione, ma neppure consente l'applicazione di una pena che

possa per qualsiasi motivo superare il limite massimo dei due

anni di arresto o di reclusione della norma dopo un laborioso

e meditato iter legislativo. E che il problema prospettato alla corte non possa avere una

diversa soluzione è chiaramente dimostrato dal fatto che lo stesso

legislatore non ha voluto sottrarre al «patteggiamento» e, quin

di, agli effetti favorevoli che discendono dall'adozione del rela

tivo procedimento, l'aumento di pena per la continuzione, nep

pure quando questo rappresenta l'oggetto esclusivo dell'accor

do tra le parti.

Infatti, l'art. 137 norme att. c.p.p. (d.leg. 28 luglio 1989 n.

271) ha non solo definito le modalità di applicazione degli ef fetti estintivi del reato, previsti dall'art. 445, in relazione al con

corso formale ed al reato continuato, ma ha previsto anche la

possibilità di far ricorso all'applicazione della pena su richiesta

delle parti quando deve soltanto procedersi alla determinazione

della pena da aggiungersi, a titolo di aumento per la continua

zione, a quella già disposta con altra sentenza irrevocabile, emessa

a conclusione di un diverso procedimento. Ne consegue che la disciplina del «patteggiamento» non solo

non è in alcun modo incompatibile con il rapporto di connes

sione sostanziale e processuale espresso dalla continuazione tra

due o più reati, ma rende possibile all'imputato di fruirne degli effetti favorevoli anche quando non per tutti i reati unificabili

sotto il profilo della continuazione sia stato possibile il ricorso

a quel procedimento. Infatti, una volta che la pena richiesta

dalle parti si esaurisca nell'indicazione del solo aumento per la continuazione, è proprio su quest'ultimo che dovrà essere

calcolata la riduzione prevista dal 1° comma dell'art. 444 c.p.p.: è stato, quindi, lo stesso legislatore ad aver dissipato ogni possi bile dubbio sulla legittimità dell'applicazione di quella riduzio

ne dopo la determinazione dell'aumento per la continuazione.

Si conferma, perciò, come questa riduzione, introdotta nel

sistema a titolo di«premio» ed «incentivo», ad un tempo, per chi abbia fatto ricorso a quel procedimento semplificato, e, quin

di, rinunciato all'approfondimento della prova acquisita ed alla

ricerca di nuove prove, abbia una sua decisa caratterizzazione

processuale, indissociabile dalla sua origine e dalla sua funzione.

Non può, pertanto, che ribadirsi quanto già affermato da

questa corte, a sezioni unite (cfr. sent. 24 marzo 1990, ric. Bor

zaghini, Foro it., 1990, II, 413) in relazione all'impossibilità di comprendere quella diminuente nel novero delle circostanze

attenuanti del reato. Essa, infatti, lungi dall'essere un elemento

accessorio del reato, non è neppure comparabile ad alcuno de

gli elementi tipici previsti dall'art. 70 c.p., pur quando questi consentono di apprezzare avvenimenti estrinseci e successivi alla

realizzazione dell'illecito penale. La sua manifesta connotazione processuale se, da un lato,

ne limita l'oggettiva operatività, dall'altro la rende non parteci

pe di tutti quelli effetti, propri delle circostanze del reato e delle

qualificazioni giuridiche soggettive, perché completamente in

differente a tutti gli aspetti di diritto sostanziale, collegabili alla

valutazione di una condotta illecita e delle sue conseguenze, non

ché della personalità del colpevole. E tale sua «diversità» giustifica, alla luce delle considerazioni

su esposte, il fatto che alla sua applicazione nessuna parte della

sanzione, concretamente determinata in relazione al contenuto

complessivo della contestazione, possa essere ad essa sottratta.

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PARTE SECONDA

Pertanto, quando si è in presenza, come nell'ipotesi in esa

me, di un reato continuato, quella diminuzione dev'essre calco

lata non già prima, bensì dopo che sia stato fissato l'aumento

per la continuazione, rappresentando quest'ultimo una delle com

ponenti della pena non sottraibile all'accordo delle parti ed agli effetti che ne discendono. E poiché la sentenza impugnata si

è correttamente uniformata a tali criteri, il ricorso del procura tore generale presso la Corte d'appello di Firenze dev'essere ri

gettato.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 26 set

tembre 1991; Pres. Accinni, Est. Mele, P.M. Geraci (conci,

conf.); ric. Novelli. Annulla Trib. Milano, ord. 20 giugno 1991.

Misure cautelari personali — Misure coercitive — Riesame —

Richiesta — Trasmissione con telegramma o a mezzo racco

mandata — Legittimità (Cod. proc. pen., art. 309, 582, 583).

Poiché in tema di riesame delle ordinanze con le quali è dispo sta una misura coercitiva trovano applicazione tutte le forme

previste, in generale, per le impugnazioni, la relativa richiesta

può essere proposta con telegramma o con atto da trasmet

tersi a mezzo di raccomandata. (1)

Il ricorrente lamenta che il tribunale abbia ritenuto — per

pervenire all'inammissibilità del ricorso — inapplicabile l'art.

583 perché l'art. 309, 4° comma, c.p.p. richiama solo le forme

previste nell'art. 582. Rileva l'irrazionalità di una interpretazio ne cosi' restrittiva, limitata alla sola identificazione del luogo di presentazione dell'impugnazione, che già sarebbe esclusa dal

la previsione del 2° comma dell'art. 582, il cui richiamo appare indiscutibile anche letteralmente, essendovi un riferimento al

l'art. 582 senza alcuna distinzione tra 1° e 2° comma. Aggiunge

che, con l'interpretazione fornita dal tribunale, potrebbe, stante

la mancanza di richiamo all'art. 581, consentirsi perfino un'im

pugnazione con atto orale, giacché solo da questa norma si ri

cava l'esigenza dell'impugnazione per atto scritto.

Il ricorso è fondato e va accolto.

A parte l'argomento testuale individuato dal ricorrente, ove

il richiamo fosse stato fatto solo a tale fine, esso sarebbe perfet tamente inutile, giacché già l'art. 309, 4° comma, precisa che

la richiesta di riesame deve essere presentata nella cancelleria

del tribunale del capoluogo di provincia.

Ma, a prescindere da tale rilievo, non può esservi dubbio che,

proprio attenendosi ad una interpretazione formalistica, privile

giata dal tribunale, non può l'interprete limitare la portata del

richiamo che la norma fa tout court all'art. 582, senza alcuna

distinzione per parti di esso. In questi termini, peraltro, hanno

già deciso le sezioni unite di questa corte con la sentenza D'Al

fonso del 18 giugno 1991 (Foro it., 1991, II, 641). Ciò precisato, è altrettanto esatto che il richiamo all'art. 582

non può non comportare il riferimento anche a quelle norme

(1) Conforme, nella vigenza del c.p.p. del 1930, Cass. 6 maggio 1983, Ciolini, Foro it., Rep. 1984, voce Libertà personale dell'imputato, n. 255 e, Cass, pen., 1984, 2010.

In senso contrario alla sentenza in epigrafe è orientata la dottrina: v. Amato, sub art. 309, in Commentario al nuovo codice di procedura penale, Milano, 1990, 111,2, 195; Dubolino-Baglione-Tindari, Il nuo vo codice di procedura penale illustrato per articolo, Piacenza, 1989, 576; Giannone, sub art. 309, in Commento al nuovo codice di proce dura penale coordinato da Chiavario, Torino, 1990, III, 265; Nappi, Guida al nuovo codice di procedura penale, Milano, 1991, 393; nonché, seppure implicitamente, Cordero, Procedura penale, Milano, 1991, 493; Galantini, sub art. 324, in Commentario, cit., 291; Grevi, in Conso

Grevi, Prolegomeni a un commentario breve al nuovo codice di proce dura penale, Padova, 1990, 256.

Sulla possibilità che la richiesta di riesame (o l'atto di appello ex art. 310 c.p.p.) sia presentata dalle parti private presso la cancelleria del luogo in cui si trovano, v. Cass., sez. un., 18 giugno 1991, D'Alfon

so, Foro it., 1991, II, 641, con nota di richiami. Controversa è, invece, la trasmissibilità a mezzo telefax: v. Cass. 11 giugno 1990, Russano, id., 1990, II, 693 e 8 gennaio 1991, Callà, id., 1991, II, 203.

Il Foro Italiano — 1992.

a tale disposizione complementari, che attengono alle modalità

di presentazione dell'impugnazione. E ciò non solo per la para dossale conseguenza che ne trae il ricorrente sulla base della

rigoristica applicazione del richiamo contenuto nell'art. 309, ma

perché la sottolineata speditezza della procedura di riesame è

già sensibilmente mitigata dal contenuto del 2° comma dell'art.

582, che consente la presentazione dell'istanza in luogo diverso, con obbligo di trasmissione posto a carico della cancelleria o

dell'agente consolare all'estero: situazioni nelle quali evidente

mente l'atto non può che pervenire in un tempo molto diverso

da quello previsto nel paradigma ordinario dettato nell'art. 582.

Ma se è cosi, è evidente che non può contestarsi l'opportuni tà della presentazione dell'impugnazione anche a mezzo della

posta, con un mezzo cioè che, in base al principio del favor

impugnationis, dia la prevalenza alla volontà dell'interessato di

conseguire comunque un riesame del provvedimento limitativo

della libertà personale. E va da sé che, rendendosi operativa tale disposizione, non ha alcun rilievo la sottolineatura che l'at

to sia pervenuto nella cancelleria dopo la scadenza del termine

generale previsto, valendo ovviamente la regola che a determi

nare la tempestività dell'atto di presentazione, sia la data di

spedizione, certificata nei modi di cui al 2° comma dell'art. 583.

L'assunto del tribunale si basa sulla insistita riflessione che

l'istanza di riesame costituisce un'impugnazione sui generis, ma

tale osservazione vale quanto ai termini, al giudice abilitato alla

decisione, a particolarità cioè estrinseche al concetto proprio di impugnazione, che è quello comunque di conseguire un riesa

me della decisione. Esso è ritenuto prevalente nel nuovo sistema

processuale, che comporta la regola, troppo a lungo osteggiata nella vigenza del vecchio codice, della c.d. conversione obbliga toria dell'impugnazione (art. 580), basata appunto sul rilievo

che ciò che va privilegiata è comunque la volontà dell'interessa

to di ottenere un riesame della decisione, qualunque esso sia

consentito dall'ordinamento e non la forma con cui la richiesta

è presentata. È evidente d'altra parte che la preoccupazione del

ritardo nella trattazione, a parte quanto si è rilevato sul conte

nuto del 2° comma dell'art. 582, va a danno dello stesso ricor

rente, che si sia avvalso, sia pure per necessità, di un mezzo

diverso da quello della presentazione diretta dell'impugnazione. Sicché la preoccupazione del ritardo ricade esclusivamente sul

l'interessato, con la conclusione che, diversamente ragionando, si finisce, nell'interesse dell'istante, col privarlo di una possibile modalità dell'impugnazione, in un senso cioè esattamente op

posto a quello in base al quale la decisione emessa mostrerebbe

di essere ispirata. È appena il caso di aggiungere ancora che il riesame è atto

consentito al solo imputato o al suo difensore e che la relativa

disciplina è comunque posta sotto il capo VI del titolo I, intito

lato appunto «Impugnazioni», a dimostrazione anche della vo

lontà sistematica di privilegiare il contenuto dell'istanza e del

procedimento. Palese essendo quindi la violazione della legge processuale,

il provvedimento deve essere annullato con rinvio allo stesso

Tribunale del riesame di Milano perché provveda sul merito del

l'istanza.

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione VI penale; sentenza 3 lu

glio 1991; Pres. Rombi, Est. Di Mauro, P.M. Viale (conci,

parz. diff.); ric. Nunziata. Annulla senza rinvio App. Firenze

5 dicembre 1990.

Calunnia e autocalunnia — Calunnia — Reato — Estremi —

Fattispecie di magistrato (Cod. pen., art. 368).

Risponde del reato di calunnia ex art. 368 c.p. il magistrato

che, in una relazione interna destinata all'ufficio del pubblico

ministero, attribuisca a un collega omissioni finalizzate ad age volare taluni imputati nell'ambito di un 'inchiesta da egli con

dotta, ove la falsità di tali accuse risulti da atti giudiziari noti

al denunciante e simili risultanze obiettive siano esposte in

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