sezioni unite penali; sentenza 23 novembre 1990; Pres. Brancaccio, Est. Lattanzi, P.M. Lombardi(concl. conf.); ric. Tescaro. Conferma App. Trieste 7 novembre 1988Source: Il Foro Italiano, Vol. 114, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1991), pp.285/286-291/292Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23186368 .
Accessed: 28/06/2014 12:26
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 92.63.101.146 on Sat, 28 Jun 2014 12:26:36 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA PENALE
I
Svolgimento del processo. — Con sentenza in data 22 giugno 1990 il Tribunale di Milano applicò, ai sensi degli art. 444 ss. c.p.p., nei confronti di Cataldo Salvatore — imputato del delit
to di cui agli art. 110 c.p., 72 1. 22 dicembre 1975 n. 685, per
avere, in concorso con Celli Giuseppe, illecitamente detenuto
e in parte ceduto a terzi modiche quantità di cocaina ed eroina:
in Milano, fino al 7 giugno 1990 — la pena concordata tra
l'imputato ed il pubblico ministero e dallo stesso giudice ritenu
ta congrua. Contro la decisione l'imputato ha proposto in data 23 giugno
1990 dichiarazione di ricorso per cassazione e successivamente, in data 19 dicembre 1990, dichiarazione di rinunzia al ricorso.
Motivi della decisione. — Il ricorso proposto dall'imputato va dichiarato inammissibile per mancata enunciazione dei moti
vi nell'atto d'impugnazione. La pronunzia limitata a tale causa d'inammissibilità (art. 591
c.p.p.), con preferenza rispetto alla successiva rinunzia all'im
pugnazione, non dipende dall'antecedenza cronologica della pri ma rispetto alla seconda, bensì' dai diversi caratteri che conno
tano le due cause alla luce delle norme del nuovo codice pro cessuale.
Mentre il codice previgente, distinguendo, sotto l'aspetto on
tologico e quello temporale, tra dichiarazione d'impugnazione e presentazione dei motivi, configurava la mancata presentazio ne dei motivi come causa sopravvenuta d'inammissibilità del
l'impugnazione ritualmente proposta, il nuovo codice proces
suale, unificando in un unico atto la dichiarazione d'impugna zione ed i motivi (art. 581), configura la mancata enunciazione
di questi ultimi come causa originaria d'inammissibilità, intrin
seca alla dichiarazione stessa perché incompleta nei suoi ele
menti essenziali. Una tale impugnazione è inidonea ad introdur
re il nuovo grado di giudizio e la sentenza impugnata diventa
irrevocabile di per sé: il provvedimento che accerta tale causa
d'inammissibilità ha natura meramente dichiarativa.
Appare allora evidente che la successiva rinunzia all'impu
gnazione — normalmente configurata come causa sopravvenuta
d'inammissibilità, estintiva di un atto d'impugnazione di per sé completo e tempestivo, e da accertare con un provvedimento di natura costitutiva — si presenta del tutto priva di rilievo,
intervenendo in una situazione processuale che, nella sostanza,
si è ormai definitivamente conclusa.
II
Fatto e diritto. — Petrucci Marco rivolgeva istanza al g.i.p. Roma chiedendo la liberazione per omesso interrogatorio ex art.
302 c.p.p., in quanto interrogato dopo giorni cinque dall'inizio
dell'esecuzione della custodia cautelare. Il g.i.p. con provvedi mento del 28 marzo 1990 respingeva l'istanza adducendo l'ul
troneità dell'osservanza del termine in parola, poiché aveva pro ceduto in sede di convalida della misura cautelare all'interroga torio del prevenuto.
Avverso il suddetto provvedimento — notificato all'imputato il 31 marzo 1990 ed al difensore di costui il 2 aprile 1990 —
veniva proposto appello con dichiarazione del Petrucci in data
5 aprile 1990 riservando i motivi al difensore. In data 7 aprile 1990 il difensore «nell'interesse del Petrucci» depositava i motivi.
Il Tribunale di Roma dichiarava l'inammissibilità dell'appel
lo per mancata presentazione contestuale dei motivi ex art. 581,
lett. c), c.p.p. Il difensore, nell'interesse del Petrucci, ha presentato ricorso
per cassazione, assumendo che: a) i motivi, ancorché non con
testuali, sono stati presentati nel termine di giorni dieci dalla
notificazione del provvedimento impugnato; b) i motivi presen
tati dal difensore manifestano implicitamente la volontà di co
stui di proporre impugnazione, eppertanto sotto tale aspetto può
ritenersi proposto ritualmente il gravame da parte del difensore
medesimo in modo autonomo.
Il ricorso va accolto, in quanto la manifestazione della volon
tà d'impugnare la decisione è insita nella cosiddetta presenta zione dei motivi, e quindi è giuridicamente efficace al suddetto
Il Foro Italiano — 1991.
scopo contenendo — detto atto — tutti gli elementi di cui al
l'art. 581 c.p.p. Sotto il vigore del precedente codice di rito, i motivi — di
regola formulati con atto distinto rispetto alla dichiarazione —
si configuravano come una parte integrante dell'atto d'impu
gnazione ma con un'efficacia del tutto subordinata alla dichia
razione — potendo, peraltro, questa produrre propri effetti —, tanto che dichiarazione e motivi costituivano elementi distinti
giuridicamente ancorché concorrenti. Con il vigente codice di
rito, la formulazione stessa della norma dell'art. 581, nel disci
plinare il contenuto dell'atto d'impugnazione, esclude tale ca
rattere differenziato sotto l'aspetto formale e contenutistico, ed
attribuisce all'atto d'impugnazione un'unitarietà di contenuto
nei suoi elementi essenziali, ed una contestualità documentale
d'esposizione da attuarsi pur nel termine stesso dell'impugna zione (nel senso che l'atto può formarsi anche con manifesta
zioni progressive ma concorrenti nell'indicare gli elementi di cui
all'art. 581 cit. nel termine d'impugnazione). Sicché — a diffe
renza del precedente codice — non può più darsi rilievo alla
differenziazione formale e strutturale tra dichiarazione ed espo sizione dei motivi d'impugnazione, richiedendo l'art. 581 c.p.p. il concorso unitario di tutti quegli elementi che identificano il
provvedimento impugnato (data e giudice), nonché i capi ed
i punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione, le
richieste ed i motivi medesimi, indistintamente. Con la conse
guenza che, pretermettendo la normativa vigente qualificazioni formali in senso traumatico delle componenti dell'atto, rimane
in rilievo esclusivamente l'idoneità funzionale dell'atto medesi
mo, in virtù del suo contenuto complessivo, ad instaurare il
gravame. In altre parole, come fa rilevare la relazione al pro
getto preliminare del codice di procedura penale «l'unificazione
nell'atto d'impugnazione dei due momenti, ora ontologicamen te e temporalmente diversi, della dichiarazione e della presenta zione dei motivi, oltre a rendere più spedita la fase introduttiva
del gravame . . ., ridurrà notevolmente le ragioni d'inammissi
bilità . . .», le quali — ad avviso di questa corte — non potran no essere più ricondotte a mezzi aspetti formali, peraltro non
in linea con il principio della conservazione dei valori giuridici, tutte le volte che l'atto contenga gli elementi per svolgere la
sua tipica efficacia.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 23
novembre 1990; Pres. Brancaccio, Est. Lattanzi, P.M. Lom
bardi (conci, conf.); ric. Tescaro. Conferma App. Trieste 7
novembre 1988.
Infortuni sul lavoro e malattie professionali — Luoghi di lavo
ro o di passaggio — Concentrazioni pericolose di gas, vapori,
polveri — Luogo di lavoro o passaggio saltuario — Obbligo di cautele contro le concentrazioni pericolose (D.p.r. 27 apri le 1955 n. 547, norme per la prevenzione degli infortuni sul
lavoro art. 354). Infortuni sul lavoro e malattie professionali — Installatore di
impianti — Esecuzione di impianto sprovvisto di cautele con
tro le concentrazioni pericolose di gas, vapori, polveri — Reato
(D.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, art. 7, 354, 390).
Omicidio e lesioni personali colpose — Infortunio sul lavoro — Macchina o impianto non conforme alle norme antinfor
tunistiche — Uso della macchina o impianto da parte del da
tore di lavoro — Responsabilità del costruttore o venditore
o installatore (Cod. pen., art. 40, 41, 589).
L'art. 354 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 — nel prevedere l'obbli
go del datore di lavoro di adottare le cautele tecnicamente
possibili contro le concentrazioni pericolose di gas, vapori,
polveri, nei locali o luoghi di lavoro o di passaggio — intende
This content downloaded from 92.63.101.146 on Sat, 28 Jun 2014 12:26:36 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
per luogo di lavoro o di passaggio, non solo quello in cui
il lavoro o il passaggio avviene in continuazione, ma anche
quello nel quale si deve lavorare o accedere saltuariamente. (1) Commette il reato di cui agli art. 7 e 390 d.p.r. 27 aprile 1955
n. 547 l'installatore di un impianto che, in violazione dell'art.
354 d.p.r. n. 547, realizzi un impianto sprovvisto delle caute
le tecnicamente possibili contro le concentrazioni pericolose di gas, vapori, polveri, nei locali o luoghi di lavoro o di pas
saggio. (2) Nell'ipotesi d'infortunio sul lavoro provocato da una macchina
o da un impianto non conforme alle norme antinfortunisti
che, l'uso di tale macchina o impianto da parte del datore
di lavoro non fa venir meno il rapporto di causalità tra l'in
fortunio e la condotta di chi ha costruito, venduto o ceduto
la macchina o realizzato l'impianto. (3)
(1-3) Finalmente anche le sezioni unite si occupano di sicurezza del lavoro. Beninteso, grande rimane l'attesa di vederle impegnate su temi scottanti che oggi dividono profondamente la giurisprudenza in mate ria. Intanto, però, illuminante (e illuminata) si rivela la loro riflessione in merito ad alcuni problemi concernenti la responsabilità dei fabbri
canti, commercianti o installatori di macchine o impianti. L'art. 7 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 vieta «la costruzione, la vendita,
il noleggio e la concessione in uso di macchine, di parti di macchine, di attrezzature, di utensili e di apparecchi in genere, destinati al merca to interno, nonché l'installazione di impianti, che non siano rispondenti alle norme del decreto stesso». A sua volta, l'art. 390 d.p.r. n. 547
punisce con l'ammenda da lire 250.000 a lire 1.500.000 «i costruttori, i commercianti e i noleggiatori di macchine, di parti di macchine, di
attrezzature, di utensili, di apparecchi in genere, nonché gli installatori di impianti, che non osservano le disposizioni di cui all'art. 7».
È pacifico che «il datore di lavoro è tenuto a controllare la rispon denza alle norme antifortunistiche delle macchine adoperate», e che «la sua responsabilità può venir meno solo quando tali macchine presenti no difetti occulti non rilevabili con l'ordinaria diligenza» (cosi Cass. 9 settembre 1989, Santeramo, Dir. e pratica lav., 1989, 2889; su questi punti, v. pure, tra le molte, Cass. 15 marzo 1985, Visanti, Foro it.,
Rep. 1986, voce Omicidio colposo, n. 73; 14 maggio 1984, Conta, id.,
Rep. 1985, voce Infortuni sul lavoro, n. 215; e circa l'insussistenza del la responsabilità penale del datore di lavoro in ipotesi di difetti occulti non rilevabili con l'ordinaria diligenza, Cass. 9 maggio 1983, Maini, id., Rep. 1984, voce Omicidio colposo, n. 118; 11 novembre 1983, An
ceschi, ibid., n. 145)
Sorge, a questo punto, un interrogativo: in caso di infortunio sul lavoro a una macchina o a un impianto non conforme alle norme an
tinfortunistiche, l'uso di tale macchina o impianto da parte del datore di lavoro interrompe, o no, il rapporto di causalità tra l'infortunio e la condotta di chi ha costruito, venduto o ceduto la macchina o realiz zato l'impianto? Dopo alcune incertezze, negli anni ottanta è nettamen te prevalsa la tesi secondo la quale, «in caso di infortunio derivato dalla strutturale inidoneità di una macchina, è penalmente responsabile, non solo il datore di lavoro per aver messo in servizio tale macchina nella propria azienda, ma altresì' colui che l'ha costruita, venduta o ceduta» (in questo senso, da ultimo, Cass. 18 novembre 1988, Bovone, id., Rep. 1989, voce cit., n. 82; 14 marzo 1988, Formis, ibid., n. 81; 10 luglio 1986, Cantella, id., Rep. 1987, voce cit., n. 78; 15 dicembre
1983, Zambelli, id., Rep. 1984, voce cit., n. 150; 29 aprile 1983, Gras
selli, ibid., nn. 120-122; 18 marzo 1982, Gatti, id., Rep. 1983, voce
cit., n. 124; 15 marzo 1982, Galli, ibid., voce Infortuni sul lavoro, n.
277; 17 novembre 1981, Bossi, id., Rep. 1982, voce Omicidio colposo, n. 213; 25 novembre 1980, Rovetta, ibid., nn. 156-158. Sporadiche, invece, erano diventate le voci favorevoli alla tesi per cui «la responsa bilità del costruttore, venditore o installatore viene a cessare nello stes so momento in cui la macchina è messa a disposizione del datore di lavoro che deve accertarne la funzionalità e la conformità ai requisiti prescritti»: cosi Cass. 26 novembre 1975, Tassinari, id., Rep. 1976, vo ce Infortuni sul lavoro, n. 160; nello stesso senso, a ben vedere, Cass. 16 maggio 1985, Pittalunga, id., Rep. 1987, voce Omicidio colposo, n. 75; 3 aprile 1979, Maccaferri, id., Rep. 1980, voce cit., n. 44. Sul
tema, cfr. pure Cass. 24 novembre 1983, Perra, id., Rep. 1984, voce
cit., n. 147; nonché, in dottrina, Canestrari, Osservazioni sulla re
sponsabilità colposa del datore di lavoro e del costruttore di macchine non conformi ai requisiti di sicurezza, in Riv. giur. lav., 1983, IV, 629; Veneziano, Obblighi e responsabilità del costruttore, in Processo al
rischio, Milano, 1985, 219 s.). Parimenti significativo è il discorso ermeneutico condotto nella pre
sente sentenza a proposito di una norma basilare di prevenzione degli infortuni. Si tratta dell'art. 354 d.p.r. n. 547, il quale impone una serie di cautele contro le concentrazioni pericolose di gas, vapori o polveri in locali o luoghi di lavoro o di passaggio. Al riguardo, le sezioni unite
Il Foro Italiano — 1991.
Svolgimento del processo. — Bruno Tescaro ha proposto ri
corso per cassazione contro la sentenza in data 7 novembre 1988
con la quale la Corte d'appello di Trieste, riformando la deci
sione di primo grado, lo ha ritenuto responsabile del reato di
omicidio colposo plurimo e, con le attenuanti generiche ritenute
equivalenti all'aggravante dell'art. 589, 2° comma, c.p., lo ha
condannato alla pena di dieci mesi di reclusione.
A quanto risulta dalla sentenza, il 22 settembre 1982 in S.
Quirino di Pordenone, nell'essiccatoio di cereali dell'Ersa (ente
regionale per lo sviluppo dell'agricoltura), dato in comodato
alla cooperativa di agricoltori Ciem (Centro intercomunale es
siccazione mais) della quale era presidente Basilio Marcolin, tre
dipendenti erano rimasti vittime di un infortunio mortale.
Francesco Salvador doveva installare, con l'aiuto di Arman
do Bordin, un motoriduttore per far funzionare i trasportatori a catena del mais che, raccolto sotto una tettoia aperta e pas sando per una tramoggia, veniva avviato alla torre essiccatoio
e da questa ai silos di raccolta. I trasportatori correvano attra
verso locali sotterranei in un cunicolo che dopo circa venti me
tri perveniva nella fossa in cui erano scesi gli operai per eseguire il lavoro. Nella fossa erano stati trovati i corpi di Salvador, di Bordin e di Giampietro Zanettin, verosimilmente accorso in
aiuto dei primi due; tutti e tre erano deceduti per asfissia pro vocata da una forte concentrazione di anidride carbonica.
I periti avevano accertato che l'anidride carbonica era stata
prodotta per la fermentazione e soprattutto per la respirazione della granella di mais accumulata sotto la tettoia (oltre 2800
quintali) ed era passata attraverso la tramoggia ed il cunicolo
andando a concentrarsi nella fossa in valori superiori a quelli normalmente ritenuti letali.
Per rispondere dell'omicidio colposo erano stati rinviati a giu dizio davanti al Tribunale di Pordenone Basilio Marcolin e Bruno
Tescaro, quest'ultimo «nella qualità di legale rappresentante della
Gifim s.p.a. che aveva assunto in appalto ed eseguito l'impian to d'essiccazione e conservazione del mais» senza — secondo
l'imputazione — prevedere e comunque attuare misure cautela
tive, quali sistemi di ventilazione e simili, atte a fronteggiare la formazione — prevedibile in rapporto alla struttura dell'im
pianto, alla sua destinazione, ai fenomeni naturali della fermen
tazione — di quantità pericolose di anidride carbonica nella fossa
di scorrimento del nastro trasportatore». II tribunale con sentenza del 1° ottobre 1987 aveva assolto
entrambi gli imputati: «il primo perché il fatto non costituisce
reato ed il secondo per non aver commesso il fatto». A giudizio del tribunale Marcolin, che aveva ricevuto in consegna l'im
pianto recentemente progettato e costruito da esperti del setto
re, non era in grado di prevedere il fenomeno e l'impresa appal tatrice rappresentata da Tescaro «era tenuta a garantire la sicu
rezza antinfortunistica delle apparecchiature e strutture metalliche
appaltatele dall'Ersa e non quella del complesso impianto carat
chiariscono che «luogo di lavoro o di passaggio ai fini della norma antinfortunistica in questione è non solo quello in cui il lavoro o il passaggio avviene in continuazione, durante il funzionamento del
l'opificio, ma anche quello nel quale si deve lavorare od accedere
saltuariamente, senza che il lavoro o l'accesso risultino subordinati a particolari condizioni o cautele» (in passato, si era affermata l'ap
plicabilità dell'art. 354 d.p.r. n. 547 al locale destinato a spogliatoio del personale, ai cassoni metallici durante i lavori di verniciatura a spruzzo delle pareti interne con sostanze infiammabili, e ad un ambiente comunicante attraverso una botola con il locale in cui ope ravano più persone: v., nell'ordine, Cass. 6 marzo 1990, Tatti, in Dir. e pratica lav., 1990, 897; 18 dicembre 1989, Seren, ibid., 370; 18 febbraio 1980, Chelazzi, Foro it., Rep. 1981, voce cit., n. 82;
per un'analisi dell'art. 354 d.p.r. n. 547, Guariniello, Malattie da lavoro e processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1981, 564). Aggiungono, infine, le sezioni unite che la violazione dell'art. 354
d.p.r. n. 547 può essere ascritta anche all'installatore di un impianto: «è illecita ai sensi dell'art. 7 d.p.r. n. 547 la realizzazione di un
impianto non conforme alle norme del decreto, tra le quali è l'art.
354»; «l'esecutore di un impianto è sempre tenuto ad osservare le
prescrizioni antinfortunistiche perché l'obbligo gli deriva dalla legge,
indipendentemente da una specifica previsione contrattuale ed anche
nel caso in cui il committente, per ragioni di costo o per altre ragioni, richieda una prestazione diversa».
This content downloaded from 92.63.101.146 on Sat, 28 Jun 2014 12:26:36 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA PENALE
terizzato dalla canalizzazione sotterranea dell'immissione del ce reale e del suo trasporto agli elevatori e quindi ai silos di stoc
caggio». In seguito all'impugnazione del pubblico ministero la Corte
d'appello di Trieste ha confermato l'assoluzione di Marcolin ed ha invece condannato Tescaro.
La Gifim secondo la corte d'appello si era assunta il compito di progettare e realizzare l'intero impianto e dunque era respon sabile non solo dei macchinari ma dell'intero impianto; di con
seguenza, Tescaro doveva «prevedere in quali condizioni avreb bero operato i macchinari da lui forniti e quale sarebbe stato
il grado di compatibilità delle lavorazioni con le strutture in
cui le macchine venivano calate, cioè il grado di pericolosità
dell'impianto complessivamente considerato».
Più in particolare la corte d'appello ha ritenuto che l'impresa
appaltatrice «aveva l'obbligo di attenersi al disposto dell'art. 354 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, secondo cui nei luoghi di lavo ro o di passaggio . . . deve essere, per quanto tecnicamente pos sibile, impedito o ridotto al minimo il formarsi di concentrazio
ni pericolose o nocive di gas o vapori asfissianti, provvedendo, se del caso, ad un'adeguata ventilazione ed installando apparec chi indicatori e avvisatori automatici atti a segnalare il raggiun
gimento di concentrazioni pericolose». A sostegno del ricorso Tescaro ha dedotto tre motivi:
con il primo motivo, denunciando vizi di motivazione ed er
ronea applicazione dell'art. 45 c.p., il ricorrente ha sostenuto
che dal contratto d'appalto la corte d'appello avrebbe dovuto
dedurre che la Gifim si era impegnata solo alla costruzione del
macchinario e alla sua installazione e che quindi non le si pote va fare carico dell'inosservanza dell'art. 354 d.p.r. 547/55 ed
inoltre che l'impianto era stato collaudato dall'Ersa con la par
tecipazione dei vigili del fuoco e dell'Enpi e non aveva dato
luogo a rilievi perché era stato eseguito correttamente; il ricor
rente ha aggiunto che l'incidente «era del tutto imprevedibile»; con il secondo motivo, denunciando la «violazione ed erro
nea applicazione dell'art. 354 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, il
ricorrente ha sostenuto che questa norma si indirizza agli utiliz
zatori e non anche ai costruttori di una macchina e che even
tualmente si sarebbe potuta indirizzare ai progettisti dell'Ersa,
per quanto concerne la costruzione del cunicolo, ma non alla
Gifim; il ricorrente ha aggiunto che l'art. 354 cit. concerne i
«luoghi di lavoro e di passaggio» e che non può essere conside
rato tale l'ambiente dell'infortunio, nel quale si doveva accede
re solo nel caso di guasto dei macchinari: secondo il ricorrente
nell'ambiente in questione non c'era ragione di realizzare un
impianto di aerazione, «non trattandosi di un luogo di lavoro
o di passaggio, ma di un contenitore destinato soltanto ad al
loggiare i nastri trasportatori», e «l'obbligo di prendere tutte
le misure precauzionali prima di scendere in tale ambiente era
riservato al preposto a tali interventi»; con il terzo motivo, denunciando la «violazione ed erronea
applicazione dell'art. 7 d.p.r. 7 aprile 1955 n. 547 e dell'art.
40 c.p.», il ricorrente ha sostenuto che la responsabilità del co
struttore, venditore e installatore di macchinari pericolosi cessa
con la consegna e si trasferisce sul datore di lavoro, il quale è in ogni caso tenuto ad adottare ogni necessaria cautela antin
fortunistica.
La quarta sezione penale, avendo rilevato che sulla questione
proposta con il terzo motivo esisteva nella giurisprudenza della
Corte di cassazione un contrasto, ha rimesso gli atti al primo
presidente il quale ha assegnato il ricorso alle sezioni unite.
Motivi della decisione. — Il vizio dedotto con il primo moti
vo è costituito secondo i ricorrenti da un travisamento di fatto
perché la sentenza impugnata ha ritenuto che l'appalto avesse
ad oggetto l'intero impianto mentre «l'incarico concerneva solo
la costruzione dei macchinari che avrebbero dovuto costituire
la parte meccanica dell'essiccatoio».
È sufficiente però leggere il contratto per rendersi conto che
non è avvenuto alcun travisamento di fatto. Risulta già dalla
premessa che «l'Ersa ha commissionato alla ditta la fornitura
ed installazione per conto dell'Ersa medesimo dell'impianto mai
dicolo di S. Quirino»; e che l'appalto avesse ad oggetto l'intero
impianto trova conferma in vari articoli del contratto, ad ini
ziare dal primo: «L'Ersa affida alla ditta, la quale assume la
Il Foro Italiano — 1991.
fornitura e l'installazione di un impianto d'essiccazione e con
servazione per il mais . . alle condizioni contenute nella lettera
d'invito dell'Ersa . . secondo la descrizione contenuta nell'of
ferta della ditta . . nonché secondo i disegni esecutivi».
Con la lettera d'invito in data 8 novembre 1977, alla quale l'art. 1 ha fatto riferimento, l'Ersa aveva chiesto alla Gifim e ad altre quattro imprese una «offerta per la fornitura di un
impianto d'essiccazione» del quale erano state comunicate le
caratteristiche con il progetto di massima e la precisazione che
la «progettazione dell'impianto» era compito delle imprese cui
era indirizzato l'invito. La lettera si chiudeva con le parole: «Lo
scrivente si riserva, a suo insindacabile giudizio, di procedere o meno all'adozione del progetto predisposto da codesta
ditta . . .». Era poi stata accolta l'offerta della Gifim, alla quale era sta
ta commessa la realizzazione dell'impianto secondo il progetto esecutivo dalla stessa predisposto.
Poiché questa è stata la vicenda contrattuale non può certo
dirsi che la corte d'appello abbia travisato i fatti quando ha
affermato che la Gifim aveva assunto «la progettazione e la
realizzazione dell'impianto d'essiccazione e stoccaggio del mais»
ed è quindi priva di fondamento la tesi del ricorrente, ripresa anche con il secondo motivo, che egli avrebbe potuto essere
ritenuto responsabile dell'eventuale inosservanza di norme an
tinfortunistiche relative ai macchinari ma non dell'inosservanza
di norme concernenti l'impianto nel suo complesso e della peri colosità di questo dipendente da difetti di progettazione.
Né è vero, come è stato sostenuto nel secondo motivo, che
al ricorrente comunque non potrebbe addebitarsi la violazione
dell'art. 354 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, che impone la ventila
zione ed altre cautele nei locali o luoghi di lavoro o di passag
gio nei quali possono formarsi concentrazioni pericolose o noci
ve di gas, vapori o polveri esplodenti, infiammabili, asfissianti
o tossici. Con ragione la sentenza impugnata, una volta stabili
to che la Gifim si era assunta il compito di predisporre il pro
getto esecutivo dell'impianto e di realizzarlo, l'ha ritenuta re
sponsabile, a norma dell'art. 7 d.p.r. n. 547 cit., per l'inosser
vanza della prescrizione antinfortunistica.
Per convincersi che la corte d'appello ha fatto esatta applica zione del citato art. 7 è sufficiente ricordarne la formulazione:
«sono vietate ... la costruzione, la vendita, il noleggio e la
concessione in uso di macchine, di attrezzature, di utensili e
di apparecchi in genere . . . nonché l'installazione di impianti, che non siano rispondenti alle norme del decreto stesso». Dalla
formulazione infatti si deduce agevolmente che è illecita ai sensi
dell'art. 7 (e punita ai sensi del successivo art. 390 d.p.r. n.
547 cit.) la realizzazione di un impianto non conforme alle nor
me del decreto, tra le quali è appunto il ricordato art. 354.
Può dirsi in generale che l'esecutore di un impianto è sempre tenuto ad osservare le prescrizioni antinfortunistiche perché l'ob
bligo gli deriva dalla legge, indipendentemente da una specifica
previsione contrattuale ed anche nel caso in cui il committente,
per ragioni di costo o per altre ragioni, richieda una prestazione diversa.
Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto pure sotto
un altro aspetto l'errata applicazione dell'art. 354 cit. sostenen
do che l'ambiente nel quale è avvenuto l'infortunio mortale non
può essere considerato luogo di lavoro o di passaggio. Anche sotto questo aspetto il motivo è privo di fondamento.
È vero infatti che l'ambiente in questione era costituito da
un locale interrato occupato dai macchinari del nastro traspor tatore e non destinato all'attività lavorativa, ma è anche vero
che non può per ciò solo escludersi che esso fosse da considera
re luogo di lavoro. Luogo di lavoro o di passaggio ai fini della norma antinfortunistica in questione è infatti non solo quello in cui il lavoro o il passaggio avviene in continuazione, durante
il funzionamento dell'opifìcio, ma anche quello nel quale si de
ve lavorare od accedere saltuariamente, senza che il lavoro o
l'accesso risultino subordinati a particolari condizioni o cautele.
Nella specie, i giudici di merito hanno accertato che si entrava
nel locale attraverso una scala fissa e che più volte (v. al riguar do anche la sentenza di primo grado) gli operatori vi erano en
trati per le riparazioni del motovariatore, perciò correttamente
la corte d'appello ha considerato il locale un luogo di lavoro
This content downloaded from 92.63.101.146 on Sat, 28 Jun 2014 12:26:36 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
ritenendo che avrebbero dovuto essere adottate le cautele pre scritte dall'art. 354 cit. Né vale ad escludere le responsabilità
per l'inosservanza della norma antinfortunistica l'obiezione del
ricorrente che l'impianto era stato collaudato senza rilievi «dal
l'Ersa con la partecipazione dei vigili del fuoco e dell'Enpi»
perché una volta accertata l'inosservanza, con la conseguente violazione dell'art. 7 d.p.r. n. 547 cit., il fatto che la violazione
non sia stata rilevata dagli organi preposti al controllo potrebbe eventualmente dar luogo ad una responsabilità anche di questi ma non potrebbe far escludere la responsabilità di chi ha com
messo la violazione.
Con il terzo motivo è stata proposta la questione che ha de
terminato la rimessione del ricorso alle sezioni unite: richiaman
do alcune decisioni di questa corte il ricorrente ha sostenuto
che «poiché spetta agli imprenditori la responsabilità di curare
la sicurezza dell'ambiente di lavoro e di scegliere macchine ri
spondenti ai requisiti richiesti dal legislatore, le responsabilità del costruttore, del venditore e dell'installatore dei macchinari
vengono a cessare nel momento in cui questi ultimi siano posti a disposizione del datore di lavoro, con la conseguenza che co
stui subentra nell'obbligo di applicare, dopo l'acquisto, i pre scritti dispositivi di sicurezza, onde a suo carico può e deve
essere ritenuta la penale responsabilità derivante da eventi de
terminati dalla violazione di norme antinfortunistiche relative
a tali dispositivi». Occorre ricordare in proposito che la giurisprudenza preva
lente è nel senso che l'utilizzazione di una macchina o di un
impianto non conformi alla normativa antinfortunistica da par te dell'imprenditore, in violazione degli obblighi esistenti nei suoi
confronti, non fa venir meno il rapporto di causalità tra l'infor
tunio e la condotta di chi ha costruito, venduto o ceduto la
macchina o realizzato l'impianto (v., in questo senso, tra le de
cisioni più recenti, sez. IV 18 novembre 1988, Bovone, Foro
it., Rep. 1989, voce Omicidio colposo, n. 82; 14 marzo 1988,
Formis, ibid., n. 81; 7 marzo 1986, Orlandi, id., Rep. 1987, voce cit., n. 77; 18 marzo 1982, Gatti, id., Rep. 1983, voce
cit., n. 124; 25 novembre 1980, Rovetta, id., Rep. 1982, voce
cit., nn. 156-158); alcune decisioni sono però nel senso, soste
nuto dal ricorrente, che «la responsabilità del costruttore, ven
ditore o installatore di macchine ex art. 7 della legge antinfortu
nistica viene a cessare nello stesso momento in cui la macchina
viene messa a disposizione del datore di lavoro» e giungono
quindi ad escludere la responsabilità del costruttore o del vendi
tore (sez. IV 3 aprile 1979, Maccaferri, id., Rep. 1980, voce
cit., n. 44). Da queste ultime decisioni si devono distinguere
quelle (non poche) che contengono affermazioni di principio
analoghe, fatte però non per escludere la responsabilità del co
struttore o del venditore ma solo per affermare quella dell'im
prenditore (sez. IV 16 maggio 1985, Pittalunga, id., Rep. 1987, voce cit., n. 75; sez. VI 24 novembre 1983, Perra e Natali, id.,
Rep. 1984, voce cit., n. 147; sez. IV 26 novembre 1975, Tassi
nari, id., Rep. 1976, voce Infortuni sul lavoro, n. 160), la quale in altre decisioni invece è assai più semplicemente motivata con
siderando che «l'eventuale responsabilità del costruttore o ven
ditore dei macchinari privi dei requisiti di sicurezza . . . non
esclude quella di chi, a norma dell'art. 4, è tenuto a verificare,
prima dell'impiego, che essi siano rispondenti alla normativa
antinfortunistica e non costituiscano fonte di pericolo». La questione in sostanza attiene al rapporto di causalità, po
sto che occorre stabilire se deve o meno ravvisarsi questo rap
porto tra la costruzione della macchina o la realizzazione del
l'impianto e l'infortunio che in seguito alla messa in funzione
sia derivato dall'inosservanza delle prescrizioni antinfortunistiche.
I principi desumibili dagli art. 40 e 41 c.p. portano agevol mente a dare al quesito una risposta affermativa. Infatti, una
volta stabilito che un infortunio è dipeso da una carenza della
macchina o dell'impianto addebitabile al costruttore non si ve
de come possa negarsi che sussista, a norma dell'art. 40 c.p., un rapporto di causalità tra la condotta del costruttore e l'even
to. La messa in funzione della macchina o dell'impianto da parte
dell'impreditore senza ovviare alla carenza costituisce una causa
sopravvenuta che non può rientrare tra quelle che per l'art. 41, 2° comma, c.p. fanno venir meno il rapporto tra la precedente causa e l'evento. Quale che sia infatti la caratteristica d'asse
gnare alle «cause sopravvenute ... da sole sufficienti a deter
II Foro Italiano — 1991.
minare l'evento» non c'è dubbio che anche seguendo una con
cezione non restrittiva non potrebbe comunque giungersi ad esclu
dere il nesso di causalità in un caso, come quello in esame, in cui la prima condotta ha posto in essere una situazione di
pericolo che secondo uno svolgimento normale ha poi determi
nato l'evento. Basta considerare che le macchine e gli impianti realizzati per un'impresa sono naturalmente destinati all'utiliz
zazione per convincersi che in questa non può ravvisarsi un ac
cadimento interruttivo del nesso di causalità. Né rileva il fatto
che anche l'imprendititore è tenuto all'osservanza delle norme
antinfortunistiche e quindi dovrebbe astenersi dal far funziona
re una macchina o un impianto non regolare perché l'art. 41, 3° comma, c.p. stabilisce espressamente che «le disposizioni pre cedenti — quelle cioè sull'interruzione del rapporto di causalità — si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea
o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui». In altre parole anche l'eventuale fatto illecito dell'imprenditore non vale a far
perdere rilevanza, sotto l'aspetto causale, al fatto illecito del
costruttore della macchina o dell'impianto. Deve quindi convenirsi con la giurisprudenza prevalente di
questa corte che l'utilizzazione della macchina o dell'impianto non conforme alla normativa antinfortunistica da parte dell'im
prenditore non fa venir meno il rapporto di causalità tra l'in
fortunio e la condotta di chi ha costruito, venduto o ceduto
la macchina o realizzato l'impianto. In conclusione, essendo risultato privo di fondamento anche
il terzo motivo, il ricorso deve essere rigettato.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione VI penale; sentenza 19 ot
tobre 1990; Pres. Boschi, Est. Gara velli, P.M. (conci, diff.); ric. P.m. in causa Zammataro. Rettifica App. Roma, ord.
11 gennaio 1990.
Appello penale — Decisione in camera di consiglio — Dichiara
zione di estinzione del reato — Forma (Cod. proc. pen., art.
127, 129, 597, 599, 605).
Il provvedimento, con cui il giudice d'appello, decidendo in ca mera di consiglio, concede d'ufficio, a norma dell'art. 597, 5 ° comma, c.p.p., una circostanza attenuante per effetto del
la quale il reato si estingue per amnistia, deve assumere la
forma della sentenza. (1)
II
CORTE D'ASSISE D'APPELLO DI ROMA; ordinanza 17 di
cembre 1990; Pres. Franco; imp. Pace.
Appello penale — Decisione in camera di consiglio — Sentenza
di primo grado resa a seguito di giudizio abbreviato — For
ma (Cod. proc. pen., art. 127, 443, 599).
Il provvedimento, con cui si definisce in camera di consiglio
l'appello avverso una sentenza resa a seguito di giudizio ab
breviato, deve assumere, a norma degli art. 127, 443, 4° com
ma, e 599 c.p.p., la forma di ordinanza immediatamente ese
cutiva. (2)
(1-2) Il principio affermato dalla prima massima è conforme alla co stante giurisprudenza di legittimità e a quella prevalente di merito (v., per entrambe, la nota di richiami, anche dottrinali, a Cass. 10 maggio 1990, Prete, Foro it., 1991, II, 107). Non risultano, invece, precedenti specifici in ordine alla sua applicazione anche al provvedimento con
This content downloaded from 92.63.101.146 on Sat, 28 Jun 2014 12:26:36 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions